Abstract
Si intende sinteticamente offrire un quadro generale della normativa in vigore dettata dal codice di rito in tema di arbitrato rituale – con speciale riguardo ai profili relativi ai rapporti con il processo, alla convenzione d’arbitrato e agli arbitri – sollecitando il Lettore con l’accenno di solo alcuni dei molti spunti critici creati dalla stessa legge e alimentati dall’evolversi di dottrina e giurisprudenza.
L’arbitrato, dal latino arbitratus, che significa giudizio, quale espressione di un riconoscimento democratico dell’autonomia privata, può essere genericamente inteso come il procedimento attraverso cui gli interessati, parti di attuali o future controversie civili o commerciali attinenti a diritti disponibili, affidano la risoluzione delle stesse a uno o più soggetti terzi, detti arbitri, ricercando così, per mezzo di una apposita convenzione, una eterocomposizione della lite, definita in una pronuncia privata, chiamata lodo, alternativa all’esito di un processo «giurisdizionale» statale. L’arbitrato implica dunque una rinuncia all’azione giudiziaria e alla giurisdizione dello Stato per effetto di un’opzione a favore di una soluzione delle controversie sul piano privatistico. I vantaggi, se pur a fronte di costi ancora elevati, si individuano comunemente nella possibilità di ottenere una decisione in tempi relativamente rapidi, sfruttando le competenze tecnico-giuridiche di soggetti settorialmente specializzati, la cui determinazione sarà più facilmente accettata da tutte le parti in causa, tenendo conto che sono proprio queste ultime a provvedere alla nomina dei rispettivi giudici. A seconda poi che agli arbitri venga attribuita una funzione giurisdizionale preordinata all’ottenimento di una decisione con efficacia pari alla sentenza dell’a.g.o., e perciò sostitutiva della stessa sotto il profilo cognitorio del giudizio, ovvero conferito mandato per risolvere la lite mediante un atto negoziale, meramente alternativo rispetto a una pronuncia giudiziale ordinaria, l’arbitrato si qualifica, rispettivamente, come rituale o irrituale, senza tuttavia che ne venga alterata la natura di equivalente giurisdizionale. Carattere quest’ultimo peraltro condiviso dall’arbitrato con altri strumenti di composizione della lite, come transazione e mediazione/conciliazione, che, al pari del primo, rappresentano una potenziale alternativa alla giurisdizione statale civile, differenziandosi però rispetto al medesimo in quanto strutturalmente privi delle forme processuali in cui si esplica il potere decisorio, benché in nessun caso autoritativo, degli arbitri su diritti controversi.
Il favor crescente per tale strumento processuale e, in generale, per i metodi di risoluzione delle controversie alternativi al giudizio ordinario, di stimolo al continuo progredire normativo in materia di giustizia civile, ha condotto al moltiplicarsi delle fonti di cognizione in materia. Dalla pluralità di cornici legislative e dettagli regolamentari deriva giocoforza una diversità anche di modelli d’arbitrato, distinti alla stregua delle specifiche categorie di vertenze destinate ad essere dai medesimi risolte. Ne sono solo alcuni esempi gli arbitrati appositamente ritagliati per le controversie in materia di società, lavoro, locazioni, opere pubbliche, concorrenza, banche e mercato mobiliare. Tra i differenti schemi, talvolta solo abbozzati dal legislatore, l’arbitrato di rito, che trova ampia, se pur non compiuta, disciplina sotto il titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile, emerge quale prima e unica figura di riferimento, divenendo il cd. arbitrato ad hoc, la cui normativa ispira quella speciale e ne colma al contempo le lacune.
2. I rapporti tra arbitrato e processo
Gli artt. 806-832 c.p.c. dettano la disciplina dell’arbitrato interno, con particolare riguardo a quello di rito che ha ricevuto dall’ultima novella, attuata con il d.lgs. 2.2.2006, n. 40, una piena giurisdizionalizzazione, a conferma del suo carattere sostitutivo della giustizia ordinaria, non pregiudicante il rispetto dell’art. 24 Cost., il quale obbliga sì lo Stato ad apprestare l’organizzazione giudiziaria indispensabile per garantire il diritto di agire in giudizio, ma non obbliga altrettanto i cittadini a farvi ricorso (C. cost., 8.6.2005, n. 221, in Riv. arbitrato, 2005, 515). Per le controversie non ontologicamente escluse dall’alveo della compromettibilità, infatti, il diritto costituzionale di azione può essere disposto anche in negativo, come libertà di rinuncia ad adire, in prima istanza, l’a.g.o. e, insieme al complementare diritto di difesa, trova tutela pure nel giudizio arbitrale attraverso lo svolgimento di un giusto processo dotato di garanzie non inferiori a quelle di cui gode il giudizio ordinario, con ossequio, primo fra tutti, del principio del contraddittorio.
L’attribuzione all’arbitrato rituale di una funzione propriamente giurisdizionale paragonabile a quella del procedimento davanti all’autorità giudiziaria, con la sola eccezione dello ius imperii, prerogativa del giudice statale, fa sì che i rapporti tra arbitri e a.g.o. siano stati da ultimo regolati non già in termini di giurisdizione, quanto invece di competenza. Chiaro in tal senso è l’art. 819 ter c.p.c. laddove statuisce che l’eccezione di incompetenza del giudice ordinario in ragione della convenzione arbitrale deve essere proposta nella comparsa di risposta a pena di decadenza, cosicché in caso di mancata deduzione nei termini di legge la competenza degli arbitri risulterà esclusa con riguardo al decisum giudiziale. Qualora invece il giudice, proposta l’exceptio compromissi mai rilevabile d’ufficio (stante il carattere relativo e derogabile della questione di competenza), affermi, anche direttamente in sentenza, ovvero neghi in favore del giudizio arbitrale, con ordinanza, la propria competenza a decidere nel merito, il rimedio impugnatorio è quello del regolamento di competenza, facoltativo o necessario, senza però che il processo relativamente al quale è chiesto venga sospeso ex art. 48 c.p.c., né si applichi la disciplina della riassunzione ai sensi dell’art. 50 c.p.c. Nel caso inoltre di omessa impugnazione la pronuncia sull’incompetenza dell’a.g.o. non gode dell’efficacia di cui all’art. 44 c.p.c. e neppure è prospettabile un’ipotesi di conflitto di competenza alla stregua dell’art. 45 c.p.c., declinandosi così la possibilità per gli arbitri di richiedere d’ufficio il regolamento ex art. 47, co. 4, c.p.c. E questo perché la competenza del giudice statale non esclude il potere decisorio degli arbitri, tant’è che quand’anche davanti all’a.g.o. penda una causa identica o connessa a quella dedotta in arbitrato, la competenza degli arbitri rimane ferma. Si rifiuta pertanto l’applicabilità degli istituti della litispendenza e della connessione, con negazione della translatio judicii, permettendosi invece lo svolgimento parallelo dei due giudizi, ordinario e arbitrale, fin quando la definizione dell’uno venga fatta valere nell’altro, salvo solo il suddetto caso in cui l’eccezione di compromesso venga tempestivamente dedotta.
Il giudizio d’arbitrato gode quindi di piena autonomia. Assunto che si evince anche dalla regola secondo cui, in pendenza di procedimento arbitrale, non possono essere proposte domande giudiziali aventi ad oggetto l’esistenza, la validità, l’efficacia e, in generale, il modo d’essere della convenzione d’arbitrato, essendo questioni che, insieme a quelle attinenti alla regolare costituzione dei giudicanti, per disposizione dell’art. 817 c.p.c., sono rimesse agli arbitri stessi. Spetta dunque ai giudici arbitrali decidere sulla propria potestas judicandi, a prescindere da qualsivoglia contestazione in separata sede, potendosi al più domandare un riesame alla corte d’appello con impugnazione per nullità del lodo ex art. 829, nn. 1, 4, 10 o 12, c.p.c., purché la parte interessata abbia eccepito l’incompetenza degli arbitri nella prima difesa successiva alla loro accettazione. Per contro, si riconosce ammissibile un’azione giudiziale di mero accertamento sulle predette questioni nel caso di procedimento arbitrale non ancora instaurato, senza peraltro che la pendenza della causa sub judice impedisca il radicarsi dell’arbitrato o ne determini la sospensione, stante l’inapplicabilità dell’art. 295 c.p.c. Cionondimeno la necessarietà della sospensione del processo privato ritorna a prevalere, oltre che nel caso in cui sorga questione pregiudiziale su materia che non può essere oggetto di patto compromissorio da decidersi ex lege con efficacia di giudicato, anche quando dinanzi agli arbitri sia invocata l’autorità di una sentenza del giudice statale che accerti l’inesistenza, l’invalidità o l’inefficacia della convenzione arbitrale e avverso la stessa sia proposta impugnazione, secondo quanto dispone l’art. 819 bis c.p.c., richiamante il co. 2 dell’art. 337 c.p.c.
3. La convenzione d’arbitrato
Le parti di un rapporto giuridico sostanziale che intendano rivolgersi alla giustizia arbitrale sono tenute ad accordarsi, stipulando un’apposita convenzione, la quale può essere concepita come atto complesso, frutto di distinti atti di autonomia privata, inquadrabile per struttura e funzione (anche e soprattutto normativa) nella categoria dei contratti ex art. 1321 c.c. Da tale negozio non scaturiscono però obbligazioni a contenuto patrimoniale, bensì effetti meramente processuali, derivando per gli stipulanti la facoltà di impedire che la lite in esso considerata sia conosciuta dal giudice ordinario. Non vi è dunque, come coglie il pensiero carneluttiano, una composizione di interessi in conflitto, quanto piuttosto il concorso di «volontà confluenti nel creare un mezzo per eliminare il conflitto». La convenzione arbitrale è quindi un particolare contratto avente per causa la devoluzione della vertenza a giudici privati, per oggetto la controversia da risolvere inerente al rapporto di cui i contraenti debbono essere titolari, pena l’invalidità della convenzione per difetto di legittimazione, e per forma quella scritta, ammettendosi anche la trasmissione per via telematica, che implica la non necessarietà di dichiarazioni contestuali delle parti nella formazione dell’accordo. Il requisito formale è richiesto ad substantiam, sotto sanzione di nullità, tenendo presente che l’invalidità della convenzione d’arbitrato (anche per difetto di forma) può essere fatto valere attraverso l’impugnazione per nullità del lodo, nonostante qualunque preventiva rinuncia, ai sensi dell’art. 829, n. 1, c.p.c. L’invalidità della convenzione d’arbitrato non può infatti che riverberarsi sul lodo, laddove invece la conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul merito non toglie efficacia alla convenzione, essendo quest’ultima svincolata dalle vicende del giudizio, in ossequio a quanto disposto dall’art. 808 quinquies c.p.c. A meno che l’arrestarsi del processo arbitrale dipenda proprio da una concorde rinuncia alla convenzione stessa che, qualora prevenga l’instaurarsi dell’arbitrato, può anche essere implicita nella domanda all’a.g.o., senza eccezione di controparte.
A seconda dell’atteggiarsi dell’oggetto, il negozio arbitrale è articolato dalla legge in tre figure: il compromesso, attraverso cui, ai sensi dell’art. 807 c.p.c., le parti deferiscono ad arbitri controversie tra loro già insorte ed espressamente individuate; la clausola compromissoria, per mezzo della quale le parti rimettono a giudici privati controversie future ed eventuali, relative allo specifico rapporto contrattuale di cui sono titolari, potendo tale clausola essere convenuta tanto nel contratto cui si riferisce (con la devoluzione agli arbitri di vertenze riguardanti, ad esempio, l’interpretazione o l’esecuzione dello stesso), quanto in atto separato, ma inerente al contratto medesimo, secondo il disposto dell’art. 808 c.p.c.; la convenzione d’arbitrato in materia non contrattuale, disciplinata dall’art. 808 bis c.p.c., che consente alle parti di stabilire che siano decise da arbitri le potenziali dispute relative a uno o più rapporti giuridici extracontrattuali, purché oggettivamente determinati e dunque originati necessariamente, benché solo in via mediata, da rapporti negoziali. Possono così devolversi ad arbitri, ad esempio, le future liti concernenti domande di risarcimento del danno per responsabilità aquiliana derivante dall’esecuzione del contratto, le controversie di ripetizione dell’indebito e di ingiustificato arricchimento scaturenti dall’invalidità del contratto sottostante, nonché le richieste risarcitorie per preteso illecito precontrattuale determinante la conclusione del contratto.
Pur caratterizzandosi per differenti tratti oggettivi, le diverse figure di convenzione arbitrale incontrano un comune e invalicabile limite, tradotto in requisito di ammissibilità, proprio attinente al loro contenuto, che si sostanzia nella tipologia di liti arbitrabili. Ai sensi dell’art. 806 c.p.c., sono infatti escluse dal campo della compromettibilità le controversie attinenti a diritti non disponibili dalle parti e quelle vietate per disposizione di legge. Con particolare riguardo alle cause in materia di lavoro, se ne ammette l’arbitrabilità solo se così previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi. Il discrimen tra materie suscettibili o meno di cognizione arbitrale è dunque dato dal labile criterio della disponibilità dei diritti oggetto di controversia che trova la sua fonte, espressa o tacita, soltanto nella legge, la quale, previo accorto bilanciamento di interessi, può anche decidere di escludere in concreto la compromettibilità di cause relative in astratto a diritti disponibili, rendendo così, di fatto, i medesimi insuscettibili di libera disposizione nel procedimento arbitrale. Ne è esempio il divieto di clausola compromissoria statutaria per le liti endosocietarie nelle società aperte che, pur riguardando diritti patrimoniali pienamente disponibili, sono sottratte alla cognizione arbitrale con l’intento di proteggere l’azionista-investitore. L’inderogabilità o imperatività della normativa sostanziale che regola il diritto non imprime invece in quest’ultimo il carattere dell’indisponibilità che si traduce nella carenza del potere di rinunciare, diminuire o spogliarsi dello stesso. Cosicché nessun ostacolo si ravvisa all’accertamento, da parte degli arbitri, circa la nullità del negozio in cui la clausola compromissoria è inserita. La regola generale della devoluzione in arbitrato di ogni diritto disponibile, a meno che il legislatore non detti un impedimento, trova la sua ratio nella considerazione che l’epilogo decisorio del processo arbitrale, se pur alternativo e sostitutivo della sentenza del giudice, scaturisce per definizione da un atto di autonomia privata, quale è la convenzione arbitrale e, pertanto, non può che conoscerne i medesimi limiti oggettivi. E l’ostacolo al libero esercizio dei diritti si rinviene nell’esigenza di tutelare interessi di ordine pubblico: tanto più avvertita è tale esigenza, quanto maggiore è la limitazione alla disponibilità del diritto, ma solo in caso di compressione assoluta del potere di disposizione, implicante l’intangibilità del diritto, si può parlare di inarbitrabilità, laddove invece nell’ipotesi di limitata disponibilità si è di fronte a una compromettibilità piena. Pertanto, per le ipotesi non disciplinate espressamente dalla legge, il concetto di «diritto indisponibile», relativo e dunque non determinabile a priori, riduce l’area della incompromettibilità ad un «ordine pubblico arbitrale», occupante il campo dei diritti non patrimoniali, come quelli personalissimi (esclusi però i diritti secondari risarcitori nascenti dalla loro lesione), e di quelli, pur a contenuto patrimoniale, per i quali la legge prevede l’ufficium del pubblico ministero. Un peculiare esempio di esclusione del ricorso all’arbitrato è dato dal caso in cui la controversia sia incanalata nell’alveo di un processo fallimentare sotto la disciplina di un rito speciale, come quello della verificazione dei crediti (Cass., S.U., 6.6.2003, n. 9070, in Giur. it., 2004, 964), restando invece possibile lo strumento arbitrale per le altre vertenze, tanto che ai sensi dell’art. 35 l. fall. il curatore può essere autorizzato a stipulare compromessi.
Dalla non arbitrabilità della controversia comunque devoluta agli arbitri deriva l’incompetenza degli stessi per invalidità della convenzione d’arbitrato con conseguente impugnabilità per nullità del lodo eventualmente pronunciato ai sensi dell’art. 829, co. 1, nn. 1 o 4, c.p.c., quand’anche la parte interessata non abbia eccepito il vizio nella prima difesa, così come espressamente ammette il co. 2 dell’art. 817 c.p.c. Disposizione quest’ultima da doversi peraltro estendere a tutti i casi di invalidità assoluta della convenzione arbitrale, tale da precludere alcuna forma di sanatoria endoprocedimentale, come nell’ipotesi di assenza radicale dell’accordo a compromettere in arbitri.
Cionondimeno, l’incompromettibilità, se da un lato esclude che la questione attinente a diritti (per natura o per legge) non disponibili possa costituire, da ultimo, oggetto del decisum arbitrale, dall’altro non preclude che la stessa venga sottoposta alla cognizione incidentale degli arbitri, affinché sia risolta senza autorità di giudicato, con l’unica eccezione data dal caso in cui la questione medesima debba essere decisa con quella efficacia per disposizione di legge. Così infatti esplicita l’art. 819, co. 1, c.p.c.
L’eventualità che gli arbitri siano investiti anche di profili esulanti dall’area della compromettibilità, pur non dedotti nella convenzione arbitrale per preservarne la validità, ben si coglie dal disposto dell’art. 808 quater c.p.c. che propone un criterio non restrittivo di interpretazione della convenzione d’arbitrato, nell’affermare, quanto meno nei casi dubbi, che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal rapporto sostanziale sottostante, sia esso contrattuale o meno, ovverosia a tutte quelle vertenze che si riferiscono a pretese aventi la loro causa petendi nel rapporto medesimo, anche se insorte in tempo successivo all’esaurimento del rapporto, purché relative a situazioni con questo costituite.
Con particolare riguardo alla clausola compromissoria, l’art. 808, co. 2, c.p.c., da un lato, ricorda che il potere di stipulare il contratto comprende quello di convenire la clausola stessa, cosicché quest’ultima non può essere in astratto inquadrata tra gli atti di ordinaria o straordinaria amministrazione, partecipando piuttosto della natura sia degli uni che degli altri a seconda del tipo di contratto le cui controversie è destinata a devolvere agli arbitri. Dall’altro sancisce l’autonomia del patto arbitrale, discernendo la valutazione della sua validità rispetto al contratto sottostante. Salvo il caso di vizio comune, dunque, l’invalidità del contratto non si riflette sul patto compromissorio, mentre la nullità della clausola, secondo i dettami generali, può comportare la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte viziata del suo contenuto. La clausola compromissoria, che può stipularsi anche per relationem e in ogni caso richiede la specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 c.c., è quindi un negozio inserito in un altro negozio di cui non condivide né la funzione né la struttura, essendo espressione di una volontà distinta dal consenso delle parti contraenti manifestato per la conclusione del contratto. L’esistenza e il modo d’essere di quest’ultimo si limita a definire il contenuto della prima, restando invece distinte le modalità di giudizio sulla validità dei due, cosicché la potestas judicandi degli arbitri non viene meno in ordine alla cognizione sulla (in)validità del contratto a cui la clausola compromissoria accede.
L’autonomia del patto arbitrale non impedisce comunque il realizzarsi di mutamenti soggettivi nella titolarità del contratto in cui è inserito, con conseguente trasferimento anche del patto stesso, salvo volontà contraria.
4. Gli arbitri
Già nella convenzione d’arbitrato le parti sono tenute, quale obbligazione nascente dal patto compromissorio, a provvedere alla nomina degli arbitri o, almeno, a stabilirne il numero e le modalità di designazione, demandando quest’ultima anche ad un terzo, nel rispetto di quanto disposto dall’art. 809 c.p.c. Si ammette in particolare solo un numero dispari di arbitri (che può essere anche uno), affinché in sede di deliberazione del lodo possa applicarsi il principio maggioritario ex art. 823 c.p.c. In caso di mancata indicazione, gli arbitri saranno per legge tre, mentre qualora sia stato convenuto un numero pari, ferma comunque la validità della convenzione, si renderà necessaria la nomina di un arbitro ulteriore. In entrambe le ipotesi, le designazioni suppletive sono effettuate dal presidente del tribunale del luogo in cui ha sede l’arbitrato ovvero, se la sede non è stata determinata ab origine, quello del luogo dove è stata stipulata la convenzione o ancora quello di Roma se tale luogo è all’estero. È sempre fatto salvo un diverso accordo delle parti, le quali, tradizionalmente, optano per la clausola c.d. binaria, provvedendo ciascuna alla nomina di un arbitro con la previsione che il terzo componente del collegio venga designato dagli altri due eletti. Soluzione ritenuta perseguibile anche in caso di arbitrato multiparti, purché si accerti, in base a petitum e causa petendi, che i centri di interesse siano polarizzati in due soli gruppi omogenei, tali da giustificare un meccanismo di nomina appunto binario (Cass., 15.3.1983, n. 1900, in Foro it., 1983, I, 883). Con la novella del 2006 l’art. 816 quater c.p.c. ha definito espressamente l’ipotesi di arbitrato con pluralità di parti, contemplando alternativamente la possibilità che la convenzione arbitrale devolva a un terzo la nomina di tutti i giudici privati, che il collegio venga designato con il consenso di tutte le parti ovvero che, dopo la nomina effettuata da una parte, le altre, di comune accordo, provvedano a indicare un ugual numero di arbitri o ad affidare a un terzo la relativa designazione. Solo qualora non vengano rispettati i citati meccanismi preordinati alla costituzione di un collegio imparziale e numericamente valido, è prevista la scissione del giudizio instaurato in tanti procedimenti quante sono le parti in causa, eccezion fatta per l’ipotesi di litisconsorzio necessario, posto che in tal caso, a fronte di un iter difettoso di nomina, la conseguenza non può che essere l’improcedibilità assoluta del processo.
Il procedimento di nomina degli arbitri, culminante nella stipula del contratto d’arbitrato avente ad oggetto un mandato per prestazione d’opera, è disciplinato dall’art. 810 c.p.c.: la parte che per prima ha interesse, con atto scritto notificato all’altra, rende nota la nomina effettuata e invita la controparte a procedere analogamente nei venti giorni successivi; qualora quest’ultima non vi provveda, la prima, con ricorso al presidente del tribunale competente, può domandare la nomina giudiziale, che verrà rifiutata solo nel caso in cui la convenzione arbitrale sia manifestamente inesistente ovvero chiaramente preveda una procedura stragiudiziale estera. Il prescritto meccanismo giudiziale sostitutivo/integrativo della volontà privata, che si attua all’interno di un procedimento di volontaria giurisdizione (Cass., S.U., 3.7.1989, n. 3189, in Giust. civ., 1990, I, 178), si spiega in funzione dell’attività giuridica di ordine pubblico cui sono chiamati gli arbitri-mandatari, alternativa alla giurisdizione e in grado di riprodurne gli effetti. Le forme e le modalità di nomina degli arbitri prescritte dalla legge sono da ritenersi un prerequisito di validità del lodo che gli stessi si impegnano a pronunciare. Cionondimeno, qualora sia mancata la deduzione del vizio nel giudizio arbitrale, l’impugnazione per nullità della decisione, ai sensi dell’art. 829, co. 1, n. 2, c.p.c., sarà preclusa.
Gli unici requisiti ex lege richiesti per essere ammessi alla nomina di arbitro sono il godimento della piena capacità legale di agire e l’imparzialità rispetto all’oggetto del giudizio. Il primo è espressamente previsto dall’art. 812 c.p.c.; il secondo è implicitamente sotteso alla normativa legale delle modalità di nomina degli arbitri, nonché ai motivi di ricusazione di cui all’art. 815 c.p.c. Tuttavia, mentre la mancanza di capacità si riflette sull’esito del procedimento, legittimando l’impugnazione per nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829, co. 1, n. 3, c.p.c., la presenza di una causa di incompatibilità con la funzione giudicante determina soltanto l’inefficacia dell’attività processuale compiuta dall’arbitro ricusato, secondo il disposto dell’ultimo co. dell’art. 815 c.p.c. In aggiunta ai requisiti legali, le parti possono in ogni caso convenire in ordine al possesso, da parte dei designandi arbitri, di particolari qualifiche professionali. Anche in tal caso, il negato rispetto di quanto pattiziamente stabilito si riconduce sotto la disciplina della ricusazione, costituendo infatti la mancanza delle qualità esplicitamente convenute dalle parti il primo dei motivi per i quali un arbitro può essere ricusato. Le diverse ipotesi di ricusazione sono (forse troppo) rigidamente elencate in via tassativa, nonostante tentino di adattarsi alle peculiari caratteristiche del giudizio privato, pur ricalcando in larga parte quelle previste per l’a.g.o. La ricusazione può essere proposta solo dalla parte che non ha nominato l’arbitro della cui imparzialità si discute, salvo si tratti di motivi conosciuti dopo la designazione. L’istanza si presenta, nei termini perentori di legge, con ricorso al presidente del tribunale in cui ha sede l’arbitrato, il quale, paradossalmente, può trovarsi a giudicare in merito alla ricusazione dell’arbitro da esso stesso nominato ai sensi dell’art. 810 c.p.c. Il contraddittorio tra l’arbitro ricusato e le parti è sempre rispettato con possibilità, all’occorrenza, di assumere sommarie informazioni, senza però che nel frattempo il procedimento arbitrale venga sospeso, fatta salva diversa determinazione degli arbitri. L’ordinanza di decisione provvede anche sulle spese, condannando altresì la parte proponente, in caso di manifesta inammissibilità o infondatezza dell’istanza, al pagamento in favore dell’altra parte di una somma equitativamente determinata, purché entro i limiti legali.
Il contratto di mandato agli arbitri, capaci e imparziali, si perfeziona solo con l’accettazione dei medesimi, i quali si obbligano per iscritto ex art. 813 c.p.c., sottoscrivendo il compromesso o il verbale della prima riunione, a compiere per conto delle parti compromittenti quel particolare atto giuridico concretantesi nel formulare un giudizio sulla controversia sottoposta a cognizione, con la pronuncia del lodo nel termine stabilito. Cionondimeno, la rinuncia alla giurisdizione optata dalle parti con la convenzione arbitrale rimane ferma quand’anche i soggetti designati come arbitri non accettino l’incarico, non potendosi ravvisare sempre e comunque l’esistenza di un intuitus personae nella nomina dei giudici privati, salva la dimostrabilità di una reale volontà negoziale in tal senso. Verso l’assenza di una condizione risolutiva del patto compromissorio legata all’accettazione degli arbitri designati depone anche l’art. 811 c.p.c., il quale disciplina il caso in cui, per qualsiasi motivo (e a prescindere dal momento) vengano a mancare tutti o alcuni dei componenti del collegio arbitrale, prevedendone la sostituzione secondo quanto è stabilito per la loro nomina nella convenzione d’arbitrato, che deve dunque permanere nella sua validità, consentendo così che l’efficacia degli atti processuali eventualmente già compiuti non venga meno. E, pure nell’ipotesi di sostituzione, qualora il soggetto cui spetta la nomina non vi provveda, la legge non manca di attribuire all’autorità giudiziaria i necessari poteri suppletivi, richiamando all’uopo l’art. 810 c.p.c.
Con l’accettazione, la cui forma è da ritenersi richiesta solo ad probationem, i soggetti designati acquistano la qualità di arbitro che non implica, ai sensi dell’art. 813, co. 2, c.p.c., né la qualifica di pubblico ufficiale né quella di incaricato di pubblico servizio, comportando invece, da un lato, l’acquisto del diritto al rimborso delle spese e, se non rinunciato, all’onorario per l’opera prestata, esercitabile, secondo il disposto dell’art. 814 c.p.c., nei confronti delle parti che rispondono in via solidale e salva rivalsa tra loro; nonché, dall’altro, l’assunzione degli obblighi scaturenti dal contratto di mandato che, se non rispettati, possono occasionare l’applicazione degli artt. 813 bis e 813 ter c.p.c., i quali disciplinano, rispettivamente, la decadenza e la responsabilità degli arbitri. La prima può implicare la seconda ed entrambe possono comportare la sostituzione dell’arbitro interessato che, in tal caso, avviene, se non è stato convenuto diversamente, d’accordo tra le parti o dal terzo incaricato dalla convenzione d’arbitrato. Solo in mancanza di consenso è possibile ricorrere all’ausilio del presidente del tribunale competente, previa diffida all’arbitro di adempiere non oltre il termine di 15 giorni. Può incorre in decadenza l’arbitro che omette o ritarda di compiere un atto relativo alle sue funzioni, tra cui la pronuncia del lodo nel termine stabilito, rispondendo anche dei danni cagionati alle parti qualora l’omissione o il ritardo dipenda da dolo o colpa grave ovvero abbia rinunciato all’incarico (già accettato) senza giustificato motivo. In tutti gli altri casi gli arbitri saranno invece chiamati a rispondere secondo la disciplina speciale di cui alla l. 13.4.1988, n. 117, art. 2, co. 2 e 3, relativa alla responsabilità civile dei magistrati, espressamente richiamata.
L’azione di responsabilità contro l’arbitro, che risponde solo del fatto proprio, può essere proposta anche in pendenza del giudizio arbitrale, salvo il caso in cui il lodo sia già stato pronunciato, con conseguente esperimento dell’azione dopo l’accoglimento definitivo dell’impugnazione e per i medesimi motivi. Un tetto massimo di somma risarcibile, commisurato al compenso convenuto, è previsto solo se il dolo dell’arbitro è escluso, mentre in qualsiasi ipotesi di responsabilità né il corrispettivo, né il rimborso delle spese sono dovuti, potendosi al più avanzare, da parte dell’arbitro responsabile, un diritto alla riduzione dei medesimi solo nel caso di nullità parziale del lodo.
Fonti normative
Art. 806-840 c.p.c.; artt. 669 quinquies, 669 octies, co. 5, 669 novies, co. 4, 669 decies, co. 3, c.p.c.; artt. 1341, co. 2, 1342, co. 2, 2652, 2653, 2690, 2691, 2943, 2945 c.c.; art. 33, n. 2, lett. t), d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (c. cons.); Convenzione di New York del 1958 per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere.
Bibliografia essenziale
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