Abstract
Si intende sinteticamente offrire un quadro generale della normativa in vigore dettata dal codice di rito in tema di procedimento arbitrale, sollecitando il Lettore con l’accenno di solo alcuni dei molti spunti critici creati dalla stessa legge e alimentati dall’evolversi di dottrina e giurisprudenza.
1. Il procedimento
La natura privata del giudizio arbitrale ha da sempre indotto il legislatore a limitare la normativa positiva vigente a poche e mirate disposizioni di portata imperativa e, nel contempo, a rimettere all’autonomia delle parti la regolamentazione della procedura, con l’avvertenza che il principio della libera determinazione del giudizio arbitrale comprende anche quello della subordinazione della nullità di qualsiasi atto del processo a una specifica previsione contenuta nell’accordo compromissorio. Tant’è che l’art. 829, co. 1, n. 7, c.p.c. prevede come motivo di nullità del lodo proprio l’inosservanza delle forme prescritte espressamente dalle parti a pena di nullità, qualora il vizio non sia in concreto sanato.
Sono anzitutto le parti, già nella convenzione d’arbitrato o con atto scritto separato, ovvero, in mancanza di una loro manifestazione, gli arbitri designati, a determinare la sede dell’arbitrato, nonché le forme e la lingua da osservare nel procedimento. È ammesso anche il richiamo a regolamenti arbitrali precostituiti di apposite istituzioni, dando così vita ai ccdd. arbitrati amministrati di cui all’art. 832 c.p.c. In assenza di alcuna esplicitazione, l’art. 816 c.p.c. stabilisce che la sede dell’arbitrato debba coincidere con il luogo in cui è stato stipulato il patto compromissorio ovvero essere stabilito in Roma se tale luogo è all’estero. L’indicazione della sede tuttavia non vincola gli arbitri nel compimento delle loro funzioni, potendo infatti i medesimi, purché la convenzione arbitrale non lo escluda né espressamente né tacitamente, tenere udienza, compiere atti istruttori, deliberare e apporre le loro sottoscrizioni al lodo in qualunque altro luogo, anche fuori dal territorio nazionale. Per contro la suddetta determinazione consente di radicare, proprio presso il luogo in cui l’arbitrato ha sede, la competenza funzionale e inderogabile del tribunale e della corte d’appello che potranno essere aditi nei casi e nei modi di legge. Quanto invece allo sviluppo del processo, l’art. 816 bis c.p.c. non pone alcun dettame suppletivo, lasciando da ultimo agli arbitri la facoltà di regolare il giudizio nel modo più opportuno, con possibilità di demandare al presidente del collegio arbitrale, eventualmente autorizzato anche dalle parti, il compito di deliberare con ordinanza le modalità di svolgimento del procedimento. L’unico e inderogabile limite è dato dall’attuazione del principio del contraddittorio, affinché alle parti stesse siano concesse ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa, pena l’impugnabilità del lodo per nullità ex art. 829, co. 1, n. 9, c.p.c. Anche a tal scopo è prevista l’opportunità per i contendenti in arbitrato di avvalersi dell’assistenza di difensori tramite apposita procura, la quale deve ritenersi estesa a qualsiasi atto processuale (compresa la nomina degli arbitri), salva espressa limitazione, comunque non operante nel caso della comunicazione della notifica del lodo e della sua impugnazione, per cui il difensore potrà sempre esserne destinatario.
Ciò che appare fuor di dubbio è l’inapplicabilità automatica, allo svolgimento del procedimento arbitrale, della disciplina processuale comune che potrà essere adottata solo qualora le parti, o in loro mancanza gli arbitri, l’abbiano espressamente voluta (Cass., 17.2.2011, n. 3917, in Giust. civ. Mass., 2011, 264). Il che, peraltro, non fa certo venir meno la qualificazione dell’arbitrato, affermata dalla stessa Consulta, come un procedimento previsto e disciplinato dal codice di rito preordinato all’applicazione obbiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria, non differenziandosi lo stesso, per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme, da quello che si svolge davanti agli organi giurisdizionali statali, posto che a ogni organo giudicante è precluso tanto il potere di disapplicare le leggi, quanto quello di definire il giudizio, applicando leggi di dubbia costituzionalità, con la conseguenza che anche gli arbitri rituali possono e debbono sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale delle norme di legge che sono chiamati ad applicare, quando risulti impossibile superare il dubbio attraverso l’opera interpretativa (C. cost., 28.11.2001, n. 376, in Giust. civ., 2001, I, 2883).
Il giudizio d’arbitrato si apre con l’accettazione degli arbitri del mandato ricevuto, purché la stessa sia preceduta da una completa enunciazione del diritto che si vuol far valere. L’atto scritto con cui una parte rende noto all’altra l’arbitro che essa nomina, dunque, oltre a manifestare l’intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, non può non contenere, come del resto esplicita pure l’art. 669 octies, co. 5, c.p.c., anche la corretta individuazione della res in judicium deducta, ponendosi, a seguito di regolare notificazione, come atto introduttivo del procedimento arbitrale (Cass., 8.4.2003, n. 5457, in Foro it., 2003, I, 1585), ma solo agli effetti sostanziali, con riguardo a decadenze, prescrizioni e trascrivibilità, i quali quindi anticipano la pendenza della lite, che si produrrà solo con la costituzione del collegio arbitrale a seguito dell’accettazione degli arbitri. Solo infatti una domanda arbitrale validamente «qualificata», con l’individuazione di petitum e causa petendi, se pur libera nella forma (Cass., 10.2.2003, n. 2472, in Foro it., 2003, I, 746), consente il prodursi di effetti equivalenti a quelli realizzati con la proposizione della domanda giudiziale, ancorché il dies a quo di decorrenza per quelli sostanziali e processuali sia differenziato solo per l’arbitrato. E, poiché l’individuazione del diritto fatto valere, che è qualcosa di più rispetto alla mera formulazione dei quesiti, è prodromica alla designazione dell’arbitro, quale manifestazione inequivocabile di volontà di avvio del processo privato, la domanda arbitrale nulla sarà sanzionata direttamente con l’invalidità dell’atto di nomina. L’accettazione dei designati arbitri deve infatti potersi basare sulla completa base fattuale e giuridica della controversia da decidere con efficacia vincolante tra le parti. Ne consegue che, mentre la convenzione d’arbitrato, qualora resti silente sull’indicazione degli arbitri, può limitarsi a definire l’ambito del giudizio su cui il collegio è chiamato a pronunciarsi, l’atto di nomina, separato e successivo rispetto alla prima, deve contenere necessariamente una domanda nei suddetti termini “qualificata”. Analogamente, l’atto con cui la controparte, alla quale era stata rivolto l’invito di effettuare la nomina del proprio arbitro, compie a sua volta la designazione richiesta, dovrà contenere la proposizione di eventuali domande riconvenzionali, ammesse se rientranti nell’ambito del patto compromissorio. È pur vero però che le conclusioni di ciascuna parte possono anche allargare l’ambito oggettivo del giudizio così come determinato dalla convenzione arbitrale, purché il superamento dei limiti non sia stato eccepito. Così infatti si deduce dal disposto dell’art. 817, co. 3, c.p.c., ai sensi del quale la parte che, nel corso del giudizio, non deduca in eccezione che le conclusioni altrui «esorbitano» dai limiti del patto d’arbitrato, non può, per questo motivo, impugnare il lodo per nullità. Non deve perciò neppure stupire la previsione del successivo art. 817 bis c.p.c., con cui si introduce un ulteriore strappo alla regola della correlazione tra l’oggetto della convenzione arbitrale e quello del relativo giudizio. È stabilito infatti che gli arbitri sono competenti a conoscere dell’eccezione di compensazione, entro il valore della domanda, quand’anche il controcredito non sia compreso nell’ambito del patto compromissorio. E ancora, l’oggetto del procedimento può essere ampliato con un intervento volontario a carattere innovativo, sempreché, oltre all’accordo del terzo che aderisce al patto compromissorio, vi sia il consenso degli arbitri e il benestare delle parti originarie, quest’ultimo però da considerarsi essenziale solo se l’interveniente non sia parte della convenzione d’arbitrato. È quanto si evince dall’art. 816 quinquies c.p.c., che sottopone alla medesima condizione dell’accordo congiunto anche la chiamata del terzo, sia essa proveniente direttamente dalle parti o sollecitata dagli arbitri ancorché senza coercizione effettiva. A fronte tuttavia di un allargamento soggettivo del procedimento arbitrale successivo alla sua instaurazione, il collegio giudicante resta di per sé immutato. Dunque, se il terzo è già parte della convenzione arbitrale, qualora non accettasse gli arbitri nominati potrebbe provocare l’instaurazione di un nuovo procedimento, riservandosi la nomina che gli spetta; altrimenti, nel caso non fosse vincolato ab origine dal patto compromissorio, il terzo che, pur accettando la rinuncia alla giurisdizione ordinaria con l’adesione al patto medesimo, restasse dissenziente sulla nomina degli arbitri non potrebbe che rimanere estraneo al giudizio privato in corso. Saranno invece sempre e liberamente ammessi, senza necessità di alcun preventivo consenso, pur avendo riflessi differenti sull’oggetto del processo, tanto l’intervento adesivo dipendente di cui all’art. 105, co. 2, c.p.c., quanto quello del litisconsorte necessario pretermesso, a condizione che a quest’ultimo, anche a seguito di un’adesione al patto compromissorio successiva prodromica all’intervento, sia data la possibilità di partecipare, in posizione paritaria rispetto alle altre parti, alla formazione dell’organo giudicante, pena l’improcedibilità dell’arbitrato.
La composizione del collegio arbitrale dunque non è immutabile, potendo, per ammissione stessa di legge, essere modificata con proroga del termine per la pronuncia del lodo ex art. 820, co. 4, lett. d), c.p.c. Resta tuttavia il problema di come procedere nel caso di successione nel diritto controverso, posto che l’ultimo co. dell’art. 816 quinquies c.p.c. integralmente richiama l’applicabilità dell’art. 111 c.p.c., non disponendo tuttavia per l’ipotesi in cui la nomina del collegio sia affidata alle parti e vi siano ragioni di dissenso del successore a titolo particolare rispetto alla nomina effettuata dal suo dante causa.
L’istruttoria è disciplinata, nei suoi tratti generali, dall’art. 816 ter c.p.c., il quale si limita prevalentemente ad offrire agli arbitri alcune facoltà allo scopo di rendere più agevole lo svolgimento del procedimento arbitrale. È dunque prevista la possibilità: di delegare l’intera istruzione o i singoli atti a un solo componente del collegio; di assumere testimonianza, anche scritta, ovvero di acquisire la deposizione del testimone presso la residenza o l’ufficio di questi; di ricorrere, quando considerato opportuno, al presidente del tribunale competente affinché ordini la comparizione del testimone che si rifiuti di presenziare, con conseguente sospensione del termine per la pronuncia del lodo fino alla data fissata per l’assunzione della testimonianza; di farsi assistere da consulenti tecnici, siano esse persone fisiche o enti; di chiedere alla p.a. le informazioni scritte in suo possesso necessarie ai fini del giudizio. L’art. 816 septies c.p.c. aggiunge inoltre la facoltà degli arbitri di condizionare la prosecuzione del procedimento al pagamento anticipato delle loro spese prevedibili. Agli arbitri sarà invece precluso di avvalersi di strumenti probatori implicanti l’esercizio di poteri imperativi o presupponenti l’autorità propria dell’a.g.o. Sono pertanto da escludersi l’ordine di esibizione a un terzo, il giuramento e la querela di falso. In ossequio al principio del contraddittorio, il cui rispetto è imposto ex lege anche nel giudizio arbitrale, gli arbitri sono chiamati in ogni caso ad assegnare alle parti dei termini per la presentazione di documenti, il deposito di memorie e l’esposizione di eventuali repliche, dando piena attuazione al costituzionale diritto alla prova, senza il quale l’accesso alla giustizia (anche privata) perderebbe di significato. Ciò non toglie che il principio di libertà delle forme renda inopportuna la previsione di decadenze e preclusioni nello svolgimento delle attività difensive, agevolate anche dalla previsione legale suppletiva di una proroga di 180 giorni del termine per la pronuncia del lodo, preordinata proprio all’assunzione dei mezzi di prova.
Sempre a garanzia del contraddittorio, l’art. 816 sexies c.p.c. richiede l’adozione, da parte degli arbitri, di misure idonee, qualora una parte venga meno per morte o altra causa, ovvero perda la capacità legale. Tra queste rientra anche l’espressa possibilità di sospendere il procedimento. Si configura pertanto in tal caso un’ipotesi di sospensione facoltativa, che si aggiunge a quella contemplata dall’art. 337, co. 2, c.p.c., richiamato dall’art. 819 bis c.p.c. per l’ipotesi in cui nel giudizio arbitrale sia invocata l’autorità di una sentenza impugnata. Si avrà invece una sospensione necessaria del procedimento arbitrale: nei casi di cui all’art. 75 c.p.p.; quando gli arbitri rimettono una questione di legittimità alla Corte costituzionale; se sorge questione pregiudiziale su materia non arbitrabile da decidersi per legge con autorità di giudicato, affinché il giudice ordinario possa pronunciarsi sulla stessa. Mentre invece le altre questioni pregiudiziali di merito saranno decise direttamente dagli arbitri senza che la legge imponga per la loro decisione la sospensione del procedimento. Quest’ultima sarà optata dagli arbitri solo quando opportuna, ogniqualvolta ai sensi dell’art. 819 c.p.c. siano chiamati a: risolvere senza autorità di giudicato le questioni pregiudiziali su materia non arbitrabile, se rilevanti per la decisione; decidere con efficacia di giudicato le questioni pregiudiziali su materie arbitrabili che ricadono nella convenzione d’arbitrato, se vi è stata domanda di parte; decidere con efficacia di giudicato le questioni pregiudiziali su materie arbitrabili che non ricadono nella convenzione d’arbitrato, se vi è stata richiesta di tutte le parti.
Per una scelta di mera politica legislativa, secondo il dettato dell’art. 818 c.p.c., agli arbitri è invece sempre precluso il potere di concedere misure cautelari. Per ottenere provvedimenti di tal tipo, dunque, sarà necessario rivolgersi all’a.g.o., ai sensi degli artt. 669 bis e ss. c.p.c., e, affinché il provvedimento cautelare positivo ottenuto ante causam mantenga efficacia, in ossequio al principio della strumentalità cautelare, occorrerà la notifica di una domanda arbitrale valida entro 60 giorni dalla pronuncia dell’ordinanza del giudice o dalla sua comunicazione, con il paradosso che sarà stato il giudice ad anticipare gli effetti di una decisione rimessa, per volontà delle parti, alla competenza arbitrale. Al divieto di tutela cautelare nel giudizio d’arbitrato può derogare soltanto la legge: la clausola di salvezza espressamente prevista consente quindi di coordinare la disciplina generale in tema di arbitrato con quanto dettato da norme speciali conferenti agli arbitri un potere cautelare. Il riferimento è in particolare all’art. 35, co., 5 d.lgs. 17.1.2003, n. 5 in materia di arbitrato societario, che consente agli arbitri di sospendere la delibera assembleare quando il giudizio di merito abbia ad oggetto la sua impugnazione.
2. Il lodo
I provvedimenti adottabili dagli arbitri possono assumere il carattere di: ordinanza non impugnabile, ma revocabile e non soggetta a deposito, con la quale si risolvono tutte le questioni che si presentano nel corso del procedimento non altrimenti definite; lodo lato sensu «non definitivo», con cui si decide parzialmente il merito della controversia ovvero si risolvono alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale; lodo definitivo, per mezzo del quale si statuisce integralmente sul merito della lite compromessa entro il termine convenuto dalle parti e reso noto agli arbitri prima dell’accettazione della loro nomina o, in assenza di accordo, non oltre 240 giorni dall’accettazione medesima, ai sensi dell’art. 820 c.p.c.
La legge disciplina i casi, le modalità e i tempi di proroga del termine per la decisione, lasciando sempre alla disponibilità delle parti una regolazione alternativa. Tuttavia, se il procedimento è sospeso, anche la decorrenza del tempo per la pronuncia del lodo definitivo rimarrà ferma, per riprendere poi con il riavvio del procedimento e per un tempo non inferiore a 90 giorni. L’inutile decorso del termine fissato per la decisione non solo costituisce inadempimento all’obbligazione assunta dagli arbitri con l’accettazione della nomina, determinandone la responsabilità qualora l’omessa o impedita pronuncia dipenda da dolo o colpa grave di essi, ma si riflette altresì sulla validità del lodo eventualmente emesso fuori termine, nonostante il vizio non specificatamente e tempestivamente eccepito risulti sanato in virtù del disposto dell’art. 821 c.p.c. Qualora invece la parte interessata notifichi all’altra e agli arbitri l’intervenuta decadenza, purché prima della sottoscrizione del dispositivo: o gli arbitri, verificato il decorso del termine, dichiarano il procedimento estinto, o il lodo potrà essere impugnato per nullità ai sensi dell’art. 829, co. 1, n. 6, c.p.c.
Se di loro competenza, gli arbitri hanno il dovere di decidere sul merito della controversia loro devoluta, statuendo, in ossequio all’ordinario principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato applicabile anche in sede arbitrale, su tutte le domande e le eccezioni proposte dalle parti, «in conformità» alla (ossia entro i limiti della) convenzione arbitrale, pena la nullità del lodo, altrimenti impugnabile ai sensi dell’art. 829, co. 1, nn. 10 o 12, c.p.c., rispettivamente se il lodo conclude il procedimento senza decisione sul merito legittimamente devoluto ovvero omette di pronunciare su alcuna domanda o eccezione. Letto in altri termini, significa affermare espressamente la funzione di jus dicere degli arbitri, i quali debbono, in quanto possono, decidere la controversia loro compromessa, dichiarando l’esistenza o meno del diritto litigioso.
Nel decidere del merito i giudici privati applicano, di regola, le norme di diritto, salvo che risulti in qualsiasi modo manifestata la volontà delle parti di avvalersi di un giudizio di equità, disponendo così della facoltà prevista dall’art. 822 c.p.c. Le differenze tra pronuncia di diritto e pronuncia di equità si riflettono anche su un’eventuale sindacabilità del lodo. L’art. 829, co. 3, c.p.c. dispone infatti che l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa solo se esplicitamente disposta dalle parti o prevista dalla legge tanto in via espressa, come nel caso di vizi attinenti alla soluzione di controversie di lavoro o di questioni pregiudiziali su materia non compromettibile, quanto implicita, come conseguenza di previsioni imperative escludenti l’equità come criterio di decisione. L’intento è evidentemente quello di garantire una maggiore stabilità del lodo, riducendo l’ambito di intervento del giudice statale in sede di controllo del contenuto decisorio della pronuncia privata. Sarà invece in ogni caso ammessa l’impugnazione del lodo per contrarietà all’ordine pubblico: l’unica quindi di cui le parti potranno valersi al termine di un giudizio equitativo.
Per la deliberazione del lodo è stabilito un quorum costitutivo dato dalla presenza di tutti i componenti del collegio arbitrale, mentre il quorum deliberativo sarà raggiunto con la maggioranza dei voti. L’art. 823, co. 2, c.p.c. elenca il contenuto tipico e indefettibile del lodo, prescrivendo a pena di nullità, come si evince dal combinato disposto con l’art. 829, co. 1, n. 5, c.p.c., l’esposizione sommaria dei motivi, l’enunciazione del dispositivo e la sottoscrizione (anche della sola maggioranza) degli arbitri. L’eventuale omissione dell’indicazione del nome degli arbitri, della sede dell’arbitrato, del patto compromissorio, delle parti e delle relative conclusioni può invece essere colmata con una successiva integrazione del lodo. Della deliberazione, redatta necessariamente per iscritto in uno o più originali, deve quindi essere data comunicazione, entro 10 giorni dalla sottoscrizione, alle parti, ciascuna delle quali può chiederne la correzione in caso di mancanze ed errori materiali o di calcolo, secondo quanto previsto dall’art. 823 c.p.c., senza che il termine per un’eventuale impugnazione sia sospeso.
Con la pronuncia del lodo gli arbitri possono altresì provvedere direttamente alla liquidazione delle spese e dell’onorario. Tuttavia la relativa determinazione è vincolante solo se accettata dalle parti. Diversamente, spetta al presidente del tribunale competente, su ricorso degli arbitri e in contraddittorio con le parti, stabilire il quantum dovuto con ordinanza esecutiva reclamabile dinanzi alla corte d’appello.
Ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c., dalla data della sua ultima sottoscrizione, il lodo acquisisce gli stessi effetti «della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria» di cui all’art. 2909 c.c., divenendo dunque vincolante tra le parti e i successori, a fortiori anche nel diritto controverso, stante l’applicabilità incondizionata dell’art. 111 c.p.c. E tale equivalenza non può che derivare dall’attribuzione al dictum degli arbitri rituali, la cui potestas judicandi trova la sua fonte direttamente nella legge ordinaria (a seguito del consenso delle parti espresso nel patto compromissorio), di una funzione cognitiva idonea a sostituire l’accertamento proprio della sentenza del giudice. Diversa invece è la natura del lodo che non può ricondursi a quella della sentenza, quale accertamento autoritativo di un diritto controverso, posto che l’«autoritatività», scaturente dalla giurisdizionalità in senso proprio del processo, manca nella pronuncia arbitrale per carenza di jus imperii degli arbitri. L’imperatività dei provvedimenti emanati, ovvero l’idoneità degli stessi di imporsi coattivamente tra le parti, è infatti prerogativa esclusiva dell’autorità giudiziaria ordinaria costituzionalmente tutelata dall’art. 102 Cost., laddove invece il vinculum juris prodotto dal lodo si può imporre solo volontariamente ai compromittenti. Tuttavia, la natura non giurisdizionale del lodo, lungi dal negare una funzione giurisdizionale dell’arbitrato rituale, non può e non deve implicare una regolamentazione negoziale della controversia, come invece affermato in passato da una discussa giurisprudenza (Cass., S.U., 3.8.2000, n. 527, in Foro it., 2001, I, 839), poi superata dalla stessa lettera di legge. Semmai, ferma l’assegnazione ex lege di un’efficacia dichiarativa e costitutiva, per poter munire il lodo di condanna (anche) di un’efficacia esecutiva, garantendo coercibilità della decisione ed effettività di tutela, l’art. 825 c.p.c. esige la cooperazione dell’attività giudiziaria in volontaria giurisdizione (Cass., 11.2.1995, n. 1553, in Riv. arbitrato, 1995, 679), tramite un apposito procedimento di omologazione, colmando così solo con l’exequatur la mancanza d’imperium degli arbitri e al contempo assicurando all’arbitrato rituale una funzione alternativa e pienamente sostitutiva della giurisdizione ordinaria. È dunque statuito che la parte intenzionata a far eseguire il lodo debba, in qualsiasi tempo, proporre istanza al tribunale competente con il deposito del lodo e della convenzione arbitrale, affinché il giudice monocratico, senza svolgere alcun sindacato sulla res in judicium deducta, ma accertata senza contraddittorio la regolarità formale della pronuncia, dichiari il lodo esecutivo, rendendolo suscettibile di trascrizione o annotazione alla stregua di una sentenza giudiziale avente il medesimo contenuto. Il decreto che nega o concede l’esecurioretà è comunque reclamabile davanti alla corte d’appello, la quale, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile nemmeno ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass., 15.7.1996, n. 6407, in Riv. arbitrato, 1996, 513).
Ancorché privo di esecutività, il lodo pronunciato in Italia, che mantiene l’efficacia attribuitagli dalla legge, può comunque ottenere il riconoscimento e l’esecuzione in ogni Stato aderente alla Convenzione di New York del 1958, che ha imposto di non prevedere, relativamente al riconoscimento e all’esecuzione di «sentenze arbitrali straniere», condizioni più gravose rispetto a quelle previste per i lodi nazionali. L’ordinamento italiano si è in proposito adeguato con le disposizioni di cui agli artt. 839 e 840 c.p.c.
3. Le impugnazioni
Ai sensi dell’art. 827 c.p.c., il lodo, che decide anche solo parzialmente il merito della controversia e indipendentemente dal suo deposito, è suscettibile di impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di terzo in via immediata; mentre il lodo che risolve alcune delle questioni insorte, senza però definire il giudizio, è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo. I tre rimedi avverso il lodo rituale, gli unici ammessi per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, accordati dalla legge come irrinunciabili e fondati sul presupposto della sussistenza di vizi specifici, sono esperibili davanti alla corte d’appello nel cui distretto l’arbitrato ha sede, alla quale è peraltro espressamente attribuita la facoltà di riunire tutte le impugnazioni promosse contro un unico lodo, qualora lo stato della causa proposta per prima consenta l’esauriente trattazione e decisione delle altre.
Legittimati all’impugnazione per nullità del lodo sono, oltre alla parte che non abbia dato causa al vizio fatto valere o che comunque abbia tempestivamente eccepito la violazione di una regola disciplinante lo svolgimento del procedimento arbitrale qualora intenda dedurla come motivo, anche il terzo intervenuto, secondo le regole ordinarie, nonché il successore nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c. Il termine per proporre l’impugnativa, che di per sé non sospende l’efficacia del lodo, è di 90 giorni dalla notifica dello stesso ovvero un anno dalla data della sua ultima sottoscrizione. Va da sé che l’inutile decorrenza dei termini di legge produrrà sul decisum quell’incontrovertibilità propria della cosa giudicata formale e sostanziale. L’atto di citazione deve contenere la deduzione di alcuno dei motivi di nullità tassativamente individuati dall’art. 829 c.p.c., con onere quindi per l’impugnante di specificare i canoni in concreto violati, nonché il punto ed il modo in cui l’arbitro si sia da essi discostato, non essendo sufficiente una semplice critica libera alla decisione sfavorevole (Cass., 8.4.2011, n. 8049, Giust. civ. Mass., 2011, 561). I motivi di impugnativa sono da ricondursi tanto a vizi di attività quanto a vizi di giudizio, salvo sia stato demandato agli arbitri di decidere secondo equità. Gli errores in procedendo non possono comunque essere rilevati d’ufficio, eccezion fatta per il caso d’invalidità della convenzione arbitrale. Dall’art. 830 c.p.c. si evince che il giudizio di impugnazione per nullità del lodo si compone di una duplice fase, rescindente e rescissoria. Al termine della prima la corte d’appello, se accoglie il motivo, dichiara con sentenza la nullità, eventualmente solo parziale, qualora il vizio incida su una parte scindibile del lodo; con l’aprirsi della seconda, invece, il giudice collegiale ordinario (ri)decide la controversia nel merito, purché il lodo non sia stato annullato per invalidità della convenzione arbitrale, per violazione delle norme prescritte in tema di nomina degli arbitri o per vizio di ultrapetizione, in quanto vi sia stata pronuncia oltre i limiti della convenzione arbitrale ovvero sul merito della controversia in un caso in cui lo stesso non poteva essere deciso. Dunque, se il lodo non è stato dichiarato nullo per vizi attinenti alla potestas judicandi degli arbitri, il riesame del merito, inammissibile come autonomo motivo di impugnazione, per non essere il giudizio di nullità un mezzo di gravame in senso proprio, diviene possibile in seconda battuta, sempreché ciò non sia impedito dallo stesso patto compromissorio o da accordi successivi, con eventuale riapertura della fase istruttoria, ferma in ogni caso l’inammissibilità di domande nuove. L’oggetto del rescissorio coincide dunque con la res in judicium deducta nel processo arbitrale, potenzialmente coinvolgente anche questioni non direttamente poste come motivi specifici di nullità. In ogni caso la sentenza della corte d’appello potrà essere soggetta a ricorso per cassazione per vizi propri, in quanto non sufficientemente motivata rispetto ai motivi di nullità del lodo (Cass., 15.2.2000, n. 1699, in Gius, 2000, 978). Il testo normativo precisa inoltre che in tutte le ipotesi in cui, per legge o volontà delle parti, al giudice ordinario è preclusa la decisione del merito in fase rescissoria, si applica la convenzione arbitrale, salvo che la nullità del lodo dipenda dalla sua invalidità o inefficacia. E ogniqualvolta la corte d’appello non decida nel merito, alla fase rescindente farà seguito l’instaurazione di un nuovo giudizio, in relazione al quale le parti, se non concordano unanimemente di risolvere la convenzione d’arbitrato con riviviscenza della competenza del giudice ordinario, rimaste obbligate dal patto compromissorio, saranno chiamate alla ricostituzione del collegio arbitrale necessariamente diverso dal precedente in quanto giudicante «in secondo grado». Quest’ultimo sarà poi libero nel pronunciare un nuovo lodo, senza vincoli scaturenti dalla statuizione annullatoria del giudice. Anche il decisum arbitrale emanato a seguito di annullamento del lodo da parte della corte d’appello può essere oggetto di impugnazione ai sensi dell’art. 827 c.p.c.
L’art. 831 c.p.c. contempla infine l’impugnazione del lodo per revocazione e opposizione di terzo, quali rimedi straordinari avverso il lodo passato in giudicato, non più impugnabile per nullità. I motivi di revocazione sono infatti limitati alle ipotesi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e, se si verificano durante il giudizio di nullità del lodo, il termine per la proposizione della domanda di revocazione sarà sospeso fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla nullità. Nonostante inoltre il richiamo sic et simpliciter all’art. 404 c.p.c., che espressamente accenna a un requisito di esecutività della sentenza da impugnare, l’opposizione di terzo sarà proponibile a prescindere dal deposito del lodo, perché così statuisce la stessa legge all’art. 827 c.p.c. senza operare alcun distinguo tra i mezzi di impugnazione.
Tra tutti i motivi che definiscono la critica vincolata dei mezzi di impugnazione esperibili manca l’ipotesi di inesistenza del lodo, derivante dall’originaria inesistenza della convenzione arbitrale, che dunque si estranea dai termini del giudizio di impugnazione, non rientrando affatto nella disciplina di cui al n. 1 dell’art. 829 c.p.c., riguardante l’invalidità del patto compromissorio. Il radicale difetto di postestas judicandi degli arbitri non può infatti soggiacere ad alcuna preclusione nel processo arbitrale, come invece imporrebbe la regola della preventiva exceptio del convenuto in arbitrato ai sensi del richiamato art. 817 c.p.c., cosicché il suddetto vizio potrà essere sindacato in ogni tempo in sede di autonoma azione giudiziaria di accertamento o di eventuale opposizione in sede di esecuzione forzata del decisum arbitrale.
Fonti normative
Artt. 806-840 c.p.c.; artt. 669 quinquies, 669 octies, co. 5, 669 novies, co. 4, 669 decies, co. 3 c.p.c.; artt. 1341, co. 2, 1342, co. 2, 2652, 2653, 2690, 2691, 2943, 2945 c.c.; art. 33, n. 2, lett. t) d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (Codice del Consumo); Convenzione di New York del 1958 per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere.
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