Abstract
La disciplina del procedimento arbitrale in materia societaria di cui agli artt. 34-37, d.lgs. 17.1.2003, n. 5 si caratterizza per gli aspetti peculiari che contraddistinguono la formazione del contraddittorio tra le parti e la procedura di nomina del collegio arbitrale, affidata alla designazione di un soggetto terzo estraneo alla società. Incidente sul procedimento arbitrale è anche la disciplina dell’intervento in causa dei terzi, sia volontario che coatto su istanza di parte o chiamata del giudice, nonché la disciplina della cognizione incidentale sulle questioni pregiudiziali non compromettibili. Completano la disciplina procedimentale le disposizioni sul lodo e sul regime di impugnabilità del medesimo.
Se la determinazione delle controversie devolvibili agli arbitri mediante le clausole compromissorie statutarie è rimessa – entro certi limiti – all’apprezzamento dell’autonomia privata (Arbitrato societario 1. La clausola compromissoria statutaria), le modalità di nomina del collegio arbitrale sono rigorosamente e inderogabilmente stabilite dalla legge nell’art. 34, co. 2, d.lgs. 17.1.2003, n. 5. Ed infatti, il legislatore esige che la clausola arbitrale provveda non solo a determinare ex ante il numero e le modalità di nomina degli arbitri, ma, nel prevedere ciò, conferisca altresì «il potere di nomina di tutti gli arbitri» ad un «soggetto estraneo alla società». Laddove, pertanto, l’autonomia statutaria può decidere se affidare la delibazione della domanda ad un arbitrato unico o ad un collegio pluripersonale e individuare la procedura specifica di selezione (e di accettazione) del (collegio) decidente, è invece preclusa in radice qualsiasi possibilità di autodeterminazione della nomina arbitrale da parte dei soci o degli organi sociali, atteso che l’affidamento del potere di nomina ad un soggetto che non appartiene – né direttamente né indirettamente – all’organizzazione societaria non può essere derogato pattiziamente neppure in relazione ad uno dei componenti del collegio arbitrale, che dev’essere dunque integralmente determinato ab externo rispetto all’organizzazione societaria.
D’altra parte, il rigore che ha ispirato il legislatore in parte qua è reso ben evidente dall’impiego dell’espressione «in ogni caso» per stabilire l’ambito di operatività della prescrizione normativa e, ancor più, dal ricorso alla radicale sanzione della «nullità» della clausola viziata e alla conseguente affermazione della competenza giurisdizionale per la decisione della controversia (di «nullità parziale assoluta» discorre, in particolare, Cass., 9.12.2010, n. 24867, cit., cui adde, tra le altre, Cass., 13.10.2011, n. 21202, cit.; v. anche Trib. Parma, 11.4.2008, in Giur. comm., 2009, II, 1004 ss.; Trib. Salerno, 12.4.2007, in Dir. prat. soc., 2008, 75 ss.). Ed invero, un simile rigore normativo risponde non solo all’opportunità di prevenire le complesse procedure di nomina che contraddistinguono l’arbitrato con pluralità di parti, ma anche all’esigenza di assicurare con pienezza la salvaguardia dei requisiti di indipendenza e imparzialità del collegio arbitrale; requisiti, questi ultimi, che trovano certamente realizzazione per il tramite della terzietà del soggetto che sia nominato designatore dei componenti del collegio arbitrale. Alla medesima ratio si ispira, inoltre, la previsione suppletiva per l’ipotesi di inerzia o impossibilità del designatore ad assolvere l’incarico affidatogli, posto che, in tale eventualità, la nomina dell’arbitro compete – su richiesta dell’istante – al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale (co. 2), escludendosi così in radice la possibilità di ricorrere ad eventuali meccanismi suppletivi di origine statutaria che finirebbero inevitabilmente per derogare alla logica di terzietà e indipendenza che è sottesa alla disciplina sul punto.
A ben vedere, però, il requisito della effettiva terzietà del designatore rispetto alla società va considerato soprattutto in relazione a quelle situazioni nelle quali non viene in rilievo l’inserimento del soggetto nell’organizzazione societaria, bensì un suo coinvolgimento nelle attività sociali o, più in generale, un suo legame (contrattuale, professionale, ecc.) con la società o (anche parentale) con i soci o i componenti degli organi sociali. È in queste ultime situazioni, infatti, che il requisito della estraneità rispetto alla società richiede di essere individuato con maggior precisione nella sua esatta portata, atteso che – come si è opportunamente segnalato – l’esistenza di un rapporto qualificato tra la società e il designatore non può costituire, di per sé, una ragione per la declaratoria di nullità della clausola compromissoria: va escluso, infatti, un giudizio presuntivo assoluto che prescinda, cioè, dalla specificità del caso concreto e sovrapponga, per così dire, il piano della validità della clausola compromissoria – che può dirsi effettivamente violata soltanto quando, in concreto, il designatore operi una nomina nell’interesse della società – e quello della imparzialità dell’arbitro, che è invece salvaguardata solo indirettamente dal meccanismo di nomina sancito nel co. 2 dell’art. 34 e che spetta alle norme di parte generale tutelare in via diretta e primaria (v. Trib. Milano, 18.7.2005, in Giur. it., 2006, 313 ss., secondo cui «il concetto di estraneità del designatore non può essere dilatato fino ad una sorta di neutralità ideologica, difficilmente riconoscibile ed eccessivamente enfatizzante il ruolo che è pur sempre quello di mero designatore, mentre a presidio della indipendenza ed imparzialità dell’arbitro vigono le regole di astensione/ricusazione ex art. 51 c.p.c. richiamato dall’art. 815 c.p.c.»: in particolare, è stata riconosciuta l’idoneità a fungere da designatore del sindacato di categoria a cui aderiva la società convenuta, e ciò sul rilievo che, da un lato, il sindacato è deputato alla tutela degli interessi di tutte le società associate e, dall’altro lato, che non è stato possibile presumere una contiguità o una propensione favorevole agli interessi della maggioranza ovvero della minoranza della società associata «alla stregua di una alterità, incongruamente evocata dall’impugnante, analoga a quella di una controversia tra lavoratori e impresa datore di lavoro in cui designatore di arbitro fosse Confindustria»; in tema di consorzio v. recentemente App. Milano, 5.6.2013, in www.ilcaso.it). È innegabile, tuttavia, che in rapporto a determinate categorie di soggetti, contraddistinti da uno specifico ruolo istituzionale, la valutazione della concreta idoneità a rivestire il ruolo del designatore arbitrale sia – per lo meno – più agevole per l’interprete. Ed invero, se si pensa a figure come quella del presidente del tribunale (o, per altro verso, della camera di commercio o della camera arbitrale) del luogo in cui ha sede la società (v. Coll. arb. Verona, 14.3.2008, in Riv. arb., 2008, 109 ss.), sembra condivisibile l’idea che l’estraneità di tali soggetti (rispetto all’ente) sia attestata direttamente dal profilo istituzionale e dalle funzioni assegnate ex lege a chi ricopre tali ruoli, al punto che – almeno nel caso del presidente del tribunale – è stata proprio la legge ad individuare in tale figura istituzionale un sostituto adeguato per l’eventualità in cui il designatore nominato nello statuto risulti (colpevolmente o incolpevolmente) inerte.
Le regole inderogabili in tema di nomina del collegio arbitrale sono, dunque, alquanto circoscritte, solo che si consideri come l’imposizione di limiti all’esercizio dell’autonomia provata abbia riguardato esclusivamente l’aspetto della procedura di nomina che attiene all’individuazione del soggetto designatore o, più esattamente, al suo profilo di estraneità (se non formale, almeno sostanziale) rispetto alla struttura e agli interessi della società. Per contro, sia il numero sia le modalità di nomina degli arbitri sono rimesse alle scelte discrezionali compiute dalle parti nella clausola compromissoria statutaria, atteso che la disposizione dell’art. 34, co. 2, se esige che tali aspetti del procedimento di formazione del collegio arbitrale siano definiti ex ante dalle parti (la norma stabilisce, infatti, che la clausola «deve» prevedere il numero e le modalità di designazione degli arbitri), non sanziona con la nullità della clausola il mancato adeguamento dell’autonomia privata alla prescrizione di legge né impone, al riguardo, alcuna regola inderogabile. Ne consegue, pertanto, che la decisione della controversia arbitrale può essere devoluta sia ad un organo monocratico sia ad un collegio arbitrale (è pur vero che la lettera dell’art. 34, co. 2, si riferisce al numero e alle modalità di nomina degli «arbitri», ma non sembra che una tale scelta lessicale possa fungere da argomento per escludere la validità di una devoluzione della lite alla decisione di un organo arbitrale monocratico): qualora, dunque, le parti abbiano preferito assecondare i vantaggi – tutt’altro che secondari in tema di arbitrato societario – offerti da una decisione in tempi brevi e con costi relativamente contenuti, è ragionevole pensare che prevalga l’opportunità della nomina (rectius del conferimento del potere di nomina) di un arbitro unico; qualora, invece, siano prevalse le esigenze di ponderazione e di bilanciamento degli interessi contrapposti, è verosimile – e, per ciò che qui rileva, altrettanto legittimo – che la definizione della lite sia affidata ad un collegio arbitrale composto da tre o più membri, con l’unico limite del numero dispari dei componenti ex art. 809 c.p.c. (e ciò, evidentemente, allo scopo di prevenire eventuali situazioni di paralisi in sede decisionale).
L’autonomia delle parti si rivela suscettibile di maggiore espansione con riferimento all’individuazione delle modalità di nomina del collegio arbitrale, atteso che – come si è opportunamente segnalato – l’intervento regolatore delle parti può assicurare non solo la fissazione di una procedura obbligatoria per il designatore, ma anche la determinazione di una serie di criteri selettivi per l’individuazione dell’arbitro o dei componenti del collegio arbitrale. Così, ad esempio, non è raro rinvenire nella prassi l’ipotesi di clausole compromissorie in cui la scelta dell’arbitro è soggetta ad un termine decadenziale; un termine cioè la cui decorrenza assicura l’attivazione del meccanismo suppletivo di cui è responsabile – su istanza di parte – il presidente del tribunale ovvero, quale potenziale sbarramento all’intervento in parte qua del presidente del tribunale, l’attivazione di un meccanismo di nomina affidato pattiziamente ad un designatore supplente. D’altra parte, non è meno raro riscontrare una regolazione del potere di nomina da parte del designatore nella quale i soci abbiano individuato – più o meno scrupolosamente – taluni criteri orientativi per la selezione dei componenti del collegio arbitrale. È chiaro che la legittimità o meno di una tale regolazione dipende in larga misura dal grado di specificità e di selettività dei criteri previsti, poiché se possono certamente ammettersi i richiami a particolari competenze o qualifiche professionali in capo agli arbitri designati (e finanche l’appartenenza ad un ordine o ad una categoria professionale), qualche dubbio è legittimo con riguardo ad indicazioni eccessivamente specifiche o, per contro, eccessivamente generiche. In entrambi questi casi, infatti, l’esercizio del potere di designazione da parte del terzo (e, con esso, il rispetto della previsione inderogabile di cui all’art. 34, co. 2) potrebbe rivelarsi solo apparente, in quanto predeterminata dagli stringenti parametri della clausola ovvero rimessa all’arbitrarietà del designatore, così da risultare incapace di realizzare una selezione effettivamente funzionale alla decisione della controversia devoluta in arbitrato.
La questione della reale efficacia selettiva di tali parametri si inserisce in un ambito ermeneutico di particolare importanza se si considera, poi, l’apparato sanzionatorio che la legge prescrive per la violazione della disposizione dell’art. 34, co. 2. Ed infatti, se può dirsi condivisa la sanzione della nullità della clausola compromissoria nella sua interezza (e non solo nella parte dedicata all’individuazione del designatore) ogni qualvolta si riveli priva dell’affidamento della nomina ad un terzo estraneo alla società (v. Trib. Milano, 12.3.2009, in Giur. it., 2009, 2224 ss.; Trib. Milano, 18.9.2008, in Riv. dir. soc., 2009, 322 ss.; contra, però, Trib. Milano, 22.9.2006, in Giur. it., 2007, 399 ss.), non può disconoscersi che anche l’inosservanza delle regole statutarie in tema di numero e modalità di nomina del collegio arbitrale debba condurre alla declaratoria di nullità della clausola compromissoria. In questo senso depone il dato letterale del menzionato art. 34, co. 2, nel quale assume rilevanza non solo l’espressa sanzione dell’invalidità per la mancata previsione di un designatore estraneo alla società, ma anche la qualificazione esplicita del contenuto della clausola compromissoria – in punto di conferimento del potere di nomina e, prim’ancora, di previsione del numero degli arbitri e del meccanismo di selezione – in termini di obbligatorietà della previsione. La comune conseguenza è allora quella della reviviscenza della giurisdizione ordinaria (per insussistenza di una potestà decisoria arbitrale anche di diritto comune) ovvero, ogni qualvolta sia comunque intervenuta la pronuncia di una decisione arbitrale illegittima, l’impugnabilità del lodo per la nullità derivante dal vizio della convenzione di arbitrato (art. 829, co. 1, n. 1, c.p.c.). La disciplina legislativa non sembra ammettere, pertanto, alcun meccanismo di supplenza per le carenze da cui si affetta la clausola compromissoria nella parte relativa alla nomina dell’organo arbitrale; se si esclude, infatti, che possa trovare applicazione in parte qua la regola dell’art. 1419 c.c. (con la conseguente sopravvivenza del patto compromissorio nella parte in cui esprime la volontà dei soci di continuare a devolvere la lite in arbitrato societario), neppure si pone l’esigenza di individuare un meccanismo suppletivo per addivenire – malgrado la parziale nullità della clausola – alla determinazione del collegio arbitrale.
D’altra parte, l’attivazione del meccanismo surrogatorio della nomina giudiziaria – di cui alla seconda parte dell’art. 34, co. 2 – è riservata alle sole ipotesi di inattività del designatore estraneo alla compagine sociale. Tale previsione, in deroga alla regola comune dell’art. 810, co. 2, c.p.c. (secondo cui è il presidente del tribunale in cui ha sede l’arbitrato a provvedere alla nomina in via suppletiva del collegio arbitrale), risponde ad un’esigenza di uniformazione della disciplina speciale, nella quale frequentemente il legislatore rimanda proprio alla «sede legale» (o, nel caso in cui sia differente ex art. 46, co. 2, c.c., anche alla sede effettiva) della società come referente principale per l’arbitrato (ad esempio: allo scopo di individuare l’ufficio del registro delle imprese competente per il deposito della domanda di arbitrato proposta da – o contro – la società ex art. 35, co. 1). Tuttavia, se è vero che l’assegnazione di una competenza esclusiva al presidente del tribunale nel cui circondario ha sede la società assicura una certa coerenza tra le disposizioni speciali sull’arbitrato societario, non si possono trascurare alcune incongruenze rispetto ai principi generali stabiliti dalla normativa codicistica; ed invero, se può accadere che la sede dell’arbitrato coincida con quella della società, ben può darsi che le due sedi corrispondano invece a luoghi diversi, con la conseguenza che l’assegnazione del potere di nomina al presidente del tribunale del luogo in cui ha sede la società finisce per rappresentare una prerogativa anacronistica nell’ambito dei poteri dell’organo giudiziario in parte qua. Basti pensare che la competenza per la dichiarazione di esecutività del lodo (art. 825 c.p.c.) o per la decisione dell’impugnazione per nullità (art. 828 c.p.c.) o per la revocazione o l’opposizione di terzo (art. 831 c.p.c.) avverso il lodo arbitrale si determinano con riguardo esclusivamente alla sede dell’arbitrato; ma ancora più significativa è l’incongruenza sistematica che consegue al raffronto tra la regola dell’art. 34, co. 2, e la disposizione dell’art. 811 c.p.c., atteso che, malgrado il potere (suppletivo) di nomina del tribunale della sede sociale in caso di inattività del designatore, la normativa codicistica – seppure in via residuale rispetto alle previsioni della convenzione di arbitrato – continua ad assegnare al presidente del tribunale della sede arbitrale il compito di nominare i sostituti di quei componenti del collegio arbitrale che, per qualsiasi motivo, siano venuti a mancare nel corso del procedimento.
Coerente col sistema dell’arbitrato societario, il potere di designazione del collegio arbitrale è dunque esercitato dal presidente del tribunale in via suppletiva nel caso di inattività del designatore individuato nella clausola compromissoria. Al concetto di inattività tende ad attribuirsi una valenza in termini non solo di negligenza o di omissione colpevole, ma anche di oggettiva impossibilità fisica (o giuridica) all’esercizio del potere di designazione; non sembra, invece, corretto estendere la portata di tale concetto fino a ricomprendervi l’assenza di estraneità del designatore rispetto alla società (se del caso – può ipotizzarsi – anche per il tramite di un’autodichiarazione del terzo funzionale ad una sua astensione dall’esercizio del compito affidatogli), atteso che, in tal modo, si finirebbe per comprimere lo spazio applicativo del regime sanzionatorio della clausola in caso di mancata designazione di un soggetto che sia, per l’appunto, estraneo alla struttura societaria. D’altra parte, va precisato che l’attivazione del potere sostitutivo esige una integrazione in sede interpretativa dell’art. 34, co. 2, allo scopo di assicurare che l’inattività del designatore diventi requisito legittimante della proposizione dell’istanza al tribunale; tale integrazione consegue, in particolare, all’estensione in parte qua della regola del decorso del termine di venti giorni che l’art. 810, co. 1, c.p.c. concede alla parte per la nomina del proprio arbitro prima che l’altra parte possa adire l’autorità giudiziaria per la designazione dell’arbitro non nominato.
Si è talvolta creduto di rinvenire il vizio di eccesso di delega in relazione alle previsioni degli artt. 35 e 36 d.lgs. n. 5/2003, osservandosi, in particolare, come la legge delega avesse circoscritto l’ambito di intervento del legislatore delegato alla previsione di clausole compromissorie negli statuti sociali, senza nulla disporre in ordine allo svolgimento del giudizio arbitrale e all’efficacia del lodo. Tuttavia, la previsione di una disciplina avente carattere procedimentale non sembra affatto contrastare – come si è opportunamente segnalato – con la prospettiva assunta dalla legge delega, atteso che la regolamentazione del processo arbitrale null’altro costituisce se non il necessario completamento del regime applicabile alla clausola compromissoria, la cui efficacia e rilevanza attiene non solo alla determinazione delle controversie compromettibili e dell’ambito soggettivo di applicabilità della tutela ivi previsto, ma altresì alla definizione delle modalità di svolgimento del giudizio che ne è consequenziale. Ed infatti, quello arbitrale è un giudizio direttamente influenzato dalle previsioni contenute nella convenzione di arbitrato nella misura in cui circoscrive l’ambito dei soggetti legittimati a contraddire dinanzi all’arbitro, individua la competenza ratione materiae del giudicante e ne determina poteri e responsabilità.
D’altra parte, la disciplina «inderogabile» contenuta nei primi due commi dell’art. 35 esaurisce l’area di intervento della legge speciale in tema di procedimento arbitrale – e, in particolare, di introduzione e trattazione del processo – agli aspetti attinenti alla proposizione della domanda di arbitrato e all’intervento in causa del terzo. Ne consegue che i restanti (e, invero, numerosi) aspetti del processo arbitrale societario restano regolati secondo la normativa generale codicistica, il cui richiamo implicito genera, nondimeno, taluni problemi di coordinamento con i tratti peculiari della disciplina dettata dal d.lgs. n. 5/2003. Ciò accade principalmente in relazione alla deroga – espressa nella prima parte del co. 3 dell’art. 35 – al potere generale dell’arbitro di risolvere «senza autorità di giudicato tutte le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato», ai sensi dell’art. 819, co. 1, c.p.c. Ma le difficoltà di coordinamento con la normativa codicistica si manifestano anche in rapporto alla disciplina del lodo in materia societaria, soprattutto con riguardo alla previsione – contenuta nella seconda parte del co. 3 dell’art. 35 – che ammette «sempre» l’impugnabilità del lodo per motivi di nullità (art. 829, co. 1, c.p.c.), come pure la sua assoggettabilità al giudizio di revocazione ex art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c. e a quello di opposizione di terzo (ordinaria o revocatoria) ex art. 404 c.p.c., eventualmente riunibili in un unico procedimento con il giudizio di impugnazione per nullità del (medesimo) lodo (art. 831 c.p.c.).
Ed invero, la necessità di una supplenza della lex generalis appare già evidente in relazione alla proposizione della domanda di arbitrato, atteso che il legislatore del processo societario si è qui limitato ad imporre e sinteticamente regolare l’assolvimento dell’onere pubblicitario relativo al deposito presso il registro delle imprese della domanda arbitrale che sia stata promossa dalla società o nei suoi confronti (ma non anche – sorprendentemente – nelle liti tra soci), consentendone al contempo il libero accesso a ciascun socio per la conoscenza del procedimento arbitrale pendente e dei contenuti dell’istanza di tutela (nel senso che l’ufficio del registro delle imprese competente sia quello della camera di commercio in cui ha sede la società, cfr. art. 14 d.P.R. 7.12.1995, n. 581). L’assenza di ulteriori disposizioni – e la scelta di affidare all’autonomia privata l’enucleazione delle modalità di proposizione della domanda arbitrale, di costituzione del collegio, di instaurazione del contraddittorio tra le parti – non comporta, tuttavia, una lacuna legislativa, in quanto, accanto al ruolo suppletivo-integrativo della normativa codicistica, va evidenziato come la stessa lex generalis abbia sempre privilegiato una determinazione pattizia (o, in via suppletiva, del collegio arbitrale) in ordine alla forma e al contenuto della domanda ovvero delle modalità e dei tempi della sua proposizione. La variabilità delle forme di instaurazione del giudizio arbitrale ha dato luogo, peraltro, a più di un’incertezza in ordine alla pendenza del processo e alla produzione dei conseguenti effetti sostanziali e processuali della domanda; si è così lamentata, nel vigore della disciplina codicistica non ancora riformata, l’insufficienza della mera comunicazione di nomina dell’arbitro ad opera della parte, che era (e resta) una dichiarazione priva, di per sé, di qualsiasi riferimento alle argomentazioni e al contenuto delle istanze svolte nell’atto introduttivo del giudizio. È con la riforma della l. 5.1.1994, n. 25 che, pur senza introdurre un contenuto tipico e vincolante per la domanda di arbitrato, si è ricollegata la produzione dei suoi effetti – equiparati a quelli della domanda giudiziale (v., però, Cass., 8.4.2003, n. 5457, in Giur. it., 2004, 1391 ss.; Cass., 26.3.2003, n. 4463, in Corr. giur., 2005, 57 ss.) – alla proposizione di un atto complesso in cui la parte, oltre che manifestare l’intenzione di promuovere il procedimento arbitrale ed effettuare – quando previsto – la nomina dell’arbitro, provveda appunto alla proposizione di una domanda di arbitrato che enuclei le richieste di tutela svolte dalla parte. In tal modo, il legislatore ha conservato una fondamentale libertà di forma per la proposizione della domanda arbitrale, secondo un principio che varrà, dunque, anche per l’introduzione del giudizio arbitrale endosocietario, ma ricollega la produzione di effetti fondamentali – come quelli in tema di interruzione della prescrizione (art. 2943 c.c.), di trascrizione della domanda (artt. 2652 ss. c.c.) o di efficacia della tutela cautelare (art. 669 octies c.p.c.) – alla proposizione di un atto determinato che, anzitutto, deve essere idoneo a delineare l’oggetto della controversia e ragionevolmente anche le istanze di tutela sottoposte alla delibazione dell’arbitro, oltre che a nominare il proprio arbitro invitando controparte a fare altrettanto. Nondimeno, va osservato che nell’arbitrato societario la libertà di forme per la proposizione della domanda arbitrale dev’essere coordinata con l’attribuzione del potere di designazione del collegio arbitrale ad un soggetto diverso dalle parti (ed estraneo alla società), di talché i segmenti basilari di cui viene comporsi la domanda arbitrale sono costituiti non solo dalla definizione dell’oggetto della controversia e delle conseguenti istanze di tutela, ma anche (e necessariamente) dall’istanza di nomina del collegio arbitrale rivolta al designatore individuato nella clausola compromissoria. Ne consegue che la litispendenza arbitrale e, con essa, gli effetti processuali della domanda di arbitrato (ad eccezione del decorso del termine per la pronuncia del lodo che dipende, invece, dall’accettazione della nomina da parte degli arbitri ex art. 820, co. 2, c.p.c.) possono venirsi astrattamente a determinare sia con la notificazione alla controparte della domanda (e la successiva comunicazione dell’istanza di nomina del collegio arbitrale al terzo designatore) sia con la previa comunicazione dell’istanza di designazione al soggetto incaricato (e la successiva notificazione della domanda arbitrale unitamente al provvedimento di nomina degli arbitri che sia stato medio tempore emanato). Le due alternative si equivalgono – come detto – ai fini della produzione degli effetti processuali della domanda arbitrale; eppure talune differenze possono essere segnalate ove solo si consideri che, nel caso – assai più frequente – dell’instaurazione successiva del contraddittorio inter partes, la previa comunicazione al terzo designatore dell’istanza di nomina dell’organo decidente assicura alla parte istante la possibilità di ottenere, ad esempio, un tempestivo provvedimento in ordine alla richiesta di una misura cautelare inaudita altera parte; una possibilità, quest’ultima, che seguendo il modello alternativo di proposizione della domanda arbitrale, finirebbe invece per essere totalmente precluso. A ciò si aggiunga che la previa comunicazione dell’istanza di nomina del collegio arbitrale comporta una inevitabile separazione nel momento di produzione degli effetti processuali e sostanziali della domanda di arbitrato, atteso che se gli uni conseguono alla litispendenza (e cioè alla comunicazione della richiesta di designazione), gli altri devono attendere la previa notificazione della domanda arbitrale alla controparte.
Assai più complessa e carica di dubbi ermeneutici è la tematica dell’intervento (spontaneo o coatto) del terzo nel giudizio arbitrale pendente. In proposito, va segnalato come le principali difficoltà interpretative connesse all’applicazione di tale istituto nell’arbitrato societario siano derivate, in un primo momento, dall’assenza di una disciplina comune (vale a dire: codicistica) per l’intervento del terzo nel giudizio arbitrale tout court. Ed infatti, è soltanto con l’introduzione dell’art. 816 quinquies c.p.c. ad opera del d.lgs. 2.2.2006, n. 40 che si è ammessa, seppure entro limiti specifici, la possibilità di ampliare il contraddittorio anche a soggetti estranei al rapporto processuale originario, ma parimenti vincolati alla convenzione di arbitrato. Ecco allora che l’art. 35, co. 2, nella misura in cui ha contemplato espressamente la possibilità di intervento del terzo nell’arbitrato societario, ha finito addirittura per anticipare i tempi (e, in parte, anche i contenuti) della riforma codicistica, introducendo ex novo nel sistema speciale dell’arbitrato societario una disposizione che ha posto rimedio a talune delle incongruenze conseguenti all’applicazione della previgente normativa codicistica. Quest’ultima, infatti, originariamente silente sul problema dell’intervento del terzo (e, più in generale, del coinvolgimento di una pluralità di parti nel giudizio arbitrale), è stata successivamente innovata con la previsione non solo di un meccanismo di nomina del collegio arbitrale in presenza di più contraddittori (art. 816 quater c.p.c.), ma anche – per l’appunto – di una estensione, per così dire, attenuata delle previsioni codicistiche in tema di intervento e di chiamata in causa del terzo nel giudizio ordinario (art. 816 quinquies c.p.c.). Nella prospettiva della riforma del 2006, tuttavia, l’introduzione di una regolamentazione del giudizio arbitrale litisconsortile ha inteso anche prevenire i conflitti insorgenti dal silenzio della normativa previgente sul rispetto delle garanzie di disparità e imparzialità del collegio decidente. Va osservato, infatti, che l’intervento (volontario e coatto) nell’arbitrato di diritto comune esige non solo l’accordo del terzo e delle parti, ma anche il consenso dei componenti del collegio arbitrale, di talché l’estensione del contraddittorio a soggetti (coinvolti nella controversia, ma originariamente) estranei all’iniziativa arbitrale poggia sempre su un’espressa base consensuale e assicura agli arbitri una formale investitura anche per la decisione delle istanze di tutela promosse da (o nei confronti di) soggetti terzi; al contrario, nell’arbitrato societario l’ampliamento del rapporto processuale prescinde da ogni base volontaristica – sia tra le parti e il terzo, sia in rapporto al collegio arbitrale – e finisce altresì per precludere all’organo decidente ogni margine di rinuncia all’incarico nel caso in cui l’ampliamento soggettivo della lite comporti un’estensione oggettiva del thema decidendum. E ciò non solo per l’assenza di una previsione che legittimi espressamente l’esercizio di un potere di rinuncia in parte qua (assumendo, invece, rilevanza il potere di prorogare fino a centottanta giorni il termine per il deposito del lodo ai sensi dell’art. 820, co. 2 e 4, c.p.c. espressamente richiamato dall’inciso finale dell’art. 35, co. 2), ma anche per la considerazione che uno dei tratti più caratteristici dell’arbitrato societario è offerto – come si è detto – dall’assenza di un collegamento diretto tra la posizione delle parti e la designazione dei componenti del collegio decidente. Un tale rafforzamento dell’indipendenza dell’organo arbitrale rispetto alle parti ha consentito, infatti, al legislatore di escludere che la valutazione sul coinvolgimento di un terzo nel giudizio arbitrale venga a dipendere dalla volontà delle parti originarie o del collegio arbitrale, prevenendo altresì quelle problematiche che sono sottese alla devoluzione in arbitrato di controversie con pluralità di parti; problematiche che sarebbero insorte – come effettivamente si vengono a generare nell’arbitrato comune – in assenza di un meccanismo di designazione dell’organo decidente che assegna il potere di nomina ad un soggetto estraneo alla società.
Poste queste differenze, va rilevato come la disciplina dell’art. 35, co. 2, ammetta senza eccessive limitazioni il ricorso agli strumenti dell’intervento volontario ex art. 105 c.p.c. e dell’intervento su chiamata di parte o per provvedimento del giudicante ex artt. 106 e 107 c.p.c. L’unica preclusione è costituita dalla previsione di un termine decadenziale – collocato dal legislatore nella «prima udienza di trattazione» – per l’esercizio del potere di intervento spontaneo del terzo ovvero di chiamata in causa ad opera della parte costituita o dell’organo giudicante; si tratta, a ben vedere, di una preclusione che riflette l’esigenza – comune alla disciplina dell’istituto de quo nel processo ordinario di cognizione (artt. 268-269 c.p.c.) – di coordinare la struttura del processo e, in particolare, la cristallizzazione progressiva del thema decidendum con l’ampliamento soggettivo e oggettivo del giudizio ad opera dell’atto di intervento del terzo (particolare importanza – come opportunamente segnalato – avrà dunque il deposito della domanda di arbitrato nel registro delle imprese in data anteriore al decorso del termine preclusivo). Ed infatti, se è vero che l’intervento volontario nel processo ordinario è reso possibile «sino a che non vengano precisate le conclusioni» (art. 268, co. 1, c.p.c.), non è meno vero che tale disposizione, dovendosi coordinare con la regola della soggezione del terzo alle medesime decadenze gravanti sulle parti, mira ad assicurare che le istanze dell’interventore (principale o litisconsortile) ex art. 105, co. 1, c.p.c. non violino il regime preclusivo di ogni singola fase processuale; di talché è ritenuta ammissibile l’introduzione di nuove istanze da parte del terzo fino all’udienza di (prima comparizione delle parti e) trattazione della causa (anzi: fino al termine per il deposito delle memorie di precisazione e modificazione delle istanze proposte) ex art. 183 c.p.c., e cioè fino al momento in cui si viene a comporre definitivamente il thema decidendum; residua spazio, invece, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni per l’intervento in via adesiva dipendente ai sensi dell’art. 105, co. 2, c.p.c., atteso che l’ampliamento del contraddittorio non determina in questo caso alcuna estensione del thema decidendum. Ed è alla stregua delle norme codicistiche ora richiamate che deve leggersi anche il richiamo preclusivo alla «prima udienza di trattazione» contenuto nell’art. 35, co. 2, per l’intervento volontario del terzo nell’arbitrato societario: la «prima udienza di trattazione» non va individuata cioè in un momento del procedimento arbitrale desunto per analogia dalla disciplina dell’art. 183 c.p.c. (la cui rubrica, peraltro, richiamava la «prima udienza di trattazione» soltanto nella versione antecedente alle modifiche introdotte dal d.l. 14.3.2005, n. 35 e ancora in vigore al momento della approvazione del d.lgs. n. 5/2003). Tale momento va individuato, invece, in funzione dell’attività processuale alla quale è stato ricollegato dalla legge, con la conseguenza che, essendo funzionale – anzitutto – ad un intervento volontario del terzo che sia idoneo ad ampliare l’oggetto del giudizio, la «prima udienza di trattazione» viene a coincidere con quell’udienza (rectius: con qualsiasi udienza) del procedimento arbitrale in cui venga definitivamente fissato il thema decidendum tra le parti; è un’udienza, quest’ultima, che non deve, quindi, ricalcare necessariamente le attività disciplinate nell’art. 183 c.p.c. né deve necessariamente tenersi in ogni procedimento arbitrale societario, ma deve solo rappresentare il momento nel quale la causa si rivela matura per la successiva fase istruttoria ovvero, senz’altro, per la sua decisione immediata. D’altra parte, va rammentato che l’effetto preclusivo si perfeziona soltanto con l’adempimento dell’obbligo di deposito della domanda arbitrale presso il registro delle imprese (art. 35, co. 1), atteso che la tardività dell’intervento può essere opposta dalla parte originaria dell’arbitrato solo ove si sia provveduto al deposito dell’istanza introduttiva con congruo anticipo rispetto alla «prima udienza di trattazione», residuando altrimenti un potere di intervento del terzo che deve valere anche oltre il termine preclusivo della cristallizzazione del thema decidendum.
Per contro, è l’applicazione congiunta degli artt. 166-167 e 269 c.p.c. che delinea i limiti entro cui può esplicarsi il potere del terzo chiamato in causa di ampliare il thema decidendum allegato dalle parti; ed infatti, mediante l’obbligo di fissazione di una (nuova) udienza di comparizione del terzo a cura del giudice istruttore, la disciplina codicistica assicura che il soggetto chiamato in causa possa esplicare ogni potere di allegazione (e di prova) nel rispetto delle preclusioni che caratterizzano la posizione processuale della parte convenuta (anche se restano comunque ferme, per le parti originarie, «le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione» ex art. 269, co. 5, c.p.c.). Se si tiene conto di tale differente disciplina nel contesto dell’arbitrato societario, ne consegue che la preclusione della «prima udienza di trattazione» di cui all’art. 35, co. 2, viene ad essere identificata in maniera assai meno rigorosa rispetto all’ipotesi dell’intervento coatto dinanzi al giudice statale; ed infatti, nel processo ordinario l’intervento su chiamata di parte o iussu iudicis non crea una tensione tra l’iniziativa del terzo (e il conseguente ampliamento del thema decidendum) e il meccanismo preclusivo all’introduzione di nuove istanze, e ciò in quanto la regola dell’art. 269 c.p.c. pone il terzo – come detto – nella possibilità di sollevare tutte le istanze che avrebbe potuto sollevare come originario convenuto; al contrario, nell’arbitrato societario l’unico referente temporale dell’intervento coatto continua a essere quello della «prima udienza di trattazione» intesa come momento di fissazione definitiva del thema decidendum. Ne consegue, pertanto, che spetta all’organo arbitrale assegnare alle parti un termine per la chiamata in causa del terzo che contemperi questa esigenza, assicurando così che il contraddittorio sia ampliato nei confronti del terzo prima del passaggio alla fase istruttoria del procedimento; ne consegue altresì che l’eventuale inosservanza del termine per la chiamata in causa del terzo su ordine dell’organo decidente, se non può comportare l’effetto della estinzione del processo ex artt. 270, co. 2, e 307, co. 1, c.p.c. per l’assenza di poteri coercitivi in capo agli arbitri, incide sulla limitazione dell’efficacia soggettiva del lodo alle parti originarie. Tuttavia, come può desumersi dalla regola dell’art. 816 quater, co. 3, c.p.c., l’inosservanza dell’ordine di integrazione del contraddittorio comporta senz’altro l’improcedibilità (e, quindi, l’estinzione) del processo arbitrale quando la chiamata in causa sia stata ordinata nei confronti di un litisconsorte necessario pretermesso vincolato dalla clausola compromissoria statutaria. Ed infatti, ciò che assume rilevanza preminente rispetto al momento di cristallizzazione del thema decidendum e, quindi, al soddisfacimento di un’esigenza di economia processuale è, in questo caso, la conservazione di efficacia del lodo nei confronti di tutte le parti del rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che – alla stregua dell’art. 816 quinquies, co. 2, c.p.c. e del richiamo ivi contenuto all’art. 102 c.p.c. – la «prima udienza di trattazione» non può costituire uno sbarramento preclusivo per l’intervento de quo.
D’altra parte, la chiamata in causa del terzo, se può applicarsi nei confronti degli «altri soci» (rectius: di quei terzi che sono in possesso della qualifica di socio), può estendersi ad ogni soggetto estraneo al giudizio ma vincolato all’arbitrato per effetto della legge (come, ad esempio, coloro la cui qualità di socio è oggetto di controversia ex art. 34, co. 3) o della previsione contenuta nella clausola compromissoria statutaria (come, ad esempio, gli amministratori, i liquidatori e i sindaci della società ex art. 34, co. 4) o, ancora, per effetto dell’assoggettamento alla decisione arbitrale (come accade con riferimento alla posizione processuale della società ex art. 35, co. 4: sulla necessità che la società abbia partecipato al giudizio v. infra). Assai più ampia, invece, è la formulazione adottata dal legislatore del 2003 per determinare l’ambito di applicazione dell’intervento volontario del terzo nell’arbitrato societario: ed infatti, la possibilità di intervenire nel procedimento arbitrale spetta non più (soltanto) agli «altri soci» (rectius: a tutti coloro – anche non soci – che siano vincolati all’arbitrato), ma a quanti siano senz’altro «terzi» rispetto non solo al procedimento arbitrale, ma anche alla stessa clausola compromissoria, a condizione però che – in quest’ultimo caso – si tratti di interventori ad adiuvandum ovvero sussista l’accordo delle parti e il consenso del collegio arbitrale in applicazione della regola generale dell’art. 816 quinquies c.p.c. (v. Arb. unico, 29.7.2008, in Banca borsa, 2009, II, 493 ss.). È quanto sembra imporre il precetto costituzionale dell’art. 24 Cost. colto nella prospettiva della rinunciabilità alla garanzia della giurisdizione statale esclusivamente su base volontaristica; ed invero, una conclusione opposta a quella sopra delineata – id est: nel senso della estensione della competenza arbitrale anche alle questioni sollevate da soggetti estranei alla clausola compromissoria – finirebbe per obbligare le parti a litigare (e il collegio arbitrale a decidere) in ordine ad effetti giuridici che, pur essendo connessi oggettivamente al thema decidendum del giudizio arbitrale (ex artt. 105 ss. c.p.c.), non sono stati oggetto del patto compromissorio e, dunque, della volontà delle parti di sottrarli alla decisione giurisdizionale ordinaria.
Né può influire su tale conclusione la disposizione dell’art. 35, co. 3, nella parte in cui esclude l’applicazione dell’art. 819, co. 1, c.p.c. all’arbitrato societario. Ed invero, allorché veniva richiamata dal legislatore del 2003, tale disposizione imponeva al collegio decidente la sospensione del procedimento arbitrale rituale ogni qualvolta insorgesse una questione (rilevante per la decisione della controversia, ma) non suscettibile ex lege di essere devoluta alla competenza arbitrale, così da escluderne la cognizione in via incidentale da parte dell’organo arbitrale e affidarne la decisione alla competenza esclusiva del giudice ordinario. La disposizione è poi stata sensibilmente modificata con la riforma del 2006 (d.lgs. n. 40/2006), la quale ha trasformato il previgente divieto di decidere incidentalmente le questioni non compromettibili nell’attuale obbligo di risolverle seppure «senza autorità di giudicato» e salvo che sia stato diversamente disposto dalla legge. La portata precettiva della disposizione in esame va letta, pertanto, alla stregua di un’abolizione – per gli arbitri nominati ex art. 34 d.lgs. n. 5/2003 – del divieto di risolvere incidenter tantum le questioni non compromettibili che risultino però pregiudiziali rispetto al thema decidendum dedotto in giudizio dalle parti; e ciò, d’altra parte, costituisce un’espressa applicazione dei principi dettati dalla delega legislativa all’art. 12, co. 3, l. 3.10.2001, n. 366, allorché si era prefigurata l’idea che l’arbitrato societario, potendo essere disciplinato anche in deroga alle previsioni degli artt. 806 e 808 c.p.c., potesse trattare anche le questioni relative a diritti non compromettibili (in quanto non disponibili e non transigibili), sottraendole così alla sfera di competenza della giurisdizione statale. È pur vero, però, che la disposizione dell’art. 819, co. 1, c.p.c. ha subito – come ricordato – un radicale cambiamento per effetto della riforma dell’arbitrato di diritto comune: ed infatti, l’inversione di tendenza inaugurata dal d.lgs. n. 40/2006 è stata nel senso di consentire (ed, anzi, imporre) al collegio arbitrale quella stessa attività cognitoria incidentale sulle questioni non compromesse (e non compromettibili) che, in precedenza, era invece espressamente preclusa. In proposito, pare tuttavia condivisibile l’impostazione ermeneutica che esige un’interpretazione adeguatrice dell’art. 35, co. 3, in parte qua, osservando in particolare che il mutamento della previsione codicistica (id est: il passaggio dal divieto all’obbligo di cognitio incidenter tantum delle questioni pregiudiziali non compromettibili) non deve tradursi in un’indebita modificazione della portata precettiva della norma speciale. È un’impostazione teleologica dell’interprete a suggerire, pertanto, che il valore precettivo dell’art. 35, co. 3, era (e continua ad essere) nel senso di consentire – seppure attraverso il meccanismo legislativo del richiamo in deroga ad altra disposizione – la cognizione incidentale delle questioni non compromettibili ad opera degli arbitri, di talché la modifica dell’art. 819, co. 1, c.p.c. va letta alla stregua di un adeguamento ex post della normativa generale alla regola speciale in tema di arbitrato societario. La specialità di tale procedimento è però ulteriormente rafforzata dal fatto che la deroga disposta dall’art. 35, co. 3, se non può tradursi in un divieto per gli arbitri di conoscere incidentalmente le questioni pregiudiziali non compromettibili, può risolversi tuttavia nel riconoscimento al collegio arbitrale che sia stato nominato in forza di una clausola compromissoria statutaria del potere di conoscere incidenter tantum tali questioni anche quando, per legge, dovrebbero essere decise con efficacia di giudicato e senza obbligo di sospensione del procedimento arbitrale. Il rischio insito in un’errata interpretazione dell’art. 35, co. 3, non è, infatti, soltanto quello di modificarne la portata precettiva trasformando un potere degli arbitri in un obbligo di astensione, ma anche quello di negare ogni autonomia operativa alla disposizione speciale; ed infatti, è vero che l’originario impianto derogatorio della lex specialis ha finito per allinearsi al contenuto della disciplina codicistica, ma è altrettanto vero che la normativa sull’arbitrato societario – rimasta immutata a seguito della riforma dell’arbitrato di diritto comune – conserva ancora un carattere derogatorio rispetto alle disposizioni codicistiche. E tale carattere derogatorio non può che emergere con riferimento, anzitutto, all’inapplicabilità nell’arbitrato societario della regola della preclusione di una cognitio incidenter tantum delle questioni pregiudiziali non compromettibili che dovrebbero essere decise in via definitiva per espressa previsione di legge (art. 819, co. 1, c.p.c.). Parimenti, il carattere derogatorio della normativa speciale dovrebbe emergere anche con riguardo alla previsione dell’art. 819 bis, co. 1, n. 2, c.p.c., con la conseguenza che nell’arbitrato societario la cognizione incidentale delle questioni pregiudiziali non dovrebbe mai comportare un obbligo di sospensione del procedimento arbitrale.
Un adeguato bilanciamento di tali previsioni derogatorie è previsto, però, nell’art. 36, co. 1, d.lgs. n. 5/2003. Ogni qualvolta, infatti, il collegio arbitrale debba conoscere incidentalmente talune questioni pregiudiziali non compromettibili ovvero debba conoscere, in via principale, la validità di delibere assembleari attinenti (anche) a materie non disponibili, si rende obbligatoria una decisione secondo diritto ancorché la clausola compromissoria preveda un arbitrato di equità; analogamente, il carattere non compromettibile della materia del contendere (rectius: di taluni aspetti della stessa) amplia eccezionalmente le possibilità di controllo della decisione arbitrale, consentendo l’impugnazione del lodo per violazione di legge anche quando il patto compromissorio contenga limitazioni all’esercizio del potere impugnatorio ad opera della parte soccombente. Tali previsioni, ispirate dalla connotazione marcatamente pubblicistica delle questioni non compromettibili (proprio in quanto non disponibili e non transigibili dalle parti), rispondono, dunque, all’esigenza di assicurare una sorta di riequilibrio del sistema speciale dell’arbitrato societario rispetto alle caratteristiche – e, in particolare, alle garanzie processuali – dell’arbitrato di diritto comune. La deroga al principio della devolvibilità in arbitrato delle sole materie disponibili, se soddisfa un’esigenza di celerità e coerenza delle decisioni (altrimenti frazionate tra giustizia arbitrale e giurisdizione statale), viene compensata attraverso il recupero di maggiori garanzie in tema di esercizio del potere decisorio e di controllo della decisione arbitrale. Da un lato, infatti, l’attività decisionale è ora sempre subordinata al rispetto dei criteri della legge sostanziale (e non a quelli più elastici ed incerti dell’equità); dall’altro lato, il controllo della decisionale arbitrale è ora sempre affidato anche al raffronto del decisum con la legge sostanziale. Invero, dopo la riforma del 2006, il richiamo all’art. 829, co. 2, c.p.c. contenuto nell’art. 36, co. 1, consente l’impugnabilità del lodo per violazione di legge solo se viene interpretato come un rimando alla previsione dell’art. 829, co. 3, c.p.c., ove è consentita – per l’appunto – l’impugnazione del lodo «per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia». Anche il richiamo a tale ultima disposizione esige, tuttavia, una precisazione in ragione del fatto che l’impugnabilità del lodo in materia societaria alla stregua dell’art. 829, co. 3, c.p.c. risulta ammissibile non solo «se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile» (art. 36, co. 1) ma anche se la clausola nulla dispone al riguardo; e ciò in quanto la nuova disposizione dell’art. 829, co. 3, c.p.c. ammette la censurabilità del lodo in punto di violazione di legge solo «se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». Di qui, allora, la necessità di precisare che la violazione di legge, essendo sempre censurabile nei confronti del lodo che decida questioni non compromettibili, può essere dedotta in sede impugnatoria non solo quando la clausola compromissoria preveda il contrario (id est: nell’ipotesi presa in considerazione dall’art. 36, co. 1), ma anche quando la clausola compromissoria risulti silente sul punto (id est: nell’ipotesi esclusa dall’art. 829, co. 3, c.p.c.). A quest’ultimo riguardo, va ricordato, infatti, che la versione previgente della disposizione codicistica (rectius: il previgente art. 829, co. 2, c.p.c.) era costruita nel senso di escludere l’impugnabilità del lodo nei casi in cui le parti avessero espressamente autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.
Il bilanciamento operato dall’art. 36, co. 1, sembra, tuttavia, produrre un effetto assai più marcato di quello che si produce nell’arbitrato di diritto comune, come appare evidente ove solo si consideri che – alla stregua dell’art. 829, co. 4, n. 2, c.p.c. – la possibilità di impugnare, per violazione di legge, il lodo avente ad oggetto una «questione pregiudiziale su materia che non può essere oggetto di convenzione di arbitrato» è limitata a quella parte della decisione arbitrale concernente, appunto, la sola questione non compromettibile. Per contro, in base all’art. 36, co. 1, sembrerebbe che il regime di impugnabilità del lodo per violazione di legge – e, prim’ancora, l’obbligo di decisione della lite secondo diritto – possa trovare applicazione con riguardo non solo alla decisione delle questioni non compromettibili, ma anche – più in generale – a quelle parti del lodo che non siano investite dalla soluzione di tali questioni. Sul piano dell’efficacia soggettiva, invece, l’art. 35, co. 4, prevede che il lodo sia vincolante anche per la società ogni qualvolta abbia partecipato al processo in veste di parte originaria ovvero di terzo intervenuto o chiamato in causa. È indubbio, infatti, che la disposizione non possa essere interpretata alla stregua di un’estensione dell’efficacia vincolante del lodo anche alla società nei casi in cui quest’ultima sia rimasta estranea al giudizio arbitrale (un analogo discorso vale, naturalmente, anche nei confronti del socio che non abbia partecipato al procedimento arbitrale). E ciò perché, altrimenti, si finirebbe per ledere il diritto (costituzionale) di difesa della società, la quale potrebbe essere assoggettata al vincolo del giudicato senza neppure essere stata posta nelle condizioni (non solo di essere convenuta, ma anche solo) di intervenire in giudizio allorché la lite sia insorta tra i componenti della compagine sociale. Ed infatti, il presupposto fondamentale per assicurare alla società la possibilità di intervenire nel giudizio arbitrale (e, così, assoggettarsi all’efficacia vincolante del giudicato sulla decisione arbitrale) sarebbe rappresentato dal deposito della domanda introduttiva del processo non solo – come prescritto dall’art. 35, co. 1 – nel caso in cui la controversia sia proposta dalla società o nei suoi confronti, ma anche (e soprattutto) nel caso in cui la lite sia originariamente estranea alla sfera giuridica della società. Tuttavia, poiché è inammissibile che, in assenza di una modificazione dell’art. 35, co. 1 (o di una sua declaratoria di incostituzionalità), il lodo arbitrale possa produrre l’efficacia vincolante del giudicato nei confronti di chi non sia stato posto nelle condizioni di esercitare processualmente i diritti oggetto del decisum, deve riconoscersi che la previsione in esame possa valere nei confronti della società che non abbia preso parte al processo arbitrale soltanto alla stregua dell’efficacia vincolante propria di ogni provvedimento proveniente da un’autorità legittimamente investita del potere decisorio (un’efficacia, quest’ultima, alla quale pare concorrere anche l’obbligo della pubblicazione nel registro delle imprese del dispositivo del lodo che decida sulla validità della delibera assembleare impugnata e dell’eventuale ordinanza di sospensione cautelare della stessa ex art. 35, co. 5-bis, d.lgs. n. 5/2003). Ciò posto, è però evidente che, a parte la sostanziale inutilità dell’art. 35, co. 1, in parte qua, nulla potrebbe impedire alla società di intraprendere tutte le iniziative che si rivelino funzionali a sovvertire la decisione del collegio arbitrale come, ad esempio, l’avvio di un’azione volta ad ottenere l’accertamento negativo della situazione giuridica acclarata nel lodo.
Artt. 806 ss. c.p.c.; art. 12, l. 3.10.2001, n. 366; artt. 34-37 d.lgs. 17.1.2003, n. 5; art. 3 d.lgs. 27.6.2003, n. 168; artt. 5-6 d.lgs. 8.10.2007, n. 179.
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