Arbitrato
L'a. è un metodo di soluzione delle controversie alternativo rispetto all'esercizio della giurisdizione statuale, la decisione della lite (lodo arbitrale) promanando da un terzo privato. Questi tuttavia, come il giudice, giudica in veste imparziale, all'esito di un procedimento in contraddittorio fra le parti, accertando fatti e applicando a essi norme giuridiche (anche di equità, se così concordano i litiganti). Alla soluzione arbitrale le parti si determinano mediante apposita pattuizione contrattuale (accordo compromissorio), precedente (clausola compromissoria) o successiva (compromesso) all'insorgere della controversia. Tramite tale pattuizione le parti nominano gli arbitri o stabiliscono la modalità della loro scelta, e possono altresì definire - se del caso con rinvio a un 'regolamento arbitrale' predisposto da organismi con funzioni di amministrazione della procedura arbitrale (si parla allora di arbitrato amministrato) - altri aspetti dello svolgimento dell'arbitrato.
Nell'ordinamento italiano l'a. detto rituale è disciplinato organicamente dagli artt. 806 e segg. c.p.c., sui quali il legislatore è intervenuto a più riprese: dapprima, nel 1983, con una mini-novella tesa essenzialmente a favorire la circolazione dei lodi arbitrali italiani all'estero, ma fonte di incertezze riguardo all'efficacia e al regime di impugnazione dei lodi; successivamente, nel 1994, con una riforma chiarificatrice e più ampia; infine, con l'altrettanto ampia riforma contenuta nel d. legisl. del 2 febbr. 2006, nr. 40 (in attuazione della l. di delega del 14 maggio 2005, nr. 80), che ha risolto altri nodi divenuti problematici nella giurisprudenza e ammodernato la disciplina. Normative particolari sono contenute nell'art. 32 l. 109/1994, e successive modifiche e regole attuative, per l'a. in materia di opere pubbliche, nel d. legisl. 5/2003 per l'a. relativo a controversie societarie, negli artt. 412 ter e quater c.p.c. per l'a. relativo a controversie di lavoro, e in altre leggi speciali.
Peculiare del sistema italiano e causa di non poche confusioni è la figura - di creazione giurisprudenziale ma oggi consacrata dal nuovo art. 808 ter c.p.c. - dell'arbitrato irrituale o libero. La sua diversità rispetto all'a. rituale, consiste, più che nella secondaria esenzione da qualche formalità, nell'efficacia puramente contrattuale della decisione, non destinata alla trasformazione in titolo esecutivo mediante omologazione. Concettualmente più netta è la distinzione fra a. e arbitraggio, volto quest'ultimo non a risolvere una controversia, bensì a integrare un contratto, a opera di un terzo. La cultura giuridica italiana, forse come nessun'altra, è perdurantemente affaccendata nel dibattito circa la natura giurisdizionale o negoziale dell'a., dibattito pervaso di improduttivo accademismo. Scontato che gli arbitri traggono la loro investitura da un contratto privato e non appartengono in alcun senso alla giurisdizione quale potere dello Stato, dire se essi svolgano o meno attività giurisdizionale è questione nominalistica come lo è accettare o meno una nozione di giurisdizione privata. Altrettanto certo è comunque che gli arbitri giudicano, e che il lodo arbitrale (in Italia il lodo 'rituale') ha nella sostanza, e salvi aspetti marginali, efficacia equivalente a quella della sentenza del giudice, perché così lascia intendere o vuole espressamente (v. ora anche l'art. 824 bis del nostro c.p.c.) la normativa che lo regola. Nell'esperienza pratica tutto ciò viene recepito senza troppi disorientamenti, prendendosi atto che, sebbene istituzionalmente diversi, arbitro e giudice vanno assimilati sotto alcuni profili per l'analogia delle funzioni che svolgono (per fare un esempio, la nostra Corte costituzionale, ammette gli arbitri, al pari dei giudici, alla rimessione della questione incidentale di costituzionalità delle leggi).
Ben più rilevante nella evoluzione dei sistemi normativi è la giustapposizione fra l'autonomia privata e il controllo degli apparati statuali sull'a., o se si vuole l'alternativa fra liberalismo e statalismo riguardo all'a. (simbolica, e sovente rammentata in proposito dai nostri giuristi, è la diversa collocazione della relativa disciplina: proemiale nel codice di procedura liberale del 1865, appendicolare nel codice 'autoritario' del 1942). La tendenza attuale, soprattutto negli ordinamenti e nelle culture giuridiche dei paesi occidentali, vede sempre maggiori spazi assegnati all'autonomia privata. Una prima evidenza di ciò è nel progressivo regresso (nel nostro Paese attraverso la sanzione della incostituzionalità) delle forme di arbitrato obbligatorio, di a. cioè che è imposto dalla legge, piuttosto che liberamente scelto dalle parti, per la soluzione di determinati tipi di controversie. Altra evidenza è nell'ampliamento dell'area delle controversie arbitrabili.
Quanto alla concreta disciplina dell'a., è poi sintomatico che nell'ampia maggioranza degli ordinamenti vigenti il procedimento arbitrale in senso stretto non sia regolato in dettaglio dalla legge, la quale si limita a imporre genericamente il fondamentale rispetto del contraddittorio, e sia invece affidato in linea di massima alla determinazione concorde delle parti, o in loro vece (e come più spesso accade) degli stessi arbitri; con possibilità, dunque, di adeguare le modalità del rito alle concrete caratteristiche delle singole controversie. Disposizioni legislative cogenti sono semmai dedicate ad aspetti del tutto peculiari, per esigenze di garanzia delle parti e di funzionalità del giudizio. Le regole normative predeterminate si intensificano invece in relazione alla fase di nomina degli arbitri e di costituzione dell'organo arbitrale, e ai profili connessi (controllo della imparzialità e indipendenza dell'arbitro, suoi diritti e obblighi, sua responsabilità verso le parti). Il che è però perfettamente comprensibile e nient'affatto indice di uno sbilanciamento in senso statalista. Da un lato può trattarsi di regolare i rapporti fra le parti e gli arbitri, ovvero di tutelare una parte nei confronti degli intenti sabotatori dell'altra (si pensi ai meccanismi suppletivi di nomina di un arbitro ove la parte cui è commessa la scelta non si attivi impedendo così l'avvio dell'a., o alla ricusazione dell'arbitro sospetto di parzialità).
D'altro lato proprio la costituzione di un organo giudicante privato (e perciò non precostituito come potere giurisdizionale) è momento di particolarissima delicatezza. In altre parole: un buon a. si può fare in tanti modi, purchè lo facciano buoni arbitri. Sicché, di regola, i legislatori nazionali si preoccupano più della costituzione dell'organo arbitrale che non del procedimento arbitrale in senso stretto.
Vi sono poi aree in cui le legislazioni nazionali non sono in grado, a motivo del coinvolgimento di terzi estranei all'accordo arbitrale, di lasciare significativo spazio all'autonomia privata e per essa ai poteri degli arbitri. Così costoro, a differenza del giudice, non possono costringere testimoni a deporre, terzi a esibire documenti o assoggettarsi a ispezioni, o a partecipare al giudizio. L'assenza di poteri coercitivi in capo agli arbitri è tradizionalmente invocata anche per giustificare il divieto a essi imposto di emanare misure provvisorie e cautelari (v. ancor oggi l'art. 818 del nostro c.p.c., limitatamente derogato, quanto alla sospensione delle delibere societarie, dall'art. 35 co. 5° del d. legisl. 5/2003). In realtà non si tratta di una spiegazione razionale (visto che quelle misure si rivolgono alle stesse parti che hanno voluto l'a. e che sono destinate ad assoggettarsi alla decisione finale degli arbitri), e il divieto - che si fonda su ragioni ideologiche più o meno tralatizie nonché su difficoltà pratiche più o meno effettive derivanti dalla soluzione diversa - è superato da non pochi moderni legislatori (v. per es. il paragrafo 1041 della Zivilprozessordnung tedesca, oppure l'art. 183 della legge svizzera sul diritto internazionale privato). Nelle aree predette, e dove cioé gli arbitri non possono per legge operare, interviene il giudice in corso di a. (v. per es. gli artt. 669 quinquies e 816 ter del nostro c.p.c.). Si discorre in proposito di ausilio giudiziario all'arbitrato.
I momenti più significativi e diffusi del controllo del giudice statuale sull'a. sono rappresentati dalla omologazione (exequatur) e dalle impugnazioni. L'omologazione è tuttavia un controllo puramente formale, necessario solo alla trasformazione del lodo arbitrale in titolo idoneo alla esecuzione forzata e ad altri effetti secondari (non così in passato nel nostro sistema, ove, secondo ispirazione iperstatalistica, la omologazione era indispensabile all'attribuzione tout court di efficacia giuridica alla decisione degli arbitri). Attraverso le impugnazioni, il giudice statuale esercita invece un vero e proprio controllo diretto e intrinseco sulla correttezza della decisione arbitrale. Ma ancor qui l'atteggiamento più diffuso nei moderni ordinamenti è imperniato, per un verso, sulla riduzione del controllo a profili di pura legittimità piuttosto che di merito (quasi tutti escludono che il giudice possa sindacare il giudizio di fatto degli arbitri; numerosi - e da ultimo anche il nostro - escludono di regola la sindacabilità del giudizio di diritto degli arbitri, salvo il riscontro della violazione di norme inderogabili di ordine pubblico); per altro verso, sulla concessione di non indifferenti margini all'autonomia privata: le parti, con l'accordo compromissorio, possono restringere (v. per es. l'art. 1482 del codice di procedura civile francese, o l'art. 829 co. 3° del nostro c.p.c.) o addirittura escludere del tutto (v. l'art. 192 della legge svizzera sul diritto internazionale privato) il sindacato impugnatorio del lodo.
Se l'a. quale alternativa al giudizio ordinario è strumento utile sul versante del commercio interno, esso è sovente strumento de facto indispensabile sul versante del commercio internazionale e delle relative controversie. Quando le parti in lite appartengono a Paesi diversi l'arbitro è davvero il giudice naturale, per intuitive ragioni di neutralità rispetto all'una o all'altra giurisdizione statuale. Pressoché irrealistica appare l'idea che l'a. internazionale possa essere regolato soltanto dall'autonomia privata e totalmente svincolato da qualsivoglia disciplina normativa nazionale, alcuni legislatori (anche il nostro con la riforma del 1994) hanno comunque ritenuto di disciplinare in modo apposito e parzialmente diverso, rispetto all'a. puramente domestico, quello connotato da caratteristiche di internazionalità, riservando per esso ancor maggiori spazi alla libera determinazione delle parti e vieppiù attenuando il controllo del giudice statuale. A questa stessa logica rispondono la Convenzione europea di Ginevra del 22 aprile 1961, nonché la legge-modello dell'UNCITRAL, United Nations Commission on International Trade Law (dalla quale alcuni legislatori nazionali hanno tratto diretta o indiretta ispirazione).
Altri ordinamenti si sono fino adesso dimostrati insensibili al problema. Altri ancora (per es. quello olandese, quello tedesco e ora quello italiano dopo l'ultima riforma) adottano una disciplina pressoché indifferenziata, nella quale i connotati di maggiore elasticità dell'a. internazionale sono estesi all'a. puramente domestico.
Di rilevante importanza nella esperienza del commercio internazionale è poi la circolazione dei lodi arbitrali e perciò il loro riconoscimento, anche a fini esecutivi, in Paesi diversi da quello (normalmente il Paese della sede dell'a.) di provenienza. La Convenzione di New York del 10 giugno 1958, recepita alle più svariate latitudini, rende uniforme e facilita tale circolazione.
bibliografia
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