Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo gli eccessi del manierismo e del barocco, l’Arcadia dà voce alla volontà diffusa di un profondo rinnovamento culturale e insieme morale, attraverso il recupero del “buon gusto” e degli ideali classici. Al di là degli effettivi risultati, spesso mediocri sul piano poetico, vanno comunque riconosciuti all’accademia il respiro nazionale del suo orizzonte e il tentativo, solo in parte riuscito, di costruire una “repubblica letteraria”, in grado di unire intellettuali diversi sotto norme e linguaggi comuni.
Gli esordi: fondazione e intenti programmatici
La fondazione dell’Arcadia risale al 5 ottobre 1690, quando un gruppo di 14 intellettuali legati al circolo di Cristina di Svezia, stabilitasi a Roma dopo la rinuncia al trono e morta nel 1689, si costituisce in accademia per proseguire l’esperienza dell’Accademia reale, voluta nel 1674 dalla stessa sovrana. Tra i fondatori, di diversa provenienza geografica ed estrazione culturale, si ricordano Gian Vincenzo Gravina, Giovan Mario Crescimbeni, Vincenzo Leonio e Giambattista Felice Zappi. L’Arcadia nasce con un preciso intento programmatico: opporsi all’irrazionalismo e al “cattivo gusto” della poesia barocca, attraverso il recupero della lirica cinquecentesca e petrarchesca, della poesia classicheggiante del Seicento – rappresentata da Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi – e, più in generale, della naturalezza e compostezza dei classici. Il nome stesso dell’accademia rivela tale aspirazione: secondo l’aneddoto, infatti, uno dei soci, avendo udito recitare dei componimenti pastorali durante un’adunanza, avrebbe esclamato: “egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovata l’Arcadia”. Ma il nome piace in generale per la sua aderenza al programma e alle aspirazioni dell’accademia. Infatti, come l’Arcadia nella tradizione letteraria era la mitica regione greca conservatasi nell’integrità dei costumi primitivi e nell’innocenza della vita pastorale, così la nuova accademia intende trasportare sul piano letterario quel mondo di sentimenti candidi e genuini, in opposizione alla fastosità clamorosa e sonante del Seicento.
L’intera produzione approvata dell’Arcadia è edita in 13 volumi, intitolati Rime degli Arcadi, stampati tra il 1713 e il 1780.
Struttura, diffusione e ruolo dell’Arcadia nella cultura italiana
Giovan Mario Crescimbeni
Storia dell’Accademia degli Arcadi istituita in Roma l’anno 1690
Quanto l’Italia fiorisse, e fosse piena d’uomini insigni nelle scienze nel secolo decimosettimo a ognuno è palese, che a quelle attenda; ma egualmente palese è a’ professori delle lettere amene quanto la condizione di queste fosse deteriorata, massimamente circa l’eloquenza, e la poesia volgare. E sebbene l’antica purità loro, e il loro decoro venivano gagliardamente sostenuti dalle nostre Accademie della Crusca, e Fiorentina, e da varj letterati specialmente Napoletani, Bolognesi, e Romani; nondimeno le più delle nuove scuole nello stesso secolo aperte tanto prevalevano dappertutto, che per poco non venivano derisi que’ saggi vendicatori del buon gusto Toscano, non che fossero da alcuno seguitati. Per liberare adunque l’Italia da sì fatta barbarie, pensarono alcuni professori dimoranti in Roma d’instituire un’Accademia a preciso effetto di esterminare il cattivo gusto; e procurare che più non avesse a risorgere, perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse, o nascondesse, e in fino nelle castella e nelle ville più ignote e impensate; e questi furono il Cavalier Paolo Coardi Torinese, poi camerier d’onore di N. S. Giuseppe Paolucci da Spello, poi canonico di S. Angelo in Pescheria, Vincenzio Leonio da Spoleti, Silvio Stampiglia Romano, Gio. Maria Crescimbeni, poi canonico di S. Maria in Cosmedin, e ora arciprete della stessa Basilica, Gio. Vincenzio Gravina Napolitano, poi lettor di legge nell’Archiginnasio Romano, l’Avvocato Gio. Batista Zappi Imolese, poi assessore del tribunale dell’agricoltura, e fiscale di quello delle strade, l’Abate Carlo Tommaso Maillard di Tournon Nizzardo, poi cardinale di Santa Chiesa, Pompeo Figari Genovese, Paolo Antonio del Nero Genovese, il Cavalier Melchiorre Maggio Fiorentino, poi referendario d’ambe le segnature, Jacopo Vicinelli Romano, e Paolo Antonio Vit. Orvietano, e Agostino Maria Taia Sanese, poi canonico di S. Angelo in Pescheria.
G. M. Crescimbeni, Storia dell’Accademia degli Arcadi istituita in Roma l’anno 1690, Londra, T. Becket Pall-Mall, 1804
L’Arcadia si dota fin da subito di un complesso sistema di norme e riti. Le leggi sono dettate in latino da Gravina e approvate il 20 maggio 1696; ciascun componente adotta un nome da pastore, grecizzato e bucolico; a capo viene eletto un Custode generale, che guida i lavori con l’ausilio di dodici pastori; Cristina di Svezia è nominata “Basilessa” e Gesù Bambino “Gran Pastore dei Pastori”, vale a dire protettore; come insegna viene scelta la siringa (zufolo) di Pan, inghirlandata di lauro e di pino; il luogo delle riunioni, situato ai piedi del Gianicolo, è battezzato Bosco Parrasio, in onore del monte Parnaso sacro alle Muse.
La diffusione dell’accademia è pressoché immediata e si estende a gran parte del territorio italiano. Il suo centro resta a Roma, mentre a livello periferico si costituisce un sistema di numerose affiliazioni, denominate classicamente “colonie” e dipendenti per via gerarchica dalla sede romana. Anche per questo l’Arcadia è la prima accademia italiana a carattere nazionale, o quantomeno sovraregionale e, pur nella varietà dei suoi prodotti poetici, dà un forte indirizzo al gusto letterario del primo Settecento. Il recupero della tradizione classica, similmente a quanto già avvenuto con la rinascita umanistica, va però inquadrato nel più vasto progetto di costruzione di una vera e propria “repubblica delle lettere”, estesa a tutti gli intellettuali del tempo, al di là delle differenze particolari. In un’Italia ancora politicamente frammentata, in cui la letteratura è l’unico mezzo di comunicazione e condivisione fra intellettuali lontani per origine, estrazione e formazione, l’Arcadia rappresenta una tappa fondamentale nel lungo e discontinuo processo di unificazione culturale della nazione, non solo sul piano strettamente poetico, ma anche nell’ambito degli studi eruditi, con la nascita dei giornali letterari e i numerosi e importanti carteggi.
Influssi culturali e dibattiti interni
Il programma dell’accademia, come già accennato, è ben definito e pressoché unanimemente condiviso. Tutti i soci dell’accademia, chiamati “arcadi”, sono concordi nel netto rifiuto del manierismo barocco, che aveva dominato la poesia italiana per quasi un secolo, caratterizzato da toni ampollosi, immagini gonfie e retoriche, stravaganze fini a se stesse, metafore ardite e inconsuete. In questo atteggiamento di fondo è riscontrabile l’influenza esercitata dalle grandi riforme culturali dell’Europa dei Lumi, in primis del razionalismo cartesiano – già recepito, peraltro, nel coevo ambiente toscano da Lorenzo Bellini, Lorenzo Magalotti e Francesco Redi – e del nascente classicismo, entrambi pervasi da istanze di chiarezza, naturalezza, semplicità e ricerca del vero. La polemica degli arcadi nei confronti del barocco non si limita, peraltro, al piano squisitamente letterario, ma riguarda anche quello più propriamente etico-morale, già messo in crisi dalle intemperanze e dagli eccessi del Seicento; quando essi si propongono di riconquistare l’antica misura dell’espressione poetica, tendono al contempo a riaffermare il valore e il senso di un codice morale che ritengono dimenticato, anche se – va detto – non sempre procedono oltre un’adesione di superficie.
Tuttavia, al di là delle comuni premesse, ben presto si profilano all’interno dell’accademia due diverse linee: quella classicheggiante di Gravina, come detto, il “legislatore”, e quella cinquecentista del primo Custode d’Arcadia, Crescimbeni. Il primo filone, rispondente a un orientamento più filosofico, concepisce l’Arcadia come il centro propulsore di una radicale riforma della cultura, basata su un rinnovato impegno civile e sull’imitazione fedele dei classici, con un’attenzione particolare rivolta ai Greci e a Dante; il secondo orientamento, meno ambizioso, auspica invece un rinnovamento contenuto, senza nette cesure colla tradizione, riconoscendo il primato di Francesco Petrarca e dei petrarchisti, nonché della poesia anacreontica di Testi e Chiabrera. Dopo aspre contese, sfociate in uno scisma che porta, nel 1711, alla formazione dell’Accademia dei Quirini, nella quale confluisce il gruppo graviniano, prevale infine il programma di Crescimbeni, meglio rispondente al momento storico e culturale e più consono a riflettere i gusti della prima società settecentesca, poco incline al forte impegno concettuale e al rigore morale e religioso e disposta, al contrario, a un lieve e temperato edonismo.
Modelli, forme e primi tentativi di riforma
I poeti d’Arcadia si indirizzano sostanzialmente alla ripresa della poesia pastorale e anacreontica, rielaborandola in svariate forme metriche, dall’idillio all’egloga, dal sonetto all’epigramma, dal madrigale alla canzonetta. Oltre a Petrarca, che rappresenta per gli arcadi il primo e imprescindibile modello di classicismo per lingua e stile, essi riscoprono i poeti greci Pindaro, Anacreonte e Teocrito, fondatore della lirica bucolica; tra i latini, Orazio, sommo poeta elegiaco, e Virgilio, che nelle sue Egloghe riprende e rielabora il mitico topos dell’età dell’oro; tra i moderni, oltre ai già menzionati Testi e Chiabrera, hanno fortuna presso gli arcadi Jacopo Sannazzaro e Giovanni Battista Guarini. Il punto d’avvio della nuova lirica italiana è segnato dalla prima raccolta poetica di Carlo Maria Maggi del 1688, che ottiene il consenso, tra gli altri, dell’entusiasta Ludovico Antonio Muratori e del più tiepido Scipione Maffei. Sulla scia di Maggi, diversi letterati avvertono il bisogno di rinnegare la propria produzione giovanile, ancora legata agli stilemi del barocco; tra questi, il lodigiano Francesco de Lemene, il pavese Alessandro Guidi, il bresciano Bartolomeo Dotti, il veneziano Apostolo Zeno.
I poeti della prima Arcadia: da Zappi a Manfredi
Giovan Battista Felice Zappi
In quell’età ch’io misurar solea
In quell’età ch’io misurar solea
me col mio capro, e ‘l capro era maggiore,
io amava Clori, che insin da quell’ore
maraviglia e non donna a me parea.
Un dì le dissi: Io t’amo, e ‘l disse ‘l core
poiché tanto la lingua non sapea.
Ed ella un bacio diemmi, e mi dicea:
Pargoletto, ah non sai che cosa è amore.
Ella d’altri s’accese, altri di lei;
io poi giunsi all’età ch’uom s’innamora,
l’età degl’infelici affanni miei.
Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora.
Non si ricorda del mio amor costei;
io mi ricordo di quel bacio ancora.
in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959
Faustina Maratti Zappi
Donna che tanto al mio bel Sol piacesti
Donna che tanto al mio bel Sol piacesti,
Che ancor de’ pregi tuoi parla sovente,
Lodando ora il bel crine ora il ridente
Tuo labbro, ed era i saggi detti onesti:
Dimmi, quando le voci a lui volgesti
Tacque egli mai qual uom che nulla sente?
O le turbate luci alteramente
(Come a me volge) a te volger vedesti?
De’ tuoi bei lumi alle due chiare faci
Io so, ch’egli arse un tempo, e so che allora...
Ma tu declini al suol gli occhi vivaci.
Veggo il rossor che le tue guance infiora.
Parla, rispondi... Ah non risponder: taci,
Taci se mi vuoi dir ch’ei t’ama ancora.
in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciadi, 1959
Nel sistema delle colonie, l’Arcadia romana si configura come fulcro dell’accademia nei suoi primi quarant’anni di vita, grazie anche all’appoggio di ricchi e potenti mecenati, tra i quali i cardinali Ottoboni. In questo contesto, uno dei maggiori rappresentanti del sonettismo anacreontico e patetico è Giambattista Felice Zappi, cofondatore dell’Arcadia, le cui liriche mettono in scena la commedia quotidiana dell’amore, dipinta in situazioni sentimentali piuttosto comuni e ripetitive, tuttavia risolte in forme cantabili e ricche di grazia. Il lessico è semplicissimo, pieno di vezzi e leziosaggini, ma inserito in una più generale orchestrazione retorica, tutta giocata su antitesi e analogie.
Allo stesso ambiente è legata Faustina Maratti Zappi, moglie di Giambattista Felice e a lui poeticamente vicina per temi e soluzioni stilistiche; il suo sonettismo contempera toni dimessi ed elegiaci con repentine ed energiche accensioni, ricorrendo spesso all’allocuzione e al dialogato.
Anche Petronilla Paolini Massimi è iscritta all’Arcadia romana; stilisticamente influenzata da Petrarca e dal Guidi “arcadico” – si noti la generale predilezione per la forma della canzone –, tende invece a conseguire una lirica e appassionata drammaticità, spesso ispirata da una costante inquietudine, o da tristi eventi autobiografici (l’omicidio del padre, la morte del figlio, la separazione dal marito).
Fra i primi arcadi va ricordato anche Eustachio Manfredi, scienziato bolognese, esponente di punta della locale colonia Renia (dal nome del fiume), convinto e rigoroso sostenitore del ritorno al petrarchismo, nelle forme come nei contenuti, fedele ai modelli più puri della prima lirica italiana, come si evince dai diffusi echi danteschi e stilnovistici.
La seconda generazione: Rolli, Frugoni e Crudeli
Paolo Rolli
Solitario bosco ombroso
Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in questo orror.
Ogni oggetto ch’altrui piace
Per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
son io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante è forse qui?
Ahi! La cerco in ogni loco;
eppur so ch’ella partì.
Quante volte, o fronde grate,
la vostr’ombra ne coprì!
Corso d’ore sì beate
quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò:
Ah! Che l’eco mi risponde
E mi par che dica no.
Sento un dolce mormorio;
un sospir forse sarà
un sospir dell’idol mio,
che mi dice tornerà.
Ah! ch’è il suon del rio, che frange
fra quei sassi il fresco umor
e non mormora ma piange
per pietà del mio dolor
Ma se torna, vano e tardo
Il ritorno, oh Dei! sarà;
ché pietoso il dolce sguardo
sul mio cener piangerà.
in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959
Carlo Innocenzo Frugoni
Poeta e re
Vi fu un pazzo, non so quando,
che somiglia un poco a me,
che, sul trono esser sognando,
comandava come un re.
Nell’inganno suo felici
conducea contento i dì;
ma per opra degli amici
medicato egli guarì.
Guarì, è ver; ma sé veggendo
pover uom qual pria tornato,
disse lor quasi piangendo:
“Voi mi avete assassinato.
Col tornar della ragione
da me lungi se ne va
un error, ch’era cagione
della mia felicità”.
in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959
Paolo Rolli inizia la sua carriera poetica a Roma, sotto la protezione di Gravina, di cui è ancora evidente nelle prime rime l’impostazione didascalica e moralistica. Successivamente, anche in seguito al trasferimento a Londra, la sua poetica si evolve in direzione di un misurato classicismo e di un più convinto rococò, riscontrabile nella predilezione per la rappresentazione di scene di vita sociale. La sua poesia è specchio di una società raffinata e gaudente, ancora aristocratica, solo in parte temperata da una dose di razionalità e buon gusto.
Più complessa è la figura del genovese Carlo Innocenzo Frugoni, verseggiatore assai prolifico quanto mediocre e superficiale, sebbene stimatissimo e popolare presso i contemporanei. Attivo a Parma nell’epoca del suo massimo splendore, egli scrisse una quantità smisurata di carmi, canzonette, sonetti, versi sciolti, epistole ecc., raccolti nella monumentale edizione bodoniana (postuma) del 1779. Erede della linea classicistica, avviata da Chiabrera e passata per Guidi e la riforma operata dall’Arcadia, Frugoni rappresenta un inedito compromesso tra temi secenteschi e rielaborazione settecentesca: se può ancora definirsi barocco per la scelta dei soggetti, non lo è più per la maniera di trattarli, in quanto l’immagine emblematica fissa, cara ai manieristi, si trasforma in un quadro in movimento.
Diverso è il caso di Tommaso Crudeli, legato alla loggia massonica fiorentina e per questo scomunicato e condannato al confino. Oltre ad essere ricordato per le sue abilità di improvvisatore, che gli consentono di dare vita a numerose e apprezzate performance estemporanee, traduce in italiano le Favole di La Fontaine, componendo uno dei maggiori esempi di polimetria.
Altri orientamenti: il melodramma, la critica e la linea petrarchista
Domenico Lazzarini
Al sepolcro del Petrarca
Lirici del Settecento
Ecco dopo due lustri, o cigno eletto,
dove il tuo frale in un bel sasso è accolto,
torno, ma bianco il crin, rugoso il volto,
e de l’antico amor purgato e netto.
Ma se della mia fiamma il freddo petto
più non s’accende e a pensier tristi è volto,
non però del tuo stil leggiadro e colto
meno mi maraviglio e mi diletto.
Ché quel foco onde ardesti, alma gentile,
tanto a quest’anni miei par dolce e bello,
quanto più la ragion de’ sensi è schiva.
Oh fosse stato il mio sempre simìle!
ché dove or temo, in compagnia di quello
andrei lieto e sicuro a l’altra riva.
in AA. VV., Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959
Pietro Metastasio, poeta che meglio rappresenta “lo stato di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura” (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana), estende la riforma arcadica al genere teatrale. Autore soprattutto di melodrammi, prosegue la riforma del teatro avviata dallo Zeno, ridando piena dignità alla parola poetica, ormai sommersa dall’invadenza della musica, e ridimensionando l’effetto del meraviglioso.
Anche il bolognese Pier Jacopo Martello si colloca nella cosiddetta “riforma del teatro”, ambito nel quale porta avanti con maggior convinzione il rinnovamento del linguaggio poetico. Critico intelligente ed equilibrato, sul piano lirico è autore di un Canzoniere in memoria del figlio scomparso, in cui tuttavia sono ancora evidenti gli echi del marinismo.
Domenico Lazzarini, marchigiano di nascita ma padovano di adozione, è uno dei massimi esponenti della linea petrarchesca nata in seno all’Arcadia e particolarmente forte in area veneta, dove il rinnovato culto del poeta si esprime nella celebrazione delle memorie legate al sepolcro di Arquà. I sonetti di Lazzarini, estremamente limati ed eleganti, sono perfettamente aderenti agli stilemi petrarcheschi, tanto nella forma quanto nei contenuti.
Lo stesso vale per Biagio Schiavo (1675-1760), anch’egli padovano, che esprime però posizioni critiche verso l’Arcadia e la sua poetica, a suo parere troppo didascalica.
Gli ultimi arcadi
Giovanni Gherardo De Rossi
La rosa
Che a te, fresca e vermiglia,
questa rosa somiglia
in candore e in beltà,
ogni garzon dirà.
Io poi, Nice vezzosa,
dirò che questa rosa
ti somiglia in ferir senza pietà.
in Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959
Nella seconda metà del Settecento l’Arcadia comincia a declinare, anche a causa del totale scollamento tra letteratura e realtà politico-sociale. La poesia d’occasione e di maniera, impegnata a celebrare i vari momenti della vita aristocratica, non è in grado di cogliere la rapida evoluzione della società, che minaccia l’esistenza stessa della nobiltà e dei suoi privilegi, e non riesce a far proprie le istanze di rinnovamento avanzate dalla nascente cultura dei Lumi, accolte invece dal neoclassicismo e, poi, dal preromanticismo.
Il bolognese Ludovico Vittorio Savioli Fontana, appartenente alla linea classicista-rococò, predilige il gusto della miniatura, della scenetta realistico-mondana, filtrata talora attraverso l’ironia e il ricorso a immagini mitologiche. I suoi Amori , 12 componimenti in settenari, ottengono una considerevole fortuna, immediata presso lettrici e lettori, postuma per il riconoscimento da parte di insigni critici (fra cui Carducci).
Giovanni Gherardo De Rossi, romano, si dedica principalmente agli studi eruditi (articoli e saggi di critica letteraria e artistica), ma scrive anche poesia, ricorrendo soprattutto alle forme dell’ode anacreontica e del madrigale con funzione epigrammatica.
Le stesse forme vengono, infine, riprese dal veneto Jacopo Andrea Vittorelli, autore di odi anacreontiche di vasta fortuna, in buona misura anticipatrici del gusto romantico.