arcaismi
. Definiamo arcaiche le forme o le parole fiorentine, presenti nelle opere dantesche, che al tempo di D. non erano più usate o almeno stavano cadendo in disuso. Non si prendono cioè in esame forme o termini che potrebbero essere considerati a. solo in senso molto lato, come i sicilianismi, che venivano a D. evidentemente attraverso la tradizione lirica siciliana e che erano da lui sentiti essenzialmente come elementi appunto lirico-letterari.
Nei documenti più antichi in volgare fiorentino appaiono (nella II singol.) forme in -e, sia al presente indicativo dei verbi della prima coniugazione, sia al presente congiuntivo dei verbi delle altre coniugazioni. Ma verso la fine del secolo XIII e il principio del XIV, si tende a Firenze all'unificazione in -i di tutte le desinenze di seconda persona (si ricordi che le forme in -e erano proprie soltanto di Firenze e di Pistoia). In D. sono frequenti sia le forme in -e del presente indicativo della prima coniugazione (gride, If I 94, V 21; allette, II 122; ti fide, V 19; pense, V 111, Pg XXXI 10; tocche, If VII 68; note, XI 101: per queste, come per le altre forme citate oltre, vedi in Appendice la trattazione sulle strutture grammaticali del volgare di D.), sia del presente congiuntivo delle altre coniugazioni (pinghe, If XVIII 127; rade, XXXIII 127; richegge, Pg I 93; intende, XVII 125; diche, If XXV 6). E anche se non vi sono prove sufficienti che il tipo in -e non fosse proprio anche della generazione di D. (Castellani), va tenuto conto che tale forma (che nei primi del Trecento era in piena dissoluzione) nel corpo del verso " Si mantiene più raramente di fronte all'innovazione -i " (Petrocchi). E lo stesso si può affermare per la -e della prima singolare dell'imperfetto congiuntivo.
Al tempo di D. erano ormai largamente usate sia le forme -iamo della seconda plurale del presente indicativo dei verbi della II coniugazione, sia le forme in -é, -ì della terza singolare dei perfetti, che stavano soppiantando rispettivamente le desinenze -emo ed -eo, -io: nella lingua di D. le forme in -emo sono abbastanza frequenti sia in rima (serro, If XVII 34, Pg XVII 83, XXVI 89; solemo, Pg XXII 123; volemo, Pd XX 138, vedemo 134), sia nel corpo del verso (serro, If IV 41, Pd III 82, VIII 32; vivemo, If IV 42); e così i perfetti in -eo, -io, sia in rima (feo, Pg XVI 106, XX 134; poteo, XX 138; appario, II 22; fallio, XXXI 52), sia nel corpo del verso (assentio, If XVIII 45; gio, XXVIII 111).
Dagli spogli del Castellani risulta che " la sincope nei futuri e condizionali della 2a classe s'è probabilmente sviluppata verso la metà del sec. XIII ed ha preso definitivamente piede, pur senza diventare esclusiva, negli ultimi decenni del secolo stesso ": in D. sono presenti le serie senza sincope averai, vederai, accanto a quelle sincopate avrai, vedrai (Petrocchi).
Non si può del tutto escludere che D., tutto sommato, sentisse le opposizioni di cui si è parlato come soltanto alternanze (e perciò ancor più difficile sarebbe un'indagine di questo tipo sul lessico); d'altra parte conosciamo la sua estrema sensibilità per il trascorrere e il trasformarsi delle lingue: nam si alia nostra opera perscrutemur, multo magis discrepare videmur a vetustissimis concivibus nostris quam a coetaneis perlonginquis. Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur, VE I IX 7.
Appare perciò probabile che D., disposto per esigenze di metro, di rima, di armonia, ad assumere forme della tradizione letteraria precedente anche non fiorentina, abbia ricorso a forme fiorentine che sentiva come arcaiche o come almeno invecchiate. Così concludeva il Parodi a proposito delle desinenze in -e di cui si è parlato: " Pare adunque che Dante, piuttosto che l'uso dei lirici, abbia seguito qui pure l'uso toscano di poco più che una generazione innanzi alla sua, attingendo in quel moderato arcaismo nobilità e solennità di linguaggio ".