CORELLI, Arcangelo
Quintogenito di Arcangelo e Santa Raffini, nacque a Fusignano presso Lugo, allora nella diocesi di Ferrara, il 17 febbr. 1653, cinque settima ne dopo la morte del padre. I documenti della collezione Piancastelli (Biblioteca comunale di Forlì) seguono le radici della famiglia in Romagna fino al secolo XV, quando un Corelli sarebbe venuto da Roma. È attestata da un atto del 1506 la prima dimora a Fusignano della famiglia, il cui rango ha parte nella leggenda cresciuta intorno alla vita del C., fin dalle temerarie genealogie encomiastiche, spazianti da Noè a Coriolano, ai veneti Correr.
Appartennero i Corelli al patriziato agrario romagnolo e l'estensione dei loro possessi nell'antico agro centuriato intorno a Fusignano risulta, dalle mappe, cospicua. Ma invano lottarono per ottenere status feudale con l'investitura di Fusignano che, fin dai tempi estensi, appartenne ai Calcagnini, cui i Corelli contestarono la supremazia con una riottosa opposizione, che il trascorrere dei secoli non sopì, se nel 1632 un Rodolfo Corelli fu decapitato e squartato dal boia pontificio dopo un tentativo di ribellione e omicidio contro Mario Calcagnini. Sulla casa, distrutta dalle fondamenta, fu sparso il sale e il "guasto dei Corelli" rimase deserta rovina fino al 1753, quando un marchese e abate Giulio Corelli (i fratelli del C. furono creati marchesi da un principe tedesco dopo la morte del compositore) vi fece edificare una chiesa, che fu detta del Suffragio.
La pietà religiosa s'intreccia, in questa stirpe, ad ostinazione indomita e turbolento orgoglio, anche se nell'indole del C. questi caratteri restano velati sotto un riserbo malinconico, che gli valse fama di mitezza e mansuetudine. La falsificazione intorno al C. non comprende soltanto viaggi ed episodi biografici, ma invade la sfera della personalità, menomata da un'agiografica semplificazione. Il sorgere d'una leggenda corelliana era, d'altra parte, inevitabile, considerando che alla straordinaria fama, rimasta intatta in alcuni paesi a lungo dopo la sua morte, fa riscontro un rilievo biografico insolitamente spoglio di quegli avvenimenti vistosi che riempiono le vite degli artisti nella Roma del Seicento. Quasi totale è la mancanza di testimonianze dirette, e di lettere, scomparse con le "carte" (verosimilmente, gli autografi, gl'inediti e i documenti personali) lasciate in legato, insieme con i violini, a Matteo Fornari; così come scomparvero i quadri della cospicua collezione, rimasti ai fratelli, suoi eredi universali.
L'immagine che abbiamo del C. è ancora quella tracciata nel XVIII secolo, quando lo Hawkins e il Burney scrissero le lorostorie, già intinte nella leggenda che tentava di riempire i vuoti, che apparivano indegni di una carriera tanto illustre: così i viaggi in Francia e in Germania, di cui non si è trovata conferma, e gli abbellimenti romanzeschi e sentimentali che continuarono a crescere ancora nel nostro secolo.
Alla leggenda appartengono le prime immagini tradizionali, il giovane C. che sente nascere la vocazione ascoltando suonare il violino da un prete del paese, le lezioni dal curato di San Savino, le improvvisazioni estive, tra villici rapiti, sotto un albero nella campagna. Il solo prete di cui si abbia qualche certezza è quello che a Faenza gl'impartì "i primi rudimenti del suono", secondo notizie che il Crescimbeni, fondatore e storico dell'Arcadia, dovette attingere dal C. in persona. Supponiamo che Santa Raffini, allevando, dopo i fratelli Ippolito, Domenico, Giovanna e Giacinto, questo ultimogenito che portava il nome del marito, secondasse con piacere l'inclinazione che si manifestava per la prima volta nella famiglia, senza darle troppo peso. L'idea, di una professione musicale fu, sulle prime, esclusa: "Continuò lo stesso studio in Lugo e poscia in Bologna, a tutt'altro fine però che di professare tale arte. Ma in apprendendo il suono del violino, vi prese tal genio, che badò solo a questo e trattennesi nella medesima città di Bologna quattro anni..." (G. M. Crescimbeni, Notizie storiche..., I, pp. 250 ss.).
La pratica dello strumento doveva affiancarsi agli studi di un giovane gentiluomo per prepararsi all'impiego adatto al suo rango. Questo programma fu poi abbandonato per la musica, ma spiega certi caratteri che riemergeranno, nella carriera del C., in episodi a lungo considerati sconcertanti. Egli non si definirà, come Albinoni, "dilettante", e preferirà mettere in ombra la nascita patrizia, come ostacolo alla fama professionale. Ma le stigmate dell'originaria intenzione rimasero. Un'altra notizia sulla formazione bolognese, da ritenere sicura perché padre Martini, nostro primo storico della musica, la trasse da una tradizione ai suoi tempi ancor fresca (del 1748 èil codice manoscritto dell'Accademia filarmonica di Bologna, Mss. 1, 3, 61, riconosciuto per autografo martiniano dal Vatielli e pubblicato da M. Rinaldi, A. C., Milano 1953, p. 428), dice di lui: "Più che mediocremente istruito nella musica, per certo dono celeste, divino e mirabile, imparò con grandissima curiosità i principi del suono del violino in Bologna, sotto la direzione di Giovanni Benvenuti bolognese pure nostro Accademico. Si aggregò l'anno 1670". Il Vatielli ne dedusse che a Faenza e Lugo il C. avesse appreso non già il violino, ma soltanto nozioni di teoria. Lo stesso stima il Pincherle (1933), senz'altro fondamento che la supposizione del Hawkins, che vi studiasse l'organo e il cembalo. Ma qualunque istruzione ricevesse a Faenza e Lugo, fu a Bologna, dove giunse tredicenne nel 1666, che il C. apprese l'arte del violino: non tuttavia, da maestri compositori cresciuti allo studio dell'antico contrappunto vocale, come Legrenzi, Bassani e Colonna, la cui scuola aveva per centro la cappella musicale di S. Petronio e i massimi esponenti in Maurizio Cazzati, comparso a Bologna nel 1657, e in G. Battista Vivali, suo allievo.
Primo maestro del C. fu Giovanni Benvenuti, le cui composizioni rimasero nell'ambito del virtuosismo strumentale, in cui eccelleva il maestro suo proprio, quel misterioso Ercole Gaibara che fu detto fondatore della scuola violinistica bolognese. Dello stesso Gaibara era allievo anche l'altro maestro che padre Martini assegna al C., in una curiosa frase che chiude il periodo bolognese e riferisce il trasferimento a Roma: "Si levò da Bologna, dopo di avere con astuzia e di nascosto inteso la maniera di suonare di Leonardo Brugnoli, detto il Veneziano". In altra sua nota, il Martini ricorda che Brugnoli "sonava di capriccio a maraviglia", ossia era famoso per l'improvvisazione. Se ne desume che il diciassettenne C. cercasse di carpire al maestro taluni dei suoi effetti più geniali, ascoltandolo mentre studiava.
Partiva dunque alla volta di Roma un compositore impiantato nel virtuosismo strumentale, ma non nel contrappunto classico. Lo stesso C. riconobbe questo limite originario della sua formazione quando, rispondendo al faentino conte Fabrizio Laderchi, che da Firenze gli chiedeva una sonata per violino e liuto, giudicò la sua precedente produzione così: "Le mie Sinfonie sono fatte solamente per far campeggiare il violino e quelle d'altri Professori non mi paiono cosa a proposito. Sto adesso componendo certe Sonate che si faranno nella prima Accademia di Sua Maestà di Svezia della quale sono entrato in servizio per Musico da Camera, e finite che le avrò, ne comporrò una per Vossignoria... dove il Leuto pareggierà il Violino". La preziosa autocritica è conosciuta da pochi anni soltanto (fu pubblicata da A. Savioli nell'Osservatore romano il 9 ag. 1968, p. 3) e testimonia che, ancora nel 1679, il C.considera non colmata la sua lacuna di musicista pratico, per quanto geniale, e tuttavia non vede d'intorno maestri migliori. Lacuna e giudizio, che i compositori rimasti a Bologna dovettero conoscere e che bene spiega il rancore esploso nel 1685col famoso "incidente delle quinte" consecutive che la perdita d'ogni documentazione intermedia non ci consente di comprendere nella sua accumulazione.
In questa luce, e dopo che nuove ricerche hanno anticipato la data di nascita di Giovanni Battista Bassani, facendolo assai più anziano del C., può ripigliare quota una notizia che, apparsa nel 1693 in una poesia dedicata a Henry Purcell, e rimbalzata nei libri del Hawkins e del Burney, appariva romanzesca: che il C. ripartisse da Roma per studiare col Bassani medesimo. La notizia si amplificò in una leggenda amorosa, che si ricorda perché è la sola di questa specie in una vita dove l'assenza della donna è totale, che vuole il C. innamorato della figlia d'un certo "Bassini". Lo Schering osservò che certi tratti veneti nel C., rivelanti l'influenza dei Cavalli, Cesti e Legrenzi, potrebbero risalire ad uno studio col Bassani (A. Schering, Geschichte des Instrumentalkonzerts, Leipzig 1927, p. 167).
Col trasferimento a Roma, oltre all'impiego e alla fama, il C. cerca di correggere le lacune teoriche della sua formazione, ma insieme si distacca anche dalla scuola bolognese di composizione, zeppa di teoria, ma povera di genialità e di stile ("nul pays ne fit tant de musique, ne parut l'aimer davantage et n'en crea moins que Bologne", osservò Romain Rolland, in Histoire de l'Opéra en Europe avant Lully et Scarlatti, Paris 1895, p. 115), che, per di più, appariva solcata da gelosie e polemiche. Rimase famoso il litigio sulla sciatteria della scrittura bolognese, esploso tra Giulio Cesare Arresti, quinto aggregato dell'Accademia filarmonica e il Cazzati che, sebbene maestro di S. Petronio, non vi fu chiamato. L'esclusione ingenera dubbi sull'equanimità di questa accademia, che padre Martini vide cresciuta ed arricchita del suo prestigio (finirà, però, col dimettersene), ma che ai tempi della fondazione (1666), più che specchio dei valori musicali della città, appare un feudo personale del fondatore, il conte Vincenzo Maria Carrati. La correzione colloca entro prospettive più ridotte la nomina del C. ad accademico in età di diciassette anni, che il Fabbri ha supposto premiasse la composizione di dodici sonate, da lui attribuite al C. e battezzate, dalla biblioteca in cui si trova il manoscritto, "di Assisi" (M. Fabbri, [1963], p. 41).
Al periodo bolognese si possono riferire con qualche certezza solo una sonata con tromba, due violini e basso continuo, e una sonata per violino e basso, contenuta, con altre sei, in una raccolta a stampa databile ai primi anni del 1680. Per quanto abile fosse divenuto il giovane virtuoso, la nomina ad accademico in un'età che verrà abbassata solo da Wolfgang Amadeus Mozart, non si giustifica se non supponendo che la nascita patrizia dell'aggregato avesse il suo peso sul conte Carrati e i suoi amici.
A Bologna, il C. renderà omaggio nei titoli delle prime tre opere a stampa, chiamandosi "da Fusignano, detto il Bolognese", dopo di che anche questa denominazione sparirà. Da Bologna verranno critiche, come quella di Giacomo Antonio Perti a sue "trascuratezze" di scrittura, e poi la rumorosa diatriba del 1685, suscitata da G. P. Colonna, successore del Cazzati a S. Petronio. In ogni caso, non fu a Bologna che il C. ricorse per purificarsi dei difetti dottrinari, ma a Roma dove, "per appagare le sue brame e corrispondere alle premurose istanze che li venivano fatte da molti suoi cari e vari amici... si portò" e, "postosi sotto la direzione del famoso maestro Pietro Simoncelli, da esso apprese con molta facilità i precetti del Contrappunto, mediante il quale riuscì un ottimo e ben fondato compositore" (Martini, ms. cit.). Padre Martini nomina (e l'errore fu seguito a lungo) Pietro Simoncelli in luogo di Matteo Simonelli, che un autore coevo definì, nel 1711, "gran contrappuntista, osservante delle buone regole e armonioso, onde con tutta ragione si può chiamare il Palestrina de' nostri tempi" (A. Adami, p. 209). Allievo di Gregorio Allegri e Orazio Benevoli, il Simonelli contribuì, insegnando al C. lo "stilus praenestinus", di cui era allora in atto una delle periodiche resurrezioni, a far sorgere nel suo spirito quel cosciente sentimento classico che per primo ha riconosciuto il Paumgartner nella sua "voce" per Die Musik in Gesch. und Gegenwart: il sentimento che incita il C. allo strenuo sforzo di stilizzazione da cui escono per sempre codificate le forme della sonata a tre, della sonata per violino e basso e del concerto grosso: forme che, nate dapprima come maniere e pratiche esecutive, aspettavano ormai chi desse loro un assetto definitivo.
Per dire quando sorgesse questa cosciente volontà classica, bisognerebbe squarciare le tenebre che avvolgono sei anni della sua vita, da quando le sue tracce si perdono a Bologna nel 1670, per ricomparire con certezza a Roma, nel 1675. Padre Martini scrive che "partito da Bologna... e rimessosi in Fusignano sua patria, poco vi dimorò". Bisogna rinunciare a sapere dove trascorse questi anni: il viaggio in Francia sembra al Pincherle inventato per colmare una lacuna, e altrettanto privi di sostegno documentario sono i viaggi in Germania, che si pretende abbia fatto nel 1677, nell'estate 1679 e nel 1680, con visite a Monaco, Heidelberg, Ansbach, Düsseldorf e Hannover, di cui parlarono il Hawkins, e poi J. G. Walther nel Musicalisches Lexicon (Leipzig 1732, p. 184). Fonte a tutti costoro un'affermazione di Caspar Printz (W. C. Printz,III, p. 2271, di avere incontrato il C. a Monaco nel 1680, in "Chur-Bayerischen Diensten" e di averne esaminato composizioni, colà stampate: probabilmente, lo scambiava con Giuseppe Torelli. L'affermazione ha lo stesso fondamento di un'altra, riferita dal medesimo Walther su una "statua", visibile, nientemeno, nella basilica di S. Pietro, con la scritta "Corelli, Princeps Musicorum".
La sua presenza a Roma è provata con documenti sicuri dal 1675. Il 31 marzo, "domenica di Passione", è nominato tra i violini del concerto grosso nell'esecuzione di una serie di oratori a S. Giovanni dei Fiorentini, tra cui il S. Giovanni Battista, di A. Stradella. Il 25 agosto, il nome "Arcangelo" compare come terzo dei quattro violinisti nella lista dei pagamenti (uno scudo e mezzo per tre prestazioni) a S. Luigi dei Francesi, per l'annuale festa del patrono, celebrata alla presenza del corpo diplomatico e della nobiltà, la cui pompa si accrebbe nella seconda metà del secolo. Da quest'anno le liste dei pagamenti rimaste forniscono una traccia consistente, se non costante, della presenza del C. a Roma. Il 1676 è secondo violino, essendo primo Carlo Mannelli, figlio di Francesco, la cui Andromeda aveva inaugurato nel 1638 il teatro veneziano di S. Cassiano. Nella, stessa posizione lo ritroviamo nel 1678.
Il 6 gennaio, come primo violino, dirige l'orchestra nell'opera Dov'è amore è pietà, di Bernardo Pasquini, con cui s'inaugura il teatro Capranica. È l'anno che consideriamo decisivo per la rivelazione del C. al mondo artistico romano, che ha ora il suo centro in palazzo Riario, dimora della regina Cristina di Svezia. Mentre a S. Luigi dei Francesi prosegue l'ascesa verso il primo posto, il C. apre, grazie alla fiducia del Pasquini, più anziano di sedici anni, quell'attività di direttore d'orchestra che diverrà non meno importante della pratica violinistica. La citata lettera al Laderchi, del 13 maggio 1679, ci informa che, entrato al servizio della regina, per lei compone "certe Sonate", totalmente diverse dalla precedente produzione, rivolta al virtuosismo violinistico. Il passo testimonia la cosciente trasformazione del linguaggio verso l'equilibrio della forma. Il successivo 6 giugno (questa lettera è invece conosciuta da lungo tempo) manda al Laderchi la sonata richiesta, "composta da me a Viol.o e Leuto à posta per V. S. Ill.ma: non l'hà persona di questo mondo fuori che V. S. Ill.ma, et io che conservo l'originale". È forse quella della raccolta bolognese, e la prima opera conosciuta del Corelli.
Il servizio presso Cristina di Svezia, che ora sappiamo cominciato nel 1679, dopo la rappresentazione dell'opera del Pasquini, spiega l'assenza da S. Luigi, senza ricorrere ai viaggi in Germania che Alfred Einstein, dopo lunghe ricerche nelle contabilità delle corti tedesche, definì invenzioni (A. Einstein, pp. 336-424). Il 1680 vide il completamento e poi l'esecuzione delle dodici sonate, che compaiono a Roma nel 1681 per i tipi del Muzio, col titolo di Opera prima: Sonate à tre, doi Violini, e Violone, o Arcileuto, col Basso per l'Organo Consecrate alla Sacra Real Maestà di Cristina Alessandra Regina di Svezia. Nella dedica, datata 30 apr. 1681, il C. vanta la potenza della regina come "scudo impenetrabile che difende dalle punture dei Momi, e dalle critiche degli Aristarchi", e dopo averla pregata di "gradire e proteggere insieme queste primitie" dei suoi "studij", annuncia il proposito di "proseguire altre fatiche già abbozzate; e di far conoscere al mondo, ché forse non à torto ambisco al glorioso carattere di servitore di V. M.".
Dietro l'iperbole barocca, la dedica riassume motivi concreti: l'accenno alle "punture" e "critiche" conferma non solo che le musiche del C. erano ben conosciute prima della stampa, ma anche che il suo sforzo di sistemazione della forma non passava inosservato, né senza contrasti. Specialmente da quanti trovavano insopportabile che un compositore privo di origini dotte pretendesse all'esemplarità, che ora il C. si riprometteva, e che traspare dall'ambizione raccomandata alle altre fatiche "già abbozzate", anche se il suo oggetto viene poi deviato dietro l'encomio a sua maestà. Il procedimento di sottoporre al parere dei più sapienti musicisti opere di continuo corrette e ricorrette, è inconsueto in un artista, di solito geloso delle sue novità e sorprese: pare più adatto al lavoro di uno scienziato teso in ricerche sperimentali e, ben oltre i dubbi dell'insicurezza, prova che la volontà esemplificatrice era un programma già chiaro nel compositore ventottenne. Tale volontà paradigmatica, ben riconosciuta dal Finscher, colloca tutta l'attività del C. in una luce diversa da quella in cui si è finora considerata.
Non è il genio tardivo, che si è detto, ma un artefice conscio di essersi caricato di un peso immenso. Che non si accontenta di scrivere nuove opere, ma da ognuna pretende un passo avanti verso la perfezione delle forme. L'uomo che nel 1681 ha nuovi lavori abbozzati, e non li pubblica fino al 1685, sa per quali ragioni ha limitato il suo campo. Non v'è il disdegno, come s'è detto, dell'opera teatrale, o il timore di un solitario misogino per quel mondo pieno di accidenti e cantatrici; ma il risparmio di forze di un compositore che intende lavorare tutto il campo della musica per archi, dalla tecnica violinistica alla disciplina orchestrale, alla composizione, entro il raggiunto equilibrio delle forme in cui questa si svolge. Il lento scaglionamento di sei libri su uno spazio di trent'anni, e l'astensione dalla musica vocale, "singulière en un temps où il était d'usage d'aborder tous les genres", significa, ben più degli "scrupules du compositeur", di cui parla Marc Pincherle (C., 1933, p. 45), la vigorosa coscienza di un deliberato legislatore, cui il dosaggio degli sforzi è unica condizione di riuscita. Nella scrittura che il C. va sperimentando confluiscono tutte le esperienze e i tentativi, sovente disordinati, del mezzo secolo trascorso, non solo strumentali, ma pure vocali. Al canto, infatti, si ricollega l'intima essenza della melodia corelliana. Il più stretto parallelismo possibile con l'arte del canto, che il C. ha trasmesso a Tartini e poi a tutti gli allievi delle diverse scuole, assegna al violino il compito di estrarre dalla sua materia il canto, come la figura dalla roccia nella metafora michelangiolesca, o l'anima dal corpo che la imprigiona. Si è anche osservata la derivazione dei suoi adagi dalla melodia vocale del lamento teatrale.
Questo stile appassionato e austero, espressivo e calmo, nasce nel palazzo Riario, poi Corsini, alla Lungara, dove Cristina alloggia dopo il definitivo ritorno dalla Svezia, e in cui soggiorna il romagnolo suo ospite. La figlia di Gustavo Adolfo, la "Pallade nordica", l'avventuriera convertita, sobillatrice di guerre e congiure, biscazziera e assassina, infaticabile amante di cardinali principi e artisti, il più rovinoso investimento della Sede apostolica, ora che la cinquantina e inoltrata, sposta il centro delle sue soddisfazioni verso il mondo dei poeti e delle accademie per musica. La lega una tempestosa amicizia con Gian Lorenzo Bernini, altra potenza internazionale senza corona, grandeggiante nel suo palazzo del Corso.
Lo sviluppo dell'arte del C. partecipa naturalmente di questa che il Bruno chiamerebbe "rivoluzione vicissitudinale". Nel graduale comporsi dell'originario contrasto fra la rozza dottrina dello strumentista virtuoso e il gusto raffinato e misurato di chi aspira a forme normative perfette, opera l'esempio del Bernini, che, solo, prima di Wagner, concepì l'asservimento magico di tutti i linguaggi a un solo fine artistico. È la predicazione del bello ideale, non fondato sulla natura che, sempre difettosa e carente, deve essere stilizzata e nobilitata sopra esempi sublimi. Bernini muore ottantacinquenne l'anno dopo che il C. ventottenne ha preso servizio presso la sua amica. Ma l'aria di palazzo Riario restava impregnata di quel ricordo e di quelle idee. La nascita di uno stile si opera sotto la suggestione di ambizioni immense, quali non avevano sfiorato, finora, la storia della musica.
Dal 1681, opere nobili e perfette prendono a uscire a intervalli quasi regolari: nel 1685, l'Opera seconda di sonate da camera. Nel 1689, l'Opera terza di sonate da chiesa, e nel 1694 l'Opera quarta di sonate da camera. Questa calcolata geometria suggerisce la calma pacata di un fregio antico. Carattere esterno che benissimo risponde alla natura interna di un'opera "delicatamente sontuosa, aristocraticamente ornamentale" (F. Torrefranca, in Fusignano ad A. C. …, p. 149). Ma s'illude chi crede che questa calma, distribuzione dei generi (sonata a tre, nelle prime quattro opere, sonata per violino e basso nell'Opera quinta, e infine i concerti grossi nell'Opera sesta) faciliti l'esame complessivo. Ché, anzi, lo complica, perché sappiamo con sicurezza che alla composizione delle raccolte di sonate a tre, si mescolava quella di brani orchestrali che, sperimentati come sinfonie e intermezzi di cantate e altri lavori altrui, passavano, se non scartati, a formare i tempi dei concerti grossi, che il C. veniva lentamente accumulando. La stretta interrelazione della pratica esecutiva fa nascere il concerto da un prolungamento sinfonico della sonata, com'è attestato dalla promiscuità delle occasioni pratiche e dall'interscambiabìlità dei ruoli, per cui anche sonate da chiesa potevano essere impiegate ed eseguite alla maniera di concerti grossi. Georg Muffat ascolta, negli anni 1681 e 1682, "consommo diletto, ed ammiratione... alcune bellissime Suonate del Sign.r Archangelo Corelli, l'Orféo dell'Italia per il Violino, prodotte con grandissima puntualità, da copiosissimo numero di Suonatori". È chiaro che ci troviamo davanti a tempi di concerti, anche senza ricorrere alla versione tedesca (Concerten) diquesta prefazione alla raccolta Ausserlesener mit Ernst-und Lust-gemengter Instrumental-Music Erste Versamblung, Passau 1701, che è ripetuta in tedesco, italiano, latino e francese (rist. in Collection d'étudès musicologiques, L, Strasbourg-Baden Baden 1970, a cura di W. Kolneder). Nel titolo italiano, la raccolta è definita da Muffat "Dodeci concerti d'un style sin'adesso poco usitato, da suonarsi a pochi, ò a molti stromenti civé [sic] à cinque, ò pùr'à tre soli stromenti d'arco, col basso continuo, se grosso, ed in un concertino piccolo, per particolare diversità e forza dell'Armonia...". Muffat precisa che fu proprio l'ascolto delle musiche corelliane a fargli nascere "la prima idea di questa ingeniosa mescolanza, à Roma, dove sotto il famosissimo Apolline dell'Italia Sign.r Bernardo Pasquini mio sempre riveritissimo Sign.r Maestro, imparavo il modo italiano dell'Organo, e Cembalo", e ancora racconta che, avendo sottoposto le sue composizioni al medesimo C., ne ricevette suggerimenti e consigli.
Inutilmente ci si chiede se Muffat ascoltasse sonate a tre variamente accresciute nelle parti, oppure tempi dei concerti destinati a diventare la futura Opera sesta. Ormai è ammesso che la promiscuità delle pratiche e della terminologia corrispondeva ad un variare di occasioni e di organici, cui male si adattano le nostre rigorose suddivisioni. Muffat sentì, in ogni caso, realizzata nella sua viva varietà, la maniera corelliana del concerto grosso.
Uno studio approfondito sulle concordanze linguistiche e sul grado di avanzamento delle progressioni armoniche, riferito al linguaggio delle sonate a tre, potrebbe risolvere, secondo il Libby, la questione della datazione delle sonate dell'Opera quinta, e soprattutto dei concerti, della cui esecuzione la memoria risale molto addietro, fino ai tempi delle prime sonate. Il C., che ha già "abbozzate" le sonate dell'Opera seconda quando pubblica la prima, e lascerà passare molti anni prima di lanciarle all'aperto, coltiva, sì un campo ristretto e senza straordinaria facilità. "One striking aspect of his music is the extent to which it reuses ideas and standard passages", osserva Denis Libby (Interrelationships in C., [1973], p. 265), il quale ricorda anche il parere espresso dal Burney, che citava a sua volta un'opinione del Geminiani, "that Corelli's continual recourse to certain favourite passages betrays a want of resource... All the varieties of Corelli's harmony, modulation, and melody, might perhaps be comprised in a narrow compass" (C. Burney, A General History of Music [1776], II, New York 1935, p. 443).Eppure, l'esame delle sonate rivela che la riutilizzazione del materiale armonico è strettamente legata ad uno strenuo programma di metodica sperimentazione dell'incipiente sistema tonale. La tecnica dell'autoimitazione fa parte di una progressiva sistemazione idiomatica e formale. Questa realtà, evidente anche se non abbastanza approfondita, giustifica espressioni che non sono di vieto stile ammirativo, ma di concreto riconoscimento: "The late baroque period... began with Corelli and culminated in the works of Bach", scrive iI Bukofzer, che poi meglio approfondisce il merito: "Arcangelo Corelli can take the credit for the full realization of tonality in the field of instrumental music. His works auspiciously inaugurate the period of late baroque music" (M. F. Bukofzer, pp. 221 s.). Mentre Ludwig Finscher precisa (pp. 23-29) che il C. non è diventato un classico attraverso la stilizzazione operata da allievi e continuatori, ma per aver imposto la sua esemplarità attraverso opere concepite come regole generali, di cui le cadenze di pubblicazione e le accurate distinzioni dei generi rivelano chiara l'intenzione. Il C. fu "the first "modern" composer, the composer of the oldest music outside the church that was still alive and that achieved a classic status" scrive il Libby (p. 263), riferendosi alla seconda metà del secolo XVIII, in cui fu tracciata l'immagine del C. ancora oggi predominante.
Questa qualità normativa e classica della musica corelliana fu subito intesa e accettata. Quando esce l'Opera seconda, circolano ben sei ristampe dell'Opera prima. Alla pubblicazione dell'Opera terza, già sei ristampe ha l'Operaseconda. E quando, nel 1700, compare, attesissima, l'Operaquinta, ci sono in circolazione, tra italiane e straniere, tredici edizioni dell'Opera prima, dodici della seconda, nove della terza e sette dell'Opera quarta: quarantuno stampe. Èl'accoglienza tributata non soltanto a nuove e geniali musiche, ma a modelli discussi e aspettati da lungo tempo. Muffat se li riporta a Salisburgo nel 1682. E nel 1689 testimonia François Couperin di avere scritto, "charmé de celles du signor Corelli, dont j'aimeray les oeuvres tant que je vivray", la "première Sonate" (di questo stile) "que je composay et qui ait été composée en France". (F. Couperin, nell'Aveu de l'auteur au public, prefazione alla raccolta Les Nations del1726). Come tante volte è accaduto, il genio uscito dalle file del dilettantismo rinnova l'arte che i pedanti della professione lasciavano languire.
Dall'agosto 1682 al 1709, si trova sempre il C. a capo dell'orchestra di S. Luigi dei Francesi, con stipendio accresciuto (sei scudi nel 1694) e l'organico salito prima a dieci, poi a quattordici violini. Accanto a lui compare l'allievo e famulo di tutta la vita, il lucchese Matteo Fornari, che nel 1710 lo sostituirà alla testa dell'orchestra. Nel 1684, lascia palazzo Riario e la sua regina, formidabile mecenate, ma irregolare nei pagamenti, per il cardinal Pamphili, al cui servizio resterà fino al 1690. La sua fama s'innalza, e solo la litigiosa Bologna resta in agguato. Appena esce, nel 1685, l'edizione bolognese dell'Opera seconda, i locali accademici si precipitano sui freschi fascicoli, e un passaggio di presunte "quinte" consecutive nell'Allemanda della Terza sonata, suscita un vespaio, attizzato dal Colonna, ora maestro di S. Petronio, che istiga Matteo Zani, amico del C., a chiedere una spiegazione all'autore: "Perché le Sue composizioni tanto da Chiesa quanto da Camera sono così belle, danno occasione a Codesti Virtuosi di porle in partitura per imparare... e perché nel spartire queste ultime da Camera stampate, li è occorso d'incontrarsi in alcune quinte seguite e non arrivando a sapere la ragione, tanto più che V. S. le segna quinte con li numeri, segno evidente che Lei le ha fatte à bella posta, vanno dicendo, che volentieri parlariano seco per saperne la ragione".
La lettera ha la data di Bologna, 26 sett. 1685. Dopoun breve silenzio, arriva da Roma una staffilata: "Ricevo dalla Sua Compitiss.ma il foglio del passo della suonata terza, dove Cotesti Virtuosi hanno difficoltà, e non me ne meraviglio punto, mentre da ciò comprendo benissimo il loro sapere, che si stende poco più oltre de primi principii della Compositione e Modulatione armonica, poiché se fossero passati più avanti nell'arte, e sapessero la finezza, e profondità di essa, e che cosa sia Armonia, et in che modo possa dilettare, e sollevare la mente humana, non haurebbero tali scrupoli, che nascono ordinariamente dall'ignoranza". Dopo una particolareggiata spiegazione tecnica e giudizi di "Franco Foggia, Antimo Liberati, Matteo Simonelli, e tutti uniformi nel parere mi hanno risposto che stà benissimo", la replica conclude: "Non mi stendo più oltre parendomi, che sia bastante questa poca notizia per appagare la curiosità di Codesti Virtuosi, et insieme erudire qualche poco il loro tirocinio dell'arte" (Roma, 17 ott. 1685).
La risposta, che il Vatielli (1916, pp. 408 s.), chiama "furibonda", non sembra aver fatto riflettere quanti continuano imperterriti a parlare della mansuetudine e della mitezza del C.: "È facile immaginare quale tempesta suscitasse in Bologna... Pur non nominandolo, il famoso violinista aveva voluto colpire il Colonna quale notorio sostenitore dell'accusa delle quinte seguìte e maggiore rappresentante della scuola musicale della città". Il Colonna chiese soccorso al Liberati, suo vecchio collega: "il signor Arcangelo... ha risposto con una lettera così mordace, et ingiuriosa, che io sono restato, hoggi che il Sig.r D. Matteo me l'hà mostrata, il più confuso huomo del mondo, e certo non avrei mai pensato tal cosa del S.r Arcangelo, poiché a sentire quello che scrive, tutti a Bologna sono ignoranti, non sanno che sia Armonia, né conoscono legature, e pure, sia detto con sua pace, egli s'inganna di molto, e troppo sparla, e sono cose ch'egli non potrà mantenere, né sono proprie d'un virtuoso".
Seguì uno scambio di lunghe lettere, finché rispose, definitivamente, il Liberati definendo la contesa "una lite di lana caprina", e tessendo un solenne elogio del C. che "ne tempi nostri, senza tacciare, ne avvilire alcuno, è divenuto così eccellente" da aver "di già superato l'Invidia... Havrà molto da sudare chi presumerà d'eguagliarlo, non che di avanzarlo... i suoi scritti in materia di sinfonie, potranno servire d'insegnamento e d'autorità à tutti li studiosi e chiunque cercherà d'imitarlo, e prendere autorità da suoi esempi, sarà certo di non errare...". "Questo gran Virtuoso è figlio della Scuola di Roma", rivendicava il Liberati, indicando il massimo merito del C. nell'aver "fatto uno stile al maggior segno dilettevole, ed impareggiabile, e pieno di tutte le vaghezze, e bellezze che possa cadere nella mente humana". Pareva "molto strano a tutti li professori di Musica di Roma" che un simile maestro, con tante edizioni stampate a Bologna, Venezia, Modena e Roma, incontrasse "tal uno, che in vece di ammirare la sua virtù, ed inalzarla con le meritate lodi alle stelle, voglia detraherlo, trovar il pelo nell'ovo e criticar freddure, che risultano à nulla", tanto da far sospettare "che ciò proceda dall'invidia di chi non può arrivar tant'alto". Dopo nuove spiegazioni sulla "legatura perintesa" e la "pausa interposta, che salva le pretese quinte", arriva al povero Colonna una strigliata di galateo artistico: "Ella con la sua innata gentilezza m'insegna che il proprio del Galantuomo è di escusare, e non di accusare, ed il proprio del virtuoso è di trovar e lodar le finezze e bellezze dell'Arte, per mostrare d'intenderle, e di saperle operare, e non mai di scuoprire i nei ò diffetti dell'Arte, si per non tirarsi addosso l'odio dell'Artefice, si anche per non appropriarsi il titolo di critico, e maledico, che ogn'uno lo sà fare, ma non ogn'uno sà operare"; e la sentenza era appoggiata da esempi come "il Tasso... Raffaele d'Urbino, Ticiano, Domenichino e tutti i più celebri huomini d'ogni professione tacciati da Critici ò per mera invidia... ò almeno per mostrare di saper assai con le parole".
Modesta soddisfazione ebbe il Colonna da una lettera di Corso Celano, che da Parma gli dava ragione ("il passo che V. S. m'ha inviato... non può passare"), ma intimando: "Che V. S. non mi nomini in conto alcuno, ne facci vedere ad'Anima vivente questo foglio", così togliendo all'inquieto epistolografo la consolazione del non eccelso consenso.
La storia della polemica, dall'imprudente petulanza del Colonna alimentata, e in cui intervennero anche il Vitali e il Perti, è stata letta nella sfocata luce aneddotica, o addirittura come imbarazzante riprova delle non emendate origini di compositore virtuoso e non dotto. In termini di stretta dottrina, è più probabile che il C. avesse torto. E torto gli dà, citando un passo del Marpurg, il saggio dell'Arnold sul basso continuo (F. T. Arnold, pp. 901 ss.), mentre i pareri favorevoli al C. han l'aria di esser dettati più dal rispetto che dalla convinzione. L'acrimoniosa controversia sarebbe davvero "di lana caprina", se non rivelasse, invece, che a trentadue anni il C. era autorità indiscussa, o discutibile con gravi rischi ("non mostri questo foglio ad anima viva", intima il Celano); che la scuola romana lo considerava il suo maggior esponente ed assolveva le sue licenze (ben altre potevano trovarne, con un po' più di scienza, il Colonna e i suoi amici) di fronte alla maestà del nuovo linguaggio cui lo vedeva intento. "Colpo da maestro, et una presa per un soggetto molto bella", ribattezza il Liberati la rimproverata licenza corelliana nella lettera al Colonna; che, infine, il disegno del C., di costituire una serie di modelli definitivi, era compreso e approvato, fin dall'Opera seconda.
In definitiva, è forse la prima volta che un compositore deliberatamente sfida la lettera della legge armonica, in senso moderno, in nome della legge propria.
L'episodio ebbe un tardivo strascico nel 1694, quando il Colonna si vide giungere da Roma una copia del terzo libro dei suoi Salmi, appena pubblicati, con sopra annotati tutti gli errori di teoria. Qualcuno si sovvenne della minaccia espressa dal C. in una lettera al Perti, nove anni prima: "Questi... che condannano così facilmente i passi altrui... stiano sempre molto ben armati, per ripararsi quando forse talvolta venisse il tempo di vedere et insieme con una esatta applicatione esaminare i loro componimenti" (tutte le lettere e repliche di Zani, del C., Colonna, Liberati, Celano, in totale dieci documenti autografi conservati nella Biblioteca del Conservatorio di Bologna, sono pubblicate da M. Rinaldi, 1953, pp. 429-444).
L'Opera seconda, che tante tempeste aveva suscitato, era dedicata al cardinale Benedetto Pamphili che l'anno avanti s'era vista attribuire, con una "concordia" che mise fine alla lite ereditaria, l'intera ala del palazzo (ora Doria) che dal Corso va a piazza del Collegio Romano. Nel palazzo, che il giovane cardinale sconvolse fino a farvi costruire dal suo architetto, Carlo Fontana, un teatro stabile, trovarono fissa dimora gli spettacoli e le accademie che il Pamphili patrocinava fin dal 1672, come dimostrano le sue "liste". Dopo il "signor Bernardo" (Pasquini) nel 1678, e Alessandro Scarlatti, compare nel 1684 il C., la cui presenza è documentata fino al 1689.
Divenuto "maestro di musica" del cardinale nel 1687, il C. andò ad abitare nel palazzo con Matteo Fornari, il domestico Bernardino Salviati e il servitore Galleani: qui risulta residente, secondo i libri della parrocchia di S. Maria in via Lata, fino al 1690. Dai sei scudi mensili del precedente ruolo straordinario, il "signor Arcangelo" passa al "ruolo ordinario della famiglia", con retribuzione fissa di dieci scudi mensili. L'orchestra sale dai pochi virtuosi del 1672 a circa cinquanta strumentisti, e più, variando i violini da venti a trentanove, con sei viole, cinque violoni, due contrabbassi, due liuti, due oboi e una chitarra. Organico potente, ma il C. aveva diretto, nel febbraio di quello stesso 1687, un'orchestra di centocinquanta archi nell'accademia che la regina Cristina aveva offerto in onore del conte di Castlemain, che Giacomo II Stuart, salito al trono d'Inghilterra nel 1685, mandava a Roma come ambasciatore presso Innocenzo XI. Quest'organico, ottenuto radunando i musicisti di diverse orchestre, dovette costituire una novità clamorosa, strettamente legata alla personalità del C. direttore: al suo senso della massa sonora, alla meticolosità delle prove, che esigeva in gran numero, allora inconsueto, alla precisione e simultaneità del gesto, ch'egli per primo intese in senso moderno. L'uso dovette radicarsi, se circa trentacinque anni dopo, Edward Wright (Some Observations made in Travelling through France, Italy, &c. in the Years 1720, 1721, and 1722, London 1730, p. 381) descrisse una festa ottoboniana nella piazza davanti al palazzo della Cancelleria, con un'orchestra di centocinquanta musicisti.
L'accademia data dalla regina è un altro degli esempi che ci restano della collaborazione con Bernardo Pasquini che, come l'amicizia con Alessandro Scarlatti, aveva la sua pratica base nella cerchia del Pamphili presso cui tutti e tre abitavano. Fin dal 1684 insieme compaiono nei registri della Congregazione dei Virtuosi di S. Cecilia, insieme passeranno dal servizio del Pamphili a quello dell'Ottoboni e insieme, infine, verranno chiamati in Arcadia. È fama che andassero per la campagna romana, rinnovando le abitudini dei grandi pittori classici di mezzo secolo prima, di Poussin, Dughet, del Lorenese, del Domenichino, le cui tele erano ora la nota dominante nella quadreria corelliana. Nello stesso tempo compare quel Giovanni Lorenzo Lulier, o "Giovanni del violone", cameriere e segretario di casa Pamphili, che con il C. e Fornari completa il "concertino" della migliore orchestra romana di quegli anni, decisivi per la maturazione del concerto grosso. Per l'oratorio del Lulier, la S. Beatrice d'Este, eseguito a palazzo Pamphili nei primi mesi del 1689 in onore del cardinale Rinaldo d'Este, il C. scrisse una Sinfonia in cinque brevi movimenti. La riscoperta di questa sinfonia ha suggerito che il C. svolgesse in quegli anni una "attività tutt'altro che marginale di compositore di Introduzioni, Intermezzi e Sinfonie per Accademie, Spettacoli e festeggiamenti religiosi" (A. Cavicchi, 1963, p. 43). Sono le "Sinfonie" di cui parlava il compositore Angelo Berardi, maestro di cappella di S. Maria in Trastevere: "hoggi sono in preggio, e stima quelle del Sig. Arcangelo Corelli Violinista celebre, detto il Bolognese, nuovo Orfeo de nostri giorni". Nello stesso passo c'è l'affermazione, se mai occorresse, che "i concerti di Violino e d'altri Strumenti si chiamano Sinfonie" (A. Berardi, p. 85). Di queste sinfonie-concerti, il Marx ricorda una "Sinfonia di novo concerto", una probabile introduzione a musica di Pasquini e un'altra per la notte di Natale in Vaticano, tutte nel 1689; una "Sinfonia nella Pastorale" alla Cancelleria nel 1690, come introduzione ad Amore e Gratitudine di Flavio Lanciani, e una "Sinfonia grande" nel 1692.
Le scoperte di questi inediti indussero il Marx a dichiararsi "in diametralem Gegensatz zu der Auffassung Bernhard Paumgartners, nach welcher das Lebenswerk Arcangelo Corellis beispielhaft der Nachwelt erhalten geblieben sein soll". Mentre "die publizierten Opera I bis VI" sarebbero solo "eine Auswahl aus seinem Gesamtschaffen". (H. J. Marx, 1972, p. 56). L'affermazione non scalfisce tuttavia la giusta sostanza del giudizio di Paumgartner (Die Musik in Gesch. und Gegenwart, II, col. 1675) perché la scelta fu rigorosamente compiuta dal C. che, per fare il solo esempio possibile, riutilizzò il Largo assai della sinfonia per la S. Beatrice d'Este come terzo movimento del sesto concerto dell'Opera sesta, e scartò il resto. Come sappiamo, da due decenni il C. componeva e dirigeva tempi di concerto grosso. Erano le sinfonie di cui parla Berardi, le "nobilissime Sinfonie" di cui parlerà nel 1705 la cronaca della cerimonia in Campidoglio "per l'Accademia dei Disegno", col "Cavalier Carlo Maratti celebre disegnatore" come presidente, e "Filippo Juvarra messinese" vincitore del premio di architettura.
Col suo solito cauto metodo, il C. mise a punto, lungo un ventennio, i pezzi della futura Opera sesta, collaudando e calibrando la forma. Quelli che oggi s'inseguono con accanimento come "inediti", furono, in realtà, i suoi scarti. Il C. lasciava inedito ciò che giudicava senza sufficiente valore. A pubblicarlo, ove avesse voluto, non gli sarebbero mancati mezzi, né editori. Quanto non ci resta più, o lo distrusse, oppure lo legò al Fornari tra le sue perdute "carte", cui non sembrava annettere il merito di sopravvivere stampate.
I punti salienti della sua ascesa sono contenuti in scarni dati biografici. Nel 1689, anno della morte della regina, uscì una nuova raccolta di sonate da chiesa, l'Opera terza, la cui dedica al duca Francesco II ha fatto supporre che il C. avesse compiuto un soggiorno a Modena, di dove tre anni prima gli eran giunte proposte, che rifiutò dicendo che a Roma lo pagavano a peso d'oro. In ogni caso, a dicembre era di nuovo a Roma, ed un agente modenese riferisce la "gioia e confusione di Arcangelo del violino" nel ricevere una pesante cesta d'argento che il duca gli mandava, come probabile dono per la dedica dell'Opera terza, comparsa in edizioni simultanee, romana e modenese.
L'elezione al papato di Alessandro VIII Ottoboni (6 ott. 1689) apre l'ultima fase della vita del C. a Roma. Non che questo papato durasse a lungo, ché l'Ottoboni morì dopo neppur quindici mesi di regno: quanti bastarono per insediare incrollabilmente un altro Pietro Ottoboni, il ventiduenne nipote di un fratello del papa, fatto cardinale col titolo di S. Lorenzo in Damaso, in uno dei posti di maggior prestigio della Chiesa cattolica, a vicecancelliere e amministratore generale di tutto il dominio ecclesiastico.
Alla fine del 1689 l'ascesa dell'Ottoboni, che del Pamphili era amico ed impaziente emulo in mecenatismo, fu salutata da due accademie in palazzo Pamphili, ed altre seguirono ininterrottamente nel 1690, fino a che in novembre il cardinal Benedetto fu mandato come legato a Bologna, col che, forse per preciso desiderio del papa, quell'alleanza di prodighi momentaneamente si sciolse.
Dotato di gusti musicali, letterari e artistici, che il potere e la ricchezza mutarono in sfrenate passioni, l'Ottoboni, che il De Brosses vedrà vecchio dopo una vita di eccessi, fu l'ultimo clamoroso esempio del nepotismo barocco romano. Le corti d'Europa guardavano stupefatte alle sue imprese, e tuttavia Venezia espulse la famiglia dalla sua nobiltà, cancellandone il nome dal Libro d'oro, per aver accettato l'insaziabile cardinale pensioni dal re di Francia.
L'inclinazione per il C., senz'altro il prediletto tra i molti musicisti di cui si circondava, indica l'occhio sicuro del giovane porporato e rivela anche affinità estranee alla musica, come testimonia la predilezione per le opere degli stessi pittori neoclassici alla Poussin, che anche il C. amava. Gliene facevano incetta il pittore Conca, l'erudito veronese Bianchini, bibliotecario del cardinale, e il Sergardi (il Settano delle Satire), che il C. menziona in una lettera ai fratelli.
Il trasferimento al palazzo della Cancelleria, chiamato dall'avvento dell'Ottoboni, "confugio de' Virtuosi", fu conseguenza naturale della nomina a primo violinista e direttore dei concerti, che avevano luogo nell'appartamento nobile del palazzo, dove una sala fu trasformata in un teatro, che Scipione Maffei descrisse, e lo Juvarra allargò nel 1709; oppure, nella basilica di S. Lorenzo in Damaso, racchiusa nella cerchia del palazzo. Dei lunedì della Cancelleria davano notizia gli Avvisi di Roma e i Diari ordinari. Dal 1690 in avanti, le Giustificazioni della Computisteria documentano il fervore musicale della corte ottoboniana e la presenza del C., la cui attività di direttore si rivolge ad ogni forma di musica, ma soprattutto alla musica strumentale.
L'autorità e autonomia del C. e il carattere unico della sua posizione sono confermate indirettamente dall'osservazione del Dent: "It was hardly possible for a composer to live in Rome, especially under the patronage of a cardinal, without writing a certain amount of music for the church" (p. 93). Per quanto "quasi impossibile", questa astensione dalla musica sacra fu consentita al solo Corelli.
Siamo minutamente informati sulle feste musicali ricorrenti alla Cancelleria, le Quarant'ore, il Corpus Domini, S. Lorenzo, il Natale; e sugli organici delle orchestre (nel 1690 diciotto violini, sette viole, sette violoni, sette contrabbassi), sui due cori di cantori, e sulle musiche eseguite sotto la direzione del C.: di Lanciani, Lulier, Stradella, Gasperini, Scarlatti. In molte di queste esecuzioni è accertata o intuibile la presenza delle introduzioni e intermezzi del C., cui abbiamo accennato.
La sua vita scorre ora nella calma di una posizione privilegiata rispetto alle esistenze degli artisti del suo tempo, libera dalle angustie della fretta, e dal bisogno di denaro che tanto peserà nell'esistenza di un Vivaldi. Le raccolte corelliane continuano ad uscire in solenne cadenza, che semmai rallenta. Nel 1694 è l'Opera quarta, di sonate da camera, "per l'accademia dell'Eminentissimo cardinale Ottoboni".
La fama del C., violinista, direttore d'orchestra, insegnante e compositore è ora altissima. Un cronista musicale l'ha chiamato, nel 1689, "il nuovo Orfeo de nostri giorni" (A. Berardi). Si viene a Roma per conoscerlo. L'Ottoboni gli ha fatto eseguire nel 1692 un ritratto dal Trevisani, e un altro dipinge alla fine del secolo il pittore inglese Howard, su commissione di un lord Edgecumbe. Il ritratto, fonte di numerosissime trascrizioni incisorie, fu per lungo tempo considerato perduto ed è stato nuovamente identificato dal Marx alla facoltà di musica dell'università di Oxford. Nasceva allora, nell'Inghilterra di gusto classico che onorava Palladio, quel culto del C. che sopravviverà all'oblio italiano, e sarà ancor vivo ai tempi di Johann Christian Bach e di Haydn. L'abate Raguenet, dopo aver assistito nel 1698 ad una serata d'opera in cui ha udito insieme il C., il Pasquini e il Gaetani, "qui sont constamment les premiers hommes du monde pour le violon, pour le clavessin, et pour le thuorbe ou l'archilut", riferisce gli strabilianti compensi che ottengono: "pour un mois ou six semaines au plus, on donne chacun trois et quatre cent pistoles". Il nipote di Samuel Pepys descrive allo zio il fasto d'una messa di Natale in S. Lorenzo, col C. direttore d'orchestra.
Il C., che da quest'anno è il "Guardiano della sezione strumentisti" della Congregazione di S. Cecilia, acclamato maggior compositore strumentale vivente, pubblica, con la data del 1° genn. 1700, l'Opera quinta, dedicata alla elettrice Sofia Carlotta di Brandeburgo, sposa dal 1684 a Federico che, salito al trono nel 1688, s'incoronerà, nel 1701, primo re di Prussia.
Intenditrice d'arte e di musica, interessata ad ogni settore della cultura europea, dalla letteratura alle scienze, secondo un ritratto del Ranke (per lei il marito fece costruire il castello chiamato dal suo nome Charlottenburg, a Berlino) compositrice essa stessa, Sofia Carlotta fu madre del durissimo Federico Guglielmo I, il "re sergente", tetragono agl'interessi artistici e musicali che invece risorgeranno in suo figlio, Federico il Grande. Il Burney riferisce un racconto di Telemann su esecuzioni in cui Sofia Carlotta sedette personalmente al cembalo, mentre in orchestra suonavano famosi artisti, quali Attilio Ariosti e i due Bononcini.
Non sembra che si possa mettere la dedica, molto circostanziata, dell'Opera quinta, "in rapporto coi viaggi dal musicista compiuti in Germania venti anni prima" (C. Piancastelli, p. 49), anche considerando che la principessa era nata nel 1668. Se ci fosse stato qualche passato rapporto con la sua casa, il C. l'avrebbe ricordato. Mentre invece, dopo aver lodato le "musiche applicationi" della sovrana, fatte "più con studio che per solo divertimento", e con "fondata e scientifica cognitione", esprime chiaramente il suo intento: "frà il concorso degl'altri... farmi conoscere, e render con questa piccola opera de miei concerti, un tributo", ecc. Ancora una volta, dobbiamo rassegnarci a considerare perduti i legami che avvicinano il C. a questa invocata "Protettrice" dell'arte sua. Ma supponiamo che la dedica fosse consigliata da qualche musicista reduce dalla Prussia, o da qualche agente e diplomatico attivo in Roma. Se dalla dedicataria vennero risposte o riconoscimenti, che di regola non mancavano, dobbiamo considerarli perduti insieme con tutte le "carte" corelliane.
Sofia Carlotta sarebbe diventata, senza la precoce fine (1705), la più illustre patrona della musica nel nuovo secolo, e il C., che attribuiva enorme importanza alla nuova raccolta di sonate per violino e basso (osserviamo di passata che le chiama, secondo la corrente promiscuità terminologica, "concerti") e ne prevedeva il grande successo, dovette affidare alla dedica alte ambizioni, che forse non sono mai state ben misurate.
Si rendeva conto che queste musiche, destinate a regolare per mezzo secolo il reciproco equilibrio tra un solista acuto e il basso, si avventuravano in un terreno ben più arduo, e, fino a quei tempi, capricciosamente battuto, che non quello della sonata a tre, fittamente coltivato nella pratica combinata col concerto grosso. Il Burney incontrò a Roma persone che avevano conosciuto il C. e ricordavano che l'Opera quinta, "on which all good schools for the violin have been since founded, cost him three years to revise and correct" (C. Burney, p. 442).
Osservò F. Chrysander nella prefazione al terzo volume della sua edizione che, se si fossero riconosciuti allora i diritti d'autore, il C. sarebbe arricchito con questa sola opera.
I rapporti con l'Ottoboni erano quelli che si hanno con un amico affettuoso, anche se potente. Nel marzo 1700 il cardinale scrisse al legato di Ferrara, cardinale Azzalli, per raccomandargli di proteggere i fratelli del C., ch'egli amava "con tenerezza la più distinta e cordiale", e il 3 aprile successivo con strana insistenza (ma il 1632 non era poi tanto lontano) aggiungeva: "Ho tal amore al signor Arcangelo, che non distinguo la passione del mio proprio interesse da quella di sì degno oggetto". Nel 1702, i fratelli Ippolito, Domenico e Giacinto furono accolti alla sua corte.
Sommo degli onori per un musicista, il 26 apr. 1706, il C. entrò col nome pastorale di Arcomelo, cui, sei anni più tardi, dopo l'espulsione di G. V. Gravina, aggiunse il secondo nome, Erimanteo: legato ad una "campagna", infatti, questo secondo nome era parte di un numero chiuso (v. F. Della Seta, La musica in Arcadia …, 1982, p. 142 n.), nell'Arcadia, fondata sedici anni prima. Con lui sono promossi Alessandro Scarlatti (Terpandro) e Bernardo Pasquini (Protico). Una festa arcadica coi tre musicisti è descritta dal "custode generale" Crescimbeni, così: "Avendo Terpandro coi suoi compagni, ordinato quanto era d'uopo... incominciò Arcomelo la musica festa con una di quelle bellissime Sinfonie fatte nella nobil Capanna dell'Acclamato Crateo (l'Ottoboni). Meraviglioso... fu l'esatto accordo degli strumenti a fiato con quelli da arco... ma ciò ch'egli fece col suo strumento eccedé la meraviglia stessa..." (G. M. Crescimbeni, L'Arcadia, p. 288). Eppure, i poco più che dieci anni che il C. visse nel nuovo secolo, appaiono segnati, sempre secondo il racconto di Geminiani settantenne al Burney, da gelosie e mortificazioni, vere o immaginarie, che "threw him into such a state of melancholy and chagrin, as was thought to have hastened his death" (Burney).
La fitta attività del musicista che, oltre alle feste ottoboniane della Cancelleria, compare regolarmente nella ricorrenza annuale di S. Luigi dei Francesi e saltuariamente alle accademie del Pamphili ritornato da Bologna (1704, 1705), e dirige le grandi orchestre per l'Accademia del disegno (1705, 1709) lascia trasparire alcuni episodi che hanno imbarazzato la biografia tradizionale non meno dell'incidente "delle quinte".
Il primo, sempre raccontato dal Geminiani al Burney che lo colloca, dubitativamente, nel 1708, sarebbe avvenuto a Napoli. Benché riluttante, il C. accetta un invito del re che desidera sentirlo, e porta con sé a Napoli gli altri musicisti del suo "concertino", Fornari e Lulier. Titubante per la mancanza della sua orchestra si lascia convincere ad eseguire alcuni suoi concerti con l'orchestra napoletana che li suona meravigliosamente a prima vista, con sbalordimento del C. che esclama a Fornari: "Si "suona, a Napoli"! Poi, mentre esegue una delle sue sonate, il re, annoiato da un adagio che gli pare "lungo e arido", si alza e se ne va, con grande mortificazione del musicista. Il quale, infine, mentre dirige un'opera di Scarlatti, sbaglia due volte l'attacco di un ritornello per violino solo, che il primo violino napoletano esegue senza fatica. E poi, attacca in do maggiore un'aria scritta in do minore, e, dopo il placido invito di Scarlatti, "ricominciamo", torna a sbagliarlo, costringendo il compositore a riprenderlo; il povero C., umiliato, se ne fugge alla chetichella verso Roma.
Ma nel 1708 non c'era alcun re a Napoli, dov'era viceré austriaco il cardinale Vincenzo Grimani. Nel 1701, anno in cui altri storici collocarono l'episodio, era viceré il duca di Medinaceli. Più giustamente il Rinaldi colloca la visita del C. al maggio 1702, com'è attestato da cronache manoscritte locali, ossia durante la breve visita di Filippo V, da un anno re di Spagna, venuto in Italia per ammogliarsi con Maria Luisa Gabriella di Savoia. Il Dent trancia deciso: "Corelli, as we know, was never a great executant, but Scarlatti is hardly likely to have written difficult passages for him, after being so much under his influence" (p. 93). Sempre secondo il Geminiani che lo raccontò al Burney (pp. 442 ss.), Scarlatti aveva scarsa stima del C. come compositore, ma grandissima per l'esecutore, la sua elegante direzione dell'orchestra, la cui straordinaria precisione procurava effetti sorprendenti sia all'occhio che all'orecchio. Pretendeva che tutti gli archi avessero identica disciplina e insieme si alzassero e si abbassassero. Alle prove, che regolarmente precedevano ogni esecuzione, fermava immediatamente l'orchestra se vedeva un arco fuori posto.
La sua reputazione come direttore d'orchestra dettò a G. B. Zappi, arcade imolese, quasi suo conterraneo, una descrizione che riempie un intero sonetto, il Ferragosto, e comincia: "Or vedi Lui, ch'al coro almo gentile / sovrasta, e par la destra armi di penne? / Egli è a se solo, e a null'altro simile", concludendo con la lode della "unisonanza non più in Terra udita / onde crediam cento strumenti un solo" (Rime …, [1736], in G. B. Zappi, E. Manfredi, C. I. Frugoni, Poesie, a cura di B. Maier, Napoli 1972, pp. 89-100).
Qualche somiglianza con quelli napoletani presenta l'incidente che si disse accaduto nel 1708 durante la seconda visita di Haendel a Roma. Nel palazzo della Cancelleria il C. dirigeva, come primo violino, l'ouverture del Trionfo del tempo, che Haendel aveva composto su libretto del cardinal Pamphili, alla presenza dell'autore che, insoddisfatto dell'esecuzione, gli strappò di mano il violino, mettendosi a suonare al suo posto. Al che il romagnolo impermalito avrebbe obiettato: "Ma caro Sassone, questa musica è nello stile francese, che io non intendo!". L'episodio non è inverosimile tenendo presente l'indole sanguigna di Haendel e il carattere del C. uomo e musicista, quale si desume da molti indizi: conservatore nel senso classico, probabilmente lento nell'assimilare nuove idee e maniere, perfezionista assillato dagli scrupoli, bisognoso di attentissima preparazione. Come violinista egli dovette divenire, al contrario delle sue prime origini, un esecutore di altissime nobiltà e coerenza stilistica, più che un virtuoso dalla tecnica stupefacente di un Biber; e così, come direttore d'orchestra, riusciva a dare il meglio di sé con strumentisti da lungo abituati alla sua guida, trovandosi in imbarazzo all'improvvisa guida di orchestre forestiere. Attento ad evitare esibizioni estemporanee, per cui non si sentiva tagliato, era tuttavia suscettibilissimo nell'orgoglio e nella reazione agli sgarbi ricevuti. Anche l'episodio, raccolto dal Hawkins, sul C. che smette all'improvviso di suonare durante un concerto, perché il cardinale sta chiacchierando, e alla domanda del protettore, che cosa accada, risponde: "Niente signore, temevo soltanto di disturbare i Suoi affari", cui seguono le scuse di sua eminenza e la preghiera di ricominciare, conferma l'impressione di un temperamento tutt'altro che remissivo (J. Hawkins, A General History..., II, New York 1963, p. 676).
Se vero, l'episodio con Haendel è spiacevole, pensando che costui aveva ventitré anni, e il C. cinquantacinque. Un tentativo di immediata riconciliazione da parte di Haendel si è visto nella citazione quasi letterale della gavotta, già allora celebre, della Sonata decima dell'Opera quinta, nell'altro oratorio composto ed eseguito quell'anno alla Cancelleria, La Resurrezione. Lunga e costante resterà l'influenza corelliana sulla musica di Haendel, che già aveva adottato l'idioma armonico del C. nello splendido salmo Dixit Dominus dell'anno avanti, e impiegherà sia il taglio che reminiscenze corelliane nelle sonate per violino e in musiche per cembalo. Il fatto che anche Haendel come già il C. intitolasse Opera sesta una raccolta di concerti grossi sembra all'Arnold ben più che una coincidenza; "Haendel, or his publisher Walsh, no doubt deliberately wished to evoke the memory of Corelli's popular orchestral work; and that is only where the similarities begin" (D. Arnold, p. 86).
Sempre al Hawkins dobbiamo ricordi haendeliani sul C., come il suo piacere nell'ammirare quadri, piacere "che non doveva pagare" e, quindi, la grande economia, le notizie sul suo guardaroba sommario, sul suo abito solitamente nero, il suo mantello scuro, la sua abitudine di andare sempre a piedi, vivamente protestando se gli chiamavano una carrozza. Hawkins si preoccupava però di avvertire che Haendel raccontava questi particolari senza intenzioni di maldicenza.
In realtà, nell'appartamentino di palazzetto Ermini, preso in affitto fin dalla sua prima dimora alla Cancelleria per tenervi gli oggetti personali, il C. aveva adunato un'imponente collezione di pittura, comprendente centotrentasei quadri e disegni, tra cui ventidue Trevisani, due Maratta, tre Cignani, paesaggi di Poussin (o del cognato Dughet), una Madonna delSassoferrato e numerosi fiamminghi ed emiliani. La casa esiste ancora, all'angolo tra via Sistina e piazza Barberini, senza tuttavia la fontana berniniana delle api, tolta dall'angolo a metà del secolo XIX. In quell'appartamento alloggiarono, negli ultimi anni della sua vita, il fratello Giacinto e il nipote Arcangelo.
Nello stesso 1708, la falsa notizia della sua morte indusse il principe elettore del Palatinato, Giovanni Guglielmo, a scrivere al suo agente a Roma, conte Antonio Maria Fede, per esprimergli il suo rammarico. E questa è indubbiamente una prova di precedenti rapporti del C. con casate principesche tedesche, anche se non si tratta necessariamente dei viaggi giovanili, mai documentati. Fede rassicura il principe: il C. sta bene, fa mostra del suo talento alla corte dell'Ottoboni. Rassicurato sulla sorte del maestro, il principe prega allora il Fede d'intercedere sull'Ottoboni affinché il C. componga un'opera a lui dedicata. Questi gli manda, intanto, uno dei quattro concerti da camera che pubblicherà nell'Opera sesta, accompagnandolo con una lettera, datata Roma, 26 maggio 1708. Di nuovo parla della "propria debolezza, ed avendo sin'ora sperimentato, che doppo molte, e lunghe correzzioni appena avevo la sicurezza di esporre al pubblico le poche opere da me mandate alle stampe, concepivo molto maggiore difficultà di espormi sotto gl'occhi di un Principe". Al culmine della fama, il musicista non rinuncia a quel lento procedimento che aveva contrassegnato tutta la sua produzione. Ancora una volta dobbiamo rassegnarci a ignorare i rapporti preesistenti con la corte del Palatinato, anche se la serie di intermediazioni, dal Fede all'Ottoboni, può farci comprendere come potesse essere scaturita la dedica di otto anni prima, a Sofia Carlotta di Prussia.
L'attesa dell'Opera sesta, i cui concerti si eseguivano interi o in forma di sinfonie da tanti anni, era vivissima, tanto che nel 1711, un altro musicista della cerchia ottoboniana, Andrea Adami, dopo aver definito il C. "gloria maggior di questo secolo", e le cinque opere già stampate "la maraviglia del mondo tutto", annuncia: "presentemente stà perfezionando l'Opera Sesta de i Concerti, che in breve darà alla luce, e con essa si renderà sempre più immortale il suo nome" (A. Adami, p. 209).
Il C. non vide l'Opera sesta stampata. La pubblicò, postuma, Matteo Fornari, cui il maestro l'aveva legata, insieme coi benefici che potessero derivarne, dedicandola allo stesso Giovanni Guglielmo del Palatinato, che poi conferirà ai fratelli, nel 1715, il titolo di marchesi di Landenburg.
Non sappiamo quale male conducesse il C. a fine così precoce, e neppure se qualche sintomo o malattia la lasciassero presagire. Il velo che avvolge tutta la sua vita circonda tenace anche la sua fine. Nel 1710 cessa di esibirsi in pubblico, e Matteo Fornari lo sostituisce a S. Luigi. Fino al 1712, i registri della parrocchia di S. Lorenzo lo menzionano come residente, col Fornari, nel palazzo della Cancelleria. Alla fine di quell'anno, forse presagendo la fine, si fa portare nell'appartamentino di palazzo Ermini, dove abitavano il fratello Giacinto e il figlio suo Arcangelo di ventun anni, col servitore Filippo Graziani, pure ventunenne.
Né il fratello, né il nipote erano a Roma quando il C., dopo una malattia breve, la cui natura ci resta ignota, si spense nella notte sull'8 genn. 1713, non ancora sessantenne.
Il 5 gennaio aveva scritto di suo pugno il testamento, consegnandolo al confessore. L'originale olografo, conservato all'Archivio di Stato di Roma, occupa la prima pagina d'un foglio ed è di scrittura incerta: "Al Sig.r Cardinale Ottoboni padrone lasio un quadro a sua elettione, e lo prego a farmi sepelire dove a lui piacerà. Al Sig.r Matteo Fornari lasio tutti li miei Violini e tutte le mie carte con lasiarli ancora tutti i rami dell'opera quarta, e di più li lasio ancora l'Opera Sesta e se vi sarà qualche regalo sia pure anche del detto". "Un quadro del Brugolo" (Brueghel) legava al cardinale Colonna, a Pippo servitore "meza doppia il mese e a sua sorella Olimpia lasio li quattro testoni il mese loro vita durante. Miei Eredi universalli i miei fratelli. Esecutori testamentari il Sig.r Giuseppe Mondini e il Sig.r Girolamo Sorboli, e questi miei esecutori pensino al mio funerale e a farmi celebrare messe cinque cento".
Fu il Sorboli a dare la notizia ai fratelli e al nipote, che scrisse poi allo zio Vincenzo Mascarini, a Massalombarda, "la nuova infausta della morte di mio Zio Arcangelo", passato "all'altra vita con una pura et Angellica dispositione... Sopra tutti poi l'Em.mo Otthoboni mostra il proprio dispiacere con una lettera di condoglianza scrittaci di proprio pugno, assicurandoci ancora la continuatione della sua Protetione, e di più perché il Mondo conosca la stima, che faceva di mio Zio, ha fatto imbalsamare il suo corpo, e rinchiudere fra tre casse, una di piombo, la seconda di cipresso, e la terza di castagno, e così rinchiuso in queste casse si conserverà esposto in un deposito di marmo con la sua inscritione, fatto fare medesimamente dal sud.to Sig.r Card. nella Chiesa della Rotonda, e tutto questo a sue spese" (Lettera ms. nella raccolta Piancastelli pubbl. in M. Rinaldi, A. C., 1953, p. 450).
La sepoltura al Pantheon non aveva allora il significato che le venne un secolo dopo da un'idea di Canova. Dal secolo XVI, quando vi era stata deposta la spoglia di Raffaello, era sepoltura dei maggiori artisti, e per il C., musicista, fu fatta un'eccezione, richiesta dall'Ottoboni.
Finché vi furono allievi del C. a Roma, alla Rotonda fu celebrato un rito solenne nel giorno anniversario della sua morte, e un'orchestra eseguiva i suoi concerti grossi. E Burney racconta che ancora nel 1730 un musicista presente alla cerimonia udì il terzo e l'ottavo concerto, eseguiti in modo fermo e grave e senza abbellimenti, come il C. li aveva scritti.
Un capitolo sulla fama del C. dopo la morte si aprirebbe, come ben si capisce da quanto precede, con una sontuosa serie di magniloquenti encomi di stile classico, di cui Hans Joachim Marx rievoca i più famosi, prima di osservare che se in Italia egli venne molto presto dimenticato ("nach seinern Tode in Italien bald vergessen war"), tuttavia "erlebte es nördlich der Alpen, insbesondere in England eine enthusiastische Aufnahme" (in Studi corelliani, p. 53).Che "die Corelli-Rezeption ist in verschiedenen Ländern ganz verschieden gewesen", osserva anche Ludwig Finscher (Nuovi studi corelliani, 1978, p. 25).
Il tenace permanere della fortuna del C., e del suo allievo Geminiani, in Inghilterra è stato variamente spiegato: in primo luogo attraverso la delineazione dell'isolamento culturale di quel paese per buona parte del secolo XVIII: non v'è dubbio che l'influenza del C. e di Geminiani rimase intatta fino ai tempi del Burney e del Hawkins e, nell'uso strumentale dei dilettanti privati, le sue sonate non furono soppiantate fino ai tempi di Haydn.
Di questa fedeltà bisogna tuttavia saper vedere più profondamente le ragioni, che risiedono nel culto inglese per la forma classica levigata e perfetta che si manifestò in tutta l'architettura privata con una preferenza mantenuta per i modelli di Andrea Palladio e dei suoi continuatori, anche quando il continente li aveva da tempo abbandonati. Non è un caso che la prima importante rivendicazione del Settecento musicale italiano discendesse, come l'autrice diffusamente chiarisce nella prefazione, dalla stessa linea del classicismo inglese (V. Vernon Lee, Il Settecento in Italia. Accademie. Musica. Teatro, Napoli 1932, pp. XXVI, XXXVI, 19, 23. Illibro fu tradotto in italiano e più volte ristampato, ma la prima edizione apparve in inglese, nel 1881).
Da quanto precede, si osserva tuttavia anche come agli encomi si opponessero, tra contemporanei e posteri, denigrazioni e riserve. Scarlatti non stimava il C. come compositore, e il tema della sua abilità come virtuoso di violino riesce sempre di difficile e controversa definizione.
Due esempi dovrebbero bastare, tuttavia, a testimoniare che l'affermazione del Pincherle (C., p. VII): "le nom de Corelli a gardé, à travers les siècles, un éclat prestigieux" non è vuota enfasi ma riflette un culto e un rispetto superiori a quelli tributati a tutti gli altri compositori antichi. Nel 1724, François Couperin pubblica la Grande Sonate en Trio, intitolata Le Parnasse, ou l'Apothéose de Corelli, che segue, subito dopo l'altra Apothéose, quella di Lulli. E quando, una ventina d'anni dopo, Federico II il Grande dovette scegliere, da letterato e fedele praticante dell'arte dei suoni, i supremi esempi della gloria musicale per una delle lettere che, in parte in prosa, in parte in versi, scriveva a Voltaire, i nomi che gli vennero nell'esperta penna furono quelli del C. per gl'italiani, e di Lulli per i francesi: "Rome nous vante encore le sons de Corelli, / Le François prévenu fredonne avec Lulli".
La produzione conosciuta del C. fu, come si è avvertito, esclusivamente strumentale. La questione delle opere perdute o dimenticate, si tratti di inediti o di stampe coeve superstiti in pochissimi o addirittura unici esemplari, ha assunto rilievo ed importanza nella ricerca dell'ultimo ventennio. Riportato, tuttavia, ai termini più chiari, il problema si riduce al rapporto tra le composizioni che il compositore stesso ammise e sistemò nei sei numeri delle sue opere, e quelle che, per qualsiasi ragione, ne rimasero escluse. Nella premessa alla discussione sulle Fonti corelliane al congresso di Fusignano del 5-8 sett. 1968, L. F. Tagliavini avvertì: "Se la produzione di Corellisi esaurisse nelle sei notissime opere a stampa, il problema delle fonti, in senso bibliografico, non esisterebbe o sarebbe di lieve entità. In realtà l'opinione, ancora oggi molto diffusa, che quasi tutta la produzione corelliana sia conservata nelle sei raccolte dall'autore stesso pubblicate, si sta rivelando inesatta in quanto emergono nuove fonti, logicamente in gran parte manoscritte, che richiedono naturalmente un attento vaglio critico...". Subito dopo prendeva la parola H. J. Marx per la sua relazione sulle Unveröffentlichte Kompositionen A. C. s., di cui è stato detto (Studi corelliani, pp. 51, 56).Lo stesso Marx, quasi per opporre una concreta smentita all'affermazione del Paumgartner (Die Musik in Gesch. und Gegenwart, II, col. 1675)che il C. avesse pubblicato la sua intera produzione nella classica serie delle sue opere a stampa ("Das Lebensvierk Corellis ist in der klass. Reihe seiner gedr. Oeuvre"), aprì la serie dei volumi della nuova edizione completa dell'opera corelliana con le Werke ohne Opuszahl, alla cui introduzione si fa rinvio per la discussione sulle attribuzioni accettate o respinte.
In questo volume, tuttavia, sono pubblicate opere, che in massima parte il Paumgartner aveva elencato tra le "Gedruckte u. hs. Werke ohne Opuszahl"; con ciò, oltre la corrente polemica sulle fonti, riceve conferma l'opinione espressa che, non già di "inediti" si debba parlare, quanto, piuttosto, di opere che non ebbero più edizioni dopo le prime stampe, occasionali o addirittura non autorizzate dall'autore. Opere che il C., per sue buone ragioni, non accolse nel calcolato fregio delle sue opere numerate. Tutte le "Werke olme Opuszahl" pubblicate dal Marx appartengono a questo tipo ed ebbero almeno una stampa coeva e furono poi abbandonate. Dopo l'edizione del Marx non dovrebbero, dunque, restare musiche corelliane inedite, dimenticate o disperse, almeno tra le numerosissime attribuzioni conosciute. L'"attento vaglio critico anzitutto per quanto riguarda la loro autenticità", di cui Tagliavini avvertiva la necessità nel 1968, sembra sia stato nel frattempo applicato su tutte le numerose fonti fin qui cognite.
Il menzionato volume quinto nella nuova Historisch-kritische Gesamtausgabe ammette dunque tra le "Werke ohne Opuszahl" una Sinfonia (prob. Roma 1689) per l'oratorio S. Beatrice d'Este di Giovanni Batt. Lulier, la cui partitura fu ritrovata da A. Cavicchi, in un manoscritto della Bibl. del conservatorio di Parigi; una Sonata a quattro, in partitura manoscritta alla Bibl. del conserv. di Napoli, di cui si conserva anche una parte ("Alto Viola") stampata dal Roger di Amsterdam (1699)nella raccolta Six Sonates à 4, 5 e 6 Parties dont les 2 Premiers sont de Mr. Arcangelo Corelli; la seconda delle 2 Premiers:questa, tuttavia, solo nella parte "Alto Viola"; una Sonata a quattro, con tromba sola, in sette fonti diverse, e partitura manoscritta nella Bibl. del cons. di Napoli, anche questa stampata dal Walsh, London, 1704; le sei Sonate a Tre Due Violini col Basso par [sic] l'Organo di A. Corelli Fusignano Ouvrage Posthume A Amsterdam Chez Estienne Roger s. d. [ma per il Marx, 1714, e il Paumgartner, 1715circa] ristampa London 1715.
Le attribuzioni che il Marx ha respinto, nella duplice catalogazione di "Zweifelhafte Werke" e di "Corelli fälschlich zugeschriebene Werke", costituiscono rispettivamente i numeri 1-118 e 119-179 della copiosa appendice, a cura dello stesso H. J. Marx, nel Catalogue raisonné, volume appendice della Historisch-kritische Gesamtausgabe, Köln 1980.
Lo stesso Catalogue raisonné contiene anche la critica degli autografi, tutti verosimilmente sprofondati nel naufragio delle "carte" lasciate a Matteo Fornari, tranne il manoscritto dell'Opera terza, acquistato da C. Piancastelli nel 1915, ora nella Bibl. comunale di Forlì (Fondo Piancastelli, ms. 1/9), e due fogli contenenti la Pastorale del Concerto grosso Op. VI n. 8, alla Deutsche Staatsibliothek di Berlino Est.
Un posto tutto speciale va fatto alle "Bearbeitungen von Werken Corellis" che il Marx elenca nella terza parte dell'appendice al Catalogue raisonné. Èquesto un capitolo in gran parte legato alla rigogliosa sopravvivenza della gloria del C. in Inghilterra, il cui titolo più notevole è costituito dai due volumi (London 1726 e 1729)delle sonate dell'Opera quinta, rielaborate da Francesco Geminiani come concerti grossi (Concerti Grossi Con Due Violini, viola, e Violoncello di Concertino obligati, e Due altri Violini, e Basso di Concerto Grosso Dedicati alla Sacra Maestà di Giorgio Ré della Gran Brettagna, Francia, ed Ibernia, ecc. Da Francesco Geminiani Composti delli Sei Soli della prima parte [... della Seconda Parte] dell'Opera Quinta D'Arcangelo Corelli, London s. d. [ma 1726 e 1729], che ebbero innumerevoli ristampe.
E ancora vanno ricordate almeno, tra le rielaborazioni dell'Opera prima: sei Concerti grossi ... composti per Francesco Geminiani, London s. d.[1735]; Twelve Sonates for the Harpsichord or Organ, 1784 circa; Six Sonatas ... adapted for the Organ/Six Sonatas... adapted for the Piano Forte or Harpsichord, London 1795 circa; un manoscritto (Roma, Bibl. d. cons. di S. Cecilia), contiene trascrizioni come Cantate per solfeggio a due Canti. Dell'Opera seconda. Six Setts of Aires for two Flutes and a Bass by Arcangelo Correlli [sic] …, London 1702 (contiene anche le rielaborazioni dall'Opera quarta); Six Sonatas for two Flutes and a Bass; Suittes pour le Clavecin, Amsterdam 1712-1715 circa, ed altre stampe, oltre a rielaborazioni manoscritte come tabulatura per liuto e trascrizioni per flauto solo. Dell'Opera terza: sei Concerti Grossi ... composti delle Sei Sonate del Opera Terza d'Arcangelo Corelli per Francesco Geminiani, London s. d. [1735]; Six Sonatas... adapted for the Organ. Six Sonatas ... ad. for the Piano Forte or Harpsichord, oltre a un manoscritto(Modena, Bibl. Estense) intitolato Corelli trasformato / In quat[t]ro Antifone, ed otto Tantum ergo ... Studio facile, ed assai proffittevole / Idea del Sig. Anto Tonelli Carpiggiano. Dell'Opera quarta: Six Setts of Airs for two Flutes and a Bass, London s. d. [1702]; Most cellebrated Airs ... from the Works of Corelli ... Dublin s. d. [1726], ecc. Dell'Opera quinta, oltre ai concerti grossi trascritti dal Geminiani e le loro innumerevoli ristampe, si ebbero rielaborazioni a stampa, totali o parziali, in forma di altre trascrizioni in concerti, sonate per flauto, per due flauti, per clavicembalo, ecc. Derivazione fondamentale dell'Opera quinta, le Dissertazioni del Francesco Veracini sopra l'Opera Quinta del Corelli della Bibliot. del Cons. di Bologna (ediz. a cura di W. Kolneder, Zwölf Sonaten nach Arcangelo Corelli, Mainz-New York 1961). Dell'Opera sesta si ebbero numerosissime rielaborazioni: come XII Sonate ... a 3 Flauti e Basso (Amsterdam 1717 circa); come Six Concertos for two Flutes (London 1720 circa); XII Concertos Transpos'd for Flute (London 1725 circa); Most cellebrated Airs ... for Harpsichord or Spinet; Celebrated Concerto(s)... adapted for the Organ, Harpsichord or Piano Forte (London 1782 circa), ecc.
L'immensa quantità di questi derivati, quale non si vide forse scaturire dall'opera di nessun altro autore, è una naturale conseguenza della gran copia di repliche delleedizioni delle sei opere. Su questo tema delle edizioni conviene rinviare nuovamente al "Catalogue raisonné" del Marx (pp. 75-206) cheelenca tutte le stampe e le copie manoscritte. Limitatamente alle edizioni italiane e al numero degli esemplari che ne rimangono, si veda lo studio di Claudio Sartori (Sono 52 (fino ad ora) le edizioni italiane delle opere di C. e 135 gli esemplari noti [1956]).
Le composizioni a stampa, numerate dall'Opera prima all'Opera sesta vanno considerate come il catalogo ufficiale e approvato dall'autore. Ne diamo i titoli originali, e i luoghi e date delle ristampe antiche. Ricordiamo che ogni Opera del C. consta di dodici composizioni.
Opera prima, Sonate a trè, doi Violini, e Violone, ò Arcileuto, col Basso per l'Organo. Consecrate alla Sacra Real Maestà di Cristina Alessandra Regina di Svezia & c. Da Arcangelo Corelli da Fusignano, detto il Bolognese, Opera prima. In Roma, Nella Stamperia di Gio. Angelo Mutij, 1681.
Ristampe: Bologna 1682; Roma 1683; Venezia 1684; Bologna 1684; Modena 1685; Roma 1685; Bologna 1688; Roma 1688; Anversa 1688; Bologna 1697; Amsterdam 1695-1700; Parigi 1700, 1710; Bologna 17041 Venezia 1707; Amsterdam 1715(in totale trentanove stampe fino al 1790, e trentatre copie manoscritte).
Opera seconda. Sonate da Camera a trè, doi Violini, e Violone, ò Cimbalo Consecrate all'Emin.mo e Rev.mo Signore il Signor Card. Panfilio da Arcangelo Corelli da Fusignano, Detto il Bolognese, Opera Seconda, In Roma, Nella Stamperia di Gio. Angelo Mutij, 1685.
Ristampe: Bologna 1685; Modena 1685; Venezia 1686; Roma 1686; Venezia 1687; Roma 1688; Anversa 1689; Roma 1691; Venezia 1692; Bologna 1694; Venezia 1697; Amsterdam 1697; Bologna 1701; Roma 1701; London 1703; Venezia 1705; Amsterdam ca. 1706 e ca. 1709; Paris ca. 1710; Amsterdam ca. 1716, e ca. 1716 (con titolo diverso); Paris ca. 1719; London ca. 1720; (in totale quarantuno stampe fino al 1790 e venticinque copie manoscritte).
Opera terza. Sonate à tre, doi Violini, e Violone, ò Arcileuto col Basso per l'Organo Consecrate all'Altezza Ser.ma di Francesco II. Duca di Modena, Reggio &c. da Arcangelo Corelli da Fusignano detto il Bolognese. Opera terza, in Roma, per Giacomo Komarek Boerno, 1689.
Ristampe: Bologna 1689; Modena 1689; Venezia 1691; Anversa 1691; Venezia 1694; Monti 1695; Roma 1695; Amsterdam ca. 1697; Venezia 1700; Roma 1701; Bologna 1702; Amsterdam ca. 1706 e ca. 1709; Venezia 1710; Amsterdam ca. 1716 e ca. 1716 (con titolo diverso); Paris ca. 1718 e ca. 1719 (in totale, trentasette stampe fino al 1790, più trentotto copie manoscritte).
Opera quarta. Sonate à tre composte per l'Accademia dell'Em.mo e Rev.mo Sig.r Cardinale Otthoboni et all'Eminenza sua consecrate da Arcangelo Corelli da Fusignano. Opera quarta, in Roma, per Gio. Giacomo Komarek Boemo, 1694.
Ristampe: Bologna 1694; Roma 1695; Venezia 1695; Amsterdam 1696; Anversa 1696; Roma-Modena 1697; Bologna 1698; Venezia 1700; Venezia 1701; London ca. 1701-02; Bologna 1704; Amsterdam ca. 1706; Amsterdam ca. 1709; Amsterdam ca. 1709 (titoli diversi); Venezia 1710; Paris ca. 1710; Amsterdam ca. 1716 c ca. 1716; London ca. 1720 (in totale, trentanove stampe fino al 1790, oltre a venticinque copie manoscritte).
Opera quinta. Parte Prima - [Seconda] Sonate a Violino e Violone o Cimbalo Dedicate all'Altezza Serenissima Elettorale di Sofia Carlotta Elettrice di Brandenburgo Principessa di Brunswich et Luneburgo Duchessa di Prussia e di Magdeburgo Cleves Giuliers Berga Stetino Pomerania Cassubia e de Vandali in Silesia Grossen Burgravia di Norimberg Principessa di Halberstatt Minden e Camin Contessa di Hohenzollern e Ravenspurg Ravenstain Lauenburg e Buttau da Arcangelo Corelli da Fusignano Opera quinta (nell'angolo inferiore destro del titolo: "Incisa da Gasparo Pietra Santa", [a Roma] s. d. ma la dedica ha la data del "primo Gennaro 1700").
Stampe con varianti della prima edizione: due a Roma 1700. Ristampe: Bologna 1700; Amsterdam ca. 1700; London ca. 1700; s. l., né d. [ma London] ca. 1702; due a Amsterdam, ca. 1708, ca. 1709, e due ca. 1710; Bologna 1711; London ca. 1711. London, s. d. e ca. 1712; Amsterdam ca. 1716; Paris 1719; Amsterdam 1723, (in totale trentasei stampe fino al 1790, oltre a quarantasette copie manoscritte).
Opera sesta. Concerti Grossi Con duoi Violini e Violoncello di Concertino obligati e duoi altri Violini, Viola e Basso di Concerto Grosso ad arbitrio, che si potranno radoppiare; Dedicati all'Altezza Serenissima Elettorale di Giovanni Guglielmo Principe Palatino del Reno; Elettore e Arcimarescialle [sic] del Sacro Romano Impero; Duca di Baviera Giuliers, Cleves & Berghe; Principe di Murs; Conte di Veldentz, Spanheim, della Marca & Ravenspurg; Signore di Ravenstein & c. & c. da Arcangelo Corelli da Fusignano. Opera sesta. Parte prima-seconda, A Amsterdam Chez Estienne Roger, Marchand Libraire.
La stampa non ha data, ma la dedica che Matteo Fornari firma, dell'opera postuma del suo "famoso Maestro, e Benefattore", alla "Serenissima Altezza Elettorale", è datata "Roma, li 20 Novembre 1714". Numerosi esemplari portano, al posto di quella del Fornari, una dedica a firma del C., con la data Roma, 3 dic. 1712, che il Pincherle (1956, pp. 212 s.) ha dimostrato essere una falsificazione. A p. 35 dell'edizione, in fine della parte del primo violino del concertino, è impresso un Imprimatur, nella forma, totalmente insolita, piena di ampia e magniloquente solennità di un atto d'imperio sovrano, che comincia: "Clemens XI. Ad futuram rei memoriam. Cum, sicut dilectus filius Mattheus Fornari in Alma Urbe nostra Fidicen. Nobis nuper exponi fecit, ipse, qui, ut asserit, à qu. Arcangelo Corelli Fidicen. eius Magistro haeres tam Instrumentorum musicalium, quam etiam omnium Compositionum, & Operum institutus fuit, sextum Opus grandium Concentum eiusdem Arcangeli in Oppido Civitate nuncupato Amstelodami Ultraiecten., seu alterius Diocesis magnâ suâ Typis mandaverit, seu mandare intendit...", al che segue un privilegio di prolissa e benevolente vastità, quale poteva essere accordato soltanto all'erede spirituale designato da una delle supreme potenze artistiche della Roma del tempo. La trasparente sollecitazione del cardinale Ottoboni nulla toglie all'eccezionalità di tale rescritto papale in una stampa musicale. La data è "Romae apud S Mariam Maiorem sub Annulo Piscatoris die 31 Augusti MDCCXIV. Pontificatus nostri anno XIV".
Il carattere so lennemente encomiastico di questa postuma edizione originale è rafforzato anche dall'incisione a piena pagina raffigurante il busto scolpito da Angelo de Rossi e l'epigrafe apposta sotto a questo nella sepoltura del C. alla Rotonda.
Le ristampe, tutte londinesi, di Amsterdam e di Parigi, furono dieci fino al 1800, oltre a diciassette copie manoscritte, totali o parziali.
Edizioni. La prima edizione completa moderna in partitura delle opere del C., Les Oeuvres de A. Corelli, London 1888-91, in 5 volumi, compare nominalmente a cura di J. Joachim e F. Chrysander, in realtà per opera di questo solo, restando il nome del celebre violinista solo come firma nel titolo. Delle Sonate a tre dall'Op. 1 all'Op. 4 uscirono un'edizione "nach d. Urtext", a cura di W. Kolneder, 14 fasc., Mainz 1955-64; una Praktische Ausgabe a cura di W. Woehl, a Kassel 1960. Delle Sonate op. 5, la più autorevole edizione è a cura di B. Paumgartner, Mainz 1953. I Concerti grossi op. 6, nn. 1, 3, 8, 9, furono pubblicati nella Edition Eulenburg in partiture tascabili s. d. ma con prefazioni (e a cura di Alfred Einstein) variamente datate tra il 1926 e il 1933. Edizione "nach d. Erstdruck", a cura di W. Woehl, Leipzig 1956. Coi Concerti grossi op. 6 è uscito nel 1978 il volume IV, a cura di R. Bossard, della cit. Historischkritische Gesamtausgabe, a cura dell'Istituto di storia della musica dell'università di Basilea, sotto la direzione di H. Oesch. Tale edizione critica è in corso di pubblicazione.
Fonti e Bibl.: Dalla mole veramente sterminata della bibl. corelliana converrà escludere una grande quantità di opere palesemente inattendibili, contenenti notizie fantasiose, false o banalmente encomiastiche, stereotipamente ripetitive, che si sono pigramente trasferite da un elenco all'altro. Fonti biografiche manoscritte di primaria importanza vanno considerati i citati Appunti di padre Martini sui maestri bolognesi (Bologna, Bibl. d. Accad. Filarmonica, ms. 1.3 n. 61), le lettere sulla "polemica delle Quinte", in Bologna, (Bibl. d. Cons. D1-D2) e il testam. autografo del C. a Roma (Arch. di Stato, Prot. 3720, f. 56v), tutti peraltro pubblicati in Rinaldi, C. Tra le opere di carattere generale e le enciclopedie si ricordano le voci di importanza realmente fondamentale: A. Berardi, Miscellanee musicali, Bologna 1689, p. 45; W. C. Printz, Phrynis Mytilenaeus oder Satyrischer Componist, III, Leipzig 1696, p. 227; G. Muffat, prefazione a Ausserlesener mit Ernst-und Lust-gemengter Instrumental-Music Erste Versamblung, Passau 1701; F. Raguenet, Paralele [sic] des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéras, Paris 1702, p. 110; G. M. Crescimbeni, L'Arcadia, Roma 1708, pp. 268, 288; A. Adami, Osservazioni per ben regolare il coro dei cantori della Cappella pontificia, Roma 1711, p. 209; G. M. Crescimbeni, A. C., in Notizie istoriche degli Arcadi morti, I, Roma 1720, pp. 250 ss.; J. G. Walther, A. C., in Musical. Lex. oder Musical. Bibliothec, Leipzig 1732, pp. 184 s.; A. Guidi, Poesie. Con la sua vita descritta da G. M. Crescimbeni, Venezia 1751, p. 313; J. Hawkins, A general history of the science and practice of music, IV, London 1776, pp. 308-315; C. Burney, A general history of music, III, London 1789, pp. 550-559; E. L. Gerber, Historisch-biographisches Lex. der Tonkünstler, I, Leipzig 1790, coll. 300 s.; Id., Neueshistorisch-biograph. Lexikon, I, Leipzig 1812, coll. 780-789; F. Fayolle, Notice sur C., Tartini, Gaviniès, Pugnani et Viotti, in Dict. historique, I, Paris 1810, pp. 157 s.; P.Maroncelli, Vita di A. C., Milano 1819; R. Eitner, A. C., in Quellen-Lexikon der Musiker, III, Leipzig 1900, pp. 51-54; C. G. Parry, C.'s Style, in The Oxford history of music, III, Oxford 1902, pp. 337-375; E. J. Dent, A. Scarlatti, London 1905, pp. 74 s.; F. Pasini Frassoni, La famiglia di A. C., in Riv. del Collegio araldico, V (1907), pp. 83-86; A. Einstein, Italien. Musiker am Hofe der Neuburger Wittelsbacher, in Sammelbände der Internationalen Musik-Gesellschaft, IX (1907-08), pp. 336-424) F. Vatielli, Le Quinte del C., in La Nuova musica Firenze 1913, pp. 258 s.; Fusignano ad A. C. nel secondo cen. dalla morte, a cura di C. Piancastelli, Bologna 1914 (scritti del Piancastelli, Bonora, Torrefranca, e numerosi contributi e fogli d'album); L. Orsini, A. C., Torino 1915; F. Vatielli, Il C. e i maestri bolognesi del suo tempo, in Rivista mus. italiana, XXIII (1916), pp. 173-200, 390-412; A. Toni, A. C., cenni biografici, in Boll. bibliogr. musicale, Milano 1917, pp. 1-6; F. Torrefranca, I centocinquanta strumenti ad arco diretti dal C., in Rivista mus. ital., XXVII (1917), pp. 501 s.; F. Chrysander, Haendel, I, Leipzig 1919, p. 211; F. T. Arnold, A C. Forgery?, in Proceedings of the Musical Association, XLVII (1920-21), pp. 93-99; A. Moser, A. C. und A. Lolli, in Zeitschrift für Musikwissenschaft, I, (1918-19), pp. 287-293; A. Cametti, A. C. à Saint-Louis des Français à Rome, in Revue musicale, III (1922), pp. 25-28; M. Pincherle, De l'ornementation des sonates de C., in Feuillets d'histoire du violon, Paris 1927, pp. 137-143; A. Cametti, A. C. I suoi quadri e i suoi violini, in Roma. Rivista di studi e di vita romana, V (1927), pp. 412-423; F. T. Arnold, The art of accompaniment from a Thorough-Bass as practised in the XVIIth & XVIIIth Centuries, Oxford 1931, pp. 901 ss.; W. Krüger, Das Concerto grosso A. C. und seiner Schule in Italien, in Das Concerto grosso in Deutschland, Wolfenbüttel-Berlin 1932, pp. 20-33; M. Pincherle, A. C., Paris 1933; M. F. Bukofzer, Music in the Baroque Era, New York 1947, pp. 219-226; M. Rinaldi, Il Problema degli abbellimenti nell'op. V di C., in Quaderni dell'Accademia musicale Chigiana, X (1947), pp. 5-25; P. Radcliffe, A. C. and Antonio Vivaldi, in The Heritage of Music, III (1951), pp. 53-69; B. Paumgartner, A. C., in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, II, Kassel 1952, coll. 1668-1679; L. De Angelis, A. C. a Roma, in Studi romani, I (1953), pp. 406-409; S. Deas, A. C., in Music and Letters, XXXIV (1953), pp. 1-10; L. Montalto, C. e l'Accademia del Pamphilj, in La Scala, XLVII (1953), pp. 13-18; M. Rinaldi, A. C., Milano 1953; Catal. della Mostra corelliana, Roma 1954; L. Montalto, A. C. nell'ambiente musicale romano fra il 1671 e il 1713, in Rivista mus. italiana, LVI (1954), pp. 241-246; H. Parry-H. C. Colles, A. C., in Grove's Dict. of Music and Musicians, London 1954, pp. 438 ss.; L. Montalto, Un mecenate in Roma barocca. Il cardinale Benedetto Pamphilj, Firenze 1955, pp. 326 ss.; M. Rinaldi, A. C. e i suoi rapporti con i pittori contemporanei, in Atti dell'Accad. naz. di S. Luca, VI (1953-56), pp. 22-25; C. Sartori, Sono 51 (fino ad ora) le ediz. ital. delle opere di C. e 135 gli esemplari noti, in Collectanea Historiae Musicae, II (1956), pp. 379-389; A. Liess, Neue Zeugnisse von C. Wirken in Rom, in Archiv für Musikwissenschaft, XIV (1957), pp. 130-137; W. S. Newmann, Ravenscroft and C., in Music and Letters, XXXVIII (1957), pp. 369 s.; Id., The Sonata in the Baroque Era, Chapel Hill 1959 [1966], pp. 67-91, 155-159; A. Hutchings, The Baroque Concerto, London-New York 1961, pp. 89-13; G. Barblan, Un ignoto omaggio di Fr. Geminiani ad A. C., in Boll. d. Accad. music. chigiana, XIX (1962), pp. 35-41; A. Cavicchi, Una sinfonia ined. di A. C. nello stile del concerto grosso venticinque anni prima dell'op. VI, ibid., XX (1963), pp. 43-55; M. Fabbri, Tredici ignote composizioni attribuite a C., ibid., pp. 23-42; M. Rinaldi, Il vero e il falso C., in La Scala, CLX (1963), pp. 20 ss.; U. Kirkendale, Antonio Caldara. Sein Leben und seine Venezianisch-Römischen Oratorien, Graz-Köln 1966, pp. 26-29, 40 ss., 82 s.; Catal. della Mostra delle edizioni e manoscritti corelliani nelle raccolte Piancastelli della Bibl. comun. di Forlì, Fusignano 1967; E. Schenk, C. und Telemann, in Boll. d. Accad. mus. Chigiana, XXIV (1967), pp. 79-95; O. Jander, Concerto Grosso Instrumentation in Rome in the 1660's and 1670 's, in Journal of the American Musicol. Society, XXI (1968), pp. 168 s:, 173, 178 s.; A. Savioli, Appunti "conterranei" per A. C., in L'Osservatore romano, 9 ag. 1968, p. 3; H. J. Marx, Die Musik am Hofe Kardinal Ottobonis unter A. C., in Analecta musicologica, V (1968), pp. 104-177; Id., Ein neuaufgefundenes Autograph A. C., in Acta musicologica, XI, (1969), pp. 116 ss.; Id., Some C. Attribution assessed, in The Musical Quarterly, LVI (1970), pp. 88-98; M. Witte, Das Verhältnis von Grosso- und Concertino- Tonsatz in den Concerti grossi C. 's, in Die Musikforschung, XXIV (1971), pp. 287-294; H. Braun, Eine Gegenüberstellung von Original und Bearbeitung, dargestellt an der Entlehnung eines Corellischen Fugenthemas durch J. S. Bach, in Bach-Jahrbuch, LVIII (1972), pp. 5-11; H. J. Marx, A. C., in Répert. intern. des Sources Music., A/1/2, Kassel 1972, pp. 203-217; A. Cavicchi, C. e il violinismo bolognese, in Studi corelliani, Atti del primo congresso... 1968, in Quaderni della Riv. ital. di musicol., III (1972), pp. 33-46; Id., Notizie biografiche su A.C., ibid., pp. 131-138; L. Finscher, C. und die "Corellisierenden" Sonaten Telemanns, ibid., pp. 75-97; H. J. Marx, Unveräffentlichte KompositionenA. C., ibid., pp. 53-69; O. Mischiati, Aspetti dei rapporti tra C. e la scuola bolognese, ibid., pp. 23-31; P. L. Petrobelli, Tartini e C., ibid., pp. 99-107; M. Pincherle, C. et la France, ibid., pp. 13-18; L. F. Tagliavini, Premessa e altri interventi sulle Fonti corelliane e Problemi diprassi esecutiva, ibid., pp.49-53, 111-125; D. Libby, Interrelationshits in C., in Journal ofthe American Musicological Society, XXVI(1973), pp. 263-287; P. Buscaroli, Da C. a Fusignano e Il Romagnolo di Roma, in La stanza dellamusica, Torino 1977, pp. 55-62; H. J. Marx, Introduzione in A. C. Werke ohne Opuszahl. A. C. Historisch-kritische Gesamtausgabe der musikalischen Werke, V, Köln 1976, pp. 17-24; D. Arnold, The Corellian cult in England, in Nuovi studi corelliani. Atti del secondo congresso, in Quaderni della Rivista italiana di musicologia, IV (1978), pp. 81-88; A. Cavicchi, Aspetti didattici ed elementi di prassi esecutiva nell'opera di C., ibid., pp. 91-103; L. Finscher, C. als Klassiker der Trio-Sonate, ibid., pp. 23-29; C.Gianturco, C. e Stradella, ibid., pp. 55-62; H. J. Marx, Probleme der C.-Ikonographie, ibid., pp. 15-20; G. Morche, C. und Luliy, ibid., pp. 65-78; O. Mischiati, Una memoria sepolcrale di Filippo Juvarra per A. C., ibid., pp. 105-111; G. Pestelli, C. e il suo influsso sulla musica per cembalo del suo tempo, ibid., pp. 37-51, P. Buscaroli, Il padre della forma, in Il Giornale nuovo, 30 sett. 1980; P. Isotta, C.: il desiderio di essere un classico, in IlCorriere della sera, 8 ott. 1980; H. J. Marx, Die Überlieferung der Werke A. C. Catalogue raisonné, in A. C. Historisch-kritische Gesamtausgabe des musikalischen Werke, suppl., Köln 1980; M. Baroni, Problemi di fraseggio nelle sonate a tre di A. C., in Nuovissimi studi corelliani. Atti del terzo congresso, in Quaderni della Rivista italiana di musicologia, VII (1982), pp. 71-95; R. Bossa, C. e il cardinal Benedetto Pamphili. Alcune notizie, ibid., pp. 211-222; R. Dalmonte, Procedimenti di chiusa nelle sonate a tre di A. C., ibid., pp. 97-116; I. Della Seta, La musica in Arcadia al tempo di C., ibid., pp. 123-148; W. D. Förster, C. e Torelli: concerto grosso e sonata con tromba, ibid., pp. 329-346; N. M. Jensen, The Performance of C.'s Chamber Music reconsidered, ibid., pp. 241-251; F. Noske, C.'s o "Ciacona". Some analytical Remarks, ibid., pp. 15-26; F. Piperno, "Anfione in Campidoglio": presenza corelliana alle feste per i concorsi dell'Accademia del disegno di S. Luca, ibid., pp. 151-208; M. Viale Ferrero, A. C. collezionista, ibid., 225-239; C. Vitali, L'Op. III di C. nella diffusione manoscritta; apografi sincroni e tardi nelle biblioteche dell'Emilia-Romagna, ibid., pp. 367-380; T. Walker, Due apocrifi corelliani, ibid., pp. 381-401; C. Wintle, C.'s Tonal Models. The Trio Sonata Op. III, n. 1, ibid., pp. 29-67.