Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera di Arcangelo Corelli, uno dei maestri indiscussi del tardo Seicento, è profondamente debitrice di tendenze musicali condivise da molti compositori, gravitanti prevalentemente intorno alle istituzioni musicali bolognesi. La scrittura di Corelli tuttavia si distingue per alcune peculiarità che, pur non distaccandosi dalle tradizioni compositive dell’epoca, ne caratterizzano la produzione, conquistandogli una fama ben più profonda e duratura di quella toccata alla maggior parte dei suoi contemporanei.
Corelli l’immortale e la scuola bolognese
Le composizioni di ArcangeloCorelli non sono particolarmente innovative né tanto diverse, sul piano formale, da quelle di altri musicisti suoi contemporanei. Tuttavia la fortuna e la fama di Corelli iniziano fin dalla sua gioventù e, caso unico tra i compositori del suo tempo, durano quasi ininterrottamente fino ai nostri giorni. La sua caratteristica peculiare sta essenzialmente nell’aver scritto della musica che, pur perfettamente inserita nel gusto e nelle tendenze del suo tempo, conosce un livello di levigatura, equilibrio e stabilità formale superiori alla media.
Corelli fa confluire nelle sue composizioni molti elementi che hanno caratterizzato la musica strumentale italiana nel corso dell’intero Seicento. Tra di essi, alcuni meritano particolare attenzione: lo stile imitativo “da chiesa”, derivato dalla metamorfosi dell’antica canzone strumentale; le successioni di movimenti di danza; le variazioni su ostinati; l’oculato ricorso a dissonanze e cromatismi.
Nell’uso di questi elementi (e di altri procedimenti stilistici melodici e armonici del tempo) Corelli mostra grandi capacità di ricezione e di sintesi.
Nella sua opera si ritrovano elementi stilistici mutuati direttamente dai due ambienti musicali nei quali si è formato e ha operato: quello bolognese, legato alla sua formazione giovanile, e quello romano, che lo vede protagonista della vita musicale cittadina. L’influsso bolognese, determinante per le scelte formali e specificamente tecnico-strumentali, si fonde con elementi di pratica contrappuntistica derivati dalla tradizione di Giovanni Pierluigi da Palestrina radicati nella vita musicale della città papale.
In entrambe le città furono coltivate forme di concertazione basate sull’alternanza soli-tutti che si svilupperanno compiutamente nella forma del concerto grosso.
La scuola violinistica
Alla fama duratura di Arcangelo Corelli fa riscontro una ben più effimera notorietà dei suoi più diretti antecedenti e di altri musicisti a lui contemporanei e stilisticamente affini. Le vicende della tradizione violinistica emiliana, dalla quale Corelli proviene, sono nel Seicento di centrale importanza nella formulazione di quel linguaggio della sonata italiana che nel Settecento si diffonderà in tutta Europa.
Un ruolo assai importante nell’elaborazione dello stile sonatistico secentesco viene svolto da due istituzioni bolognesi: l’Accademia Filarmonica di Bologna e la Cappella musicale di San Petronio, luoghi di fertili incontri tra musicisti di grande talento, attivi nei due campi complementari della musica sacra vocale e della musica strumentale.
Sul versante editoriale, nella stessa città e negli stessi anni, è attivo Giacomo Monti, cui si deve la pubblicazione a stampa di molta musica strumentale, soprattutto di sonate a tre.
La cerchia di musicisti attivi in Emilia nella seconda metà del Seicento è generalmente conosciuta come “scuola bolognese” o “scuola emiliana”, ma il suo campo d’azione si estende anche al di fuori della città di Bologna; alcuni dei suoi protagonisti lavorano tra l’altro presso la vicina cappellaestense di Modena. Fra i precursori della fusione (che caratterizza le origini di questa scuola) fra tradizione strumentale chiesastica e musica da danza, popolare e di corte, si annovera proprio un modenese: Marco Uccellini, che ha saputo coniugare conquiste tecniche strumentali, come un uso avanzato di strumenti bicorde e un ampliamento dell’estensione nel registro acuto del violino, con una generale modernità di scrittura che ne farà un punto di riferimento per molti autori del tardo Seicento.
Fra le peculiarità della scuola bolognese si può individuare, negli ultimi decenni del Seicento, l’uso del violoncello come strumento solistico, che è logica conseguenza dello stabilirsi di un rapporto sempre più paritario tra gli strumenti ad arco nella sonata a tre. Gli autori di brani per violoncello e basso continuo, o per violino e violoncello, sono per lo più compositori e virtuosi di questo strumento attivi presso la Cappella di San Petronio, quali Domenico Gabrielli, noto al suo tempo col soprannome di Minghén dal viulunzél, e il suo allievo Giuseppe Iacchini (1670 ca.-1727 ca.), del quale è riportata una sonata in un’antologia bolognese artisticamente incisa da Carlo Antonio Buffagnotti (1660 ca.-1711).
La sintesi corelliana
Alla fase storica di sperimentazione, che contraddistingue buona parte del Seicento, segue una fase di stabilizzazione del linguaggio. L’ordine corelliano, figlio anche della fertile confusione degli anni precedenti, è fatto di un magistrale senso della misura, di una chiarezza linguistica che non sconfina nella pedanteria. Sul finire di un secolo che ha inteso applicare i principi dell’antica retorica alla musica, Corelli si appropria di figure e procedimenti retorico-musicali, dosandoli in modo da ottenere costruzioni di grande simmetria.
Espediente retorico frequente nel lessico corelliano è la cadenza sospesa sulla dominante in conclusione di movimenti introduttivi o intermedi, allo scopo di suscitare nell’ascoltatore un senso di attesa. La tonica, cioè la risposta a quella che suona come una “questione irrisolta”, arriva puntualmente con l’inizio del movimento successivo. Il tempo allegro sottolinea, il più delle volte, il senso affermativo della risoluzione tonale. Al movimento introduttivo del celebre Concerto grosso op. 6 n. 8, composto per la notte di Natale, segue invece un adagio assai intenso, che si caratterizza per i cromatismi e per l’imprevedibilità delle soluzioni armoniche.
Nelle sue composizioni a stampa Corelli, violinista di fama, non appare incline al virtuosismo appariscente: molte sue composizioni, specie tra le sonate a tre, sembrano dal punto di vista tecnico quasi la negazione dell’abilità di strumentista per la quale invece era acclamato.
Volendo credere a un’affermazione dello stesso Corelli, secondo la quale scopo precipuo della sua musica è “far campeggiare il violino”, occorre ritenere che i segreti della sua arte, che gli consentono di emergere tra i contemporanei autori di più complesse pagine violinistiche, fossero prevalentemente riposti nell’abilità interpretativa, specie in quegli aspetti maggiormente lasciati all’abilità dell’esecutore, quali dinamica, agogica, ornamentazione.
Sebbene l’attribuzione a Corelli sia dubbia, può dar conto delle possibilità di intervento dell’esecutore (e dello stile esecutivo dello stesso Corelli) un’edizione della Sonata n. 1 op. 5, nella quale alla parte originale di violino è sovrapposta una parte alternativa arricchita da ornamenti, composti, secondo il frontespizio, da Corelli “come lui li suona”.
Nei Concerti grossi di Corelli si trovano, amplificati, elementi già presenti nelle sonate a tre: tra gli uni e le altre corrono analogie di procedimento e ricorrenze ritmiche, melodiche e armoniche. L’osmosi tra la forma della sonata a tre e quella del concerto grosso sarà del resto confermata da uno dei migliori allievi e propagatori dello stile di Corelli all’estero, Francesco Geminiani, che comporrà sei concerti grossi basati su altrettante sonate del maestro.