Archeologia e società dell’informazione
Una denominazione controversa
L’informatica archeologica è una disciplina recente e in continua evoluzione, che promuove lo sviluppo di procedure e metodologie d’indagine formalizzate per acquisire, rappresentare, elaborare, comunicare i dati, producendo al contempo nuove informazioni e strumenti per la ricerca che superano le forme tradizionali e recano un contributo al progresso degli studi e della pratica dell’archeologia. L’informatica archeologica affonda le sue radici negli anni Cinquanta del 20° sec., quando l’archeologia ha accolto procedimenti d’indagine scientifici e tecnici, derivandoli inizialmente da altre scienze e adattandoli poi alle specifiche esigenze della propria ricerca. Il ricorso al «computo elettronico», come lo definì l’etruscologo Massimo Pallottino (1909-1995), è stato per l’archeologia più precoce rispetto ad altre discipline umanistiche e ha trovato un fecondo campo di applicazione soprattutto negli studi preistorici, già avviati in quegli anni alla sperimentazione di tecniche di analisi statistica descrittiva e subito attratti dal nascente movimento della New Archaeology, che sosteneva l’importanza di adottare metodi propri delle scienze esatte.
Il successivo percorso evolutivo dell’informatica archeologica si allinea a quello di altre discipline umanistiche (e non): se le prime applicazioni dei computer si rivolgono soprattutto alle soluzioni offerte dall’analisi statistica, in quanto l’automazione mediante strumenti elettronici è stata introdotta inizialmente nel calcolo numerico, il successivo, incessante sviluppo delle applicazioni informatiche è invece legato agli aspetti logico-formali del trattamento dell’informazione. Si sperimentano nuove, inaspettate soluzioni per rendere funzionali e sistematiche le operazioni di catalogazione e gestione dei dati, si adottano nuovi strumenti idonei al recupero e alla comunicazione dei dati e si vengono a determinare percorsi d’indagine scientifica alternativi, che segnano una profonda incidenza dell’informatica sulle metodologie tradizionali della ricerca archeologica.
La scelta dell’espressione informatica archeologica non è dunque casuale, ma è frutto di una riflessione consapevole che si distingue dalla più diffusa tendenza a coniare termini o locuzioni diversificati (in ordine di frequenza: archeologia computazionale, archeoinformatica, archeologia digitale, archeomatica), spesso considerati, più che il risultato di un esercizio terminologico, come l’esito di una situazione che riflette una coscienza accademica non ancora pronta a riconoscere l’autonomia e lo status della nuova disciplina. L’informatica archeologica, branca della più ampia informatica umanistica, trae origine da un’analisi degli sviluppi dei metodi archeologici e delle innovazioni prodotte dall’utilizzazione delle procedure computazionali, con particolare riferimento agli aspetti della rappresentazione dei dati, della formalizzazione delle fasi del lavoro di ricerca, e infine delle tecniche di diffusione dei risultati. Secondo quest’ottica, la cultura informatica interagisce con quella archeologica per compiere azioni fondamentali: costruire l’oggetto dell’analisi; programmare la ricerca sin dall’impostazione, mediante operazioni di codifica e strutturazione delle informazioni; giungere infine, attraverso l’uso di tecniche per archiviare, elaborare e trasmettere i dati, a produrre nuove informazioni e interagire proficuamente con esse.
Verso uno status teorico dell’informatica archeologica
Sulla natura, sull’oggetto e sui metodi dell’informatica archeologica esiste oggi una letteratura abbastanza ampia, dedicata da un lato a delimitarne il campo d’indagine, individuandone concretamente i compiti e le specificità tematiche e metodologiche, dall’altro lato a ricercarne le origini e i fondamenti teorici. Soprattutto nel corso degli ultimi anni, si è operato per collegare applicazioni pratiche e indirizzi teorici (On the theory and practice of archaeological computing, 2000; Digital archaeology, 2006; Barceló 2009): le alterne vicende dell’approccio statistico alla classificazione dei dati archeologici sono state collegate al dibattito teorico sul paradigma processuale, propugnato dalla New Archaeology, e quello postprocessuale (o antiprocessuale, come lo ha definito Colin Renfrew), che si sviluppa negli anni Ottanta sotto la spinta di Ian Hodder. Il crescente favore verso i GIS, (Geographical Information System) e i sistemi multimediali, idonei a risolvere problemi d’integrazione fra archivi di dati di diversa natura e provenienti da fonti diversificate, è stato invece posto in relazione con l’evoluzione dell’archeologia teorica verso l’approccio contestuale. Infine, l’attenzione rivolta alla formalizzazione e alla rappresentazione della conoscenza è stata collegata all’affermarsi dell’archeologia cognitiva, che convalida il modello tripartito del ragionamento logico, basato sulle fasi successive di acquisizione, strutturazione e ricostruzione.
Più che nella definizione di parallelismi, gli aspetti teorici dell’informatica archeologica andrebbero ricercati nella prassi stessa della ricerca, che utilizza metodiche basate su formalizzazioni rigorose, elaborate a partire dalla costruzione di modelli dei propri oggetti di studio. Fondamentale dunque è il ruolo svolto da tali modelli, che possono assumere significati diversi in connessione con l’evolversi di approcci multiobiettivo al problema delle costruzioni interpretative (I modelli nella ricerca archeologica, 2003). In un contesto di stretta relazione con i metodi messi a punto in funzione dell’operatività delle ricerche, si possono riconoscere tre diversi tipi di modelli: il modello empirico, il modello formale e il modello digitale. Il primo è inteso a individuare e delineare la struttura dei dati archeologici, mentre il secondo utilizza ed elabora tali dati per ricostruire e interpretare le vestigia del passato: la loro interazione e, soprattutto, la loro concordanza implicano la generazione di teorie e la loro verifica attraverso la comparazione tra la struttura del modello empirico e le conclusioni del modello formale. Il modello digitale, presupponendo la formalizzazione delle procedure tradizionali, interagisce con i due precedenti. Si tratta di un modello dinamico, flessibile e manipolabile, attivo sia nelle fasi di acquisizione, codifica e strutturazione dei dati sia nella formalizzazione dei processi analitici che permettono di esaminare, interpretare e sottoporre a verifica i dati. In sostanza, in un’analisi computerizzata, i tre modelli operano simultaneamente: i risultati raggiunti attraverso il modello digitale possono causare ripensamenti su alcuni elementi essenziali che caratterizzano il modello teorico (formale); ciò può indurre a una visione modificata del modello descrittivo (empirico) di partenza e dunque a una nuova elaborazione del modello digitale.
Nella gestione dei dati di scavo, per es., le problematiche archeologiche sono molteplici e complesse, in quanto non consistono solo nell’individuare la struttura dei dati che emergono dal passato, ma anche nella definizione delle relazioni che esistono tra tali dati e altri di natura diversa (geografici, geologici, geofisici, topografici, storici ecc.), nella scelta delle procedure da seguire per la loro acquisizione e registrazione, oggi arricchite dall’apporto di tecniche sempre più sofisticate, nella definizione dei metodi di analisi necessari per condurre le fasi successive allo scavo. La costruzione di un modello digitale implica pertanto la realizzazione di un sistema di archiviazione automatizzata che rifletta la struttura dei dati di scavo, possa essere operativo sia direttamente sul campo sia in fase di elaborazione successiva delle informazioni e preveda lo sviluppo di applicazioni di carattere analitico che permettano di ricreare in ambiente digitale le diverse fasi di ‘lettura’ del terreno (Towards reflex-ive methods in archaeology, 2000).
Affinché la complessità strutturale di un contesto archeologico possa essere descritta in modo formalizzato e in tutti i suoi aspetti, è necessario superare il tradizionale procedimento statico di archiviazione e interrogazione della documentazione, per passare alla realizzazione di un modello dinamico. Da un punto di vista applicativo, tale modello si concretizza in un sistema informativo integrato che contiene non solo la descrizione dei dati primari ma anche la struttura interpretativa. In tal modo è possibile includere ogni dato secondario che emerge durante l’analisi, permettendo di passare dai problemi descrittivi a quelli epistemologici, secondo un dinamismo ciclico che è alla base del programma di ricerca logicista propugnato nel secolo scorso da Jean-Claude Gardin (Une archéologie théorique, 1979) e recentemente riproposto dall’Associazione europea Arkeotek (Association Européenne d’Archéologie des Techniques, http:// www.arkeotek.org/), con nuove valenze applicative nella realizzazione di modelli formalizzati di scrittura dei testi archeologici.
L’eredità del 20° secolo
Se l’uso di sistemi integrati in cui sono superate e fuse le singole specializzazioni ed è privilegiata la relazione fra le fasi informatizzabili della ricerca archeologica costituisce senz’altro il focus attuale degli obiettivi delle applicazioni computerizzate, l’informatica archeologica del 21° secolo resta tuttavia strettamente legata alle conquiste degli anni precedenti e in particolare a quelle dell’ultimo decennio del Novecento, un periodo molto recente, ma tutt’altro che breve se considerato sotto l’ottica della rapidità evolutiva del settore informatico. In estrema sintesi, acquisite e consolidate nel tempo le conoscenze statistiche e riconosciute le potenzialità delle banche dati per l’archiviazione automatizzata dei dati, gli anni Novanta sono stati quelli in cui esperienza e innovazione si sono coniugate dando vita a nuovi orizzonti applicativi: la grafica computerizzata, il trattamento delle immagini, i GIS, Internet, i sistemi multimediali, e infine la realtà virtuale.
Nuove prospettive d’indagine sono state aperte soprattutto dalle soluzioni offerte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, Information and Communication Technology), considerate come nevralgiche per lo sviluppo e la competitività a livello internazionale. In particolare, il settore di sviluppo connesso con le problematiche di accesso alle informazioni ha catalizzato l’attenzione del mondo scientifico e l’informatica archeologica ha promosso nuove posizioni di studio, di ricerca e di applicazione. Gli aspetti che hanno suscitato più interesse, e che comunque hanno trovato una base teorica di riflessione già consolidata, sono stati quelli connessi con lo sviluppo di nuovi metodi e tecniche per l’elaborazione, l’interpretazione e la presentazione di informazioni digitali di varia natura e provenienza, per la loro integrazione e trasmissione senza vincoli né spaziali né strumentali, e per la modellazione di sistemi complessi, in linea con le politiche di ricerca e di sviluppo internazionali.
Per comprendere al meglio le evoluzioni più recenti, non si può dunque prescindere da un’analisi retrospettiva, seppur breve, delle applicazioni informatiche alla ricerca archeologica, che sono molteplici e di cui non è semplice proporre una sintesi, in quanto la stessa storia degli studi pone in evidenza un’alternanza di indirizzi che ha dato a volte maggiore rilevanza alle tecnologie informatiche e altre alle metodologie archeologiche. Questo emerge con evidenza da alcuni osservatori privilegiati, come gli atti dei congressi internazionali Computer applications and quantitative methods in archaeology in vita sin dalla metà degli anni Settanta (http://www.caaconference.org/), la rivista elettronica «Internet archaeology» creata nel 1995 che ha dedicato articoli e sezioni tematiche all’argomento (http://intarch.ac.uk/), o la rivista «Archeologia e calcolatori», l’unica stabile nel settore, che ha visto la luce nel 1990 e che ha anche ereditato la pubblicazione di «Archaeological computing newsletter», come supplemento semestrale (http://soi.cnr.it/archcalc/).
Nelle fasi iniziali, l’approccio sistematico alla valutazione delle applicazioni informatiche all’archeologia ha dato preminenza agli strumenti e ai software utilizzati; ben presto, però, si è ribadito il rilievo del contributo metodologico della ricerca archeologica, passando dalla novità delle tecniche ai settori d’indagine più proficuamente coinvolti. La materia è stata così suddivisa in ricerche sul campo e in laboratorio; classificazione e datazione dei reperti; catalogazione, tutela e fruizione del patrimonio archeologico; documentazione, conservazione e restauro delle opere d’arte; pubblicazione e diffusione delle informazioni.
Sulla base dei nuovi interrogativi, suscitati proprio dai mutamenti apportati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la questione può essere oggi ulteriormente approfondita. L’archeologia, caratterizzata da un legame sempre più vivo con la realtà socioeconomica dei singoli Paesi, trova nelle procedure offerte dall’informatica un punto di riferimento e insieme una fonte di rinnovamento, che ne amplifica l’eco nel mondo postindustrializzato moderno: dalle fasi di prospezione e di scavo, alle indagini di laboratorio, alla ricerca documentaria, alla diffusione delle informazioni e all’amministrazione e tutela del patrimonio archeologico, l’informatica si propone come una piattaforma integrata per gestire simultaneamente metodi e risorse di discipline diverse che concorrono alla ricostruzione dei fenomeni che hanno determinato la stratificazione delle testimonianze del passato.
Se si tengono in considerazione queste premesse, l’informatica archeologica può essere oggi strutturata in un susseguirsi di parti in cui emergono convergenze e originalità di intenti e che si concretizzano in un rapporto armonico tra presupposti teorici e modalità applicative. Tali parti rispecchiano alcune tematiche ricorrenti che hanno accompagnato il complesso e dibattuto rapporto tra archeologia e informatica, quale frutto della necessaria integrazione tra spunti teorici e sperimentazioni: l’interazione tra riflessioni di metodo e procedimenti informatici; la natura del linguaggio e i suoi rapporti con la rappresentazione dei dati; il ruolo cruciale del web per una nuova comunicazione basata sul principio del sapere condiviso; il riscontro dell’archeologia nel mondo sociale ed economico, grazie a una sua maggiore visibilità. Al di là dell’evoluzione degli strumenti informatici, della varietà e complessità delle applicazioni, nonché della sempre più frequente spettacolarizzazione delle tecniche espressive, questo tipo di approccio resta duraturo nel tempo e può essere inquadrato nel più ampio scenario dell’integrazione tra archeologia e società dell’informazione nell’era della globalizzazione.
Il ruolo del web nella ricerca documentaria
Nel corso degli ultimi anni, alla luce della diffusione ormai consolidata della comunicazione multimediale, che utilizza la rete come mezzo di diffusione delle informazioni, la necessità di fornire una soluzione al problema del linguaggio, che è stato uno dei temi ricorrenti nel rapporto tra archeologia teorica e informatica archeologica, si è fatta ancora più pressante. Il web, infatti, è divenuto esso stesso un mezzo di trasmissione, che fa uso di standard internazionalmente riconosciuti per la rappresentazione e la trasmissione dei dati e che può risolvere vecchi problemi in modo tecnologicamente innovativo. A differenza del passato, il linguaggio deve ora provvedere contemporaneamente alla catalogazione, all’interazione, allo scambio, alla trasmissione di dati archeologici di natura diversa, descrittivi, spaziali e multimediali, con implicazioni che vanno dalla rappresentazione della conoscenza alle modalità di comunicazione (Nuove frontiere della ricerca archeologica, 2004).
Il linguaggio, infatti, deve esprimere, attraverso un processo di formalizzazione attuato con procedure informatiche, i vari passaggi del ragionamento archeologico, dall’esplicitazione dei dati iniziali all’interpretazione delle culture di riferimento. Poiché non esiste strumento informatico che trasformi automaticamente il linguaggio naturale in linguaggio scientifico formalizzato e, d’altro canto, poiché nessun discorso archeologico in linguaggio informatico riscuoterebbe successo nella comunità archeologica, si propone – oppure, per chi ha memoria degli studi di J.C. Gardin, sarebbe meglio dire si ripropone – di ricorrere ai ‘metalinguaggi’. Essi assumono in questo contesto la funzione di generatori di nuovi linguaggi che descrivono la struttura e definiscono le modalità di visualizzazione dei dati. Nelle ricerche umanistiche, ai linguaggi di marcatura, primo fra tutti l’XML (eXtensible Markup Language), le cui specifiche sono divenute dal 1998 una raccomandazione ufficiale del W3C (World Wide Web Consortium), viene inoltre delegata la funzione di veicolo per trasformare i documenti in una fonte di informazioni strutturate, integrabili, indipendenti dai software proprietari e fruibili da più applicazioni.
L’evoluzione dei linguaggi informatici e le loro possibili applicazioni in ambito archeologico hanno inoltre riacceso, sotto un’ottica innovativa e soprattutto sovranazionale, l’attenzione verso gli standard di catalogazione (D’Andrea 2006). Nel contempo, si è assistito alla diffusione dei metadati – tra cui in particolare il set di elementi definito dalla DCMI (Dublin Core Metadata Initiative, http://dublincore.org/) – cioè di informazioni, comprensibili dalla macchina, che descrivono i dati o le risorse per facilitare il reperimento, lo scambio e la comunicazione in rete delle informazioni. È interessante anche notare che l’influenza avuta dal mondo della comunicazione multimediale sulle modalità di rappresentazione e di trasmissione dei dati archeologici ha trovato, come mai negli anni precedenti, una piattaforma operativa comune e convergenze d’intenti con gli studi letterari, linguistici, filologici e storici (Archivi informatici per il patrimonio culturale, 2006).
Passando dai linguaggi ai sistemi di catalogazione informatizzata dei dati, non si può non soffermarsi sulle banche dati, applicate fin dagli anni Settanta del secolo scorso come strumento di catalogazione, e quindi di tutela, del patrimonio, contenitori dei grandi corpora archeologici e catalizzatori delle informazioni alfanumeriche raccolte nel corso degli scavi. Nel settore della catalogazione e della tutela dei beni culturali, rispetto alle esperienze iniziali di carattere preminentemente documentario, che hanno avuto il loro punto di gravitazione in specifiche istituzioni pubbliche, lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha esercitato una sensibile influenza sulle metodologie di catalogazione e l’archeologia è stata testimone della naturale evoluzione dalle banche dati ai sistemi multimediali – dai DBMS (DataBase Management System) ai MMDBMS (MultiMedia DataBase Management System) – soprattutto in settori della ricerca dedicati, oltre che alla catalogazione, alla diffusione delle informazioni, alla didattica e alla musealizzazione.
Da un esame aggiornato delle applicazioni è immediatamente manifesta, rispetto al passato, la volontà di superare, attraverso la messa a punto di specifiche funzioni e appositi strumenti, il livello della catalogazione e gestione informatizzate dei dati, utilizzando la rete come un ambiente per la consultazione e la condivisione delle conoscenze, per facilitare sia l’opera e l’integrazione dei diversi enti preposti alla documentazione e alla tutela dei beni sia la fruizione da parte di un pubblico più ampio. Tra le diverse tipologie di dati fanno il loro ingresso anche quelli multimediali, segno del mutare dei tempi e di una comunicazione che ha bisogno sempre più di avvalersi del visivo e del sonoro. Gli standard proposti a livello centrale sono rivolti alla catalogazione non solo del bene ma anche delle sue relazioni con il contesto culturale di riferimento, attraverso l’emanazione di normative per l’acquisizione e la strutturazione dei dati, per la progettazione e la conservazione di archivi digitali e per l’interscambio delle informazioni a livello nazionale, ma con un’attenzione sempre più rivolta verso una dimensione sovranazionale, in uno spirito ubiquitario che è indifferente ai confini geografici tradizionali.
Se a livello internazionale l’attività svolta dall’Archaeology data service (http://ads.ahds.ac.uk) può indubbiamente costituire un punto di riferimento, a livello nazionale è esemplificativo, per continuità d’intenti e capacità d’innovazione, il caso del Sistema informativo generale del catalogo (SIGEC), realizzato dall’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, che non a caso viene definito come uno «strumento per la conoscenza, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale» (http:// www.iccd.beniculturali.it/). Questo sistema integra-to, implementato agli inizi del nuovo secolo, è il risultato di un’attività pluridecennale nel settore della catalogazione del patrimonio culturale, sviluppatasi attraverso la realizzazione di vocabolari e dizionari terminologici per garantire l’omogeneità dei dati e la definizione di normative per la formalizzazione dei processi stessi di catalogazione, dalla fase iniziale di compilazione a quella finale di validazione delle informazioni. Suddiviso in quattro sottosistemi (alfanumerico, multimediale, cartografico e utente), esso opera in un ambiente multimediale per consentire una gestione unitaria dei flussi di dati catalografici e, al contempo, una gestione integrata di dati e metadati secondo i più aggiornati standard europei, al fine di una migliore condivisione e fruizione del patrimonio informativo nazionale.
Questa impostazione coincide con i principi di in-teroperabilità e armonizzazione che ormai regnano sovrani, a livello europeo, nell’ambito di proposte progettuali e dichiarazioni formali volte alla digitalizzazione del patrimonio culturale. La discussione sui protocolli di scambio e sui metadati è particolarmente vivace e l’attenzione si rivolge a livello sovranazionale anche verso la realizzazione di ontologie formali che consentano di superare il livello di documentazione locale per raggiungere lo scambio e l’integrazione di informazioni provenienti da fonti eterogenee in un’unica base di conoscenza. In questa direzione si è orientato il CIDOC-CRM (International Committee for Museum Documentation-Conceptual Reference Model), riconosciuto nel 2006 come standard ISO 21127:2006 (http://cidoc.ics.forth.gr/), il cui scopo primario è di promuovere, attraverso un approccio semantico, una conoscenza condivisa delle informazioni relative ai beni culturali, che supporti al contempo ragionamento e deduzioni spazio-temporali.
Resta la questione della terminologia specialistica, che ha accompagnato tutte le fasi evolutive dell’informatica archeologica alla ricerca di un’omogeneità descrittiva e che assume oggi nuovi aspetti, che ampliano le prospettive verso una descrizione non solo intrinseca del bene ma basata anche sulle sue connotazioni temporali e spaziali, al fine di ottenere un’esaustività nelle scelte informative. Per es., nel caso della classificazione degli oggetti mobili e della definizione di dizionari terminologici, un nuovo approccio di tipo interdisciplinare, che promuove il ricorso all’antropologia sociale e agli studi etnografici, porta ad assegnare un ruolo centrale alla descrizione formalizzata degli aspetti funzionali piuttosto che di quelli formali. Questo mutamento si lega all’evoluzione della ricerca archeologica e alla tendenza, insita nelle premesse teoriche del metodo contestuale, di rivolgere la propria attenzione a situazioni particolari che, nel loro complesso, consentono di approfondire problematiche più ampie relative, per es., ai comportamenti sociali legati all’introduzione, alla preparazione e infine al consumo di cibi.
Codifica e classificazione dei dati
A differenza dei problemi di formalizzazione del linguaggio, che risultano tradizionalmente legati alla ricerca documentaria, il concetto di codifica è stato in genere connesso operativamente all’approccio quantitativo e a quel ciclo statistico che esso mette in moto. Nell’andamento degli studi tale approccio, che ha costituito la prima reale apertura verso l’elaborazione elettronica dei dati, è così divenuto un consolidato modello metodologico di riferimento nella classificazione tipologica e morfologica dei materiali, nell’analisi della distribuzione spaziale e cronologica delle testimonianze, nella simulazione dei processi di formazione, consolidamento o contrazione di fenomeni complessi economici, sociali e culturali.
Già a partire dagli anni Novanta, il vorticoso progredire delle tecnologie informatiche ha comportato un’evoluzione nel tipo di approccio da parte degli archeologi all’automazione dei propri dati e alcuni settori applicativi, tra cui proprio quello dei metodi matematico-statistici, ne hanno risentito. Infatti, se si esclude il caso dell’analisi spaziale, che ha trovato nuove forme di vitalità nell’ambito applicativo dei GIS, si è notata un’indubbia contrazione dell’uso delle tecniche statistiche, o piuttosto una sensibile circoscrizione dei campi applicativi, rivolti in genere a problematiche di carattere archeometrico, di classificazione dei materiali, soprattutto ceramici e litici, e di seriazione cronologica.
Non si tratta, però, di un segnale negativo, come è tra l’altro testimoniato dalla recente pubblicazione o ristampa di manuali dedicati alla statistica in archeologia (Fletcher, Lock 20052; Baxter 2003) e dal continuo aggiornamento di software dedicati e distribuiti in rete, come nel caso di WinBASP (Bonn Archae;ological Software Package), il cui primo nucleo risale al 1976. Il fenomeno può essere considerato, invece, come una tendenza alla specializzazione, in cui la prospettiva dell’integrazione e dell’interpretazione di dati diversificati nell’ambito del loro contesto culturale ha aperto la via alla sperimentazione di approcci diversi e all’approfondimento di tematiche già a lungo discusse: limiti e vincoli richiesti dall’applicazione delle tecniche statistiche, stime sulla distribuzione delle popolazioni e sull’attendibilità dei campioni, criteri di rappresentatività e casualità degli stessi rispetto alla popolazione di riferimento.
Come in altri settori, anche nel caso della statistica applicata le potenzialità dell’ICT hanno segnato in qualche modo dei mutamenti nel concetto di codifica dei dati, soprattutto se considerata come un’interfaccia tra la realtà osservata dai ricercatori e gli strumenti di analisi sviluppati dagli specialisti. Tematiche come varietà, ridondanza, informazioni mancanti, incertezza, con cui spesso una disciplina quale l’archeologia si deve confrontare, hanno costituito lo spunto per delineare le nuove tendenze metodologiche dell’approccio statistico. Esse sono indirizzate verso il superamento della codifica tradizionale dicotomica (presenza/assenza delle variabili) e la ricerca di soluzioni più sfumate, maggiormente flessibili e al contempo non neutrali, che consentono di incorporare nella descrizione dei dati anche un livello di indeterminatezza che più si avvicina all’esperienza umana soggettiva. Tra queste soluzioni vanno, per es., citate quelle relative all’impiego della logica fuzzy (sfumata o sfocata), con i gradi di libertà che rendono conto di una serie di possibilità intermedie posizionate tra i valori 0 e 1 della logica algebrica, e al metodo bayesiano, fondato sul principio che l’osservazione sperimentale di un evento modifica le ipotesi iniziali permettendo il passaggio dalle probabilità a priori, che prescindono dal verificarsi o meno dell’evento, a quelle a posteriori, o finali.
In questa temperie di critica latente verso l’approccio quantitativo, si verifica un riavvicinamento al testo descrittivo con un conseguente passaggio dall’analisi di dati codificati sotto forma di matrice numerica del tipo unità di rilevazione/variabile, a procedure più ‘qualitative’ di analisi statistica testuale di tipo esplorativo, già sperimentata negli studi linguistici e nelle scienze sociali, psicologiche e politiche. Questo approccio, che analizza con metodi statistici frequenze, occorrenze simultanee o sequenze di forme lessicali che si ripetono nello stesso ordine, è risultato più vicino alle esigenze di descrivere in modo formalizzato non solo informazioni di carattere morfologico e morfometrico ma anche aspetti iconografici e stilistici, rinforzando l’interesse da parte degli archeologi classici. Le novità non si fermano però qui: viene introdotta anche l’analisi delle forme, che ribalta il processo di classificazione da basi descrittive a basi geometriche e visuali, attraverso l’inserimento dei concetti di curva, superficie e immagine (shape analysis).
Il tema della classificazione, quale processo intellettuale di esplicazione concettuale, appare dunque più che mai vitale nelle ricerche archeologiche. Se le tecniche di classificazione automatica, come la cluster analysis, o quelle di riduzione fattoriale risultano ormai nel novero delle procedure di riferimento, ci si avvia contemporaneamente alla sperimentazione dell’approccio ontologico. La modellazione concettuale delle classi, attraverso la costruzione di un’ontologia che descriva il significato dei termini e rappresenti le loro relazioni, ha lo scopo di aumentare le capacità espressive della rappresentazione stessa. Quest’ultima non segue uno schema rigido di tipo gerarchico, ma prende in considerazione una complessa rete di relazioni, a cui è possibile associare un’interpretazione degli oggetti di carattere strutturale e funzionale.
Nell’ambito della più ampia problematica della rappresentazione della conoscenza, l’approccio si lega al problema della distinzione tra una classificazione estensionale e una intensionale, che risiede nella scelta di procedure basate sul raggruppamento di oggetti o sull’articolazione di concetti. L’uso di ontologie arricchisce e specializza le operazioni di classificazione e propone forme originali di fruizione dei beni, che possono essere organizzati in classi e sottoclassi, collegate le une alle altre attraverso una ricca tipologia di legami tra parti descrittive e dimensione interpretativa.
Dal GIS al webGIS: verso il paesaggio culturale
Tornando a un aspetto più operativo della ricerca archeologica, il settore che ha di sicuro beneficiato maggiormente dei nuovi metodi informatici e delle nuove strumentazioni è quello delle ricerche sul campo, a livello sia territoriale sia insediamentale. Ma parlare di territorio nel 21° sec. è restrittivo, perché nella ricostruzione della geografia dell’antichità entra in scena il paesaggio culturale, frutto dell’interazione tra attività umana ed evoluzione ambientale. Ciò avviene contemporaneamente al potenziamento dei GIS, che sono stati accolti negli anni Novanta come una vera e propria rivoluzione e che costituiscono una delle nervature strategiche degli sviluppi dell’informatica archeologica. Questi sistemi, idonei a integrare una serie di scale spaziali in un modello concettuale unitario, coniugano gli esiti dell’affinamento di strumenti sempre più sofisticati sia per l’acquisizione e l’elaborazione di documentazioni telerilevate o aerorilevate (storiche e recenti), sia per la localizzazione e georeferenziazione delle testimonianze (si pensi solo all’ingresso del GPS, Global Positioning System, negli studi sul territorio o agli esiti delle indagini geofisiche) con i processi di elaborazione e analisi dello spazio tridimensionale.
Stando al passo con un approccio di ricerca integrato, inteso alla comprensione organica e complessiva dell’antico assetto del territorio e dei centri urbani, i GIS ben s’inseriscono nell’indirizzo dell’archeologia del paesaggio (Chapman 2006). Il modello di organizzazione dei dati proposto è di tipo georelazionale, cioè un modello funzionale che dalle banche dati tradizionali si estende agli archivi a connotazione spaziale, integrando in un singolo processo di strutturazione e analisi sia diversi tipi di informazioni sia diversi metodi e modelli già noti e sperimentati nell’informatica archeologica. Questi ultimi sono legati, da un lato, al trattamento del dato grafico e alla sua visualizzazione scientifica e, dall’altro, alle tecniche di analisi statistica spaziale, nate in ambiente anglosassone negli anni Settanta, ma che s’inseriscono ora in un processo di rivitalizzazione metodologica.
L’interesse per questi sistemi, sui quali tante pagine sono state scritte anche di recente (Wheatley, Gillings 2002; Conolly, Lake 2006; GIS and archaeological site location modeling, 2006), deve oggi tendere a un elemento di coesione che emerge con evidenza: il ruolo centrale del dato spaziale come parte integrante della ricerca, indicatore di scelte insediamentali e delle loro relazioni, fonte di un linguaggio visivo e di una conoscenza integrata del territorio e dello scavo, che divengono fruibili nel loro contesto geografico. Le questioni realmente aperte riguardano, perciò, le diverse modalità di acquisizione, rappresentazione e trasmissione formalizzate del dato spaziale, che sono in stretta relazione con le procedure adottate anche in altre discipline.
Nella fase di acquisizione dei dati sul campo, per es., Clive Orton, uno dei fondatori dell’archeologia spaziale, ribadisce la necessità di soffermarsi sui metodi da adottare per studiare la distribuzione delle testimonianze. Tra questi vi è la point pattern analysis, basata sulla localizzazione puntuale dei manufatti, già utilizzata nel passato e oggi migliorata, grazie al contributo di discipline quali l’ecologia, nell’analisi di quesiti specifici: lo stesso spazio è stato utilizzato per funzioni diverse, oppure diverse tipologie di oggetti sono state impiegate per la stessa funzione?
Nella fase di analisi dei dati, alcune tecniche di statistica spaziale, basate sull’elaborazione di modelli digitali del terreno (DTM, Digital Terrain Model), si rivolgono allo studio di variabili che descrivono fattori naturali, sociali e antropici che nell’antichità possono essere stati determinanti ai fini della scelta della distribuzione delle aree monumentali all’interno dello spazio urbano e degli insediamenti nel territorio e nel contesto paesaggistico. Per es., l’analisi di visibilità (viewshed analysis) esplora le implicazioni della percezione visiva dell’uomo nelle scelte di carattere urbanistico e architettonico secondo un principio di will to visibily, mentre l’analisi dei costi di percorrenza (cost surface analysis) studia l’influenza delle antiche barriere naturali e artificiali sulle modalità di spostamento nello spazio, tenendo conto del rapporto tra tempo impiegato e consumo di energia.
Nella fase di trasmissione delle informazioni si nota, in stretta relazione con l’affermarsi della cartografia numerica tridimensionale e delle mappe interattive, la recente evoluzione dai GIS ai webGIS, che risponde anche a obiettivi di condivisione, rendendo accessibili informazioni georeferenziate: mediante un comune browser è possibile consultare e aggiornare i dati archiviati attraverso un’interfaccia che permette di visualizzare contestualmente informazioni alfanumeriche e dati cartografici, con notevole vantaggio soprattutto se si opera a distanza. Le applicazioni webGIS in ambito culturale trovano un campo applicativo soprattutto laddove ci si era già cimentati con la presentazione dei dati in forma cartografica e, in particolare, nell’allestimento di atlanti tematici, che consentono ora di archiviare, indicizzare e distribuire tramite Internet informazioni che, superato il tradizionale fattore di scala, offrono un’immagine distributiva immediata di fenomeni naturali, culturali e umani.
Gli effetti più profondi della sperimentazione dei GIS derivano dall’apertura di nuove prospettive d’indagine, che favoriscono l’interazione fra vari ambiti disciplinari in vista di una sintesi operativa: l’analisi dei dati territoriali in funzione delle variazioni diacroniche; lo studio delle modalità del popolamento; la conoscenza del territorio nella sua pluralità di tematismi storico-culturali e la sua valenza nella moderna pianificazione paesistica; la distinzione tra luogo e spazio, nell’ottica funzionale dell’analisi di visibilità; lo studio del paesaggio e delle sue relazioni con la città, anche da un punto di vista amministrativo, come risultato dell’interazione tra individuo, società e natura. È ovvio che questo tipo di approccio comporta l’ingresso di nuove variabili condivise con altre discipline, come ovviamente la geografia, ma anche l’architettura, l’ecologia, la psicologia e la geografia economica (o economia spaziale).
Nello scavo archeologico, infine, la sperimentazione dei GIS, oltre a fornire una piattaforma per l’integrazione dei dati, ha aperto nuovi interrogativi sul rapporto tra metodo stratigrafico e topologia, ai fini dell’analisi delle relazioni spaziali tra oggetti o insiemi di oggetti. Per un’adeguata visualizzazione dei rapporti topologici individuati sul campo è necessaria una nuova formalizzazione delle diverse modalità di rappresentazione. La tecnologia si propone in questo caso come mezzo per potenziare le metodologie di documentazione tradizionali, in genere basate sul diagramma stratigrafico di Harris, e consente di rappresentare in modo più dinamico e in forma tridimensionale schemi grafici e relazioni logico-spaziali.
Un passato virtuale
In uno scenario culturale in cui i sistemi multimediali e i sistemi di grafica interattiva tridimensionale pongono al centro della comunicazione e dell’elaborazione l’immagine anziché il testo, la ricerca archeologica si è dimostrata particolarmente ricettiva nell’accogliere le tecniche di realtà virtuale (Virtual reality in archaeology, 2000). Modelli di simulazione spaziale permettono all’utente di immergersi all’interno di reticoli di informazioni e dati visuali, di esplorare in modo interattivo realtà diversificate e complesse, di progettare ambienti tridimensionali e animarli in tempo reale, con una conseguente ricaduta nella trasmissione culturale, nelle regole di apprendimento e nella formazione professionale.
I settori della ricerca archeologica coinvolti in questo processo di realizzazione di nuovi percorsi esplorativi sono molteplici e gli esiti sono apprezzabili nelle ricostruzioni di paesaggi, sistemi viari, città, monumenti, opere d’arte: il territorio diviene luogo dinamico in cui uomo e ambiente interagiscono in base a prospettive legate al passato e al presente; complessi monumentali recuperano il loro aspetto originario, con interessanti implicazioni anche nella diagnosi dello stato di degrado e nelle operazioni di restauro; il settore educativo e culturale si arricchisce, soprattutto attraverso la musealizzazione virtuale. Su tali premesse si è sviluppata e consolidata un’ampia attività – testimoniata fra l’altro dalla regolare pubblicazione di atti di convegni inaugurati agli inizi del 21° sec. (VAST Euroconference) – intesa a rivalutare l’aspetto della sperimentazione non solo per la fruizione dei dati ma anche per l’acquisizione di nuove conoscenze. Progetti scientifici hanno utilizzato le tecniche di modellazione tridimensionale e di realtà virtuale per acquisire e gestire informazioni complesse e articolate, con l’obiettivo di ampliare il quadro conoscitivo offerto dalla realtà, di simulare e amplificare la sua percezione e infine di favorirne l’esplorazione e la fruizione anche a distanza.
Alla sperimentazione di sistemi innovativi si è accompagnato il conseguimento di risultati di rilevanza scientifica, che presentano una comunità d’intenti nei vari settori dei beni culturali: la progettazione di musei virtuali, che comporta un mutamento sociologico nel rapporto tra grande pubblico e mondo della ricerca scientifica; la riqualificazione di specifiche tipologie monumentali, con particolare riferimento a quelle inaccessibili al pubblico; l’elaborazione di strumenti di supporto per l’automatizzazione dei processi tradizionali di studio e di analisi, come la ricomposizione assistita di frammenti o l’integrazione di parti architettoniche mancanti; la realizzazione di sistemi per l’esplorazione di modelli digitali tridimensionali, attraverso un’interazione multimodale (tattile, uditiva e visiva) da parte di un pubblico di disabili, con importanti ricadute sulle loro possibilità conoscitive (Virtual museums and archaeology, 2007).
Gli archeologi, ai quali spetta il compito di salvaguardare il contenuto della realtà che viene rappresentata e ‘animata’, sono stati attratti soprattutto dalla possibilità di sperimentare vie innovative di ricerca. In particolare, nel campo educativo e culturale lo studioso si è trovato di fronte a nuove modalità di presentazione e fruizione delle informazioni, potenziate da programmi di simulazione che consentono di riprodurre in un sistema artificiale i processi che hanno dato vita a complessi di dati archeologici: in tal modo egli può verificare ipotesi e formularne di nuove, ma al contempo può diversificare i canali di trasmissione delle proprie conoscenze. Infatti, per evitare di duplicare o banalizzare gli strumenti di comunicazione tradizionali, la sperimentazione viene orientata verso il potenziamento dell’esperienza audiovisiva, per integrare la documentazione, favorire letture trasversali ed evidenziare le reti di relazioni tra le informazioni, con uno sforzo interpretativo e ricostruttivo indispensabile per una piena comprensione della realtà antica.
Tra le tante prospettive innovative è da citarne in specie una, oggi di particolare attualità, legata al settore dei musei virtuali, che si basano per natura sul superamento della specializzazione per generi e discipline e sull’integrazione tra oggetti conservati e documentazione esterna: la riunificazione, nell’ambito di un’opera di ricontestualizzazione, del luogo di conservazione dei reperti archeologici con i luoghi in cui è stata effettuata la scoperta. Attraverso un’esposizione virtuale, che consente la fruizione dei beni differenziata non solo nello spazio e nel tempo, ma anche nella tipologia dell’utenza, e un’immediatezza visiva altrimenti non apprezzabile, efficaci strategie di comunicazione integrano il sapere. Un sapere che proviene dalla visita museale con relazioni logiche e fattuali, capaci di illuminare il significato di oggetti archeologici trasformati in oggetti digitali. In questo modo, ricollocando gli oggetti in situ, è possibile acquisire un tipo di conoscenza diverso da quello che deriva dall’ispezione diretta degli oggetti esposti nel museo, che sono separati dal loro originario contesto culturale: la realtà, integrata nella sua percezione da informazioni generali e di dettaglio, può essere così arricchita.
Secondo le opinioni più recenti, sostenute dalle neuroscienze e dalla psicologia cognitiva, l’elaborazione dell’informazione modifica l’interpretazione e il valore del bene culturale: la sua traduzione in un bene informativo digitale arricchisce la realtà, ricapitalizza il bene stesso, lo ricontestualizza e ne diffonde il messaggio e il contenuto. Comunicazione, apprendimento ed elaborazione delle conoscenze sono punti nodali di ogni processo conoscitivo e quindi i nuovi percorsi esplorativi, che stimolano una partecipazione attiva da parte dell’utente e rendono le diverse fonti di informazioni accessibili in tempo reale, necessitano già in fase di progettazione dell’intervento anche di esperti di comunicazione e di scienze cognitive.
Comunicare l’archeologia in rete
La rete Internet rappresenta senza dubbio la più straordinaria e rapida mutazione avvenuta nel circuito della comunicazione dei nostri tempi, ma la crescita esponenziale del numero di pagine web comporta una diluizione delle informazioni significative nel rumore di fondo della comunicazione non scientifica. Si potrebbe allora considerare quali siano le informazioni archeologiche da mettere in rete. La valutazione non è semplice e necessita ancora una volta di ricorrere alle parole di J.-C. Gardin: l’informazione materiale è insufficiente se non è accompagnata da un’evoluzione intellettuale verso nuove forme di presentazione delle conoscenze, più favorevoli alla consultazione interattiva che alla lettura passiva.
A partire dalla metà degli anni Novanta i siti web prima e i portali poi sono divenuti molteplici e hanno assunto nel tempo un ruolo importante quali strumenti di ricerca per effettuare indagini e offrire informazioni e collegamenti anche per esigenze molto specifiche, mediante la diffusione di complessi di informazioni e strumenti di ricerca di notevole importanza per il mondo scientifico. I siti, in continua evoluzione, sono stati classificati in guide alle risorse, organizzate in genere secondo indici geografici o tematici, per agevolare e rendere mirata la ricerca all’interno delle maglie della rete; siti museali, spesso orientati più alla promozione turistica che alla comunicazione scientifica; riviste elettroniche, la cui diffusione appare ancora piuttosto limitata; biblioteche digitali, che utilizzano le potenzialità delle reti telematiche per superare il problema della distanza fisica fra lettore e fonte di informazione; liste di discussione, assai in voga all’inizio della diffusione di Internet, ma ora più felicemente sostituite da gruppi di discussione con intenti più specifici.
Questo rapporto facilitato tra archeologia e società dell’informazione ha sicuramente determinato una maggiore visibilità della ricerca archeologica che riconfigura, tramite i nuovi media a disposizione, il tradizionale rapporto tra scrittura e lettura e apre la porta a ulteriori domande: ‘come’ e ‘perché’ comunicare (ossia come integrare gli obiettivi della società dell’informazione con quelli della società della comunicazione)? Le risposte sono ancora una volta molteplici e non si limitano alle riflessioni sulla pubblicazione archeologica digitale, ma sono collegate, per es., al più ampio dibattito sulla necessità di revisione dell’approccio metodologico alla ricerca sul campo: i nuovi mezzi di diffusione dei dati offrono possibilità alternative di ‘illustrare’ il passato, che andrebbero previste fin dalle fasi iniziali della ricerca, dall’acquisizione dei dati alle strategie di documentazione. In effetti, le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione non si esauriscono nelle modalità più o meno innovative di presentazione degli esiti delle ricerche, ma avviano anche nuove forme di operatività della ricerca, in quanto il web può essere inteso oggi dagli archeologi come mezzo sia di trasmissione sia di condivisione dei dati. Ci riferiamo in particolare alla cosiddetta telearcheologia, che permette di operare in un ambiente virtuale e di scambiare i dati, allo scopo di raggiungere l’unificazione di alcune procedure d’indagine che nella prassi della ricerca sono rimaste finora distinte, come, per es., le operazioni sul campo e l’elaborazione dei dati in laboratorio.
Nonostante le potenzialità del web, però, il linguaggio tradizionale resta predominante nella rete, anche perché i contenuti restano tali. Di conseguenza, per ottenere un’integrazione tra il sistema cognitivo tradizionale di tipo simbolico-ricostruttivo e quello multimediale, di tipo percettivo-motorio, è necessario che fin dalle prime fasi della ricerca la documentazione archeologica venga organizzata sotto un’ottica ipermediale, anche ai fini della fruibilità delle informazioni. Infatti, se l’avvento di Internet ha determinato una reperibilità e uno scambio di informazioni prima non ipotizzabili, è ancora poco diffuso il principio di rendere consultabili non solo le pagine informative ma anche gli archivi dei dati. Ciò si va superando solo negli ultimi anni, in base al paradigma del libero accesso ai contenuti e ai risultati della ricerca scientifica e alla filosofia degli archivi aperti. Quest’ultima si fonda sull’idea di delegare la creazione di metadati descrittivi delle risorse digitali agli stessi organi istituzionali che le producono e di assemblarli poi in sistemi di interrogazione tematici e centralizzati. In tal modo l’accessibilità alle risorse elettroniche può essere notevolmente accresciuta, non facendo affidamento su tecnologie proprietarie o complesse, ma su software open source, metadati, standard e protocolli di gestione condivisi.
Mentre la tecnologia avanza, rimane aperto l’annoso problema della pubblicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, che non poteva restare avulso dal crescente fenomeno della diffusione dei dati in linea e dal riconoscimento delle potenzialità delle reti telematiche, indirizzate verso la sperimentazione di nuove forme di comunicazione (Gardin 2002). La soluzione è stata individuata da alcuni nella ‘riduzione’ dei testi scritti, con la finalità ultima di separare la parte narrativa da quella interpretativa del discorso: in sostanza, una riscrittura del testo, che esplicita le varie fasi del processo cognitivo; altri invece hanno proposto l’edizione congiunta di un libro a stampa tradizionale e di un supporto digitale, che contenga sia diverse versioni del medesimo discorso – in linguaggio formalizzato, pedagogico e romanzesco – sia altri strumenti e apparati che una versione cartacea non è più in grado di accogliere, per costi e tipologia del supporto.
Le sfide del 21° secolo
Le aspettative più stimolanti per il futuro dell’informatica archeologica sono senza dubbio legate allo sviluppo di metodologie e strumenti di gestione della conoscenza e alla filosofia stessa del web, basata su principi di riferimento quali la decentralizzazione e l’interoperabilità. Pertanto l’attenzione tende a rivolgersi sempre più a concetti chiave come rappresentazione e gestione della conoscenza, modellazione concettuale, interoperabilità tecnologica e semantica, classificazioni ontologiche. E proprio il web semantico – o, come lo ha definito Tim Berners-Lee, «il web 3.0» – considerato come la naturale evoluzione del web attuale, può diventare la piattaforma di incontro di tutte queste innovazioni, finalizzate non più solo alla possibilità di reperire le fonti della conoscenza, ma anche di fornirle. Così, agli obiettivi iniziali del processo digitale (acquisizione, rappresentazione, elaborazione dei dati), si aggiungono in modo sempre più operativo altre due tappe: condivisione e utilizzazione della conoscenza.
D’altro canto, grazie alla continua miniaturizzazione e alla conseguente portabilità delle strumentazioni, prosegue incessante l’evolversi delle tecniche di ausilio all’acquisizione della documentazione archeologica relativa a testimonianze sia sotterranee, attraverso le prospezioni geofisiche, sia sommerse o inaccessibili, attraverso l’intervento della robotica, sia emerse, attraverso l’evoluzione del telerilevamento, della fotografia digitale e delle tecniche laser scanner. Nuove procedure, che richiedono protocolli di gestione dei dati standardizzati, vengono messe a punto per la localizzazione e la georeferenziazione dei dati, attraverso l’evoluzione dei sistemi di posizionamento satellitare, per il loro rilievo e per la loro ricostruzione tridimensionale: l’incontro tra passato e futuro si attua dunque in un presente che si configura sempre più spesso in formato digitale.
Ci si può domandare se nel 21° sec. la reale portata dell’informatica archeologica verrà valutata proprio in base a questo progredire incalzante di tecniche e strumenti. La generosità con cui nel corso degli ultimi cinquanta anni è avvenuto il fecondo interscambio di informazioni e metodiche tra le due discipline che hanno dato vita all’informatica archeologica, fa auspicare che il confronto e l’interazione continuino ad attuarsi su un terreno interdisciplinare, con finalità non solo applicative ma soprattutto intellettuali, frutto di una sintesi basata sulla formalizzazione di teorie e modelli intesi a concettualizzare i dati, a proporre soluzioni innovative e a valutarne gli esiti.
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