Archeologia
Parte introduttiva di Stanisław Tabaczyński
Nell'ultimo decennio l'evoluzione delle impostazioni filosofiche, teoriche e metodologiche delle scienze umane ha subito una marcata accelerazione. Alcuni autori parlano di rivoluzione o, comunque, di una svolta. Svolta che consiste, in sostanza, nella rinuncia all'idea di una 'scientificità' nell'ambito delle discipline umanistiche, ivi comprese la storia e l'a., e all'aspirazione a un loro avvicinamento alle scienze naturali; tutto questo a vantaggio di una nuova attenzione nei confronti delle peculiarità della cognizione umana, nonché di una ridefinizione dello status delle scienze umane che sia adeguato alla loro specificità.
La più netta aspirazione a una 'scientificità' così intesa si era manifestata nella new archaeology, o a. processuale, presentata come nuovo tipo di approccio ai problemi dell'interpretazione archeologica negli anni Sessanta del secolo scorso. Il suo scopo era proprio quello di conferire all'a. la dignità di scienza, quindi di far sì che obiettivi, procedure e metodi della ricerca archeologica fossero simili a quelli delle altre discipline scientifiche. L. Binford e gli altri esponenti di questa corrente vedevano nei dati archeologici potenzialità cognitive (specie nella ricerca degli aspetti sociali ed economici) assai maggiori di quanto si fosse disposti ad ammettere fino ad allora. Un ruolo centrale fu assegnato all'approccio ipotetico-deduttivo, la cui applicazione aveva permesso di conseguire significativi progressi nell'ambito della fisica, della biologia e della medicina. Il reale scopo della ricerca non era la semplice descrizione ma la spiegazione del passato, resa possibile dall'adozione di una teoria esplicita e ben precisa e facendo ricorso a valide generalizzazioni. Questa corrente si caratterizzava, inoltre, per una forte componente antropologica di tradizione funzionalista, che confluiva con quella neoevoluzionista. Leitmotiv e obiettivo fondamentale dei 'nuovi archeologi' era la formulazione di leggi, una sorta di codificazione dell'interpretazione dei dati archeologici. Secondo i seguaci di Binford, dunque, i fenomeni esaminati in a. non differiscono da quelli osservati nelle altre scienze. Conseguenze di questa convinzione furono una maggiore apertura nei confronti dell'apporto di altre discipline, soprattutto quelle antropologiche e naturali, ma anche un disinteresse verso i temi tradizionali dell'a., con un conseguente impoverimento dei contenuti della disciplina.
Sin dalla prima metà degli anni Settanta, tuttavia, la new archaeology fu sottoposta a una critica sistematica e radicale da parte degli strutturalisti, dei poststrutturalisti e, infine, dei postprocessualisti. Le aspirazioni di scientificità nutrite dall'a. processuale venivano bollate come 'scientistiche'; si sminuiva la validità di talune delle cosiddette leggi poste a fondamento delle sue interpretazioni, venivano rifiutati i paradigmi positivisti, il 'funzionalismo ecologico' come pure la pretesa di formulare leggi generali del comportamento umano, che poneva in secondo piano le componenti ideologiche e simboliche delle società del passato. Mettendo in dubbio i principi fondanti della new archaeology il programma dei postprocessualisti si poneva, dunque, in antitesi con quello processuale.
Si può dunque affermare che esistano una tesi (new archaeology) e un'antitesi (a. postprocessuale); ma c'è anche una sintesi: l'archeologia cognitiva. Questo orientamento, definito anche 'nuova sintesi archeologica' e rappresentato da C. Renfrew, P. Bahn ed E.B.W. Zubrow, pone l'accento sulla necessità di indagare le idee, i simboli, le credenze e gli aspetti cognitivi delle culture. I suoi fautori vedono il potenziale creativo della cultura materiale come fenomeno 'intenzionalmente costituito', puntano l'attenzione sulla dinamica dei conflitti interni nelle società e sul ruolo attivo dell'individuo. Questa apertura, del resto, veniva auspicata in diversi ambienti, anche di stampo marxista, come pure nell'a. classica.
Come sottolineato da A. Guidi (Il mondo dell'archeologia, 1° vol., 2001, p. 98), l'a. si è sempre misurata con la cultura del suo tempo; in epoca recente, difatti, il 'pensiero archeologico' ha dovuto fare i conti con l'onnipresenza teoretica del postmodernismo. Nelle scienze umane questa corrente si è espressa innanzitutto nella cosiddetta svolta narrativistica che metteva in dubbio lo status ontologico del passato e, di conseguenza, i modi tradizionali di costruire la conoscenza storica. La fonte archeologica non sarebbe più da considerare alla stregua di un contenitore che custodisce la verità sul passato, quanto piuttosto come un ostacolo, una 'rete di resistenza', nel formulare interpretazioni del passato. Secondo M. Johnson (2000, p. 163 e segg.), che si riallaccia alla definizione di J.-F. Lyotard, la condizione postmoderna si caratterizza per una decisa "diffidenza rispetto alle metanarrazioni", come le grandi periodizzazioni storiche; anche l'a. odierna mostra una tendenza a staccarsi dal pensiero moderno legato alla tradizione positivista in favore del postmodernismo di forte stampo antipositivista. L'approccio postmoderno è, in sostanza, la negazione dell'orientamento precedente; si rifiuta il mito del progresso e, inoltre, si mette in dubbio anche il senso della divisione della scienza in discipline, postulando, piuttosto, la cancellazione dei loro limiti. Più distaccata la posizione di J.-C. Gardin, che, scettico nei confronti dei continui cambiamenti dei paradigmi teorici, indica la via del progresso dell'a. nell'applicazione dell'informatica, in particolare dell'intelligenza artificiale (2002, pp. 19-30).
Per quanto riguarda, invece, la conservazione e la tutela del patrimonio archeologico, alcuni importanti principi di valore generale sembrano oramai acquisiti a livello internazionale. Vale la pena di ricordare che alla fine del 1995 il governo del Portogallo, nonostante le ingenti perdite, ha sospeso la costruzione della diga nella valle Coa per proteggere le testimonianze di arte rupestre paleolitica a fronte di proteste internazionali. In seguito a questa decisione, nel 1999 il ministro della Cultura portoghese ha ricevuto l'European Archaeological Heritage Prize conferitogli dall'European Association of Archaeologists (EAA). Nel 1997, sotto gli auspici del McDonald Institute for Archaeological Research di Cambridge, è stato istituito l'Illicit Antiquites Research Center, diretto da C. Renfrew, avente lo scopo di documentare e fornire informazioni sul commercio illegale internazionale di reperti archeologici, problema particolarmente sentito in relazione ai recenti conflitti militari in Afghānistān e in ̔Irāq. Nel 2004 questo centro ha ricevuto l'European Archaeological Heritage Prize da parte dell'EAA. Occorre ricordare che nel novembre 1999 fu costituito a Strasburgo, per iniziativa dell'olandese W. Willems, l'Europae Archaeologiae Consilium (EAC), diretto dal britannico A. Olivier, e composto da membri di vari servizi e istituzioni che rappresentano alcuni Paesi addetti alla tutela del patrimonio archeologico internazionale. È degna di nota anche la cooperazione iniziata dall'Aerial Archaeology Research Group; cessate le restrizioni giuridiche formali nei Paesi appartenenti all'ex blocco sovietico, a partire degli anni Novanta del 20° secolo è stato possibile lo sviluppo dell'a. aerea anche nella ex Germania orientale, nella Repubblica Ceca, in Slovacchia, in Polonia e in Ungheria. Nello stesso periodo ha acquistato maggiore slancio l'a. aerea anche in altri Paesi europei, tra cui l'Italia. Nell'ottobre 2000 il Consiglio d'Europa ha siglato a Firenze la European Landscape Convention, con la quale veniva riconosciuta l'importanza del paesaggio quale fenomeno integrato naturale e culturale, per una tutela completa dei beni culturali e ambientali.
Nell'ambito delle iniziative riguardanti la protezione dei monumenti merita inoltre menzione la Convenzione sulla tutela del patrimonio culturale subacqueo, firmata nel 2001 dall'UNESCO a Parigi, dopo un dibattito di quasi vent. Il documento regola le questioni (spesso di carattere politico) legate alla tutela delle navi, dei siti archeologici subacquei e altri reperti di valore storico.
bibliografia
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Per i temi generali dell'a. e per la ricerca archeologica nelle diverse aree geografiche e culturali di seguito trattate, si farà riferimento all'Enciclopedia archeologica, Istituto della Enciclopedia Italiana: Il mondo dell'archeologia, 2 voll., Roma 2002; Americhe Oceania, Roma 2004; Europa, Roma 2004; Africa, Roma 2005; Asia, Roma 2005.
Mondo classico di Antonio Giuliano
Le ricerche di a. classica, in tutta l'area del Mediterraneo e del Vicino e Medio Oriente, hanno avuto, in questi ultimi anni, notevole incremento sebbene siano state circoscritte entro limiti topografici e cronologici definiti già da tempo. Non si è avuta sostanzialmente una revisione globale di quanto già noto, ma un approfondimento di tematiche peraltro conosciute secondo metodi di ricerca più affinati che hanno portato a utilissime revisioni. Soprattutto nei grandi agglomerati urbani (Atene, Roma, Beirut, Alessandria) elementi inediti sono stati forniti da ricerche imposte da interventi urbanistici, che hanno offerto spunti (soprattutto ad Atene, a Roma e ad Alessandria) e materiali di altissimo livello sia sul piano della cultura formale sia su quello più propriamente archeologico.
Importanti i rinvenimenti di Efeso e alcuni della Troade che permettono di meglio affrontare il tema della cultura dell'Oriente di età romana e quella dell'ellenizzazione del settore nord-occidentale della penisola anatolica tra la fine del 6° e l'inizio del 5° sec. a.C. e dei rapporti tra quei territori e l'Etruria.
Il panorama dell'a. classica rimane pertanto sostanzialmente statico, seppure con precisazioni di straordinario spessore sia per quanto concerne le fasi più antiche (7°-5° sec. a.C.) soprattutto nell'Italia centro-meridionale e nelle isole, sia per i rinvenimenti di età romana verificatisi in Grecia, sia soprattutto per quanto concerne quelli di Alessandria che hanno permesso di meglio definire la struttura urbanistica e l'aspetto dell'a. di quell'importantissimo centro del quale si ignoravano dati peraltro fondamentali. I grandi scavi condotti nell'area dei Fori imperiali in Roma hanno offerto anch'essi utilissime scoperte che richiederanno innumerevoli precisazioni soprattutto sul piano topografico (v. roma: Età classica).
Sostanzialmente gli studi di a. classica hanno fornito dati inediti per quanto concerne soprattutto la Serbia e la Bulgaria, dati che per quell'ultima regione rimangono di particolare interesse al fine di chiarire i rapporti tra il mondo della grecità e quello scitico.Di seguito una descrizione dei principali rinvenimenti e delle più notevoli imprese archeologiche caratteristiche di questi ultimi anni: si enumerano solo quelle scoperte o revisioni critiche che suggeriscono novità sul piano storico, iniziando dall'Occidente.
In Spagna è stato completato lo studio dei monumenti di Merida che ripetono i canoni augustei adottati nel foro di Augusto. Cordova è stata esplorata per quanto concerne l'impianto d'insieme e studiata nei singoli monumenti.In Gallia, uno studio dedicato alle sculture rinvenute in una villa a Chiragan, nei pressi di Tolosa, ha permesso di attribuirle alla scuola di Afrodisia e di datarle alla metà del 4° sec. d.C. circa. Esse testimoniano l'importanza di quella scuola che, emigrata dall'Asia Minore - così come a Leptis nell'età di Settimio Severo -, ha saputo mantenere iconografie e formule stilistiche di particolare spessore, reinterpretando i canoni della classicità in piena età cristiana. Particolarmente numerosi i rinvenimenti di tesori; tra questi emerge quello di Eauze. Il fenomeno dei rinvenimenti dei tesori caratterizza anche l'isola britannica. Nel Suffolk, a Hoxne, è stato rinvenuto un tesoro composto da 15.000 monete, 569 d'oro, 29 gioielli d'oro e ca. 200 oggetti d'argento, databile alla fine del 4° sec. d.C. circa.
In Italia è stata studiata tutta la cultura architettonica e formale del Piemonte e sono state proposte nuove cronologie attraverso la precisazione di officine attive in Transpadana. Lo stesso, seppur in forma meno organica, è avvenuto per alcuni rinvenimenti della Venetia et Histria. Lo testimoniano alcune interpretazioni di motivi architettonici di Verona romana e le edizioni di materiali da Aquileia e da Zuglio. In Liguria, l'occasione della mostra La città ritrovata. Archeologia urbana a Genova, 1984-1994, tenutasi a Genova nel 1996, ha permesso utili precisazioni per quanto concerne il materiale databile nella prima età storica e soprattutto il chiarimento dei rapporti tra lo scalo marittimo di Genova, la Grecia e l'Etruria. In Emilia, accanto alla prestigiosa edizione degli scavi di Verucchio, tra i più notevoli per risultati che hanno permesso la precisazione di una serie di problemi relativi al periodo orientalizzante, si ricordano utili contributi: tra questi emergono i contributi dedicati all'edizione di un mosaico con la rappresentazione di Onorio e di Stilicone proveniente da Faenza, e al palazzetto di Teodorico a Galeata.
Prezioso il materiale rinvenuto in Umbria: degni di nota soprattutto i mosaici della basilica cristiana di Pesaro che testimoniano la vivacità di maestranze anche nell'età postgiustinianea e una disponibilità finanziaria quasi inimmaginabile per un momento storico descritto dalle fonti come di spopolamento e impoverimento.
L'Etruria ha fornito notevoli rinvenimenti. Particolarmente utili gli studi di produzione ceramica di età orientalizzante per quanto concerne le botteghe e l'interpretazione dei motivi e delle saghe assimilate dalla Grecia; altrettanto vale per le ceramiche del 6° e del 5° secolo. Ai già noti scali marittimi si aggiungono ora quelli di Gravisca e di Pisa (v. oltre: Pisa-San Rossore). L'edizione di alcuni tumuli orientalizzanti dell'Etruria settentrionale e di quelli più tardi di Cortona è ancora lontana dall'essere conclusa. Mancano le edizioni delle pitture funerarie scoperte più di recente e in generale dei rinvenimenti dalle maggiori necropoli. Per quanto concerne i primi edifici pubblici, emergono quelli di Murlo. Utili i chiarimenti in riferimento all'espansione etrusca sia nella valle del Po, sia nel Lazio e in Campania.
Nel Picenum, anche a seguito della mostra Piceni, popolo d'Europa, tenutasi a Francoforte tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000, rassegna dedicata ai rinvenimenti di quella antica regione, si è giunti a maggiori precisazioni soprattutto per la prima età storica. Fondamentali le scoperte di età orientalizzante di Pitino, presso San Severino Marche, che hanno restituito materiale di eccezionale spessore e che ripropongono il problema delle importazioni nel Piceno di oggetti particolarmente preziosi. Una tomba principesca a Numana - una donna era stata inumata con ricchissimo corredo e con carri funerari - ha permesso di chiarire la natura dell'arcaismo in quello scalo marittimo. Il riconoscimento dell'appartenenza di una testa a un torso di kouros, noto da tempo, già conservato a Osimo, ha permesso di riconsiderare il problema dei rapporti esistenti tra la Grecia e il mondo del Piceno. Non si può escludere che già in età arcaica statue di kouroi fossero importate nelle vicinanze di Numana e qui dedicate dalle popolazioni indigene. È da segnalare inoltre che è continuato lo studio dei molti santuari che caratterizzano la regione.
Nel Lazio molti i rinvenimenti di particolare interesse per quanto concerne il problema delle origini di Roma, al quale sono state anche dedicate numerose pubblicazioni. Si citano solo le necropoli orientalizzanti di Castel di Decima, di Osteria dell'Osa, di Lavinium, che presentano una tematica che permette di ricomprendere la cultura laziale nel momento del primo sviluppo di Roma stessa. A Lavinium una stipe propone problemi sempre nuovi sulla cultura iconografica e formale dal 6° alla fine del 3° sec. a.C. Importante il rinvenimento di un'iscrizione arcaica a Satrico.
Da Palestrina provengono le sculture di un sacello dedicato ad Augusto, postumo, e un rilievo con trionfo di Traiano che testimonia il persistere di una corrente formale cosiddetta popolaresca che sembra anticipare caratteri che saranno dell'arte tardoantica. Un'eccezionale testa d'avorio, rinvenuta insieme ad almeno altre due figure dello stesso materiale, che si dice provenire dai dintorni di Anguillara, appartiene a una statua crisoelefantina che potrebbe essere inquadrata nel 4° sec. a.C. o a una reinterpretazione classicistica della tarda età repubblicana o di età imperiale: la rarità del rinvenimento non permette ancora una più precisa classificazione. Il Sannio è stato esplorato con particolare attenzione soprattutto per le età più antiche; tra le necropoli emerge quella arcaica di Campovalano che consente di definire peculiari problemi relativi ai rapporti tra il Piceno e quella regione. Importante il ritrovamento di numerosi santuari, decorati così come quelli del Piceno e dell'Umbria con terrecotte architettoniche, e di numerose sculture monumentali.
Per l'odierna Campania, oltre a fondamentali edizioni tra le quali emergono quelle di Ischia e di Pontecagnano, numerosi sono i rinvenimenti, ancora inediti, dell'antica Capua e di altri centri che permetterebbero di meglio definire i rapporti tra le culture indigene e quelle della grecità costiera, a partire già dall'8° sec. a.C. Di particolare interesse le scoperte a Teano, Calvi e Capua, che mostrano la ricezione di motivi classici secondo canoni indigeni ben definiti in età classica ed ellenistica. Degna di nota, a Sessa Aurunca, una statua classicistica con il corpo realizzato con bigio morato e la testa con marmo bianco, che rappresenterebbe una delle donne più influenti della corte di Traiano. In seguito agli eventi sismici che hanno semidistrutto l'antica Pozzuoli, innumerevoli sono i ritrovamenti di sculture da quel sito: esse ripropongono l'autonomia delle città campane in età imperiale per quanto concerne le scuole di scultura. Rinvenimenti sempre di straordinario interesse quelli offerti dalla stessa Napoli e dalle città vesuviane (non solo per l'età storica, ma anche per quelle fasi della preistoria che risultano sigillate da antiche eruzioni; v. preistoria: Nola-Croce del Papa).
In Puglia innumerevoli le scoperte di ceramiche e di tombe dipinte, in particolare nella zona del foggiano. Per quanto concerne l'area messapica sono state notate importazioni di ceramica geometrica sulle coste dell'Adriatico sin dall'8° secolo. Taranto è stata esplorata con particolare attenzione; per la città è stato riproposto il problema della più antica fondazione che sarebbe avvenuta a Satyrion. Formidabili, in quel sito, i materiali da stipi votive ricchissime di ceramica laconica. In Lucania i rinvenimenti di tombe con ricchi corredi di armi da Melfi, Banzi, Braida di Vaglio e da altri siti ripropongono il problema della continuità di una struttura gentilizia di quelle popolazioni sino al 5° sec. a.C., manifestando le caratteristiche di un mondo culturale quasi sconosciuto. A Metaponto è stata studiata la struttura della città e attraverso la stipe in località Incoronata è ora possibile definire il problema dei rapporti tra ceramografi greci e italioti già nel 7° sec. a.C. L'influenza di Metaponto sulle popolazioni indigene si dimostra sempre più significativa come testimoniano i rinvenimenti di Serra di Vaglio. Per quanto concerne la Calabria si ricorda soprattutto il ritrovamento di un tesoro votivo dal santuario di Hera Lacinia a Crotone, ricco di ori e di bronzi, ai quali appartiene un manufatto importato dalla Sardegna. Notevoli i rinvenimenti da Francavilla Marittima, soprattutto di età orientalizzante. Gli scavi di Locri, infine, hanno permesso di ricostruire l'aspetto urbanistico della città e quello di singoli edifici abitativi.
In Sicilia si ricorda la scoperta, negli scavi di piazza Duomo a Siracusa, del più antico sacello di culto della città, che dimostra di possedere già all'inizio della fondazione un preciso tracciato ortogonale. Fondamentali alcuni rinvenimenti ceramici, in particolare di fabbrica ionica, corinzia, etrusca. È stata ancora definita l'urbanistica di Megara Hiblaea, precisata quella di Selinunte. Di grande interesse, seppure ancora inedite, le stipi votive di Catania (S. Francesco) e di Lentini. Fondamentale il rinvenimento di pinakes di fabbrica locrese a Francavilla di Sicilia, che permettono di riconsiderare quelli di Locri dei quali si va completando l'edizione. La scoperta nell'entroterra di Camarina di un rilievo, probabilmente pertinente a una tomba di tipo siculo, con la figura di un cavaliere, testimonia l'assimilazione di canoni monumentali nella scultura indigena già nel 6° sec. a.C. Utili precisazioni sono state indicate per alcune sculture dai santuari di Enna e di Erice. Dal Canale di Sicilia proviene una statua di bronzo di un satiro che potrebbe essere datata alla fine del 1° sec. a.C. circa e attribuita a scuola alessandrina. Notevoli tre ritratti rinvenuti a Pantelleria, uno di questi rappresenta Giulio Cesare, secondo una reinterpretazione del 1° sec. d.C. Utile l'edizione della villa imperiale del Tellaro (Noto), probabilmente della metà del 4° sec. d.C. circa. In Sardegna vale soltanto citare le decine di statue monumentali conservate a Sassari, databili all'incirca nel 7° sec. a.C., ancora sostanzialmente inedite.
In Croazia si ricorda il rinvenimento di una statua di bronzo, nel mare, nei pressi dell'isola di Lussino. Certamente dall'Ungheria, dai pressi del lago Balaton, proviene il più famoso tesoro di Seuso che costituisce una delle principali scoperte di argenteria del mondo tardoantico. Degni di nota alcuni rinvenimenti avvenuti in Serbia, soprattutto per quanto concerne l'età tardoantica, come i palazzi di Costantino a Niş e di Galerio a Romuliana; da quel sito proviene un ritratto di porfido dello stesso Galerio tra i maggiori capolavori di età tardoantica. Rilevanti rinvenimenti di oreficerie dalla Bulgaria documentano i rapporti con il mondo classico e con le popolazioni delle steppe. Un ritratto di bronzo, attribuibile alla prima metà del 3° sec., testimonia di canoni ellenistici adottati in quella regione.
In Grecia risulta di particolare interesse una statua funeraria da Thera che ripete l'iconografia della cosiddetta Dama di Auxerre e ripropone il problema stesso dell'origine della scultura monumentale in Grecia. Fondamentali le edizioni di sculture da Thera, da Paro, da Nasso, da Delo, mentre continua l'edizione delle sculture di Samo. Si è ormai giunti a una definizione cronologica della ceramica protogeometrica e geometrica delle Cicladi e dell'Eubea. Rimangono fondamentali i rinvenimenti di ceramica orientalizzante a rilievo di Mykonos e Tino; essi testimoniano, insieme ad altri ritrovati in Eubea, alcune tra le più antiche saghe del mondo classico. Ad Atene (v. atene: Archeologia) è notevole il rinvenimento, nel Ceramico, di un kouros, che ripropone l'attività della scuola del Dipylon e mette in nuova luce i problemi dell'origine della scultura ateniese. Continuano a essere restaurati i monumenti dell'Acropoli. Importantissimi i rinvenimenti nei possessi di Erode Attico in Attica e nel Peloponneso; lo scavo della città di Messene offre sempre novità di grande interesse. Nelle isole dello Ionio alcune ceramiche ripropongono il problema di rapporti tra la Grecia e le prime colonie della Sicilia e dell'Italia meridionale. Per la Grecia settentrionale sono fondamentali le edizioni dei monumenti di scultura del museo di Salonicco. Utile l'edizione di alcuni santuari di Lemno. Importanti le edizioni di sculture e di ceramiche di Thasos e del museo di Kavalla.
In Turchia si ricorda la ricostruzione di monumenti antichi soprattutto a Pergamo (dove sono state rinvenute case bizantine sull'acropoli), a Efeso, a Sardi, a Priene, ad Afrodisia (vera e propria miniera di sculture antiche), a Hierapolis, così come ad Antalya, Side, Perge, Aspendo. Problematici i rinvenimenti da alcuni tumuli funerari della Troade: da uno di essi proviene un sarcofago con la rappresentazione dell'uccisione di Polissena, databile nell'ultimo quarto del 6° sec., che permette di meglio comprendere la lastra con l'uccisione di Egisto da Nemi e soprattutto il carattere iconografico e formale dei cosiddetti rilievi chiusini. Questo rinvenimento testimonia, ancora una volta, dei rapporti tra Asia Minore ed Etruria peraltro indicati dalle fonti storiche. Il fenomeno è riproposto dalle tombe dipinte rinvenute nell'Anatolia sud-occidentale e dagli affreschi frammentari di Gordion. Importantissimi i rinvenimenti di età orientalizzante ora nel museo di Antalya e quelli dall'Artemision di Efeso. Efeso stessa ha fornito fondamentali contributi per le fasi più antiche del santuario di Artemis, per l'architettura e la scultura di età imperiale; eccezionale il rinvenimento di pitture e di avori dalla città. Scavi eseguiti a Mileto hanno permesso di meglio intendere il carattere della ceramica greco-orientale e di stabilirne una più precisa cronologia. Alcune fabbriche di cultura mista, greco-orientale e frigia, mostrano notevole intensità formale e caratteri iconografici di particolare interesse; ma questi reperti, provenienti da scavi clandestini, non possono purtroppo essere localizzati con maggiore esattezza.
Utili studi sono stati dedicati alle città rupestri della Licia e della Panfilia. I rilievi, votivi e funerari, della Bitinia, della Cappadocia e della Galazia cominciano a essere reinterpretati, sia nella più antica ricezione dei caratteri iranici, sia nella ricerca di spunti che saranno determinanti dell'arte tardoantica e che si manifestano già a partire dal 2° sec. d.C. Nella Siria Commagene la cultura mista greco-iranica, caratteristica soprattutto della decorazione del Mausoleo di Antioco, mostra un'impressionante vitalità. Altrettanto può dirsi per una serie di mosaici con figure in piena frontalità, rinvenuti a Urfa e dintorni, che testimoniano l'acquisizione di precisi canoni partici. Ad Antiochia è stato rinvenuto un eccezionale sarcofago di fabbrica cosiddetta di Sidamara databile alla metà del 3° sec. d.C. circa.
In Siria notevoli le ricostruzioni di alcuni monumenti come la via colonnata di Apamea e una serie di studi dedicati ai più recenti rinvenimenti di Palmira, soprattutto per quanto concerne l'urbanistica e l'architettura funeraria, e alla regione di Bostra. Sono stati chiariti utili aspetti delle unità abitative di Petra in Giordania.
Per quanto concerne l'Egitto sono fondamentali i rinvenimenti di ritratti di marmo riferibili a dinasti tolemaici. Significative le scoperte avvenute ad Alessandria e nel porto di quella città. Numerosi i contenitori di mummie databili in età romana provenienti dalle necropoli nelle oasi del Medio e Basso Egitto. Compaiono, spesso sul mercato antiquario, importanti ritratti dipinti del tipo cosiddetto del Fayyūm. A Cirene si vanno chiarendo innumerevoli monumenti e complessi e si vanno studiando tanto le sculture già conosciute quanto quelle - molto numerose - che emergono dai nuovi scavi.
bibliografia
Per i toponimi citati: Enciclopedia dell'arte antica, classica e orientale, Secondo supplemento 1971-1994, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994-1997.
In generale: Enciclopedia archeologica, Istituto della Enciclopedia Italiana: Il mondo dell'archeologia, 2 voll., Roma 2002; Europa, Roma 2004; Africa, Roma 2005; Asia, Roma 2005.
Mondo classico: Pisa-San Rossore di Francesca De Caprariis
Nel corso di lavori edilizi nell'area della stazione ferroviaria di Pisa-San Rossore, nel dicembre 1998 sono venuti in luce i resti di uno degli approdi della città etrusca e romana di Pisa. Si tratta probabilmente della più importante scoperta archeologica degli ultimi decenni, destinata secondo molti studiosi a ridefinire su basi scientifiche la storia dei rapporti commerciali nel Tirreno in età antica. Lo scavo, curato della Soprintendenza ai beni archeologici della Toscana, ha evidenziato infrastrutture portuali in legno e in pietra e i relitti di almeno 19 navi, diverse per dimensioni, tonnellaggio, funzione e cronologia, alcune in buono stato di conservazione e, in diversi casi, con buona parte del carico conservato. Eccezionali sono le condizioni di giacitura (per es., presenza di acqua di falda superficiale e assenza di ossigeno nei livelli sabbiosi), che hanno preservato le strutture lignee delle navi e restituito integro un insieme imponente di oggetti, anche di materiali deperibili, relativi all'attrezzatura navale e di utilizzo personale.
L'insieme dei resti, a circa 500 m di distanza dalla piazza del Duomo, faceva evidentemente parte del sistema di attracchi e scali dislocati lungo una linea di costa assai diversa per morfologia e idrografia dall'attuale e si trovava su un'ansa del ramo settentrionale del fiume Auser, oggi non più esistente. I materiali rinvenuti sono databili nell'arco di circa un millennio, dallo scorcio del 6° sec. a.C. alla metà circa del 5° sec. d.C., secolo cui è ascrivibile il relitto più recente, noto come nave D. Le più antiche strutture in legno sono state rinvenute nel settore meridionale dello scavo; a poca distanza sono stati scavati i resti di una banchina di legno e pietra (fuori uso alla fine del 5° sec. a.C.) e altre strutture distrutte nei primi decenni del 2° sec. a.C., a quanto sembra, per il naufragio particolarmente violento della cosidetta nave ellenistica (ricostruita come imbarcazione di discrete dimensioni dall'analisi degli elementi strutturali recuperati). Il progressivo interramento del settore meridionale portò alla costruzione, durante la prima metà del 1° sec. d.C., più a oriente e a un livello più alto, di nuove strutture con banchine in cementizio.
Le navi costituiscono l'elemento eccezionale di questo scavo, per numero, stato di conservazione, per varietà di tecniche costruttive e tipologia (navi onerarie, imbarcazioni a scafo piatto adatte alla navigazione fluviale e lagunare, barche a remi). La presenza di buona parte del carico in molti dei relitti ha permesso di restituire, seppure in via preliminare, uno spaccato unico delle dinamiche commerciali nel Mediterraneo antico: la massiccia presenza sulla nave ellenistica di contenitori da trasporto di origine punica e iberica ha fatto ipotizzare un carico di merci di provenienza nord-africana, mentre il carico rinvenuto, per lo più integro, sulla più antica delle navi onerarie romane (nave B), naufragata allo scorcio del 1° sec. a.C., presentava per lo più anfore da vino di produzione adriatica, riutilizzate però per il trasporto di merci diverse (frutta, olive e sabbia, presumibilmente pozzolana per l'edilizia che, con altri dati, indica la probabile provenienza della nave dall'area del golfo di Napoli). L'edizione scientifica dello scavo è prevista per il 2009, contemporaneamente alla sistemazione delle navi nel museo con sede negli Arsenali Medicei.
bibliografia
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Cantiere delle navi di Pisa. La nave C "Giuditta" dallo scavo al laboratorio, a cura di A. Camilli, Firenze 2002.
Il porto urbano di Pisa antica: la fase etrusca, il contesto e il relitto ellenistico, a cura di S. Bruni, Milano 2003.
A. Camilli, Il cantiere delle navi antiche di Pisa: note sull'ambiente e sulla periodizzazione del deposito, in Archaeologia maritima mediterranea, 2004, 1, pp. 53-75.
Egitto di Sergio Pernigotti
L'esplorazione archeologica del Paese con regolari attività di scavo ebbe inizio intorno al 1850, facendo seguito a importanti spedizioni scientifiche, come quella franco-toscana, condotta da I. Rosellini e J.-F. Champollion (1828-29), e quella prussiana, diretta da K.R. Lepsius (1842-1845), e a qualche decennio di distanza dalla decifrazione dei geroglifici da parte dello stesso Champollion (1822), che si suole far coincidere con la nascita ufficiale dell'egittologia. Con quest'ultimo termine si designa la scienza storica che studia l'antica civiltà egiziana dal suo primo manifestarsi, nel 4° millennio a.C., all'arrivo di Alessandro Magno (332 a.C.), sebbene per diversi aspetti si estenda anche al periodo successivo, affiancando la papirologia e gli studi copti, per avere termine con la conquista araba (639-641 d.C.).
Nei primi centocinquant'anni della sua storia, la ricerca egittologica ha seguito principalmente due direttive. La prima è quella filologica, consistente nello studio e nell'approfondimento della lingua egiziana e delle sue scritture e la traduzione dei testi più rilevanti dal punto di vista storico, religioso o letterario; questa può dirsi ancora oggi assai attiva, seppure con obiettivi alquanto diversi, in quanto privilegia gli aspetti descrittivi della grammatica e, allo stesso tempo, l'analisi comparativa. La seconda consiste soprattutto nello scavo delle grandi aree archeologiche e delle necropoli, attività che ha interessato maggiormente la parte meridionale del Paese, dove le condizioni climatiche hanno consentito una migliore conservazione dei monumenti. Non si può tacere il fatto che ciò ha prodotto una visione parzialmente distorta dello sviluppo storico della civiltà egiziana nella quale, invece, il Delta e la Valle del Nilo svolsero ruoli distinti; inoltre all'attività delle missioni archeologiche ufficiali, sia egiziane sia straniere, si sono aggiunte quelle degli scavatori clandestini od occasionali che hanno gravemente danneggiato alcuni siti. Anche queste attività hanno portato al rinvenimento di un'ingente quantità di materiali, privandoli, tuttavia, del loro contesto originario, circostanza, questa, particolarmente rilevante per quanto riguarda i papiri, in special modo quelli greci.
Una svolta nel modo di concepire la ricerca egittologica e del suo modo di operare sul terreno è stata segnata dal primo Congresso internazionale degli egittologi, tenutosi al Cairo nel 1976, in occasione del quale, pur venendo ribadito il ruolo centrale della filologia come strumento fondamentale per la comprensione dei testi antichi, tradizionalmente considerati le sole fonti che consentano di scrivere la 'storia', si sono andate affermando concezioni e metodologie che in altri settori degli studi sul mondo classico, ma anche del Vicino Oriente e della Mesopotamia, avevano già trovato applicazione. Si decretava così il definitivo tramonto di un'egittologia che - nonostante alcune eccezioni, peraltro non frequenti - mostrava ancora la sua matrice ottocentesca e storico-antiquaria.
Anche in Egitto, dunque, l'a. è diventata un campo di ricerca indipendente, adottando le metodologie già da molto tempo in uso in tutta l'area del Mediterraneo; in primo luogo lo scavo stratigrafico e quello, ove possibile, di aree urbane e non più, dunque, solo delle necropoli regali o principesche. Inoltre, pur proseguendo le indagini in aree tradizionalmente assai feconde nel Sud del Paese, in primo luogo quella tebana, è cominciata ed è in corso con risultati molto apprezzabili, l'esplorazione di parti del territorio egiziano che in passato non erano mai state seriamente prese in considerazione, se non per sommarie prospezioni, certamente perché avare di risultati di immediata evidenza antiquaria, data la particolare natura del terreno.
Ciò corrisponde a un preciso orientamento ormai da tempo seguito dalle autorità egiziane preposte alle antichità, consistente nel privilegiare lo scavo di alcune zone del Paese precedentemente trascurate, quali il Delta, le oasi e i deserti, sospendendo, al contrario, la concessione di nuovi permessi nella Valle del Nilo e nel Sud, dove tuttavia è garantita la prosecuzione di progetti di lunga durata iniziati precedentemente. è il caso, per es., dello studio delle talatat, i blocchi di reimpiego degli edifici dell'età di ̔Amārnah a Tebe, gli scavi nella zona di Akhetaten nel Medio Egitto o le indagini nelle necropoli tebane. Queste aree, già intensivamente scavate in passato, non hanno mancato di portare a nuovi e importantissimi ritrovamenti, quali la tomba KV5 nella necropoli tebana (v. oltre: Tebe) - un mausoleo destinato ai figli di Ramesses ii, un unicum nell'architettura funeraria egiziana - o il ripostiglio del tempio di Luxor con la sensazionale scoperta di statue di re e divinità databili tra Nuovo Regno ed Epoca Tarda. Non meno importanti sono i ritrovamenti della zona di Abido (v. oltre: Abido), anch'essa ampiamente esplorata in passato, ma ancora capace di offrire risultati di grande interesse, quali il ritrovamento delle barche regali della i e ii dinastia e, soprattutto, la scoperta della tomba di un sovrano dell'epoca predinastica - il Re-scorpione i - contenente un archivio di tavolette incise con protogeroglifici, i più antichi esempi della scrittura nell'antico Egitto (circa 3350 a.C.).
Nella zona del Delta, le indagini archeologiche sono molto più complesse, ma i risultati sono importanti sia per l'età predinastica, che ha rivelato una precoce colonizzazione da parte dell'Egitto meridionale, sia per l'epoca hyksos, relativamente alla quale gli scavi di Tell el-Dab̔a (l'antica Avaris) permettono di delineare meglio un periodo per molti aspetti particolarmente oscuro. Anche le oasi sono ora oggetto di scavi di grande importanza che consentono di comprendere con maggiore chiarezza i rapporti esistenti tra di esse e la Valle del Nilo, mentre nel Fayyūm (v. oltre: Il Fayyūm e le oasi) continua in modo sempre più intenso lo studio delle città di età tolemaica e romana. Senza precedenti è invece l'a. subacquea che si sta sviluppando, per ora, nel porto di Alessandria. Un aspetto collaterale di tale intensa esplorazione del terreno è l'attenzione prestata alla conservazione e al restauro dei monumenti, che in passato si limitava all'anastilosi dei grandi edifici di culto, ma che ora viene esteso praticamente a ogni attività di scavo, diventandone la naturale prosecuzione e il complemento. Denominatore comune di tutte queste ricerche è la convinzione ormai consolidata che il maturare delle tecniche di scavo consenta di riversare i dati archeologici nella ricostruzione storica senza la mediazione dei testi scritti, là dove, per ragioni diverse, essi non siano disponibili. Ciò ha comportato un sensibile ampliamento della ricerca ai periodi 'critici' della storia egiziana, in primo luogo a quello predinastico, del quale si va rivelando sempre più chiaramente la complessità e l'importanza nella genesi dei caratteri essenziali dello stato faraonico. All'estremo cronologico opposto continua con proficui risultati la 'riscoperta' dell'Epoca Tarda, e non solo il periodo che si chiude con la xxx dinastia, ma anche quello successivo. Non più appannaggio esclusivo della papirologia e della storia ellenistica, lo studio delle età tolemaica e romana è oramai aperto alla ricerca archeologica e all'analisi della letteratura in demotico.
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L'Egitto antico, a cura di S. Pernigotti, Imola 2004.
Abido
La grande necropoli, attiva dal periodo predinastico fino all'Epoca Tarda e oltre, ha svolto un ruolo importantissimo nella storia dell'antico Egitto. Fu luogo di sepoltura dei sovrani fino alla fine della ii dinastia e, successivamente, ospitò la tomba del dio Osiride, la grande divinità funeraria legata all'ideologia della regalità divina. In conseguenza di ciò, la località divenne importante meta di pellegrinaggi e di offerte al dio, quali, per es., stele da parte di privati, nonché luogo privilegiato per l'erezione di cenotafi e di templi funerari da parte di importanti sovrani. Questo insieme di circostanze ha fatto di Abido uno dei siti privilegiati dell'a. egiziana fino dagli albori dell'esplorazione del Paese, anche in virtù dell'estesissimo arco cronologico che esso attraversa.
Il centro urbano di riferimento di Abido era la città di This, sede regale nelle prime due dinastie, che si trovava sulla riva destra del fiume, i cui resti, tuttavia, non sono stati ancora ritrovati, probabilmente perché obliterati dal villaggio moderno. Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, gli scavi condotti nella parte più antica della necropoli, quella risalente al periodo predinastico, causarono danni irreparabili. Le attività di ricerca dell'inizio del 21° sec. in quest'area archeologica, tuttora una delle più importanti dell'Egitto meridionale, risentono dell'orientamento generale delle autorità egiziane che privilegiano le ricerche relative al Delta del Nilo e alle oasi in passato trascurate dalle missioni straniere; tuttavia proseguono quelle ricerche che erano iniziate nel periodo precedente alla normativa recente. Particolarmente importanti sono stati gli scavi condotti dal Deutsches Archäologisches Institut del Cairo nel settore noto come Umm el-Qa̔ab: si tratta della necropoli arcaica che, in alcune sue parti, risale al periodo predinastico e giunge fino alle sepolture regali della i e della ii dinastia. Gli studi approfonditi di cui è oggetto mirano, per quanto possibile, a rimediare ai danni compiuti dagli scavi clandestini del passato, attraverso il riesame dei dati che si sono conservati e sulla scia di quanto già era stato tentato e, almeno in parte, realizzato da W.M.F. Petrie.
Le campagne finora effettuate hanno portato a un sostanziale incremento delle conoscenze della storia più antica dell'Egitto, dal periodo predinastico fino a quello protodinastico, sollecitando una generale riconsiderazione della documentazione già acquisita. Le scoperte più importanti provengono dalla tomba designata U-j, destinata a ospitare la salma di un sovrano del periodo predinastico, il cosiddetto Re-scorpione i (dal segno geroglifico che lo designa, raffigurante uno scorpione) onde distinguerlo da un Re-scorpione noto da tempo ma a lui posteriore. L'importanza di tale sepoltura consiste soprattutto nel fatto che al suo interno sono state ritrovate numerose placchette di osso e di legno, ciascuna delle quali reca incisa una breve iscrizione in caratteri che provvisoriamente si possono qualificare come protogeroglifici, un vero 'archivio' che è relativo probabilmente alla registrazione di tributi oppure di entrate di altro genere. Tali iscrizioni, che si collocano intorno al 3350 a.C., costituiscono la più antica testimonianza di scrittura nell'antico Egitto.
bibliografia
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Il Fayyūm e le oasi
L'esplorazione archeologica delle oasi del deserto occidentale e del Fayyūm (impropriamente definita oasi) è proseguita in maniera molto intensiva a opera di missioni guidate da studiosi egiziani o di altri Paesi, seppure i diversi progetti segnino un diverso grado di avanzamento. Il Fayyūm è una delle regioni di più antica presenza delle missioni archeologiche straniere, con una prevalenza di quelle italiane, che continuano una tradizione iniziata negli anni Trenta del Novecento; in quest'area sono proseguiti gli scavi a Medīnet Ma̔ādī (Narmouthis), condotti da una missione dell'Università di Pisa (cui si è aggiunta in seguito anche l'Università di Messina), a Tebtynis dove è attiva l'Università statale di Milano, in collaborazione con l'IFAO (Institut Français d'Archéologie Orientale) del Cairo, e a Bakchias, indagata inizialmente da una missione delle Università di Bologna e di Lecce, successivamente solo dell'Università di Bologna. Tutte queste missioni sono accomunate da progetti di ricerca di lunga durata, il cui obiettivo è quello di ricostruire il tessuto urbano di villaggi agricoli di età greco-romana di grandi dimensioni (50 ha in media). A Medīnet Ma̔ādī e a Bakchias sono stati scavati nuovi templi dedicati al culto delle locali divinità-coccodrillo: particolarmente importante quello di Medīnet Ma̔ādī, che ha rivelato la presenza di ambienti destinati all'allevamento di piccoli coccodrilli destinati al sacrificio. L'Università di Pisa è impegnata anche nel restauro e nella valorizzazione della tomba principesca del Medio Regno rinvenuta a Khelua, nella parte meridionale della regione, dove si trova l'unica necropoli non regale risalente a tale epoca a tutt'oggi rinvenuta. Un buon numero di papiri greci e demotici, è stato recuperato all'interno di templi e case, soprattutto a Tebtynis. Nel contempo, mentre proseguono gli scavi di una missione polacca nel sito di Wādī el-Naqlun, importante insediamento tardo-antico, altre missioni hanno dato inizio a indagini; tra queste la ricognizione topografica di Soknopaiou Nesos a cura delle Università di Bologna e di Lecce e, successivamente, la ripresa degli scavi a opera della sola Università di Lecce. Nelle oasi più lontane si assiste al progressivo avanzamento di progetti di lunga durata, che vanno dal parziale restauro e dallo studio più approfondito di monumenti già noti, oltre che all'apertura di nuovi cantieri, come nel caso dell'oasi di Siwa, alla sistematica esplorazione di quelle meridionali, come el-Khārghah, a opera dell'IFAO, ed ed-Dākhlah, che vede impegnata un'équipe canadese diretta da A.J. Mills. Da queste indagini emerge in modo netto il ruolo che le oasi hanno svolto nella storia dell'antico Egitto e i loro intensi rapporti con la Valle del Nilo. Le oasi non erano, dunque, avamposti nel deserto, ma territorio egiziano a tutti gli effetti; già a partire dal 3° millennio a.C., erano abitate da egiziani, e vi si parlava e scriveva la loro lingua. Si segnala la scoperta e lo scavo della necropoli tolemaica e romana di Bawiti nell'oasi di Bahriyyah da parte di Z. Hawass. Imponente è, infine, la quantità di manoscritti rinvenuti, redatti in egiziano, in greco, in copto e in siriaco; oltre ai papiri documentari, meritano una menzione speciale, le tavolette lignee con orazioni di Isocrate e i testi manichei in copto, redatti nel medesimo dialetto di quelli rinvenuti negli anni Trenta del Novecento a Medīnet Ma̔ādī, nel Fayyūm, e che testimoniano l'esistenza di un unico scriptorium in Medio Egitto, da dove i testi venivano diffusi nel resto del Paese.
bibliografia
E. Bresciani, Rapporto sulle missioni archeologiche nel Fayyum nel 1998. Il nuovo tempio di Medinet Madi, in Egitto e Vicino Oriente, 1997-1998, 20-21, pp. 95-109.
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E. Bresciani, A. Giammarusti, C. La Torre et al., Khelua. Una necropoli del Medio Regno nel Fayum, Pisa 1999.
Z. Hawass, Valley of the Golden mummies, New York 2000.
Tebe
Le indagini archeologiche in questo sito, corrispondente all'odierna Luxor, nel Sud del Paese, si sono estese a un'area più vasta di quella occupata dalla città antica, comprendendo anche, e soprattutto, le necropoli che si snodano nella catena di basse colline sulla riva sinistra del Nilo: da sud a nord, la Valle delle Regine, le necropoli dei funzionari di corte e la Valle dei Re. Davanti alle necropoli è la lunga fila di templi funerari dei faraoni sepolti nella Valle dei Re. Sulla riva sinistra del fiume, tuttavia, sorgono anche templi non funerari, come il tempio di Iside a Deir el-Šalwit, di età romana, e il tempio tolemaico di Qasr el-Aghuz, oltre al complesso palaziale di Amenhotep iii a Malqata.
Sulla riva destra si trovava il centro urbano con i templi dedicati al culto degli dei, a Karnak e nello stesso centro moderno di Luxor, in realtà una semplice, per quanto grandiosa, dépendance del sito descritto, al quale era collegata da un viale di sfingi che è stato solo parzialmente portato alla luce, poiché in gran parte obliterato dall'abitato moderno. Questa immensa area archeologica, che comprende situazioni assai diverse tra loro e ricoprenti un arco cronologico estremamente lungo, continua a essere oggetto di ricerche sul campo. I progetti precedentemente avviati vengono portati avanti e perfino i ritrovamenti occasionali contribuiscono ad arricchire la conoscenza di un'area alla quale va riconosciuto un ruolo cruciale per la ricostruzione della civiltà dell'antico Egitto, in quanto ospitò la residenza (in sostanza la 'capitale') dei sovrani del Nuovo Regno.
Più limitate sono invece le attività di scavo vero e proprio. Quelle attualmente in corso interessano le necropoli dei funzionari sulla riva sinistra che, riportate alla luce di anno in anno ed eventualmente restaurate, rivestono grande importanza per la ricchezza e la finezza delle decorazioni parietali. È il caso, per es., dell'imponente tomba di Harwa, un funzionario di Epoca Tarda, scavata e restaurata da una missione italiana. Notevoli risultati hanno conseguito anche gli interventi di restauro e di protezione di cui è stata oggetto la tomba di Nefertari, sposa di Ramesses ii (1279-1213 a.C.), che conserva un complesso di pitture di notevole valore artistico. La novità più rilevante è però costituita dal ritrovamento e dallo scavo della tomba KV5 nella Valle dei Re, in realtà nota da molto tempo ma poi ostruita dai detriti e quasi dimenticata. Le indagini hanno consentito di stabilire che si tratta di una sepoltura-mausoleo destinata a ospitare le salme dei numerosi figli di Ramesses ii, secondo una tipologia di architettura funeraria regale finora non attestata in Egitto e rispondente, con ogni verosimiglianza, alla concezione 'imperiale' della regalità quale venne elaborata da tale sovrano.
Tra i ritrovamenti occasionali va annoverata l'individuazione, in un cortile interno del tempio di Luxor, di un ripostiglio sotterraneo nel quale erano state interrate numerose statue di sovrani e di divinità, certamente in conseguenza della periodica necessità di sgombrare parti dell'area sacra che, con il passare del tempo, si andavano affollando di statue ex voto dedicate alle divinità cui il tempio era consacrato. Tali statue, ora esposte nel museo di Luxor, costituiscono un importante contributo alla conoscenza della storia della scultura egiziana tra Nuovo Regno ed Epoca Tarda.
bibliografia
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Vicino Oriente di Paolo Matthiae
L'a. del Vicino Oriente è passata, dalla sua nascita nel 1842, data dei primi scavi effettuati a Ninive dal franco-piemontese P.-É. Botta, attraverso tre fasi maggiori: quella pionieristica di ispirazione biblica nella seconda metà dell'Ottocento, quella scientifica di impostazione storica fino agli anni attorno al 1970, quella globale a struttura integrata dei nostri giorni.
Fortemente condizionata, soprattutto ai suoi esordi, dall'ipoteca del confronto e della verifica con la storia sacra narrata nei libri dell'Antico Testamento, l'a. orientale, in cui la corrente biblica è vitale ancora oggi soltanto in una tendenza, peraltro importante, della sola a. della Palestina, ha conosciuto e conosce tuttora, gravi condizionamenti di carattere politico: ai suoi inizi per i diversi orientamenti delle potenze europee nei confronti dell'Impero ottomano; tra i due conflitti mondiali, per i mandati coloniali francese su Libano e Siria e britannico su Palestina e ̔Irāq; in seguito per la predilezione dell'a. israeliana per le testimonianze dell'età del Ferro della Palestina e dell'a. di alcuni Paesi islamici per le testimonianze dell'età islamica e, infine, negli ultimi anni, per gravissimi danni al patrimonio culturale durante i più recenti conflitti armati. Il saccheggio del Museo dell'Irāq a Baghdād agli inizi dell'occupazione anglo-americana nella primavera 2003 e l'imponente attività di sistematici e devastanti scavi clandestini in tutti i maggiori centri della Babilonia, ma in parte anche dell'Assiria, sono tra le maggiori tragedie che hanno colpito il patrimonio culturale universale dalla fine del 20° secolo.
Negli ultimi decenni del Novecento, mentre si perfezionavano le cronologie scientifiche degli aspetti della cultura materiale nelle regioni del Vicino Oriente, divenivano fondamentali per la ricchezza delle loro collezioni i musei nazionali di Ankara, di Baghdād, di Damasco, di Aleppo, di Beirut, di Gerusalemme, di Teherān, di ̔Ammān e cominciavano ad assumere importanza i musei regionali. Si succedevano inoltre scoperte di grandissimo rilievo - come quelle degli antichissimi archivi reali di Ebla in Siria, delle ricche tombe delle regine d'Assiria a Nimrūd (v. oltre: Nimrūd), della biblioteca templare del santuario di Sippar (v. oltre: Sippar) nella Babilonia, del grande tempio del dio Hadad sulla cittadella di Aleppo (v. oltre: Aleppo), di settori palatini e forse templari della cananea Hazor in Palestina, delle tombe reali di Ebla e di Qatna in Siria, della cultura protodinastica dell'Irān orientale a Konar Sandal -, con identificazioni di fondamentali centri storici a lungo oggetto di ricerche, quali ancora Ebla a Tell Mardīkh, Shubat Enlil a Tell Laylān, Anshan a Tepe Malyan, Nagar a Tell Brāk, Urkish a Tell Mozan.
Nella prospettiva dell'a. globale, che rispetto alla tradizionale esigenza della classificazione storica rivolge sempre più un interesse prioritario all'interpretazione e alla comprensione delle culture, dei loro cambiamenti, delle loro crisi, delle loro innovazioni, con un'attenzione crescente alle basi economiche e sociali rispetto al mondo religioso e ideologico, nelle ricerche dell'a. orientale hanno assunto posizioni centrali gli studi, a struttura di sistema e a fondamento scientifico, sulla formazione della civiltà urbana, sulle dialettiche delle strutture sociali, sulle cause dei collassi delle culture, sull'evoluzione socioeconomica delle forme di aggregazioni, dalle città-stato agli stati territoriali, alle formazioni nazionali e alle strutture imperiali. È inoltre cresciuto l'interesse per gli insediamenti di ridotte dimensioni che consentono, per qualunque epoca, ricerche tendenzialmente globali e incentrate su aspetti della microstoria anziché della macrostoria come era tipico dell'a. storica, e lo sviluppo delle indagini su regioni periferiche, in precedenza quasi del tutto ignorate, dagli altopiani dell'Armenia alle valli del Caucaso, dalle coste del Golfo Persico/Arabico alle regioni dell'Irān orientale e settentrionale, fino all'Asia centrale.
Uno dei problemi centrali dell'a. orientale è quello dei valori e dei significati delle civiltà che essa studia, in termini, per così dire, assoluti e relativi. In termini assoluti, non c'è dubbio che le regioni del Vicino Oriente oggetto dell'a. orientale sono state lo scenario di sviluppi di eccezionale significato nella storia dell'umanità sul piano economico-sociale, quali le cosiddette rivoluzione neolitica e rivoluzione urbana, e sul piano ideologico-religioso, quali il sorgere dei tre monoteismi etici della storia umana, l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam. La diffusione della civiltà urbana dai primitivi ambienti alluvionali, caratterizzati dalla pratica di embrionali ma efficaci pratiche di irrigazione, dove si praticava un'agricoltura intensiva (in Sumer, in Elam e in Egitto) ad ambienti 'secchi' adatti a un'agricoltura estensiva (in Siria, in Anatolia, in Palestina e in Irān) ha permesso l'affermazione del modello urbano, segnando un momento di altissimo significato nella storia dell'umanità: da allora per gli antichi, come agli inizi del terzo millennio per i moderni, città è sinonimo di civiltà e di progresso, mentre ldelle città è sinonimo di crisi, di collasso della civiltà e di regresso. Nel caso dell'insorgere del monoteismo etico ebraico, è proprio nell'ambito della dialettica storica del Vicino Oriente antico dell'età del Ferro tra stati nazionali e imperi universali che si verificarono quegli straordinari sviluppi della religiosità orientale antica, caratterizzati da una vocazione comunitaria monoteistica, dalla concezione della rivelazione nella storia, dall'ideologia del peccato, della grazia, dell'alleanza e della redenzione, dall'ancoraggio all'autorità di testi sacri, da un'etica personale rigorosa, che contenevano potenzialità di insospettabile suggestione. L'eccezionale fortuna nello spazio e la lunghissima durata nel tempo del monoteismo etico ebraico nei suoi prolungamenti storici dei successivi monoteismi cristiano e islamico sono il segno di valori, tra i più alti nella storia dell'umanità, che abbiano avuto origine nelle culture dell'Oriente antico preclassico.
Sull'oggettività dei giudizi, sui valori delle civiltà dell'Oriente antico hanno influito negativamente ancora nell'età moderna, da un lato, l'incerta posizione del mondo greco-romano, oscillante tra l'ammirazione per i luoghi della presunta origine della scienza e della filosofia e il disprezzo per le sedi di irrazionali mistificazioni, quali l'astrologia caldea e i barbari dispotismi, e, dall'altro, la risoluta condanna del mondo ebraico-cristiano, per il quale, con la sola eccezione dei sovrani achemenidi liberatori degli Ebrei dall'Esilio nella Babilonia susseguente alla distruzione di Gerusalemme compiuta da Nabucodonosor 11, quelle civiltà si caratterizzavano per l'idolatria, la dissolutezza e il dispotismo. Numerosi sono, invece, gli elementi culturali che le civiltà dell'Oriente antico hanno trasmesso al mondo occidentale medievale e moderno quali, per es., tra gli aspetti istituzionali la regalità, nella concezione nazionale e universale; innovazioni tecniche come l'irrigazione per bacini e la ruota piena; sviluppi fondamentali come la tecnologia del ferro e l'alfabeto lineare; nell'ambito intellettuale la tensione all'immortalità e l'idea che le eroiche gesta umane superino il destino mortale dell'uomo; importanti scoperte scientifiche soprattutto nell'astronomia e nella matematica.
È tuttavia persistente nella cultura comune l'interpretazione che le civiltà dell'Oriente antico abbiano fornito contributi all'umanità unicamente come precedenti, per ciò stesso imperfetti, di più compiute conquiste che si sarebbero realizzate soltanto nell'ambito, da un lato, del mondo greco-romano e, dall'altro, del mondo ebraico-cristiano. Questa prospettiva, che è sostanzialmente e anacronisticamente teleologica, nel senso che individua una specie di disegno provvidenziale nella storia, giudica nel complesso le grandi civiltà preclassiche del Vicino Oriente come una preistoria strutturale imperfetta che precede la storia compiuta e perfetta della rivelazione ebraico-cristiana e della razionalità greco-romana. Questa linea di ricerca storica, decisamente prevalente nella storiografia moderna, si colloca naturalmente sul versante costante dell'identità, nel senso che indaga le conquiste delle civiltà del passato nell'ottica di valori che, in modo progressivo, si affermano nella storia con un riferimento preciso e costante costituito dai valori della civiltà occidentale moderna. Per es., sul piano propriamente archeologico, se quella straordinaria forma espressiva che è il rilievo storico dell'impero assiro tra il 9° e il 7° sec. a.C. viene indagato solo in funzione del successivo rilievo storico romano, apparirà sempre come qualcosa di 'imperfetto' e la sua reale natura non potrà essere percepita. Sulla base soprattutto di metodologie comparatiste, antropologiche, relativiste si sta tuttavia affermando una prospettiva diversa, quella di indagare le conquiste delle civiltà antiche sul versante dell'alterità, ciò che consente di individuare le specificità delle culture al di là degli onnipresenti riferimenti eurocentrici. È in questa prospettiva che il rilievo storico assiro, sullo sfondo della specificità culturale del suo mondo, assume significati di eccezionale originalità che si impongono anche alla sensibilità moderna arricchendo la nostra esperienza di fondamentali valori perduti.
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P. Matthiae, Prima lezione di archeologia orientale, Roma-Bari 2005.
Aleppo
Nella cittadella medievale di età ayyubide e mamelucca, sul luogo di un sondaggio profondo quanto sommario compiuto da G. Ploix de Rotrou nel 1929, durante gli anni del mandato francese, sono stati ripresi dal 1996 importanti scavi condotti da una missione congiunta siriana e tedesca diretta da K. Kohlmeyer e W. Khayyata. Le ricerche hanno portato, inaspettatamente, alla scoperta di uno straordinario edificio sacro paleosiriano, databile probabilmente al 19° sec. a.C. Si tratta del più celebre santuario della Siria preellenistica, il tempio di Hadad, il dio della tempesta, denominato Teshup dalle genti di lingua khurrita. Collocato nella regione centrale della cittadella, orientato con l'ingresso a sud e caratterizzato dalla tipologia monocellulare a sviluppo latitudinale, il tempio era eccezionalmente monumentale: la cella era larga 26,75 m e profonda 17,10 m, secondo un rapporto tra larghezza e lunghezza di 3:2, con un'ampia nicchia cultuale sul lato di fondo di 7,80×3,80 m; originariamente i paramenti delle pareti interne della cella erano costituiti da ortostati calcarei alti 1,20 m, mentre lo spessore del muro di fondo era di circa 9,5 m. Lo spessore delle altre strutture, frontale e laterali, non è conosciuto con sicurezza, ma è probabile che fosse identico o di poco inferiore a quello del muro di fondo. Nel rilevante spessore del muro di facciata erano due vani stretti e lunghi, che potrebbero aver ospitato scale per raggiungere la terrazza, luogo di cerimonie rituali e di sacrifici nella tradizione ugaritica e cananea. La primitiva pavimentazione della cella è conservata anche nella regione ovest, nel suolo di uno dei vani sotterranei dell'età ayyubide che, a una quota identica a quella in terra battuta della cella, presenta un lastricato che dovrebbe aver sostituito il suolo originario.
Se per una serie di particolari tecnici questo santuario mostra corrispondenze notevoli con l'architettura monumentale degli altri maggiori centri contemporanei, come Ebla e Alalakh, la struttura tipologica dell'edificio appare paragonabile solo al tempio di Alalakh dello strato vii, in quanto tutti i templi eblaiti dello stesso periodo hanno costantemente la cella a sviluppo longitudinale e mai latitudinale. Il tempio di Hadad dovette conoscere una serie di rifacimenti della cella che, tuttavia, fu mantenuta sempre alla stessa quota. Probabilmente, durante il periodo mediosiriano, quando Aleppo, dopo la conquista di Murshilish i, fu per due volte conquistata dai re hittiti Tudhaliyash i/ii e Shuppiluliumash i e divenne parte dell'impero hittita, furono operati importanti rifacimenti interni alla cella, tra cui la chiusura della nicchia. In un periodo antico dell'età del Ferro, forse tra l'11° e il 10° sec. a.C., la profondità della cella venne drasticamente ridotta e il nuovo muro di fondo venne decorato con una spettacolare serie di ortostati basaltici scolpiti a rilievo con immagini di divinità e di esseri mitici, assai ben conservati. Vi compaiono, accanto ai demoni alati a testa aquilina e leonina, agli uomini-toro e agli uomini-leone, alle sfingi maschili e femminili, diverse divinità, tra le quali Ishtar guerriera, il protettore Kuruntiya, un dio con l'arco e la lancia, un dio con il pastorale e la folgore e, soprattutto, in un largo ortostato centrale, il dio Hadad con la mazza sul carro trascinato da un toro, suo tipico animale attributo. Sul lato est della cella, sono state trovate in posto due lastre basaltiche con le immagini affrontate del dio Hadad e di un re, il cui nome compare in una lunga iscrizione hittita geroglifica adiacente: Taitas, signore del paese di Patasatini, nella piana di Antiochia, che, forse poco dopo il 1100 a.C., avrebbe dominato larga parte della Siria settentrionale da Antiochia fino a Ḥamā. La distruzione e l'abbandono del tempio di Hadad devono essere datati a una delle trionfali spedizioni militari assire nella seconda metà dell'8° sec. a.C.
bibliografia
J. Gonnella, W. Khayyata, K. Kohlmeyer, Die Zitadelle von Aleppo und der Tempel des Wettergottes, Münster 2005.
Nimrūd
Situato nell'Irāq settentrionale, 35 km circa a sud di Mossul e di Ninive, il sito cela le vestigia dell'antica Kalkhu, un tempo sul corso del Tigri che oggi scorre a 3 km di distanza, capitale dell'impero di Assiria dall'865 ca. al 706 a.C., momento in cui Sargon ii (721-705 a.C.) costruì la sua nuova capitale Dūr Sharrukīn, l'odierna Khorsābād. Negli ultimi venti anni, accanto a importanti restauri conservativi, vanificati da gravi saccheggi verificatisi dopo la seconda guerra del Golfo, le ricerche si sono concentrate soprattutto su settori centrali della cittadella; sono state messe in luce parti del Palazzo centrale di Tiglatpileser iii (745-727 a.C.) e soprattutto un esteso quartiere domestico del Palazzo nord-ovest, nella sua regione meridionale, con numerosi vani disposti attorno ad almeno quattro corti dell'area residenziale. È qui che, tra il 1988 e il 1992 durante gli scavi diretti dall'archeologo iracheno M.M. Husseyn, sono state ritrovate quattro tombe con ricchissimi corredi in cui furono sepolte, tra l'altro, alcune delle più importanti regine d'Assiria, vale a dire: Mullissu-mukannishat-Ninua, moglie di Assurnazirpal ii (883-859 a.C.); Yaba, moglie di Tiglatpileser iii; Banitu, moglie di Salmanassar v (726-722 a.C.) e Atalia, moglie di Sargon ii.
Nella Tomba i, consistente in un pozzo funerario che termina in un'anticamera e una camera funeraria, erano sepolte in sarcofagi di terracotta privi di iscrizioni, due sconosciute principesse di 50/55 e 45/55 anni, inumate con una coppa d'argento deposta presso il capo e una grande quantità di splendidi gioielli d'oro.
Nella più articolata Tomba ii una lastra con un'iscrizione cuneiforme ricordava, insieme a maledizioni per i violatori del sepolcro, che la tomba era stata costruita per la regina Yaba e nel grande sarcofago in pietra, ricolmo di 157 oggetti funerari d'oro, erano due corpi femminili sovrapposti: mentre uno specchio d'elettro recava un'iscrizione con il nome di Banitu e una coppa d'oro posta sul petto del corpo femminile superiore era iscritta con il nome di Atalia, altre due coppe auree presentavano un'iscrizione in cui un'altrimenti sconosciuta Yaba veniva definita regina di Tiglatpileser iii. L'interpretazione più verosimile di questa tomba è che il corpo inferiore contenuto nel sarcofago sia quello di Yaba, per la quale la tomba era stata costruita, e quello superiore sia della regina di Sargon ii, che avrebbe portato con sé oggetti di Banitu, moglie di quel Salmanassar v, cui quasi certamente lo stesso Sargon ii aveva usurpato il trono. Più complesso ancora è il caso della violata, ma anch'essa assai ricca, Tomba iii: nella camera funeraria più ampia, il sarcofago svuotato recava un'iscrizione da cui risulta che esso conteneva originariamente il corpo della regina di Assurnazirpal ii. L'anticamera conteneva tre bare di bronzo all'interno delle quali si trovavano tredici corpi inumati: una giovane donna con cinque infanti; una donna di trent'anni circa e un giovinetto di una decina d'anni; cinque adulti, tre dei quali uomini. Sul corpo di un uomo di sessant'anni circa era una coppa d'oro con il nome di Shamshilu, un onnipotente governatore, noto da varie iscrizioni e vissuto nella prima metà dell'8° sec. a.C., che usurpò ripetutamente prerogative reali. Anche questa singolare inumazione multipla era straordinariamente ricca di oggetti d'oro. Significativo il fatto che sul capo del giovinetto fosse stata posta una splendida corona da adulto, che ha fatto supporre che si trattasse di un principe ereditario sepolto con la giovane madre. L'eccezionalità nella cultura assira delle inumazioni multiple ha fatto supporre che i numerosi defunti sepolti simultaneamente siano stati vittime di un'epidemia o di sanguinosi tumulti, in quest'ultimo caso forse da connettere con l'avvento di Sargon ii nel 722 a.C.
bibliografia
M.E.L. Mallowan, Nimrud and its remains, London 1966; M.M. Hussein, A. Suleiman, Nimrud. A city of golden treasures, Baghdad 2000; J. e D. Oates, Nimrud. An Assyrian imperial city revealed, London 2001.
Sippar
Situata 30 km circa a sud-ovest di Baghdād, a nord-ovest di Babilonia, l'antica Sippar (odierna Abu Ḥabbah) era, nella tradizione sumero-akkadica, una delle più antiche città della storia che risaliva alle mitiche epoche anteriori al diluvio. Dopo gli scavi inglesi e francesi della seconda metà dell'Ottocento, dal 1978 importanti indagini archeologiche furono intraprese a Sippar dall'Università di Baghdād sotto la direzione di W. al-Jadir. Durante le stagioni 1986-87 è stato riportata alla luce una piccola sala pressoché intatta che ospitava probabilmente la principale biblioteca dell'E-Babbar, il famoso tempio del dio solare, che in età neobabilonese ricopriva un'area di 350×220 m ed era dominato da un'importante ziggurat, la classica torre templare dei principali luoghi sacri della Babilonia, oggetto di importanti restauri da parte di Nabucodonosor ii (605-562 a.C.) e di Nabonedo (556-539 a.C.). Il celebre santuario, che presumibilmente conobbe un'ultima fioritura a seguito di questi restauri, dovette restare in funzione durante l'età achemenide ed ellenistica. Nell'età partica, durante il 1° sec. d.C., la città, pur assai ridotta di dimensioni, era ancora abitata.
Gli scavi più recenti si sono concentrati sul settore a nord-ovest della ziggurat, da taluni ritenuto l'area sacra di Aya, la paredra di Shamash. A nord-est della grande corte (ambiente 358) che immetteva nell'antecella e nella cella, sul lato di un'avancorte di più limitate dimensioni, proprio ai margini dell'area oggetto degli scavi di rapina ottocenteschi, è stata individuata e integralmente scavata una piccola sala (355) di soli 4,40×2,70 m, cui conduceva una sala longitudinale di 10,50×5,50 m. La sala 355, che aveva la porta sul lato lungo nord, presentava le altre tre pareti occupate da una cinquantina di piccole e fitte scaffalature sovrapposte, profonde circa 70 cm, costruite in vimini e argilla, in alcuni settori colme di tavolette, per lo più assai ben conservate, ritrovate praticamente come al tempo dell'ultima utilizzazione; i settori che sono stati trovati vuoti è possibile che in origine ospitassero testi in materiali deperibili, come tavolette lignee, papiri o pergamene. Nel complesso, i testi scoperti in posto nella biblioteca templare di Sippar sono poco più di 800: anche se solo relativamente pochi di essi sono stati finora pubblicati, è certo che la biblioteca conservava la maggior parte delle opere letterarie tradizionali del mondo sumero-akkadico, dalle liste canoniche dei vaticini agli incantesimi, dagli inni alle preghiere e alle lamentazioni. Sembra, inoltre, che fossero presenti eccellenti redazioni dei più famosi testi epici della Mesopotamia, dal poema di Atraḥasis, al poema della Creazione, al poema di Gilgamesh e al mito di Nergal (il Lugale), oltre a numerose liste lessicali, tavolette grammaticali, testi matematici e astronomici di primaria importanza, insieme a copie di iscrizioni reali e di celebri documenti storici antichi, come il prologo del Codice di Ḫammurabi, ed esemplari di particolari generi letterari in voga nella Mesopotamia antica, come le opere pseudo-biografiche di grandi personaggi dei tempi remoti. Senza alcun dubbio quando saranno integralmente pubblicati, i testi della biblioteca di Sippar forniranno elementi essenziali sull'organizzazione di una grande biblioteca templare della Mesopotamia tarda e faranno conoscere, dai colofoni delle singole tavolette, i nomi dei copisti del santuari; tuttavia allo stato attuale delle conoscenze è comunque possibile affermare che le opere più recenti entrate nella biblioteca appartengono agli anni dell'achemenide Cambise ii (529-522 a.C.).
bibliografia
W. al-Jadir, Le quartier de l'É.BABBAR de Sippar (Sommaire des fouilles de 1985-1989, 8-11èmes campagnes), in Mésopotamie et Elam. Actes de la xxxvième rencontre assyriologique internationale. Gand, 10-12 juillet 1989, éd. L. De Meyer, H. Gasche, Gand 1991, pp. 191-96; O. Pedersén, Archives and libraries in the Ancient Near East 1500-300 b.C., Bethesda 1998, pp. 193-97.
Medio Oriente di Anna Filigenzi
L'area qui convenzionalmente indicata come Medio Oriente comprende l'Irān, l'Asia Centrale e il Subcontinente indiano, di cui si darà una trattazione separata, anche se gli odierni confini solo in parte corrispondono agli intrecci trasversali di vicende storiche e fenomeni culturali. Nella regione iranica, ossia il territorio compreso tra gli Zagros e l'Aral (v.), già verso la fine del Pleistocene sono documentati iniziali processi di sedentarizzazione (siti di Ganj Dareh, Choga Safid, Ali Kosh e altri), che sarebbero sfociati nella 'rivoluzione neolitica' pienamente attestata a partire dal 7000 a.C. nella zona del Turkmenistan e del Gurgan (cultura di Jeitun).
Dalle culture definite calcolitiche del 5°millennio-fine del 4°, caratterizzate da notevoli sviluppi tecnologici e da contatti culturali ad ampio raggio (dalla Siria alla Valle dell'Indo), emergono processi di urbanizzazione ed entità protostatali su base regionale di maggiore o minore forza coesiva (centri di Susa, Anshan, Tepe Yāḥyā, Shahr-i Sokhta, Mundigak, Tepe Ḥiṣar). I materiali rinvenuti nelle necropoli (famosa quella di Shāhdād) mostrano stringenti affinità con quello che, con un termine ora contestato, è stato definito complesso bactro-margiano (fra Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Afghānistān). In generale, emergono sviluppi policentrici tra loro correlati; di recente identificazione sono le civiltà di Jiroft, dal sito eponimo, e dello Hilmend. La successiva età del Ferro (1350-300 a.C. ca.) è correlata all'arrivo nell'altopiano e nelle aree adiacenti delle popolazioni 'iraniche', da cui hanno origine le prime dinastie 'imperiali', quella dei Medi e, successivamente, quella degli Achemenidi.
La fusione di vecchie tradizioni con quelle di importazione 'iranica' è documentata dalla splendida produzione metallurgica, specie tra l'8° e il 7° sec. a.C. Ancora oscura è la storia dei Medi, nonostante la scoperta di siti quali Tepe Nūsh-i Jān, Bābā Jān, Godin Tepe, noti soprattutto per le loro sale ipostile, primi esempi di una tipologia architettonica destinata a grande sviluppo nel successivo periodo achemenide. Il periodo postachemenide è noto in maniera ancora frammentaria, anche a causa di un pregiudizio ideologico nei confronti della cultura ellenizzante introdotta dai Seleucidi. Tuttavia da siti quali Hamadān, Bīsutūn, Dīnavar e Nihavand, Khurha e Persepoli, Qal'a-i Sam ecc. provengono tracce, sia pur parziali e tra loro scollegate, di una realtà complessa e ricca di spunti straordinari per la ricerca.
Meglio documentato è il periodo arsacide, ove componenti regionali e altre più genericamente 'iraniche' si mescolano a sopravvivenze ellenistiche e si collegano a una vasta rete di rapporti che si estende dalla Siria al Gandhāra al Xinjiang. Caratteri più complessi e in un certo senso contraddittori del periodo sasanide emergono da scoperte recenti, come per es. il palazzo di Hājīābād, in cui la ricca produzione scultorea in stucco presenta temi non riconducibili alla 'ortodossia' religiosa generalmente attribuita ai Sasanidi. Inoltre, questo e altri siti rendono manifesto il contributo iranico-centroasiatico all'arte e all'architettura proto-islamica. In Asia Centrale l'adattamento a realtà ambientali assai diverse produsse, con un lungo processo iniziato nel corso del 2° millennio, due tipi di società opposti ma in costante contatto: culture stanziali nella fascia meridionale, nomadismo pastorale nelle steppe a nord.
Lo sviluppo delle più antiche culture sedentarie trova una documentazione archeologica particolarmente ricca nel Turkmenistan meridionale, dove il sito di Jeitun (7000-6000 a.C. ca.) e, più tardi (5500 a.C. ca.), Pessejik Depe testimoniano un'avanzata cultura neolitica. Nell'età del Bronzo i siti compresi fra la regione pedemontana del Turkmenistan (Altin Depe, Ilginli, Namazga, Kara Depe, Geoksyur), l'Uzbekistan meridionale (Jarkutan, Sapalli Tepe), il Tagikistan (Sarazm) e l'Afghānistān nord-occidentale (Mundigak e Dashli) mostrano una sostanziale omogeneità (architetture monumentali, complesse strutture difensive, avanzate tecnologie metallurgiche e ceramiche, sistemi di canalizzazione), forse in parte promossa da un movimento di genti. Nei siti urbani dell'età del Ferro (per es., Dalverzin nel Ferghana) appaiono già in uso tecniche costruttive (basate sul mattone crudo e su blocchi di argilla pressata, o pakhsa) e soluzioni planimetriche (tripartizione dello spazio urbano in cittadella, città bassa e suburbio) che si confermeranno costanti fino a epoca medievale. Alla metà del 1° millennio a.C. molte regioni centroasiatiche compaiono nella lista dei territori orientali soggetti agli Achemenidi; alle scarse prove archeologiche fa da contrappeso un evidente influsso persiano sull'arte e sulla cultura materiale.
Se si eccettua il caso di Ai Khānum (Afghānistān, nell'antica Battriana) e del tempio di Takht-i Sangin (Tagikistan), pochi sono anche i riscontri archeologici della presenza greca, meglio nota dalla numismatica e dall'arte. L'arrivo in Battriana di popolazioni nomadi a partire dalla metà del 2° sec. a.C. dà inizio a un nuovo periodo, da cui emergeranno una potente formazione statale, quella dei Kuṣāṇa (1°-3° sec. d.C.), e una duratura pax che favorirà la fioritura della 'via della seta' e l'espansione del buddhismo fuori dell'India. Se l'attribuzione della piccola ma importantissima necropoli nomadica di Tillya Tepe (v. oltre) alla cerchia dei nuovi dominatori è controversa, significative testimonianze di epoca kuṣāṇa vengono dal palazzo di Khalchayan (Uzbekistan), da siti urbani quali Dalverzin Tepe e Dilberjin, dal tempio dinastico di Surkh Kotal, da centri buddhisti come Kara Tepe e Fayaz Tepe. Dopo il tramonto dei Kuṣāṇa e la successiva parentesi Kushano-sasanide (3°-4° sec. d.C.), si apre un periodo ancora poco noto, su cui dominano gli Eftaliti e poi i Turchi. L'epoca alto-medioevale, precedente la conquista islamica, è caratterizzata dal fenomeno dell'incastellamento ma anche dalla fioritura di raffinatissime culture urbane, sviluppatesi soprattutto nelle oasi attraverso le quali transitavano le vie carovaniere (siti di Pendûikent, Afrasiab e Varakhsha in Sogdiana, Kala-i Kahkaha nell'Ustrushana, Balalik Tepe, Kafir Kala, Kala-i Kafirnigan e Jumalak Tepe nel Tokharistan, ossia l'antica Battriana).
Per quanto concerne il Subcontinente indiano, la fioritura della civiltà dell'Indo (2600-1900 a.C.), fino a ieri considerata come effetto di irradiamenti culturali dall'area mesopotamica, appare oggi, grazie a indagini in siti come Mehrgarh, nel Baluchistan pakistano, incontestabilmente collegata a un processo locale di sviluppo, mentre si ampliano i confini e la rete di rapporti anche a lungo raggio di questo sistema (ancora per molti versi sfuggente) di insediamenti urbani (almeno un migliaio, tra cui Mohenjo Daro, Harappa, Kalibangan, Surkotada), con attività artigianali e commerciali altamente sviluppate. Il riflusso verso piccole comunità rurali già in epoca precedente l'arrivo delle popolazioni arie (responsabili della nascita della cultura vedica) smentisce la teoria che impunta a queste genti il crollo della civiltà dell'Indo. I testi letterari, specie buddhisti, mettono in evidenza ciò che l'a. stenta invece a provare sul campo, ovvero l'innescarsi, nella prima metà del 1° millennio a.C., di processi embrionali di formazioni statali e protourbane, che troveranno piena realizzazione nel 4° sec. a.C., con la creazione dell'impero Maurya.
L'arrivo dei Greci, la nascita e il radicamento di una cultura 'ellenizzata' e del buddhismo nelle regioni del Nord-Ovest sono temi cui si guarda agli inizi del 21° sec. con uno sguardo meno eurocentrico, più attento alla complessità delle realtà locali. Importanti indicazioni sia cronologiche sia culturali (in gran parte fornite dagli scavi italiani effettuati a Butkara, Saidu Sharif, Bīr-koṭ-ghwaṇḍai e anche in altri siti dello Swāt, in Pakistan) danno risalto al sostrato 'indiano' nel processo di ellenizzazione e al ruolo di sovrani scito-partici (metà del 1° sec. a.C.- metà del 1° sec. d.C.) nella diffusione del buddhismo, tradizionalmente imputato ai Kuṣāṇa. Per quanto riguarda il periodo definito classico dagli studiosi indiani, quello Gupta (4°-6° sec. d.C.), oltre ai due famosi poli di Mathurā e Sārnāth viene alla ribalta l'incidenza di centri artistici periferici (in Sind, Gujarat, Rajasthan) ove influssi occidentali appaiono diretti e non più imputabili alle lontane tradizioni ellenizzanti del Nord-Ovest. Restano invece vaghe le tappe dell'evoluzione tipologica del tempio hindu; una tradizione architettonica autonoma fiorita tra l'8° e l'11° sec., ribattezzata Gandhāra-Nāgara, è stata di recente individuata nelle aree settentrionali del Pakistan.
Nell'India peninsulare le indagini archeologiche di maggior rilievo si concentrano sulle direttrici dei traffici marittimi, a loro volta collegati a rotte di terra, testimoni degli intensi rapporti che intercorrevano, sin da epoca antica, tra India, mondo mediterraneo e Asia estrema e sud-orientale.
bibliografia
Irān: P. Amiet, P. Calmeyer, Iranica, Arte, in Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale, Secondo Supplemento 1971-1994, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., Roma 1995, ad vocem; Antica Persia (Catalogo della mostra), Roma 2001.
Asia Centrale: L'archéologie de la Bactriane ancienne. Actes du colloque franco-soviétique, Dushanbe 1982, Paris 1985; B.Ja. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans. Problèmes d'histoire et de culture, Paris 1986; C. Rapin, La trésorerie du palais hellénistique d'Aï Khanum. L'apogée et la chute du royaume grec de la Bactriane, Paris 1992 (con bibl. precedente); Altyn adam. L'uomo d'oro (catalogo della mostra), ed. C. Silvi Antonini, K. Bajpakov, Roma 1999; C. Silvi Antonini, Da Alessandro Magno all'Islam. La pittura dell'Asia Centrale, Roma 2003.
Subcontinente indiano: M. Taddei, Indiana, Arte, in Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale, Secondo Supplemento 1971-1994, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., Roma 1995, ad vocem; V. Dehejia, Indian art, London 1997.
Tillya Tepe
In questo sito dell'Afghānistān settentrionale, a pochi chilometri dall'odierna Sheberghan, nell'antica Battriana, gli scavi furono condotti da una missione afghano-sovietica diretta da V.I. Sarianidi negli anni 1969-1971 e 1977-78, mentre a epoca molto più recente (2004) data la 'riscoperta' degli eccezionali reperti provenienti dal sito, che, originariamente collocati nel Museo nazionale di Kābul, si credevano perduti.
A Tillya Tepe è stato portato alla luce un grande edificio in mattoni crudi, datato intorno al 1000 a.C., in cui Sarianidi riconobbe un tempio del fuoco. Impostato su una piattaforma, l'edificio ha pianta quadrata ed è circondato da un muro provvisto di torri circolari e semicircolari; l'ingresso è a nord. All'interno, una grande sala ipostila presenta al centro i resti di un probabile altare del fuoco. Un colonnato, più a sud, potrebbe appartenere a un altro ambiente o a un portico. Completamente ricostruito nel corso del tempo, l'edificio cessò di esistere nel 4° sec. a.C. con un incendio. Nel i° sec. a.C., le sue rovine ormai compattate divennero il luogo di sepoltura di alcuni membri di un clan o famiglia aristocratica, che Sarianidi pensa appartenesse agli Yuezhi (Yueh-chi), la tribù nomade che avrebbe dato vita all'impero dei Kuṣāṇa (i°-3° sec. d.C.), esteso su gran parte dell'India come anche dell'Asia Centrale.
Altri studiosi, forse con maggiore fondamento, attribuiscono la piccola necropoli all'ambito dei Saka-Parti, genti nomadi di estrazione iranica che, dopo aver dominato per circa un secolo il Nord del Subcontinente indiano, furono soppiantate dai Kuṣāṇa. Dagli scavi emersero sei tombe a fossa con inumazioni individuali (cinque donne e un uomo). I corpi erano deposti in bare costruite con assi di legno tenute da grappe di ferro (una sola è ricavata da un tronco di legno). Prive di coperchio, esse erano avvolte da drappi disseminati di placchette d'oro. Di straordinaria ricchezza erano anche le vesti degli inumati, fittamente decorate in oro, i gioielli (diademi, bracciali, spilloni, pendenti, fibbie, fermagli, pettorali ecc.) e i corredi d'accompagno (armi, vasellame, monete, oggetti da toeletta, tra cui alcuni di importazione indiana e cinese); si contarono, in totale, oltre 20.000 oggetti d'oro, spesso con intarsi di pietre dure.
Con l'interruzione degli scavi a causa di un colpo di stato (1978) e della successiva invasione sovietica (1979), il sito divenne preda degli scavatori clandestini. A lungo creduti perduti, i tesori di Tillya Tepe sono tornati alla luce nel 2004 nei caveaux della Banca centrale, ove erano stati custoditi. Oltre all'incalcolabile valore intrinseco, questi reperti danno prova di un elevatissimo livello tecnico e di una straordinaria combinazione di modelli stilistici e iconografici di matrici diverse, dallo 'stile animalistico' dei nomadi delle steppe alla tradizione ellenistica. Una moneta dell'imperatore Tiberio (14-37 d.C.) fornisce un terminus post quem per la datazione delle tombe, forse apprestate tutte contemporaneamente. Di particolare interesse, per le sue implicazioni culturali, è un medaglione con l'immagine di un uomo nudo che sospinge una ruota, definito da un'iscrizione in kharoṣṭhī come "colui che mette in moto la [Ruota della] Legge" (dharmapravartako), interpretata da R.L. Brown come un 'esperimento fallito', di matrice ellenistica, dell'immagine del Buddha.
bibliografia
V.I. Sarianidi, The golden hoard of Bactria. From the Tillya-Tepe excavations in Northern Afghanistan, New York-Leningrad 1985.
V.I. Sarianidi, Tilya Tepe: the burial of a noble warrior, in Persica, 1990-1992, 14, pp. 103-30.
S.A. Yatsenko, The costume of the Yueh-Chih/Kushans and its analogies to East and West, in Silk road art and archaeology, 2001, 7, pp. 73-120.
R.L. Brown, The walking Tilya Tepe Buddha: a lost prototype, in Bulletin of the Asia institute, 2003, 14, pp. 77-87.
C. Lo Muzio, Tillya Tepe, in Enciclopedia archeologica. Asia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, p. 423.
Estremo Oriente di Charles Higham
Sebbene le linee fondamentali dello sviluppo culturale di questa parte dell'Asia fossero già definite, le recenti scoperte hanno portato a nuove acquisizioni praticamente in tutte le aree della Cina e relativamente a tutte le epoche storiche. Di grande interesse sono i nuovi dati sul Neolitico, che segna una svolta cruciale soprattutto nella Cina settentrionale e nella valle dello Yangtze. Nel Nord, testimonianze di questa transizione sono state identificate nel bacino del Nihewan (Hebei), circa 160 km a ovest della capitale. Dopo una stratificazione paleolitica che abbraccia centinaia di migliaia, se non un milione di anni, è stata individuata una tarda industria litica in strati contenenti anche frammenti di ceramica datati a circa 10.000 anni fa, cui segue la stratificazione neolitica (8000-5000 anni fa). Nella valle dello Yangtze, il passaggio a un'economia basata sulla coltivazione del riso è ora ben documentato a Pengtoushan e Bashidang, mentre Hemudu testimonia, a partire ca. dal 5000 a.C., il movimento dei coltivatori di riso verso est, nell'estuario dello Yangtze e sulle basse coste del Sud. La tesi di una migrazione è stata tuttavia messa in dubbio dagli scavi di Shang shan (sito di almeno 2000 anni più antico di Hemudu), dove il riso era utilizzato come digrassante negli impasti della ceramica. Sempre nella valle dello Yangtze si segnala il vastissimo sito neolitico di Sanxingcun (10 ha); l'area sinora scavata (640 m2) ha rivelato oltre 1000 tombe, livelli di occupazione e resti di alimenti.
Recenti indagini hanno gettato luce sull'espansione dei coltivatori di riso nell'Asia sud-orientale. A partire dagli inizi del 3° millennio a.C. nuovi villaggi sorsero nel Lingnan (per es. Shixia). Gli scavi nella grande grotta di Shifodong, sulla riva settentrionale di un affluente del Lancang, hanno fornito numerose testimonianze di questa presunta migrazione (per es., inumazioni in posizione fetale associate con livelli culturali comprendenti pula di riso, ceramica a decorazione incisa e asce di pietra polita).
Importanti scoperte sul Neolitico si segnalano anche nell'estremo nord della Cina, nel contesto della cultura di Hongshan (provincia del Liaoning e Mongolia Interna), nota soprattutto per i siti rituali associati con ricche sepolture (4700-2900 a.C.) Il sito meglio documentato è Niuheliang, noto per il suo tempio animista (22×9 m), costruito con una muratura con intelaiatura lignea su fondazioni di pietra e circondato da tombe a tumulo. Il sito 14 comprende una serie di tombe aristocratiche con tumulo di pietre; la più imponente era stata scavata nella roccia viva fino a una profondità di cinque metri; strati di lastre di pietra ricoprivano una cassa litica contenente un corredo di oggetti di giada (figure umane e una fenice).
Questo evoluto contesto culturale spianò la strada alla tecnologia del bronzo, giunta da occidente tramite il bacino del Tarim (Xinjiang). In questa regione arida e inospitale sono stati riportati alla luce corpi umani in eccellente stato di conservazione. Una nuova serie di mummie è venuta alla luce nel sito di Xiaohe. Scavi iniziati alla fine del 2003 hanno rivelato 150 sepolture simili, accompagnate da corredi di manufatti in giada, vasi di legno e tessuti comprendenti peli animali (lince e donnola). Il sito è provvisoriamente datato all'età del Bronzo, nonostante la rarità di oggetti in questa lega; se l'ipotesi si dimostrasse valida, sarebbe ancor più degna di nota la conservazione, all'interno delle tombe, di pali lignei intagliati a forma di figure umane femminili o maschili, che evidentemente alludevano al sesso della salma.
Nelle pianure centrali della Cina, ulteriori effettuate indagini effettuate a Erlitou (età del Bronzo), sito che alcuni studiosi pongono in relazione con la dinastia Xia (Hsia), hanno messo in luce fondazioni di terra pressata pertinenti a complessi palaziali. Il più rimarchevole tra i rinvenimenti recenti si segnala, tuttavia, a Zhengzhou, l'antica capitale Shang, che ha rivelato resti di strutture Xia (21°-17° sec. a.C.): mura e terrapieni cingono un'area di 510.000 m2, al cui interno sono state rinvenute tombe, fondazioni di edifici, fosse per rifiuti e tubi di drenaggio in ceramica; è stata inoltre identificata la cinta muraria risalente all'epoca Shang. Non lontano da Anyang, l'ultima capitale Shang, è stata scavata nel 1999 una seconda città fortificata, Huanbei, forse da identificare con l'antica Xiang.
Per il periodo dei Zhou (Chou) occidentali, che ha inizio nel 1045 a.C., si segnalano soprattutto le iscrizioni su vasi bronzei. Nel 2003 a Yangjia (Shaanxi), l'équipe di Wang Zhankui rinvenne fortuitamente un ambiente ipogeo contenente 27 vasi di bronzo iscritti, appartenuti al clan Shan. Vi sono annotate le relazioni tra 11 dei 12 sovrani della dinastia e tra otto generazioni della famiglia.Importanti le nuove acquisizioni sull'urbanesimo e sulla nascita di potentati nella valle dello Yangzi. Chengtoushan, città fortificata a nord-ovest del lago Dongting (Hupei, Cina centrale), fu fondata nel 4000 a.C. circa (cultura di Daxi) e abbandonata nel 2000 a.C. circa (cultura di Shijiahe). Gli scavi (anni Novanta del 20° secolo) hanno rivelato l'imponente cinta muraria, abitazioni, aree artigianali, strumenti agricoli di legno, tessuti, resti di riso e zucche e 700 sepolture dalle quali si evince una marcata divisione sociale. Nel Sichuan, oltre agli scavi di Sanxingdui (v. oltre: Sanxingdui), si segnalano le indagini nella città di Chengdu, nell'antico regno Shu, da cui provengono numerosi bronzi del 16° sec. a.C. L'epoca dei Zhou orientali è tradizionalmente suddivisa nei due periodi denominati, rispettivamente, Primavere e autunni (722-481 a.C.) e degli Stati combattenti, che ha fine con l'unificazione operata dai Qin, nel 221 a.C. Al primo periodo risale una serie di tombe aristocratiche a Hongshan (Jiangsu), che include alcune delle tombe più grandi e sontuose del regno Yue, tali da rivaleggiare con quella dello stesso sovrano, a Yinshan. Sono state inoltre oggetto di scavo le mura della città di Suzhou (Jiangsu). Di notevole importanza è la scoperta nella città di Liye, risalente alla dinastia Qin (o Chin, 221-206 a.C.) di 36.000 listarelle di bambù iscritte. Come i testi su legno (mokkan) del Giappone, questi inestimabili documenti erano registri di corte e gettano luce su affari militari, eventi politici e procedimenti amministrativi del primo impero cinese.
Per l'epoca Han (206 a.C.-220 d.C.) si segnalano alcune tra le più ricche tombe della storia cinese, tra queste le sepolture dell'imperatore Jingdi (m. 141 a.C.) e dei membri della sua famiglia. Oltre alle celebri tombe del marchese di Dai, di sua moglie e di suo figlio a Mawangdui (Changsha), si ricorda il recente rinvenimento di alcune sepolture a Weishan (Shandong), contenenti modellini di carri e figure umane di ceramica, che ancora conservano la brillante colorazione originaria. Nella stessa regione è stata scavata una ricca tomba in una necropoli a est di Jinan, probabile sepoltura di un figlio di Liu Bang, primo imperatore dei Han occidentali, accompagnato da salme di buoi e da un'intera orchestra di 150 strumenti musicali. Tra le necropoli della regione dei laghi del Yunnan, dominata dal potentato dei Dian, si ricordano quelle di Shizhaisha, Lijiashan e, soprattutto, quella di Yangfutou, nel Kunming, dove tra le numerose modeste sepolture del popolo si stagliavano alcune ricche tombe dell'élite.
bibliografia
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The Cambridge history of ancient China, ed. by M. Loewe, E.L. Shaughnessy, Cambridge 1999.
Liu Li, Ancestor worship: an archaeological investigation of ritual activities in Neolithic North China, in Journal of East Asian archaeology, 2000, 2, pp. 129-64.
Sanxingdui
Questa città fortificata dell'antico regno Shu (età del Bronzo) è situata 40 km a nord di Chengdu (Sichuan, Cina sud-occidentale). Le mura racchiudono un'area di circa 450 ha, prospiciente la sponda meridionale del fiume Yazi. Il sito è attraversato dal fiume Mamu. Ricognizioni nel territorio fuori le mura hanno mostrato che l'occupazione si estendeva per un'area di circa 10 km2. Il ritrovamento di numerosi manufatti in giada (nel 1929, 1964 e 1974) nell'area all'interno delle mura ha indotto gli archeologi a supporre che il sito fosse specializzato nella lavorazione di questa pietra dura, ipotesi corroborata dalla presenza di manufatti non finiti.
Nel 1980 gli scavi misero in luce le mura difensive, realizzate in terra battuta nella tecnica tipica delle ben note città Shang ubicate più a nord-est. Datata al 1400-1300 a.C. circa, la cinta era imponente, spessa fino a 47 m alla base e probabilmente alta fino a 10 m, circondata da un profondo fossato. La città ebbe una lunga storia, iniziata 6000 anni fa con un insediamento neolitico; questo fu seguito da un'occupazione risalente all'epoca delle dinastie Xia e Shang antica. La terza e la quarta fase coincidono rispettivamente con le epoche Shang media e recente. Sanxingdui è da considerare come un vasto centro urbano, capitale del longevo regno Shu. La sua notorietà, tuttavia, è legata soprattutto a due scoperte che furono effettuate fortuitamente nell'estate del 1986 da operai locali, i quali si imbatterono in antichi oggetti di giada e di bronzo. I manufatti erano stati collocati in una fossa larga 4,5×3,5 m e profonda 1,6 m. Lo strato superiore conteneva circa 3 m3 di ossa combuste di bue, maiale, pecora e capra, insieme con tredici zanne d'elefante.
Negli strati inferiori furono ritrovati manufatti in giada (lame yazhang e pugnali ge) e, sul fondo della fossa, oggetti di bronzo, oro e giada. La quantità dei reperti, tutti combusti prima della deposizione, bastò da sola a destare scalpore: 178 manufatti di bronzo, 4 d'oro, 129 giade e altri oggetti di pietra e vasellame. Tra i reperti si contavano anche gli esotici cauri. Le analisi al radiocarbonio hanno fornito datazioni nel 13° e nel 12° sec. a.C. Una seconda fossa misurante 5,3×2,3 m e profonda come la precedente, conteneva, depositati sul fondo, oggetti di bronzo, giada, oro e pietra; tra questi riproduzioni a stampo di alberi e guarnizioni a forma di diamante; lo strato superiore ha restituito la più straordinaria gamma di reperti: una gigantesca statua e 44 teste di bronzo, oltre a maschere e a vasi dello stesso materiale, questi ultimi contenenti giade e cauri. Sessanta zanne d'elefante coprivano questa deposizione. In totale sono stati riportati alla luce 735 manufatti di bronzo, 61 d'oro, 486 giade e reperti di turchese; si contavano anche denti di tigre, avori e cauri. La funzione di queste fosse è oggetto di dibattito e ha stimolato ulteriori indagini archeologiche. Secondo l'ipotesi prevalente, esse erano probabilmente associate con le sepolture regali dei re di Shu, che tuttavia non sono state ancora ritrovate. La combustione del contenuto delle fosse, nonostante l'elevato valore intrinseco, la rarità e la bellezza degli oggetti è legata, con ogni probabilità, a uno scopo sacrificale o rituale. Inoltre molti dei manufatti furono deliberatamente danneggiati prima di essere sepolti. Vi sono bronzi completamente deformati per l'azione del fuoco, altri, invece, erano probabilmente componenti di oggetti realizzati con materiali diversi, alcuni dei quali evidentemente deperibili. Tutto questo porta a escludere che le fosse servissero a custodire beni preziosi, benché una di quelle scoperte nel 1929 e un altro deposito analizzato nel 1988 contenessero tubi di giada cong e dischi bi accuratamente impilati.
bibliografia
R. Bagley, A Shang city in Sichuan province, in Orientations, 1990, 21, pp. 52-67; R. Bagley, Ancient Sichuan, Seattle-Princeton 2001; Jay Xu, Reconstructing Sanxingdui imagery: some speculations, in Orientations, 2001, 32, pp. 32-44.
Asia sud-orientale di Charles Higham
Scoperte recenti hanno fornito testimonianze concrete sulle prime fasi dell'occupazione della regione da parte dell'Homo erectus. Nel 2001, nella grotta di Ma U'Oi (provincia di Hoa Binh), è stato rinvenuto un dente umano che, sulla base dei resti faunistici a esso associati, è stato possibile datare al Pleistocene Medio (170.000-250.000 anni fa circa). La presenza dell'Homo sapiens è stata confermata dalle indagini nei siti di Lang Rongrien (a partire da 38.000 anni fa) in Thailandia, e a Dieu in Vietnam, che testimoniano di forme di sussistenza diversificate e dell'utilizzo da parte dell'uomo di caverne naturali nell'entroterra. Nella Thailandia settentrionale ulteriori testimonianze archeologiche su cacciatori-raccoglitori del Pleistocene Tardo sono venute alla luce nella grotta di Ban Fa Suai. Nella stessa regione, a Huai Hin, è stato di recente individuato un sito all'aria aperta, probabilmente databile al Pleistocene Tardo. Vi sono stati rinvenuti utensili di pietra lavorati su una sola faccia, che mostrano palesi affinità con la cultura di Hoa Binh. La grotta di Pha Mai, a sud di Huai Hin, ha inoltre conservato pitture rupestri forse da attribuire alla stessa comunità di cacciatori-raccoglitori di epoca tarda; utensili di tipo Hoa Binh sono stati ritrovati in depositi nell'area antistante alla grotta. Un consistente popolamento interessò senza dubbio l'originaria linea di costa, oggi sommersa; solo nei tratti in maggiore rilievo, quelli oggi affioranti, si è potuto constatare la presenza di numerosi siti costieri di cacciatori-raccoglitori databili a partire dal 4000 a.C. Tra gli insediamenti che sfruttavano le abbondanti risorse dell'estuario, Khok Phanom Di, sorto nel 2000 a.C., ha rivelato chiare evidenze dell'interazione con gruppi di coltivatori di riso provenienti dall'entroterra. La scoperta di siti attribuibili alla transizione dalla caccia e raccolta alla coltivazione del riso nella valle dello Yangtze, a nord, ha fornito prove certe sulla penetrazione di agricoltori nel Sudest asiatico, probabilmente lungo le vie fluviali, nel tardo 3°millennio a.C. Nel 2002 un insediamento e una necropoli del periodo neolitico (2100 a.C.) sono stati scoperti a Ban Non Wat, nella Thailandia nord-orientale (v. oltre: Ban Non Wat); siti neolitici simili al suddetto sono stati individuati in Birmania, a lungo considerata una regione dall'elevato potenziale archeologico, ma ancora non adeguatamente indagata. A Letpanchibaw, sulle sponde dell'Irawady, e in alcuni siti della valle del Chindwin, insediamenti neolitici hanno restituito ceramica di buona fattura, fuseruole e asce di pietra polita.
L'età del Bronzo sembra abbia avuto inizio uno o due secoli dopo il 1500 a.C., per lo meno in Thailandia e in Vietnam, e forse anche nell'area di Hong Kong, la più vicina al probabile centro cinese di irradiazione della tecnologia del bronzo. La recente scoperta di tombe aristocratiche, presumibilmente principesche, a Ban Non Wat ha dimostrato che anche in questa regione l'età del Bronzo non sarebbe stata segnata dall'ascesa di gruppi elitari in seno alla società. La diffusione delle conoscenze relative alle proprietà del bronzo proseguì anche verso Ovest, come ora testimoniano siti del Myanmar (Birmania), quali Nyaunggan nella valle del Chindwin. Tombe dell'età del Bronzo, stratificate al di sotto di materiali dell'età del Ferro, sono state individuate anche a Ywa Htin, nell'area di Mandalay.
Preludio alla nascita dei primi potentati, l'età del Ferro ha assunto particolare preminenza nelle ricerche recenti. In Vietnam sono stati indagati nuovi siti della cultura Dong Son, alcuni dei quali hanno restituito i tipici sarcofagi monossili. Al loro interno si sono conservati resti di stoffe, preziosa testimonianza dell'introduzione della tecnica della tessitura dalla Cina durante il Neolitico. Diverse nuove necropoli della cultura Sa Huynh sono state esaminate nella regione meridionale, mentre in Cambogia, benché devastato dai saccheggi, il grande insediamento di Phum Snay ha rivelato sepolture dell'età del Ferro colme di ornamenti di corniola, oro, agata e vetro di ottima fattura. Tra i rinvenimenti degni di nota si segnala, in particolare, la necropoli dell'età del Ferro riaffiorata dalle acque del Baray occidentale a Koh Ta Meas. Degne di nota sono le recenti scoperte sulla protostoria della Birmania. La salma della sepoltura 32 di Myo Hla era adorna di numerosi bracciali d'avorio, una collana di vaghi di corniola, costole di bovide alle caviglie ed era accompagnata da vasi di ceramica e di bronzo. Nell'insieme dei reperti dell'età del Ferro spiccano, tuttavia, le figurine di bronzo di dea madre, lunghe circa un metro e con i seni enfatizzati mediante la lavorazione a sbalzo, che si pensa ornassero sarcofagi lignei. Le prime formazioni statuali dell'Asia sud-orientale sono state intensivamente indagate nella bassa valle del Mekong, nel noto insediamento di Oc Eo e in molti altri insediamenti e necropoli coeve. Angkor Borei, probabilmente antica capitale del potentato del Funan, è stata oggetto di scavi che hanno raggiunto le stratificazioni dell'età del Ferro (necropoli); i famosi canali che si irradiano da questa città fortificata sono stati analizzati e datati. I risultati più notevoli sono stati tuttavia conseguiti ad Angkor (v. oltre: Angkor), anche grazie all'utilizzo della fotografia satellitare, che ha consentito l'individuazione di antichi templi, campi coltivati e canali.
bibliografia
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Angkor
Questo nome indica un complesso di città, templi e bacini idrici (baray) a nord del Grande lago (Tonle Sap), nella Cambogia nord-occidentale. Abitato senza interruzione dalla sua fondazione (802 d.C.) fino alla conquista da parte del regno di Ayutthaya nel 1431, il sito è noto al mondo occidentale dal 16° sec., quando fu visitato da missionari portoghesi che lo descrissero come una gigantesca città di pietra abbandonata, invasa dalla giungla. La conoscenza di Angkor è stata notevolmente migliorata grazie alla recente ripresa delle indagini archeologiche, dopo un lungo periodo di guerra e di anarchia nel Paese. È stato possibile accertare che l'insediamento ebbe origine in epoca molto antica, al più tardi nell'età del Ferro, come hanno dimostrato i resti di occupazione individuati al di sotto del tempio Baksei Chamrong e del baray occidentale. Numerosi templi sono ubicati a ovest del centro del complesso (tra questi Ak Yum, Prei Khmeng e Phnom Rung), mentre gli argini di un bacino idrico rettangolare, più a nord, sono probabilmente da attribuire, su base stilistica, al periodo di fioritura del sito, occupato a partire dall'8° secolo. È possibile che questi edifici di culto appartengano alla capitale del potentato noto come Chenla, che precedette la fondazione del regno di Angkor da parte del re Jayavarman ii nell'802 d.C. Delle attività architettoniche di questo sovrano si conservano poche testimonianze; si segnala, tuttavia, un sito datato agli inizi dell'epoca khmer, Hariharalaya o 'gruppo di Roluos', a sud-est di Angkor, che comprende una serie di templi a sud dell'Indratataka, un baray di vaste dimensioni. Una grande parte del gruppo di Roluos fu costruita durante il regno di Indravarman (877-889 d.C.), il cui centro dinastico incorporava i due grandi templi Preah Ko e Bakong. Le acque del fiume Roluos furono deviate per alimentare l'Indratataka e ramificate per riempire gli estesi fossati che circondavano i templi e, presumibilmente, il palazzo reale. La stessa Angkor fu fondata da Yaśovarman, figlio di Indravarman, che fece edificare un tempio sulla sommità della collina Bakheng; tuttavia, lo sviluppo della città, nel corso del quale si avvicendarono tre dinastie, fu spesso interrotto dalle rivalità tra pretendenti al trono e periodi di guerra civile. Alcuni sovrani, grazie alla vaghezza delle norme che regolavano l'accesso al trono, fondarono i propri centri di potere lontano da Angkor. Jayavarman iv, per es., regnò da Koh Ker, situata verso nord-est a notevole distanza da Angkor. La seconda dinastia, fondata da Suryavarman i, durò dal 1008 al 1080, quando Jayavarman vi diede inizio alla dinastia di Mahidhapura. Di quest'ultima fecero parte i più grandi sovrani della città: Suryavarman ii (1113-1150), che fece costruire Angkor Vat come proprio mausoleo, e Jayavarman vii (1181-1219), che fece edificare la città fortificata di Angkor Thom.
L'induismo e il buddhismo rappresentavano una vena esotica nella cultura delle genti indigene, i cui discendenti costituiscono ancora il nucleo della popolazione cambogiana. Il regno di Angkor era governato da un'élite di famiglie eminenti, molte delle quali possedevano tenute fondiarie - in ciascuna delle quali sorgeva un tempio ancestrale - e manovalanza schiavile che produceva il surplus di riso necessario per il mantenimento dello Stato. Com'è stato messo in evidenza da indagini recenti, i grandi bacini idrici alimentavano una rete di canali che convogliava le acque nei campi di riso circostanti la città: è probabile che campi irrigati dalle piogge fornissero un raccolto supplementare; lo stesso Grande lago era molto pescoso.
Si segnala, infine, che le attività di restauro interrotte nel 1972 sono riprese a cura dell'organismo per la conservazione dei monumenti di Angkor, sotto l'egida dell'UNESCO.
bibliografia
C. Jacques, Angkor, cities and temples, Bangkok 1997; Ch.F.W. Higham, The civilization of Angkor, London 2001; C. Pottier, Avant Angkor. Découvertes recentes, in Dossiers d'archéologie, 2005, 302, pp. 82-87.
Ban Non Wat
Gli scavi condotti nel 2002 nel vasto sito cinto da un fossato nell'alta valle del Mun (Thailandia nord-orientale) hanno messo in luce una sequenza archeologica di rara completezza che ha inizio nel Neolitico (2100 a.C. circa), si protrae nell'età del Bronzo (1300-400 a.C.) e ha termine con l'età del Ferro e con l'epoca storica. Le tombe del Neolitico e del Bronzo hanno rivelato una ricchezza e una complessità inaspettate, ampliando notevolmente le nostre conoscenze sulle società preistoriche della regione che sarebbe poi stata la culla dei potentati Chenla e Khmer. Quattro stagioni di scavo hanno messo in luce una superficie di 468 m2, in un sito che copre approssimativamente 12 ettari. Si hanno testimonianze della lavorazione del bronzo e del ferro, della manifattura di vasi di ceramica e della preparazione del filato grezzo destinato alla tessitura. Le sepolture rinvenute si distribuiscono lungo un arco di almeno sette fasi. La più antica appartiene al primo stanziamento nella valle del Mun da parte di coltivatori di riso, i cui lontani progenitori provenivano probabilmente dal bacino dello Yangtze. In questa fase i defunti erano messi a giacere supini o deposti in contenitori di ceramica. Alcune sepolture hanno rivelato corredi piuttosto ricchi, comprendenti ossa di maiale, cauri d'importazione e grandi vasi dalla elaborata decorazione incisa, ampiamente nota in siti neolitici coevi del Sudest asiatico. A questa fase segue un'enigmatica serie di sepolture forse risalenti al tardo Neolitico o alla prima età del Bronzo (1500-1300 a.C.), comprendenti tombe a inumazione con uno o due vasi con decorazione a cordicella e poco altro. Tra quelle più tarde si stagliano alcune sepolture eccezionalmente ricche, forse principesche (fase 3). Una serie di tombe simili era raggruppata in una parte circoscritta del sito; una di esse conteneva un bambino ricoperto di vaghi di conchiglia. In altri casi il defunto era accompagnato da vasi di ceramica rossa di buona fattura, asce di bronzo e ornamenti di marmo e conchiglia. Quanto ai corredi, queste tombe sono state surclassate da alcune sepolture di spettacolare opulenza, due delle quali contenevano una coppia di scheletri. Accompagnati da più di otto vasi, questi individui erano stati oggetto di uno speciale rito funerario: dopo la prima inumazione, essi furono parzialmente dissotterrati e poi ricollocati nella tomba con il cranio poggiato sulle ossa degli arti e rivolto verso est.
Da un confronto tra queste sepolture e le tipiche tombe delle fasi 3-5 dell'età del Bronzo, uniformemente corredate da un modesto numero di vasi e pochi ornamenti, non è difficile evincere la presenza di un'élite. La fase 6 coincide con il Bronzo tardo (600-400 a.C.). In molti casi le inumazioni erano accompagnate da un corredo consistente di fuseruole e nuove forme di vasi di ceramica, ma mancano corredi fastosi in tutti i settori indagati del sito. È però evidente un rapporto di continuità con la fase successiva (7), corrispondente alla prima età del Ferro, per la quale sono tipiche le sepolture disposte in file e caratterizzate dalla presenza di un maiale intero e lische di pesce, utensili di ferro, crogioli e matrici per la fusione del bronzo. In alcune tombe della tarda età del Ferro (100 a.C.-400 d.C.) sono stati ritrovati ornamenti di vetro, agata e corniola di buona fattura. A questo periodo data la realizzazione di tre fossati, con relativi terrapieni, intorno all'insediamento, che provano l'esigenza di un controllo sulle acque e, verosimilmente, l'emergere di conflitti locali e la necessità di un impianto difensivo. Ban Non Wat è uno dei pochi siti dell'Asia sud-orientale che abbia restituito una sequenza culturale così lunga e ben documentata. Il campione di 310 sepolture è, inoltre, uno dei più ampi oggi disponibili per un'analisi dello sviluppo culturale dell'area nella tarda età preistorica.
bibliografia
C. Higham, Early cultures of mainland Southeast Asia, Bangkok 2002.
Mondo islamico di Maria Antonietta Marino
L'a. islamica, intesa come ricerca scientifica basata sullo scavo e non come settore di sola ricerca storico-artistica, nasce piuttosto tardi se comparata a ricerche archeologiche in campi più noti come, per es., quello greco-romano. Prima degli inizi del Novecento l'interesse per l'a. islamica era incentrato sull'aspetto puramente artistico, quasi privo della contestualizzazione necessaria a comprendere i fenomeni produttivi dell'antichità. Le 'spedizioni archeologiche' ottocentesche erano di fatto ricognizioni di aree di particolare interesse monumentale e s'incentravano principalmente sull'indagine architettonica di edifici ancora stanti o in rovina. Nei primissimi anni del Novecento ebbero luogo le prime indagini archeologiche. Nel 1903 il palazzo di Mshatta, nell'attuale Giordania, fu parzialmente scavato in occasione dello smantellamento della facciata, poi trasferita a Berlino. Le più rilevanti indagini su campo di questo periodo furono quelle condotte tra il 1911 e il 1913 da F. Sarre e E. Herzfeld nella città di Sāmarrā, capitale del califfato abbaside tra l'836 e l'892. Sito di fondamentale importanza, ha restituito la prima città-palazzo del mondo musulmano.
La continuità d'utilizzo dei siti abitati è uno dei problemi con cui l'a. islamica è più spesso tenuta a fare i conti. Le grandi città del passato islamico, come Il Cairo o Baghdād, sono le stesse di oggi e, oltre ad aver subito enormi cambiamenti di carattere architettonico e urbanistico che hanno comportato la distruzione di importanti testimonianze artistiche, non possono essere oggetto di scavi, se non per aree molto limitate. Sāmarrā è in questo una fortunata eccezione.
Le indagini, condotte a più riprese fino ai giorni nostri, hanno rimesso in luce gran parte della città che, nonostante ciò, conserva ancora estese aree da indagare. Nel 1912 iniziarono gli scavi nel sito di Fuṣtāt, primo nucleo della città del Cairo e principale centro commerciale del mondo musulmano occidentale dall'epoca della sua fondazione (metà del 7° sec.) fino alla fine del periodo fatimide (metà del 12° sec.). Nel periodo precedente alla Seconda guerra mondiale ebbero luogo le indagini dei 'castelli del deserto', residenze califfali di epoca omayyade (661-750) sparse nei territori siro-palestinesi. Uno dei più importanti, Qaṣr al-H̱ayr al-Gharbī, in Siria, fu scavato nel 1936-1938 da D. Schlumberger, il quale vi rinvenne un'eccezionale quantità di decorazioni architettoniche in stucco e pitture murali. Negli stessi anni cominciavano inoltre le ricerche a Khirbet al-Mafgiar, Khirbat al-Minya, nonché in centri urbani come Amman, dove le indagini si concentrarono sul castello della cittadella, a lungo ritenuto di epoca preislamica.
Per quanto riguarda l'area iranica, Qaṣr Abū Naṣr (Shīrāz) e, soprattutto, la città di Nishāpūr furono scavate da missioni statunitensi. In quest'ultima gli scavi, cominciati nel 1936, misero in luce buona parte dell'abitato cittadino: per la prima volta si indagava non un palazzo o una residenza califfale, né una città-palazzo, come nel caso di Sāmarrā, ma una ricca città di provincia, che svelava la vita quotidiana di un importante crocevia commerciale sulle rotte dell'Asia Centrale. Agli anni Trenta risalgono anche gli scavi della cittadella di Ḥamā, in Siria, che ha restituito un consistente campionario di materiali, tra cui vetri e ceramica, in particolare di periodo ayyubide.
Gli scavi intrapresi nella prima metà del 20° sec. non utilizzavano ancora metodologie avanzate, poi affermatesi nella seconda metà del secolo e, in particolare, nell'a. islamica solo di recente. Di conseguenza sia i siti, sia i materiali da essi provenienti sono tuttora attribuiti ad archi temporali piuttosto dilatati. Anche se in maniera discontinua, le indagini archeologiche proseguirono nella seconda metà del 20° sec., in particolare tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, periodo in cui le attività di scavo si moltiplicarono in gran parte del mondo musulmano. In Siria le indagini sul periodo omayyade ricevettero un nuovo impulso: le conoscenze sui 'castelli del deserto' si avvantaggiarono delle scoperte fatte a Qaṣr al-H̱ayr al-Sharqī, che rivelò la complessità e la polifunzionalità di questo tipo d'insediamenti. Fuṣtāt fu oggetto di scavi intensivi da parte di un'équipe americana diretta da G. Scanlon. L'interesse si volse anche ad aree decentrate del califfato. Scavi nella grande moschea Kutubiyya di Marrakesh individuarono una più antica moschea, mentre le indagini del palazzo di Kubādābād, in Anatolia, gettarono luce sul periodo selgiuchide. Di grande rilevanza, inoltre, sono state le scoperte dei palazzi ghaznavidi di Lashkari Bazar (a opera di una missione francese) e di Ghaznī (scavata da una missione italiana) in Afghānistān. Purtroppo i problemi politici che i Paesi musulmani, acquisita finalmente l'indipendenza, sono venuti a incontrare hanno influenzato spesso in maniera negativa l'attività di scavo. Una certa chiusura nei confronti dell'Occidente e la presenza dei principali luoghi sacri dell'Islam, hanno fatto sì che l'Arabia Saudita fosse raramente oggetto di indagini archeologiche. In Irān, poi, la rivoluzione nel 1979 ha scoraggiato la presenza di missioni archeologiche straniere, anche perché l'a. islamica è una scienza nata in Occidente e occidentali sono stati spesso gli archeologi che hanno lavorato in Medio Oriente (seppur con importanti eccezioni, come gli scavi di Kūfah portati avanti tra il 1938 e il 1967 dal Dipartimento delle antichità iracheno); agli inizi del nuovo secolo questa disparità d'interesse sta per essere superata e gli archeologi locali sono sempre più presenti nell'ambito di questa disciplina. Negli ultimi vent'anni l'interesse archeologico per il periodo musulmano, e medievale in genere, pare intensificarsi, sebbene il numero degli scavi non sia aumentato in modo significativo.
Per quanto riguarda lo studio dei materiali una maggiore attenzione viene posta alle tecniche di manifattura. Le analisi archeometriche dei materiali stanno producendo risultati a volte sorprendenti; è il caso, per es., delle analisi petrografiche condotte sui reperti ceramici, per i quali si è in grado di stabilire la provenienza geografica. Il problema delle metodologie viene affrontato da studi più rigorosi e ambiziosi, come quello condotto sui materiali ceramici del sito siriano di Qal̔at Gia̔bar. Tra le recenti attività archeologiche di maggiore interesse si segnalano gli scavi tedeschi nella città di Raqqah (Siria), che fu per breve tempo capitale del califfato abbaside, le indagini inglesi a Ghubayra (Irān), gli scavi francesi a Balis (Siria), quelli siriano-tedeschi nella cittadella di Aleppo (Siria) e le indagini riprese a Sāmarrā da A. Northedge. Di grande interesse gli scavi effettuati nelle città portuali di Giulfar (Emirati Arabi Uniti) e Quṣayr al-Qadīm (Egitto). A Fuṣtāt proseguono gli scavi a cura di nuove missioni archeologiche e si attendono i risultati definitivi della missione IFAO (Institut Français d'Archéologie Orientale), diretta da R.-P. Gayraud. Negli ultimi anni si sono infine intensificate le indagini nell'area siro-palestinese e in Spagna, mentre si accresce l'interesse per siti minori, come testimoniano le ricerche su alcuni centri del Marocco (Qaṣr al-Seghir, Basra, Sijilmasa).
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Enciclopedia archeologica, Istituto della Enciclopedia Italiana: Africa, Roma 2005, passim, e Asia, Roma 2005, passim.
Africa subsahariana di Jean-François Genotte
Tra la fine del 20° e i primi cinque anni del 21° sec., una grande rilevanza è stata data all'indagine archeologica relativa agli ultimi mille anni dell'enorme regione situata a sud del Sahara che occupa più dei due terzi del continente africano. L'a. dell'Africa occidentale è legata soprattutto alla storia dei suoi imperi medievali suddivisi in due grandi aree. Nell'area occidentale si succedettero gli imperi del Ghana (8°-11° sec.), del Mali (11°-15° sec.) e del Songhai (15°-16° sec.). In quella orientale, la fusione di gruppi nomadi e sedentari portò alla nascita dell'impero del Kanem (9°-14° sec.), diventato poi Kanem-Bornu.
La stessa area fu occupata dalle città-stato Hausa sviluppatesi tra il 12° e la fine del 16° sec. e dal sultanato del Wadai. A partire dall'11° sec. nella parte meridionale dell'area orientale, popolazioni Yoruba fondarono piccole città-stato poi raggruppate in un vasto impero nel 18° secolo. Ricerche archeologiche sono state condotte in insediamenti relazionati con questi imperi; lungo le zone costiere, dalla Mauritania alla Nigeria, sono stati indagati numerosi forti e agenzie commerciali europei, edificati a partire dal 15°-16° secolo. Recenti ricerche effettuate negli ultimi anni in Mali, Senegal, Burkina Faso e Costa d'Avorio hanno permesso di identificare numerosi chiocciolai, insediamenti spesso associati a tumuli abitativi o funerari, necropoli e siti megalitici, datati tra il 2° e il 18° secolo.
L'Africa centrale è senza dubbio la regione meno indagata dal punto di vista archeologico di tutta l'Africa subsahariana. Scarsa attenzione è stata dedicata alla tarda età del Ferro, salvo nella depressione del lago Upemba nella Repubblica Democratica del Congo. Le recenti ricerche attestano che il settore settentrionale della depressione fu occupato in modo continuo dal 5° sec. in tre sequenze culturali corrispondenti alle fasi di un processo di sviluppo sociale ed economico che nel 17°-18° sec. portò alla formazione dello stato Luba. La fase più antica, il Kamilambiano (6°-7° sec.), è caratterizzata da piccole comunità di pescatori e agricoltori dedite alla lavorazione dei metalli. La seconda fase, il Kisaliano (8°-12° sec.), vede, soprattutto dal 10° sec., l'emergere di una società complessa e una grande crescita demografica. La terza fase, il Kabambiano (13°-18° sec.), presenta cambiamenti nei tipi ceramici e nei rituali funerari. Nella parte meridionale della depressione Upemba è stata individuata un'altra sequenza culturale: il Katotiano (12°-13° sec.), cultura molto somigliante al Kisaliano, ma con differenze nei tipi di vasellame e nei rituali funerari.
Le recenti evidenze archeologiche hanno permesso di ricostruire il processo di formazione e consolidamento delle società complesse Swahili, sviluppatesi nella zona Est dell'Africa orientale e di suddividerlo in quattro periodi principali. Nel periodo più antico (1° sec. a.C.-3° d.C.), popolazioni proto-Bantu di coltivatori e pescatori occuparono la costa del Kenya e della Tanzania. Tra il 3° e il 10° sec. la costa fu inclusa nella rete commerciale dell'Oceano Indiano. Il periodo successivo, che è databile tra il 10° e il 15° sec., vide l'intensificarsi degli scambi con il mondo arabo e la Cina, mentre l'Islam si diffondeva lungo le zone costiere. In questo periodo Persiani e Arabi emigrarono verso l'Africa Orientale e si mescolarono alla popolazione locale, dando origine alle prime città-stato Swahili (v. oltre: Gedi) che raggiunsero il loro culmine nel 14°-15° sec. per poi declinare nel 16° sec. con l'arrivo dei Portoghesi. Nella regione dei Grandi Laghi, a Occidente, le prime tracce di società complesse sono state evidenziate in Uganda e datate tra l'11° e il 15° sec., quando la regione fu frequentata da agricoltori che lavoravano il ferro. I primi regni apparvero nella seconda metà del 2° millennio d.C., il loro processo di formazione tuttavia è ancora in gran parte oscuro.
La storia del Corno d'Africa è legata al regno etiopico-cristiano di origine aksumita che occupò la regione tra l'8° e il 18° secolo. L'occupazione è stata suddivisa in quattro momenti, raggruppati a loro volta in periodo medievale (8°-15° sec.) e periodo di Gondar (16°-18° sec.). La presenza islamica, iniziata nel 7°-8° sec., si protrasse fino al 18° secolo. Le testimonianze archeologiche relative al periodo medievale sono rappresentate da una ceramica marrone oppure nera decorata con croci, da chiese in muratura (10°-16° sec.) nonché da chiese rupestri (6°-15° sec.). Il periodo di Gondar (1527-1770) è rappresentato dalle residenze costruite dai re nella capitale e da numerose chiese edificate nella regione del lago Tana, tutti edifici realizzati nello stile chiamato gondariano. I rari dati archeologici relativi alle prime fasi di penetrazione dell'Islam nel Corno d'Africa sono rappresentati da siti con tumuli oppure con stele megalitiche. Resti sparsi di insediamenti e necropoli di epoca islamica sono databili tra l'8° e il 16° secolo. Culture locali di costruttori di grandi tumuli funerari associati a insediamenti (8°-10° sec.) e di costruttori di stele (10°-14° sec.) sono state identificate in Etiopia.
Nell'Africa meridionale, prima della tradizione Zimbabwe, alcune comunità di agricoltori si insediarono, nel corso del 1° millennio d.C., nell'altopiano dello Zimbabwe e nei settori settentrionali e orientali della Repubblica Sudafricana. All'inizio dell'11° sec. si diffuse una nuova tradizione ceramica rappresentata nei siti di K2 e Mapungubwe che costituivano il centro di un'importante entità politica caratterizzata da intense attività commerciali con la costa dell'Africa orientale e da una forte stratificazione sociale. Alla fine del 13° sec. condizioni climatiche sfavorevoli causarono l'indebolimento di Mapungubwe implicando la progressiva formazione di Great Zimbabwe (v. oltre). Sempre nello Zimbabwe importanti indagini archeologiche hanno consentito di individuare l'esistenza di altre culture, sviluppatesi tra il 12° e il 15° secolo. Il predominio di Great Zimbabwe ebbe fine al termine del 15° secolo.
Successivamente si formarono numerosi Stati (Mutapa, Torwa, Rozvi), noti attraverso fonti portoghesi e tradizioni orali. Tra l'11° e il 14° sec., a sud del fiume Limpopo si succedettero culture locali di agricoltori che non condivisero gli stessi processi di mutamento delle comunità agricole di tradizione Zimbabwe. Il periodo successivo al 1300 vide l'espansione di siti nelle regioni di prateria (highveld) non occupate da gruppi agricoli. Molti di questi siti risalgono al 14°-17° sec. e sono ubicati sulla sommità di colline. Una fase di contrazioni dell'insediamento è evidenziata verso la fine del 18° secolo.
Caratteristici dell'Africa meridionale sono gruppi di allevatori e di cacciatori-raccoglitori presenti nel 2° millennio d.C. nella zona occidentale di questa regione. Le recenti ricerche archeologiche hanno anche fornito molte evidenze relative alla presenza europea, in particolare nella Repubblica Sudafricana. Indagini sul terreno hanno evidenziato la presenza di insediamenti portoghesi risalenti al 16° sec. lungo la valle dello Zambesi e nell'altopiano dello Zimbabwe.
Per quanto concerne, infine, il periodo di occupazione olandese (metà del 17°-18° sec.) molte indagini si sono svolte in abitati ubicati a Città del Capo e nella sua regione, e nella Provincia Occidentale del Capo. Insediamenti edificati dai coloni britannici a partire dal 1820 sono stati identificati nella Provincia Orientale del Capo e in altri settori della Repubblica Sudafricana.
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Gedi
L'insediamento swahili ubicato 16 km a sud di Malindi (Kenya), a 6,5 km dal mare e occupato dall'11° al 17° sec. d.C., fu scavato per dieci anni, a partire dal 1948, da una missione britannica guidata da J. Kirkman. Nel 1999, con la ripresa degli scavi da parte di una missione francese, furono indagate le fortificazioni. Nel corso dello stesso anno e nel 2001-02 sono state scavate le moschee e le tombe monumentali e più recentemente, dal 2002 al 2004, è stato intrapreso lo studio dell'architettura domestica e palaziale.
I dati forniti dagli ultimi scavi permettono di reinterpretare il fenomeno di urbanizzazione di Gedi. L'insediamento presenta una stratigrafia orizzontale, con la città vecchia dell'11°-14° sec. ubicata a nord e la città nuova del 15° sec. localizzata a sud-ovest. Il 14° sec. corrisponde al periodo di massima espansione, grazie soprattutto al commercio a lungo raggio con i paesi della penisola arabica e dell'Oriente. La presenza di due grandi moschee, cronologicamente successive e localizzate in differenti settori, indica un decentramento urbano avvenuto all'inizio del 15° secolo. Da quel momento la città venne chiusa da un muro di cinta e gli edifici si moltiplicarono. Nella seconda metà del 16° sec. ci fu un restringimento dell'area urbana che venne protetta da un secondo muro più interno, per poi essere abbandonata all'inizio del 17° secolo. Le due cinte urbane furono costruite con blocchi irregolari di calcare corallino di 45-50 cm di spessore. La più antica, della metà del 15° sec., misura 610 m (nord-sud) × 527 m (est-ovest) e poggia su un'occupazione di abitazioni (nord) e su una necropoli (sud) risalenti alla fine del 14° secolo. La fortificazione fu probabilmente costruita sia come elemento difensivo, sia per rappresentare la potenza e l'importanza raggiunta da Gedi in quel periodo. Il secondo muro di cinta, più piccolo, fu eretto tra la metà del 16° e l'inizio del 17° secolo. Alcuni tratti della muraglia sono talvolta molto rozzi e contengono materiale che è stato recuperato da edifici più antichi. La costruzione di una cinta più interna dimostra una contrazione delle dimensioni della città, dovuta al suo declino sia economico sia politico.
Le indagini del 2001 hanno permesso l'identificazione di una nuova grande moschea, risalente al 14° sec., ubicata nel settore nord-orientale della città, fuori le mura. Le dimensioni ne fanno una delle più grandi moschee dell'Africa orientale del periodo. La parte centrale dell'edificio ha evidenziato tre fasi di occupazione, dal 1310 al 1410. Al di sotto del pavimento sono stati rinvenuti i resti di una moschea del 13° sec. e alcune sepolture, e nel livello ancora inferiore i resti del muro occidentale di una moschea datata al 12° sec., uno dei primi esempi di moschea dell'Africa subsahariana. Gli strati più antichi risalgono alla metà dell'11° secolo. Intorno alla grande moschea e al palazzo sono state rinvenute tombe rettangolari di pietra calcarea ricoperta di gesso, in alcuni casi ornate da pilastri monolitici di 3-6 m di altezza che simboleggiavano l'importanza del defunto. Lo studio dell'architettura domestica e palaziale ha permesso di evidenziare una tipologia di abitazioni in funzione degli strati sociali: residenze monumentali di pietra calcarea con ampi cortili e sale con bacini d'acqua nel centro cittadino; abitazioni di terra con piante rettangolari nei settori attorno al centro; abitazioni costruite con materiali deperibili all'esterno delle mura.
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Great Zimbabwe
Ubicato nella regione di Masvingo nello Zimbabwe (Africa meridionale), si presenta come un insediamento con imponenti cinte murarie in pietra tondeggianti oppure ellittiche (madzimbabwe) che racchiudono o collegano capanne circolari. Scoperto da C. Mauch nel 1871, Great Zimbabwe venne in seguito danneggiato da scavi condotti con metodi non scientifici allo scopo di dimostrare le connessioni dell'insediamento con le civiltà nordafricane (Fenici e Arabi). Studi archeologici successivi hanno provato la totale infondatezza di tali ipotesi e, a partire dagli anni Venti del Novecento, l'insediamento è stato associato con le popolazioni indigene Shona.
Una comunità di agricoltori occupò il sito nel corso del 1° millennio d.C., mentre all'inizio del millennio successivo vi si stabilirono gruppi che producevano ceramiche Gumanye. Questa fase si sovrappose in parte al periodo di influenza del centro di Mapungubwe ubicato nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo. Le comunità Zimbabwe, stabilite nell'area circostante il sito al quale erano sottomesse, possedevano un'economia di sussistenza basata sull'allevamento del bestiame e la coltivazione di cereali, nonché sullo sfruttamento di metalli e sullo svolgimento di attività commerciali con le regioni interne dell'Africa e con la costa dell'Oceano Indiano. Datazioni al radiocarbonio e nuovi ritrovamenti archeologici attestano che le prime strutture di Great Zimbabwe furono costruite alla fine del 13° sec. d.C. La maggior parte delle opere murarie risale al periodo compreso tra il 14° sec. d.C. e l'inizio del 15°.
Il periodo di apogeo di Great Zimbabwe è stato datato tra il 1300 e il 1450 d.C., ma alcuni settori del sito continuarono a essere occupati fino all'inizio del 16° sec. d.C. Durante gli scavi effettuati nei settori periferici sono state rinvenute zone abitative molto estese occupate da una popolazione che avrebbe potuto raggiungere le 18.000 unità. L'insediamento è composto da tre principali complessi recintati: il Complesso collinare, costituito da alcuni recinti murari costruiti con grosse pietre di granito; il Complesso vallivo che include un numero maggiore di recinti (in uno dei quali è stato rinvenuto un ingente numero di manufatti di particolare interesse, alcuni dei quali importati dall'Africa orientale); il Grande recinto che racchiude un'area di oltre 6000 m2, al cui interno furono erette due torri monumentali. Grazie allo studio delle strutture murarie di Great Zimbabwe è stato possibile individuare tre principali stili costruttivi: muri costruiti con blocchi irregolari spesso utilizzati come strutture di sostegno o di contenimento e in gran parte ubicati tra massi o su affioramenti rocciosi; muri costituiti da blocchi di forma regolare allineati in corsi, spesso isolati, perlopiù poggianti su fondazioni in trincea; un terzo tipo di opere murarie, in gran parte prive di strutture di sostegno, che non superano i 2 m di altezza e sono formate da blocchi irregolari sovrapposti. Le strutture murarie di blocchi irregolari sono le più antiche, mentre le strutture del terzo tipo sorgevano in zone occupate da gruppi di rango inferiore. I blocchi di granito locale erano lavorati con il fuoco e per percussione. T. Huffman, basandosi su fonti etnografiche Shona e Venda, avanza l'ipotesi che la sommità dell'altura fosse occupata dalla residenza del sovrano di Great Zimbabwe, i recinti murari dalle abitazioni delle sue mogli e dei servitori di corte, mentre l'area racchiusa dal Grande recinto fosse adibita soltanto a uso rituale.
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Oceania di Gaetano Cofini
Dalle ricerche dei primi anni del 21° sec. indirizzate prevalentemente in aree, come la Melanesia occidentale o la regione micronesiana, oggetto di studi sistematici solo dalla fine del secolo precedente, sono emersi nuovi rilevanti dati sulla cronologia e le modalità del popolamento del continente e sulla complessa rete di interrelazioni tra gli abitanti delle isole dell'Oceano Pacifico.
Il modello tradizionale sul popolamento del Pacifico considera tre maggiori eventi a cui corrispondono trasformazioni culturali di rilievo derivanti sia da fattori esterni sia dallo sviluppo in loco di elementi innovativi. Il primo di tali eventi vede la colonizzazione iniziale del Sahul (la piattaforma continentale pleistocenica formata da Nuova Guinea, Australia e Tasmania) e delle isole adiacenti (Near Oceania) da parte di gruppi di cacciatori-raccoglitori tra 40.000 e 30.000 anni fa. Scavi nei ripari di Carpenter's Gap e Riwi, nel Kimberley (Australia nord-occidentale), hanno fornito datazioni che fissano intorno ai 40.000 anni fa la frequentazione iniziale di questi siti; sempre intorno a questa data sono oggi attribuite le sepolture di Mungo 1 e Mungo 111 (v. oltre: Lake Mungo). Significativi appaiono i risultati delle indagini nelle isole che fronteggiano la costa nord-orientale della Nuova Guinea (Arcipelago di Bismarck), il cui popolamento iniziale è stato retrodatato di circa cinque millenni dai più antichi depositi culturali (39.500-27.000 anni dal presente) della grotta di Buang Merabak, in Nuova Irlanda. Un secondo evento, molto più tardo, i cui inizi si collocano alcuni secoli dopo (3300 anni fa) rispetto a quanto finora ritenuto, si ha con le migrazioni dei gruppi di agricoltori austronesiani Lapita nei territori insulari della Near Oceania, esclusa la Nuova Guinea, e della Remote Oceania, ovvero delle isole melanesiane a est e a sud delle Salomone e degli arcipelaghi della Polinesia occidentale, mai visitati prima dall'uomo. Con l'ultimo di tali eventi, i discendenti delle comunità Lapita, dopo aver elaborato un complesso di tratti distintivi (Ancestral Polynesian Society), avrebbero colonizzato nel 1° millennio d.C. le isole più remote del continente (Polinesia orientale).
L'approfondimento del dibattito ha evidenziato i limiti del modello su esposto, legato a una lunga tradizione di studi storico-culturale. Per le fasi più antiche del popolamento, evidenti limitazioni derivano dall'affidabilità stratigrafica dei dati presi in esame e dall'attendibilità delle datazioni proposte che in taluni casi oltrepassano la 'barriera temporale' (ca. 40.000 anni fa) imposta dai metodi di datazione al radiocarbonio. I dati più recenti smentiscono inoltre la 'fissità' e l'isolamento che avrebbero caratterizzato i cacciatori-raccoglitori della Near Oceania fino all'arrivo dei gruppi 'neolitici' Lapita, che diffusero l'orticoltura, l'arboricoltura e l'allevamento.
Vi sono prove dei contatti e degli scambi avvenuti tra le popolazioni della Nuova Guinea e le isole adiacenti dalle fasi finali del Pleistocene ai millenni iniziali del periodo olocenico, nel corso dei quali furono trasferite faune (Phalanger orientalis), specie vegetali (Canarium) e ossidiana. Dalle regioni montuose della Nuova Guinea (v. oltre: Kuk) provengono convincenti evidenze della domesticazione e della coltivazione nell'Olocene medio di specie fondamentali per l'alimentazione degli abitanti del Pacifico. Un maggiore impulso alla circolazione di idee, risorse e materiali fu favorito verosimilmente da un miglioramento delle condizioni climatiche e dalla stabilizzazione delle linee di costa postpleistoceniche; nell'Olocene medio una rete di scambi collegava probabilmente il bacino dei fiumi Sepik-Ramu (Papua Nuova Guinea) con le isole dell'Arcipelago di Bismarck e con le Salomone. Esiste altresì la possibilità che in fasi preLapita i gruppi Papua fossero in contatto con le comunità insulari del Sudest asiatico, a ovest, come attestano il rinvenimento nel chiocciolaio di Dongan (6800-6400 anni dal presente) di residui della noce di betel, una pianta domesticata nel Sudest asiatico, e la presenza in quest'ultima area di un genere di banano (Eumusa) domesticata in Nuova Guinea. Una più attenta valutazione meritano a questo proposito i ritrovamenti di vasellame dell'Olocene medio in siti del Nord di Papua Nuova Guinea (Wanelek, Lachitu, Taora, Beri, Akari A), o di denti e mandibole di Sus in contesti dell'Olocene iniziale nelle regioni montuose e costiere della Nuova Guinea e in Nuova Irlanda. Molti studiosi ritengono tuttavia che, pur in presenza di contatti e influssi precedenti, la repentina comparsa (3300-2800 anni dal presente) su un'area insulare vastissima di un complesso culturale omogeneo e innovativo (Lapita) segni l'arrivo e l'espansione di gruppi dal Sudest asiatico insulare. Numerosi sarebbero gli elementi che rimandano a contesti esogeni di probabile origine occidentale, tra cui un repertorio vascolare distintivo e raffinato che presenta palesi affinità con antecedenti tipi fittili del Sudest asiatico; un set di asce litiche e di ornamenti di conchiglia che non trova confronti in esemplari preesistenti nell'area; la piena affermazione dell'agricoltura e dell'allevamento di specie animali (Sus, Gallus, Canis) di origine asiatica.
Rimangono da chiarire importanti questioni quali il grado e le forme dell'interazione dei gruppi austronesiani Lapita con le popolazioni stanziate già da millenni in Near Oceania, o l'assenza delle loro tracce lungo i litorali settentrionali della Nuova Guinea, i cui abitanti adottano tuttora lingue non austronesiane o papuane.
Le ricerche effettuate nella regione micronesiana hanno approfondito lo studio delle modificazioni antropiche dei territori e degli ecosistemi insulari, i cui esempi più tangibili sono costituiti dalle imponenti opere di terrazzamento che sono visibili nelle Isole Palau. Meno evidenti, ma forse più cruciali per l'occupazione umana sono gli interventi apportati dall'uomo sugli atolli per garantirne l'abitabilità; nelle isole Marshall sono state riportate alla luce tracce, nel corso del 1° millennio d.C., di uno sviluppo insediativo dal nucleo centrale degli atolli, Maleolap e Ujae, in direzione della laguna, occupati da parte di gruppi il cui sostentamento era basato sulla coltivazione in fosse della colocasia gigante (Cyrtosperma) e sulla pesca mediante trappole collocate sui banchi corallini.
Numerose sono le evidenze di contatti e scambi in ambito sia regionale sia extraregionale successivi al primo popolamento della regione. La comparsa del riso e dei ratti nelle Marianne intorno a 1000 anni fa, in concomitanza con l'inizio dell'edificazione delle strutture latte, costituiscono testimonianze di contatti significativi con il Sudest asiatico. Analogamente le relazioni con le regioni asiatiche troverebbero conferma nel rinvenimento nelle isole di Yap e di Palau di perle di vetro. In particolare, Yap si sarebbe trovata al centro di una estesa rete di scambi fino in epoche storiche attestata dalla importazione di materiali e di beni esotici e dalle fonti etnostoriche/etnografiche. Nelle Isole Caroline, a est, le prove dei contatti interinsulari dopo il 1000 d.C. provengono dall'adozione su una vasta area di un tipo di ascia lavorata nella conchiglia di Terebra e dalle analogie osservabili nelle architetture dei centri monumentali di Pohnpei e Kosrae, nelle Caroline orientali, così come dalla comparsa di motivi iconografici esotici e dall'introduzione di una pianta narcotica di uso cerimoniale, la kava (Piper methysticum).
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Kuk
Il sito archeologico di Kuk (Papua Nuova Guinea) ha restituito testimonianze significative del graduale e indipendente sviluppo delle pratiche agricole nelle regioni montuose dell'isola di Nuova Guinea. Ubicato ai margini di una piana acquitrinosa, in una valle intermontana (Wahgi, 1650 m s.l.m.) delle Western Highlands, il sito è stato oggetto di indagini multidisciplinari dirette da J. Golson a partire dagli anni Settanta del Novecento. Ricerche di questi ultimi anni coordinate da T. Denham (Australian National University) hanno ampliato considerevolmente il quadro delle conoscenze finora noto confermando, sulla base di evidenze archeologiche, geomorfologiche e paleobotaniche, modificazioni antropogeniche del territorio finalizzate a forme di protoagricoltura intorno a 10.000 anni fa e a uno sfruttamento agricolo più sistematico dell'area tra 7000 e 100 anni fa.
Le indagini hanno riportato alla luce tracce e strutture archeologiche relative a sei principali fasi di utilizzo dell'area, le tre più antiche delle quali precedono di alcuni millenni l'espansione nel Pacifico degli agricoltori austronesiani originari del Sudest asiatico (3300 anni dal presente). Alla fase più antica (fase 1) sono associate depressioni, canalette, buche di palo e di picchetti, che sono state identificate in prossimità di un canale artificiale datato a 10.220-9910 anni dal presente. Tali evidenze e la riduzione del manto arboreo, derivante da incendi periodici e probabilmente dall'intervento dell'uomo, sono state interpretate come gli indizi di attività collegate con la coltivazione e il drenaggio degli appezzamenti nell'ambito di una singola fase di 'agricoltura mobile' (shifting cultivation) ai margini degli acquitrini. Nella fase successiva (fase 2) il paleosuolo, che è stato datato tra 6950 e 6440 anni fa, ha preservato porzioni di terreno rialzato circolari oppure semicircolari (mounds) distanziate uniformemente tra di loro e cospicue tracce di carboni nei riempimenti delle buche di palo che indicherebbero uno sfruttamento agricolo più sistematico dell'area. Un'ulteriore intensificazione delle attività si ha con la fase 3, caratterizzata dalla creazione di una rete di canalette rettilinee connesse con alcuni canali maggiori per il drenaggio dei terreni coltivati; tali strutture vengono datate a 4350-3980 anni fa. Nelle fasi successive si assiste al progressivo ampliamento e articolazione della griglia di canalizzazioni.
Le analisi paleobotaniche hanno rilevato una frequenza predominante, a partire dall'Olocene iniziale, di microfossili di due piante con alte percentuali di amido, colocasia (Colocasia esculenta) e banano (Musa spp.): i due cultigeni più importanti nella regione prima dell'introduzione della patata dolce (Ipomoea batatas). Amido di colocasia è stato identificato sui bordi di strumenti litici riferibili alle prime due fasi di occupazione di Kuk. Generalmente considerata una specie riprodotta in zone di pianura, la presenza di colocasia nel sito attesta, secondo gli autori delle indagini, un suo deliberato trasferimento in zone montuose. L'alta percentuale di fitoliti di banano nelle fasi 2 e 3 rifletterebbe analogamente la riproduzione controllata di questa specie, anomala in ambienti privi di vegetazione arborea soggetti a incendi frequenti. Particolare rilevanza assume inoltre il rinvenimento del genere Eumusa di banano nei depositi più antichi, che suggerirebbe la sua domesticazione in Nuova Guinea e il successivo trasferimento nel Sud-Est asiatico dove fu ibridata con varietà locali.
bibliografia
G.S. Hope, J. Golson, Late Quaternary change in the mountains of New Guinea, in Antiquity, 1995, 69, pp. 818-30; T.P. Denham, S. Haberle, C. Lentfer et al., Origins of agriculture at Kuk Swamp in the Highlands of New Guinea e K. Neumann, New Guinea: a cradle of agriculture, in Science, 2003, 301, pp. 189-93 e pp. 180-81.
Lake Mungo
Le indagini effettuate a partire dagli anni Sessanta del Novecento a Lake Mungo, uno dei grandi laghi oggi essiccati (Willandra Lakes) del bacino fluviale Murray-Darling, nel Nuovo Galles del Sud (Australia sud-orientale), hanno restituito un'ingente quantità di dati archeologici e ambientali sulle fasi finali del Pleistocene. Gli studi pubblicati nel 2003 modificano in parte le conoscenze finora note, fornendo un nuovo quadro delle strategie di adattamento dei primi abitatori dell'Australia alle modifiche ambientali derivanti dal deterioramento del clima al termine del Pleistocene.
L'erosione di una grande duna di forma crescente (lunette) sulle sponde orientale e meridionale dell'antico lago ha esposto una lunga sequenza stratigrafica e riportato in superficie abbondanti tracce e materiali archeologici. La maggioranza dei reperti, comprendenti strumentari di pietra, focolari, sepolture umane, resti animali e residui di molluschi, è stata rinvenuta in depositi di sabbie quarzose formatisi tra 55.000 e 40.000 anni dal presente (unità Mungo inferiore), durante la fase massima di espansione dell'antico lago. La fase successiva (unità Mungo superiore, 40.000-35.000 anni dal presente) è contrassegnata da un progressivo inaridimento e dalla formazione di depositi argillosi a pellets provenienti dal letto del lago il cui livello iniziava a decrescere. Tali resti indicano lo sfruttamento sistematico dell'ambiente lacustre da parte di gruppi di sapiens che praticavano la pesca, la raccolta di molluschi e la caccia di animali di piccola taglia. Lo strumentario su pietra si compone di piccoli grattatoi a bordo erto e di nuclei, caratteristici dei complessi litici australiani tra il Pleistocene finale e l'Olocene medio. Significativa è stata la scoperta a opera di J. Bowler di due sepolture, Mungo 1 rinvenuta nel 1968 e Mungo iii nel 1974, che hanno restituito i più antichi resti scheletrici umani finora noti in Australia e cruciali informazioni sulle pratiche funerarie dei gruppi pleistocenici. La prima sepoltura (Mungo 1) conteneva le ossa, in stato fortemente frammentario e parzialmente combuste, di una giovane donna di non più di 19 anni. Secondo la ricostruzione offerta da A. Thorne, la donna sarrebbe stata cremata sulla riva del lago e, successivamente, i suoi resti vennero frantumati e raccolti in una fossa profonda 20 cm circa. Nel 1992 i resti della donna sono stati consegnati ai gruppi aborigeni del luogo nel corso di una cerimonia tenutasi a Lake Mungo. I resti scheletrici di Mungo iii rinvenuti 450 m a Est di Mungo i, appartengono con probabilità a un uomo di circa 50 anni, deposto in posizione distesa con gli arti inferiori leggermente flessi, in una fossa profonda 80-100 cm scavata nella sabbia e ricoperta da un sottile strato argilloso di origine lacustre. Nel riempimento sono state osservate tracce di ocra che verosimilmente ricopriva il corpo dell'uomo all'atto del seppellimento. L'esame antropologico ha rivelato unal gomito sinistro; tracce non comuni di usura sui denti potrebbero essere state causate dalla lavorazione di fibre vegetali utilizzate per corde o reti. Le nuove datazioni collocano tra 50.000 e 46.000 anni fa la frequentazione iniziale dell'area la quale diviene più sistematica tra 45.000 e 43.000 anni fa. Le sepolture (Mungo 1 e Mungo iii), esposte nei depositi prossimi al confine tra l'unità Mungo inferiore e Mungo superiore, si datano oggi intorno ai 40.000 anni fa. La rilevanza scientifica e culturale dei dati emersi a Lake Mungo ha favorito iniziative tese alla preservazione del territorio definito dall'UNESCO World Heritage Area, con la creazione di un parco nazionale.
bibliografia
S.G. Webb, The Willandra Lakes hominids, Canberra 1989; Willandra Lakes: people and paleoenvironments, ed. H. Johnston, P. Clark, J.P. White, in Archaeology in Oceania, 1998, 33; J.M. Bowler, H. Johnston, J.M. Holley et al., New ages for human occupation and climatic change at Lake Mungo, Australia, in Nature, 2003, 421, pp. 837-40.