Archeologia
sommario: 1. Premessa. 2. Definizione e delimitazione. 3. Dalla casualità al programma. 4. Criteri e metodi. 5. L'intervento della tecnica. 6. Archeologia e ambiente. 7. La conservazione dei reperti. 8. Archeologia e società. □ Bibliografia.
1. Premessa
Lo studio del passato attraverso i monumenti e cioè le testimonianze materiali, che costituisce l'oggetto della scienza abitualmente definita ‛archeologia', è uno dei casi più significativi del divenire della cultura nel Novecento: poche discipline, in realtà, possono come questa dirsi oggetto di una trasformazione che è in pieno corso e che ne investe da un lato la posizione e l'incidenza nella società presente, dall'altro lato i caratteri, le strutture, la stessa concezione di fondo.
Da un punto di vista estrinseco, è fin troppo evidente che l'archeologia, un tempo relegata tra le curiosità erudite e quasi assunta a simbolo di un distacco dalla realtà contingente, è ora passata al centro di tale realtà o quanto meno degli interessi culturali che vi si esprimono, sicché può dirsi immersa con le sue conquiste (se non con le sue componenti e i suoi metodi) nel vasto campo della generale cultura. La scoperta archeologica, ormai, ‛fa notizia' non meno degli aspetti più usuali della cronaca quotidiana.
Dal disinteresse, dunque, alla moda. Ma questa constatazione è solo la premessa di un discorso critico, il quale deve accertare la ragione del fenomeno per poi procedere, oltre il fenomeno stesso, alla meditazione della natura e dei caratteri della disciplina. Analizzando la situazione, dunque, si può osservare anzitutto la crescente rilevanza che assumono le testimonianze materiali in una società in cui i valori idealistici, o almeno le certezze relative, sono in crisi; una società che, del resto, deve proprio al materialismo storico una serie di suoi sviluppi. Si aggiunga che il succedersi delle scoperte apre gli orizzonti più vasti alle testimonianze ora indicate, quasi ‛reliquie' di un passato che si rivela essenziale a qualsiasi conoscenza per confronto del nostro tempo.
D'altronde, la vigorosa immissione nella ricerca archeologica dei mezzi e degli strumenti della tecnica moderna ne fa un caso più unico che raro di convergenza tra umanesimo e scienza in senso stretto. Infatti, se la metodologia e le risultanze dell'indagine attengono in senso lato all'ambito umanistico, gli strumenti sempre più decisivi posti in opera attengono indubbiamente all'ambito scientifico. Così l'archeologia diviene in qualche modo il segno di un Novecento capace di superare l'alternativa tra uomo e macchina in una dialettica che invera l'una e l'altra componente.
Vi sono senza dubbio, nel successo attuale dell'archeologia, altre e varie cause circostanziali. In parte, esse si collegano ad antichi filoni di interesse, curiosamente vivificati in veste moderna: tale è il ‛collezionismo' di classica e rinascimentale memoria, che tuttora opera quale stimolo di una specie di ‛caccia al tesoro', rinnegata dagli archeologi di mestiere ma ancora ricca di suggestioni per la generale cultura. In parte, si tratta invece di fenomeni tipici della società presente: così l'‛esplosione' del turismo investe evidentemente le testimonianze archeologiche, nel quadro di quelle culturali e paesistiche. In parte ancora, infine, la ‛scoperta' dell'archeologia come avventura, con la conseguenza di un relativo genere letterario, attiene pure al tempo presente, non senza una componente di alienazione, e cioè di rifiuto o di incapacità di intendere rispetto ai valori della cultura tradizionale.
In ogni caso, l'affermazione dell'archeologia oltre la ristretta cerchia degli specialisti determina - e anche questa è una caratteristica del nostro tempo - una sua incidenza nell'ambiente naturale e sociale di dimensioni prima non pensate o comunque non realizzate. Senza dubbio, l'archeologia è una componente del vasto problema ecologico, uno dei più tipici nella recente fase del Novecento. Senza dubbio, essa esprime condizioni sociali determinate, riflette e individua (in ciò convergendo con la storia dell'arte) non solo l'opera di singole personalità creatrici, ma anche quella di botteghe, di committenti, di classi della società.
Tutto quanto si è rilevato finora mostra come l'archeologia sia in stadio di evoluzione e di trasformazione in rapporto alla cultura del Novecento, e in particolare alla sua ultima fase. Donde la necessità di rimeditarne la natura e i caratteri: definizione e delimitazione, iniziativa libera e programmazione, metodologia e apporto della tecnica saranno i temi del discorso che seguirà, per poi sboccare nell'esame dei rapporti con l'ambiente naturale e sociale. Questi temi, sotto l'impulso delle circostanze, costituiscono oggi l'oggetto di un dibattito in corso tra gli archeologi e più in generale tra gli uomini di cultura del nostro tempo. Perciò la trattazione presente li evidenzia non in modo artificiale, bensì al momento stesso in cui appaiono più vivi e determinanti.
2. Definizione e delimitazione
Archeologia è, per etimo greco, la ‛scienza dell'antichità'. Ma di fatto, secondo una convenzione da tempo accettata e già ricordata, essa significa più precisamente la scienza dell'antichità attraverso i suoi monumenti, e cioè le testimonianze materiali, in questo distinguendosi dalla filologia, che ha invece a oggetto i documenti, e cioè le testimonianze letterarie. Si aggiunga che l'archeologia (in questo distinguendosi dalla storia dell'arte, con cui pure sotto più aspetti converge) è altresì caratterizzata dal modo in cui acquisisce le sue conoscenze, e cioè il rinvenimento e lo scavo sul terreno.
Tale definizione sostanzialmente affermata diviene peraltro problematica quando, come accade nel momento attuale, se ne discutano e se ne analizzino le componenti. Esse sono, infatti, sostanzialmente due: quella del tempo (conoscenza del mondo antico) e quella del metodo (conoscenza attraverso il rinvenimento e lo scavo sul terreno). Gli sviluppi più recenti della ricerca archeologica pongono in crisi, almeno parzialmente, la prima componente, che pure apparirebbe la più valida: infatti, il riconoscimento di piena legittimità archeologica agli scavi medievali e rinascimentali da un lato, alle testimonianze delle civiltà ‛primitive' (ma talora a noi vicinissime) dall'altro, mostra che la discriminante del tempo è difficilmente definibile, e comunque non essenziale, di fronte all'altra discriminante che invece è inalienabile e costante, quella dello scavo come metodo nell'acquisizione delle conoscenze.
S'intende che il metodo è la premessa, non la conclusione, del discorso archeologico. E in realtà, una delle conquiste essenziali del nostro tempo è la presa di coscienza, ormai chiara, del fine della ricerca: il quale non può essere, come pure fu per molto tempo considerato, l'acquisizione di ‛cose', e cioè di oggetti; è, invece, l'acquisizione di conoscenze, e cioè di elementi del discorso storico.
Dal collezionismo, dunque, alla storia: l'archeologia è una disciplina storica nel senso più ampio del termine, e perciò i singoli reperti valgono non tanto in se stessi, quanto nel contesto che illuminano con il loro apporto.
Le considerazioni ora svolte mostrano l'inadeguatezza di quella ricerca archeologica - in passato prevalente se non esclusiva, oggi ancora largamente diffusa che in nome di una pretesa obiettività dei dati di fatto rifugge da qualsiasi valutazione e interpretazione. Gl'inizi del Novecento hanno visto, per singolare che sembri, un intensificarsi di questa tendenza, il cui risultato migliore (e neppur costante), è stato una serie di relazioni descrittive e inventariali degli scavi. Né, per vero, sembra ancora che la coscienza critica, indubbiamente evoluta e arricchita, si traduca adeguatamente nella prassi: all'opposto, specie in taluni paesi, si fa tuttora un'esaltazione dell'empirismo come del miglior metodo di avvicinamento alla ricerca. La dignità ‛filologica' dei lavori che ne conseguono non riduce per nulla la loro arretratezza culturale.
In realtà, l'apporto più immediato di una matura concezione storica dell'archeologia si riflette nella stessa scelta e nell'impostazione degli scavi. Il problema non è più quello di scavare e di scoprire ad ogni costo: al contrario, s'impone la limitazione dello scavo, il quale deve esercitarsi soltanto sotto condizione di sicurezza, affinché i dati per la conoscenza del passato vengano raccolti e non dispersi, le condizioni di contesto non si alterino né si distruggano, bensì si conservino e si custodiscano possibilmente in forma organica. Ciò spiega anche il carattere sempre più pubblico e sempre meno privato dell'iniziativa archeologica, o comunque del suo controllo: sono infatti gli Stati i depositari e i garanti del patrimonio comune di civiltà; e in tale patrimonio l'archeologia entra, con i suoi materiali, di pieno e incontestabile diritto.
Si è già accennato alla crisi del concetto tradizionale che limita l'archeologia al mondo antico: in realtà, la definizione temporale della ricerca si presenta oggi problematica sia al limite alto, che è quello citato dell'età medievale e rinascimentale, sia al limite basso, che è quello della preistoria. Per cominciare da quest'ultima, non v'è dubbio che la comparsa dei documenti scritti, da cui si caratterizza l'avvento dell'età storica, ha un'importanza primaria nelle vicende dell'umanità; tale importanza, peraltro, non è congruente con i caratteri essenziali dell'archeologia, la quale non può limitarsi all'età storica ma deve necessariamente risalire anche oltre, laddove manca la scrittura ma esistono pur sempre le vicende dell'uomo. Nell'uomo dunque, piuttosto che nella scrittura, sta la discriminante dell'interesse archeologico: pertanto la preistoria costituisce parte dell'archeologia, ed è anzi, come si è ben detto (Pallottino), una specie di archeologia ‛allo stato puro'. Diverso appare, invece, il caso della paleontologia, che per larga parte gravita nell'ambito delle scienze naturali.
Più complesso, e certo caratteristico del nostro tempo, è il problema del limite alto dell'archeologia. Una volta individuata la discriminante della disciplina nel metodo più che nel tempo, è evidente che trovano in essa pieno diritto gli scavi di età medievale e rinascimentale. In effetti, l'archeologia postclassica ha assunto negli ultimi anni uno sviluppo cospicuo, anche in relazione all'allargarsi dell'orizzonte geografico: vi sono infatti paesi, per esempio nell'Europa centrale e settentrionale, che mancano di monumenti antichi mentre ne hanno di cospicui per il medioevo e l'età moderna; si aggiunga che la stessa fine del mondo antico varia da cultura a cultura, quando ai criteri estrinseci delle date si sostituiscano quelli intrinseci delle civiltà. Quanto ai continenti extraeuropei, del resto, l'archeologia raggiunge i limiti dell'epoca coloniale, e dunque le soglie dell'età contemporanea. Se il metro è nel metodo, si potrebbe dire al limite che anche una città sepolta dalle ultime guerre può essere scavata con criterio archeologico.
Al problema dell'estensione dell'archeologia nel tempo si affianca quello della sua estensione nello spazio. Sembra ormai tramontata per sempre l'epoca in cui l'archeologia coincideva con lo studio del mondo classico, e cioè greco- romano. Tale mondo, ovviamente, continua a esserne oggetto, ma accanto a esso, con pari dignità, emergono altri mondi non meno vasti e significativi. Una delle rivelazioni maggiori, al riguardo, è costituita dal Vicino Oriente, dove l'indagine si è estesa dall'Egitto faraonico e dalla Palestina israelitica alla Mesopotamia sumero-accadica, ponendo in luce un complesso di culture che si collocano con funzione determinante alle soglie della classicità, anticipandone e condizionandone non poche componenti e caratteristiche.
Più lontano ancora, l'Oriente medio ed estremo si apre alla ricerca archeologica con una serie di civiltà che in parte antecedono quelle classiche e si svolgono indipendentemente da esse, in parte ne subiscono e ne elaborano l'influenza. Per vie autonome, d'altronde, si sviluppano le civiltà dell'Africa interna e quelle dell'America, a cui pure e con sempre maggiore impegno si volge la ricerca archeologica. La conoscenza per confronto, che vedemmo essenziale nella concezione dell'archeologia, assume così oggi, a seguito degli allargati orizzonti, il suo pieno valore.
Un fatto in apparenza contradditorio, ma in realtà congruente, si determina a seguito del vertiginoso allargarsi degli orizzonti che caratterizza il nostro tempo: la formazione assai più vasta che si richiede all'archeologo è causa di una specializzazione accentuata, nella quale alla tecnica generale della ricerca si aggiungono le nozioni indispensabili per le singole aree di cultura. Così non esiste più, in pratica, un archeologo tout court, bensì un classicista, un etruscologo, un orientalista, un americanista, e così via nella dimensione dello spazio. Si aggiungano nella dimensione del tempo il preistorico, il medievalista, ecc., in quella tipologica l'epigrafista, il numismatico, ecc.: ne deriva che il metodo della ricerca sempre più si conferma come la discriminante di questa disciplina, oggi quanto mai articolata e differenziata nelle sue componenti. E l'articolazione, la differenziazione, sono pur esse i segni del Novecento, anzi della sua fase ultima e più attuale.
3. Dalla casualità al programma
La maggiore coscienza della natura, dei caratteri e dei fini della ricerca archeologica determina nel nostro tempo una crescente tendenza alla programmazione, quale strumento razionale per incanalare verso l'organicità della conoscenza storica i vari e spesso autonomi, se non addirittura contrastanti, filoni della ricerca. È un fatto peculiare e inalienabile dell'archeologia, peraltro, che una parte dei ritrovamenti dipenda dal caso; e questo potrà essere semmai aiutato, non programmato. La percentuale delle scoperte fortuite, si aggiunga, tende ad aumentare piuttosto che a diminuire: infatti, mentre ne permangono inalterate talune cause come i fenomeni naturali, se ne accentuano altre come i lavori pubblici ed edili, nei quali è parte integrante uno scavo del terreno che non ha fini ma può avere conseguenze di carattere archeologico.
Rispetto a tali fenomeni, la programmazione non può agire che a posteriori, creando o potenziando gli strumenti idonei per il controllo: obbligo di denuncia delle scoperte fortuite, sospensione dei lavori, vincolo, esproprio, e così via. Questi strumenti, d'altronde, sono solo la premessa di un intervento archeologico che si rende necessario per intendere, completare, consolidare le scoperte; ed è un dato di fatto che larga parte dell'attività degli archeologi si sviluppa a seguito di eventi occasionali, e dunque costituisce una ricerca che potrebbe definirsi d'urgenza e di necessità. La programmazione, peraltro, non è perciò meno necessaria: essa serve comunque a inquadrare gli interventi d'urgenza e a condizionarne lo sviluppo ai fini generali predeterminati.
Ciò posto, e per la parte degli scavi che muove da scelta e non da obblighi, l'avvio di un programma sia pure per grandi linee e la costituzione o la valorizzazione delle strutture atte a porlo in opera rappresentano un'esigenza primaria del tempo presente. Questo, come in ogni programmazione, per un complesso di finalità che in passato, per singolare che sembri, trovavano scarsa rispondenza, in nome di un'autonomia della ricerca poco opportunamente concepita: finalità scientifiche, e cioè intese ad agevolare il divenire delle conoscenze colmando le lacune che lo ostacolano ed evitando le iniziative incoerenti o concorrenziali; finalità economiche, e cioè intese a coordinare l'impiego dei mezzi e delle attrezzature, evitando le spese inutili e gli sperperi incontrollati; finalità sociali, e cioè intese a realizzare in ultima analisi la fruizione dei beni archeologici a vantaggio della società nella quale essi vengono a inserirsi.
È evidente che la programmazione così intesa dipende dall'esistenza di organismi e strutture che ne rendano possibile l'applicazione e il controllo. Al riguardo la situazione resta generalmente deficitaria, nel senso che la varietà delle competenze e delle iniziative non sempre trova, nei singoli paesi, corrispondenza in istituzioni di coordinamento. L'Istituto Archeologico Germanico costituisce un buon esempio, con le sue sezioni ramificate nei maggiori Stati di interesse archeologico, le sue imprese di scavo, le sue pubblicazioni, le sue borse di studio con varie forme di assistenza per i giovani. Con impostazione diversa, e cioè di controllo al di sopra delle istituzioni archeologiche, il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti in Italia costituisce un altro esempio interessante: a esso, tuttavia, dovrebbero essere attribuiti maggiore rappresentatività e potere d'iniziativa oltreché di controllo.
Considerando i compiti che emergono per una programmazione organica, il primo è costituito dalla catalogazione dei beni archeologici. La condizione del patrimonio, infatti, è largamente deficitaria, sia per quello immobile, sovente esposto al deterioramento per cause naturali e umane, sia per quello mobile, che agli stessi rischi aggiunge la frequente inaccessibilità nei depositi dei musei se non addirittura presso privati. Non v'è dubbio che la catalogazione dei beni archeologici costituisce un'impresa lunga e difficile: l'averla individuata, peraltro, come essenziale e preliminare a ogni sviluppo delle conoscenze deve assegnarsi a merito della revisione, propria del tempo presente, dei criteri e dei metodi della ricerca archeologica.
Connessa alla catalogazione è l'esigenza della ‛carta archeologica', avvertita da tempo in vari paesi e tuttavia in stato poco più che iniziale. Si tratta di registrare e di porre in pianta i resti antichi che in qualsiasi modo risultino esistenti sul terreno, indipendentemente dal fatto che siano o non siano stati oggetto di scavo. La ‛carta archeologica' si realizza mediante un'esplorazione minuta del territorio opportunamente diviso in parti, una rilevazione fotografica completa, un'indagine approfondita sulle fonti antiche e moderne, edite e inedite, per tutte le informazioni che esse possono fornire. La pubblicazione della ‛carta', nelle sue varie parti e sezioni, costituisce un'altra premessa essenziale per qualsiasi impresa di scavo.
L'opera di rilevazione e di registrazione ora indicata pone in luce un ulteriore aspetto del nostro tempo, e cioè l'affermarsi come esigenza primaria della ricognizione o prospezione archeologica. Questa, secondo i piani e i criteri adottati, può anche essere accompagnata da sondaggi di scavo, intesi alla verifica sul terreno di singole ipotesi o problemi. Ma di per sé, nella sua natura essenziale, la ricognizione si distingue dallo scavo in quanto non lo implica ma lo precede: delinea e addita la natura generale del terreno rispetto ai reperti di antichità, suggerisce le culture che possono trovarvisi attestate e la loro distribuzione, condiziona insomma ogni impresa archeologica. Si aggiunga che, in territori nei quali l'archeologia non ha ancora operato in modo estensivo, la ricognizione si presenta come una necessità inderogabile.
Il discorso giunge così naturalmente a un altro aspetto tra i più dibattuti della programmazione, e cioè la regolamentazione degli scavi. Di fatto, allo stato attuale, le ricerche archeologiche che non derivino da necessità vengono promosse da singoli studiosi o istituzioni in base agli interessi, al gusto, alla vocazione o addirittura alla curiosità particolare che è loro propria. Ne conseguono difficoltà di vario genere per ogni forma di coordinazione e di programmazione, sovrapporsi di iniziative da un lato e lacune dall'altro, discontinuità nell'applicazione dei piani non senza arresti (per ragioni scientifiche e anche finanziarie) che sono del massimo pregiudizio al patrimonio archeologico.
La regolamentazione degli scavi, dunque, è indispensabile; e deve essere realizzata dalle autorità preposte alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio dei paesi interessati, sia verso gli archeologi e le istituzioni dei paesi stessi, sia verso gli stranieri. A fondamento e premessa di ogni autorizzazione di scavo, debbono tenersi presenti la rispondenza del progetto alla programmazione generale, la ricognizione preliminare della zona, la struttura scientificamente adeguata e qualificata della prevista missione, l'assicurazione di adeguati mezzi finanziari, l'impegno alla documentazione completa e alla pubblicazione del lavoro svolto nonché quello alla sistemazione adeguata e alla protezione del materiale rinvenuto. In mancanza di tali requisiti, è decisamente da preferire il rifiuto dell'autorizzazione; ed è un fatto incontroverso che attualmente si effettuano troppi scavi piuttosto che pochi.
Una singolare polemica, sviluppatasi negli ultimi anni, si lega alla constatazione ora esposta. Il quesito sul modo migliore di salvaguardare il patrimonio archeologico, posto anche drammaticamente in convegni e dibattiti, ha avuto da parte di archeologi qualificati la risposta che converrebbe lasciare il patrimonio stesso sotto la terra che ancora lo copre, qualora abbia la sorte di trovarsi in tale condizione. L'argomento è tutt'altro che paradossale: sarebbe meglio studiare e pubblicare i materiali inediti già scoperti, piuttosto che aggiungerne degli altri; sarebbe meglio evitare i danni che si accompagnano agli scavi, in attesa di tempi migliori e di tecniche più perfezionate. Certo, un provvedimento così drastico come la sospensione totale degli scavi è nei vari paesi pressoché impensabile, e del resto non privo anch'esso di danni per la ricerca scientifica; ma l'argomento conserva tutto il suo valore se inteso come un'ammonizione a limitare al minimo indispensabile le nuove iniziative. Il tempo presente, insomma, tende senza dubbio a ridurre e a condizionare, piuttosto che ad aumentare, l'attività di scavo.
4. Criteri e metodi
Lo svilupparsi di una problematica generale sulla natura, i fini e le condizioni della ricerca archeologica non ha certo impedito un parallelo dibattito sui criteri e sui metodi da applicare nello scavo, una volta che questo sia stato deliberato e avviato. È vero peraltro, e può essere posto in evidenza a titolo di premessa, che il nostro tempo segna al riguardo il riconoscimento della relatività dei criteri piuttosto che l'affermarsi di un metodo a differenza di altri. La nota definizione di M. Wheeler, secondo cui ‟non v'è un modo giusto di scavare, ma vi sono molti modi sbagliati", può essere assunta a emblema di questa apertura del giudizio, fondata del resto sulla riconosciuta diversità delle singole situazioni.
Errerebbe, peraltro, chi credesse che gli aspetti della ricerca non si siano metodologicamente arricchiti e perfezionati. Lo stesso Wheeler, ad esempio, ha attirato l'attenzione sulle condizioni ottimali da cercarsi nell'area di scavo, una volta che su essa si sia concentrata l'attenzione: accessibilità da ogni lato, possibilità di controllo integrale e di chiara divisione, facoltà di conservarvi il più a lungo possibile i reperti nella condizione che si ritenga più adatta, ecc. Considerazioni di questo genere erano ben poco sviluppate in passato, mentre ora intervengono tra le componenti nella scelta di un terreno di scavo. E si può dire, in genere, che tutti i preliminari dello scavo appaiono oggi valorizzati: organizzazione delle strutture della missione, articolazione dei tempi, divisione della zona mediante reticoli di coordinate, spesso in più di una serie, ai fini della ripartizione del lavoro e della catalogazione dei reperti.
Essenziale nella scelta del metodo per ‛attaccare' il terreno è la coscienza del modo in cui il patrimonio archeologico deve attendersi rintracciabile nel sottosuolo. Al riguardo, è ormai prevalente il metodo stratigrafico, legato alla constatazione che i resti delle civiltà passate si accumulano, quando non intervengano fatti eccezionali, progressivamente e per successivi livelli, che l'archeologia incontra, scavando, in ordine inverso alla loro costituzione. La stratigrafia non è priva di alterazioni, di dislivelli, di interruzioni; ma nell'insieme, sia per quanto attiene ai criteri di scavo sia per la registrazione dei reperti, essa domina ormai la ricerca archeologica, condizionandone i risultati.
La coscienza della stratigrafia da attendersi non impone, peraltro, soluzioni univoche al problema del metodo. In teoria, la nozione stratigrafica potrebbe suggerire di esplorare e rimuovere sistematicamente ciascuno strato prima di passare a quello sottostante; in pratica, si preferisce generalmente cominciare con sondaggi in punti diversi, sulla base delle indicazioni disponibili alla superficie. Lo scavo di riquadri o spicchi di terreno distanziati, condotto anche attraverso più di uno strato, presenta il vantaggio di una ‛campionatura' del terreno e consente maggiori probabilità di percepire al più presto i punti di maggiore interesse. Tuttavia il sistema dei sondaggi, raccomandato e applicato dalla maggior parte degli archeologi, non è privo di riserve e di critiche da parte di altri, che vi ravvisano una sorta di ‛fuga dalle responsabilità'.
Come si vede, i giudizi sono fluidi, la situazione è aperta. E la discussione prosegue, oltre il problema del metodo per ‛attaccare' il terreno, su quello per scavarlo successivamente, fornendo alternative che in realtà, nelle diverse situazioni contingenti, possono essere non tanto esclusive quanto complementari. Emergono in specie, all'attenzione attuale degli archeologi, due questioni di fondo: quella dello scavo orizzontale o dello scavo verticale, già aperta dal problema dei sondaggi, e quella della preminenza da dare al centro o alla periferia dell'area archeologica.
Lo scavo orizzontale, e cioè la rimozione più o meno completa di uno strato prima di passare a quello successivo, è in sostanza l'espressione dell'esigenza di ottenere un quadro il più possibile completo di una fase dell'insediamento prima di passare a un'altra fase, e cioè a quella che la precede. Lo scavo verticale, e cioè l'esame in profondità dei vari strati su un'area ristretta, è a sua volta l'espressione dell'esigenza di accertare le varie fasi che si sono succedute sul luogo prima di esaminarle singolarmente. La complementarità delle due esigenze è evidente: di fatto l'archeologo procede oggi con metodo combinatorio, accentuando l'uno o l'altro aspetto della ricerca secondo le condizioni specifiche del terreno.
L'altra questione, e cioè dello scavo al centro o alla periferia dell'area archeologica, si risolve in genere empiricamente a seconda dei risultati delle ricognizioni preliminari e dei sondaggi; e s'intende che anche qui le due esigenze non sono opposte ma complementari. Il problema, peraltro, si pone con particolari caratteri laddove l'area archeologica assuma la conformazione di una collinetta rialzata o tell. Scavare sul pendio laterale, infatti, significa in questo caso ottenere rapidamente e con lo sforzo minore l'indicazione della stratigrafia, anche se lo scavo al centro può conservare una situazione più rappresentativa. In ogni caso, deve ritenersi ormai bandito dalla ricerca archeologica lo scavo in galleria, che distrugge gli strati senza fornire alcuna evidenza apprezzabile.
Sempre maggior rilievo assumono, nel tempo presente, le esigenze complementari dello scavo: catalogazione e riproduzione fotografica di ogni oggetto scoperto prima della sua rimozione, schedatura sistematica dei reperti con riferimento a un accurato ‛giornale di scavo', protezione delle scoperte sia sul luogo sia con opportuna dislocazione in museo, sgombero del terreno rimosso in zona estranea all'area archeologica. Su questi problemi, peraltro, non è necessario soffermarsi, in quanto essi riflettono il naturale perfezionamento di esigenze che sono apparse progressivamente nella ricerca e che non connotano quindi, almeno in modo specifico e puntuale, il tempo presente. Del tutto diverso è il caso dell'intervento dei mezzi forniti dalla scienza moderna nel reperimento e nell'analisi dei materiali archeologici: è questo un capitolo primario dell'archeologia attuale, su cui converrà sostare.
5. L'intervento della tecnica
La tecnica moderna, con i suoi progressi e con le sue conquiste, è senza dubbio una componente primaria, forse la maggiore in assoluto, della trasformazione dell'archeologia che caratterizza il nostro tempo; e già accennammo che nel suo intervento va ravvisata la ragione determinante di quel convergere di umanesimo e scienza che dell'archeologia contemporanea appare la connotazione essenziale. Il complesso degli apporti tecnici alla ricerca archeologica va sotto il nome di ‛scienze sussidiarie' dell'archeologia; e se in questa denominazione è possibile ravvisare una subordinazione della tecnica al giudizio, è vero peraltro che non si tratta tanto di sussidi quanto di componenti della ricerca, assunte ormai al livello di piena e spesso primaria dignità. Il fatto che l'archeologo di formazione tradizionale provveda a inviare i materiali scoperti ai vari laboratori di analisi scientifica non può trarre in inganno: il lavoro dei tecnici di quei laboratori non è più esterno, bensì interno alla ricerca archeologica, come interno è ad esempio il lavoro dell'epigrafista o dell'architetto, anche se essi hanno preparazione e compiti particolari.
Una prima serie di apporti tecnici si lega all'uso della fotografia. Tra il 1930 e il 1940 si collocano i primi tentativi di riprese fotografiche dall'aereo, particolarmente connesse alla ricognizione militare; e la seconda guerra mondiale segna l'affermazione di tale impiego, attraverso realizzazioni che sono tuttora preziose per l'analisi archeologica del terreno. D'altronde, gli ultimi anni hanno visto la diffusione delle riprese a fini archeologici, dimostrando che l'aerofotografia può rivelare, in particolari condizioni di luce e con apposite inclinazioni, ciò che all'osservazione di superficie resterebbe invisibile: il colore del terreno, infatti, varia sia pur di poco a seconda che il manto erboso sia più o meno sviluppato e pregno di umidità per la presenza sotto terra di cavità come tombe e cisterne, di lastricati appartenenti a strade e piazze, di muri e terrapieni.
Alla fotografia aerea fa riscontro quella sotterranea, ottenuta per mezzo di speciali sonde che trapassano il terreno e introducono nell'interno delle cavità sottostanti minuscoli apparecchi fotografici a flash, in grado di riprodurre quanto, ad esempio, si trova nelle tombe. Un tipo perfezionato di sonda fotografica, il periscopio Nistri, è stato ampiamente usato dalla Fondazione Lerici per individuare le pitture sulle pareti delle tombe di Tarquinia prima dello scavo, consentendo di scavare solo quelle di maggiore importanza. È da osservare che il sistema opera, in realtà, quando la zona archeologica è già conosciuta; e dunque serve piuttosto a guidare lo scavo che a determinarne l'avvio.
L'impiego delle sonde nella moderna archeologia non si limita ai fini fotografici. La preminente importanza attribuita alla stratigrafia del terreno ha determinato l'impiego di un'altra speciale sonda, detta convenzionalmente ‛carota', che deriva dalla ricerca geologica e consiste in un tubo metallico che, penetrando nel terreno, ne riporta alla superficie una porzione in forma di cilindro quale campione degli strati. Si realizza così la definizione stratigrafica di zone archeologiche, in uno o più punti delle zone stesse, senza necessità di procedere allo scavo. Il ‛carotaggio', dunque, costituisce la più compiuta realizzazione del metodo di sondaggio in verticale.
Dall'impiego nelle miniere e nei lavori edilizi l'archeologia trae inoltre la motopompa, strumento di primaria importanza per lo svuotamento rapido delle acque sotterranee a premessa dello scavo. Il sistema più perfezionato di motopompa è quello ora in uso a Sibari, dove una serie di tubi metallici forati nell'interno e infissi profondamente nel terreno sono collegati in superficie da un collettore, attraverso il quale grosse pompe aspiranti risucchiano l'acqua sotterranea. La motopompa risolve un problema essenziale che ha condizionato finora la stessa possibilità di molti scavi, e cioè quello delle falde freatiche.
Tornando alla fotografia, quella aerea e quella sotterranea sono integrate da quella subacquea, nel quadro di un generale sviluppo dell'archeologia sottomarina che pure caratterizza il tempo presente. Speciali apparecchi vengono usati per riprendere quanto giace sul fondo del mare da esploratori muniti degli stessi strumenti che usano i sommozzatori e i pescatori subacquei. Cominciano inoltre ad entrare nell'uso imbarcazioni con pareti trasparenti che consentono di osservare i fondali marini, illuminati a mezzo di potenti lampade. Gli esempi più significativi della recente archeologia sottomarina vengono dall'Italia e dalla Francia, dove sono state individuate e recuperate antiche navi affondate, nonché riportati in luce reperti archeologici da località sommerse a seguito di fenomeni tellurici (Baia).
Ancora all'inizio della loro applicazione alle ricerche archeologiche, per l'alto costo e la necessità di apparecchiature complesse e di personale specializzato, sono i metodi geofisici, adoperati in origine per individuare i giacimenti di petrolio e di altri minerali, ovvero per accertare la natura del sottosuolo in occasione di lavori di pubblico interesse. Emergono tra tali metodi le prospezioni sismiche, consistenti nell'immissione di onde elastiche nel terreno, che vengono riflesse o rifratte quando incontrano una formazione sepolta, registrata dagli strumenti come ‛anomalia'. In particolare lo studio delle vibrazioni acustiche rientra in questo tipo di analisi, senza dubbio destinato a notevole sviluppo.
I metodi chimici sono, a loro volta, entrati nell'uso sotto forme diverse e non tutte, ovviamente, di pari diffusione. L'osservazione che, nei luoghi in cui l'uomo ha abitato a lungo, la decomposizione delle sostanze organiche accentua la presenza di fosfati nel terreno ha determinato ricerche, limitate peraltro a giacimenti non molto antichi, perché le componenti del suolo vanno soggette ad alterazioni complesse e a condizionamenti da agenti esterni non sempre classificabili. Così, tali analisi hanno avuto buon esito in paesi ricchi di resti medievali come la Svezia, la Germania, la Svizzera e l'Olanda, mentre si applicano scarsamente in paesi di civiltà più antiche come l'Italia e la Grecia.
Il maggior successo dei metodi chimici nel nostro tempo, peraltro, è costituito dalla datazione a mezzo del radiocarbonio (C14), basata sull'osservazione del progressivo ridursi di questo tipo di carbonio dal momento in cui una sostanza organica cessa di vivere e della conseguente possibilità di misurarne la riduzione in confronto al carbonio non radioattivo (C12) e quindi di determinare la datazione. Malgrado talune oscillazioni e margini di errore, il metodo del radiocarbonio può dirsi la più sensazionale conquista del Novecento (e precisamente della metà del secolo) in materia di archeologia e preistoria, tanto più rilevante quanto più, risalendo indietro nel tempo, le date erano finora largamente incerte e approssimate.
Un'altra serie di successi, nell'applicazione dell'archeologia, è venuta dai metodi elettromagnetici, i quali pongono in opera strumenti rivelatori di un tipo analogo a quelli usati per la scoperta delle mine. Il più importante strumento di questo genere è il magnetometro a protoni, che registra con precisa sensibilità le variazioni di intensità nel campo magnetico del terreno, individuando e designando così gli oggetti sepolti. Vero è che le anomalie magnetiche sono tanto più difficilmente riconoscibili quanto più profonda ne è l'origine; ma i risultati ottenuti a Sibari, dove un muro dell'antica città è stato identificato a tre metri dal livello del suolo, in Inghilterra, dove una serie di insediamenti romani è stata localizzata con questo sistema, e infine sul fondo dei Dardanelli, dove carcasse di navi sono state individuate a grande profondità, mostrano l'ampiezza delle possibilità offerte. Ancor più recenti del magnetometro a protoni, ma basati sugli stessi principi elettromagnetici, sono il magnetometro al rubidio e quello al cesio. La loro applicazione nell'Italia meridionale, a Sibari e a Metaponto ha dato risultati rapidi e positivi. S'intende che l'applicabilità del sistema è condizionata dalla natura del terreno, dallo stato più o meno avanzato della conoscenza di esso, dalle distanze e dalla trasportabilità degli strumenti, il cui costo ne condiziona tuttora fortemente l'impiego.
Minor diffusione, per il momento, ha il metodo di analisi delle ceramiche basato sulla misurazione del campo magnetico. Alla botanica, invece, attiene l'esame dei pollini, basato sul principio che la sedimentazione dei granuli pollinici è strettamente legata alle condizioni ambientali. Sempre nell'ambito della botanica, la dendrocronologia è entrata in uso come strumento di datazione, partendo dall'osservazione che la crescita di un albero è rivelata dalla sezione orizzontale del suo tronco, e precisamente dalla formazione di esso ad anelli concentrici, ognuno dei quali rappresenta un anno di vita della pianta. È evidente che tale metodo di analisi rimane limitato alle zone in cui il legname fu usato estensivamente fin dall'antichità e si è conservato in condizioni favorevoli; inoltre, difficilmente esso può impiegarsi per un periodo che vada oltre i due-tre millenni, e dunque ne restano esclusi i problemi della preistoria e della storia più remota.
L'osteologia concorre alla ricerca archeologica anzitutto con l'esame delle ossa fossilizzate, basato sul principio che le ossa assorbono lentamente la fluorina contenuta nel terreno in cui sono sepolte, sicché dalla percentuale assorbita si possono ricavare indizi di cronologia relativa. Un altro tipo di analisi relativa alle ossa, d'altronde, è stato sviluppato dagli archeologi sovietici: la ricostruzione delle fattezze degli uomini antichi in base ai resti ossei dei loro crani. È stato osservato, infatti, che le particolarità dei tessuti molli del viso dipendono da quelli delle ossa del cranio: si sono così ricostruite le fattezze di esseri umani dalla più remota preistoria fino ai tempi recenti; e si è controllata la validità del sistema su esseri contemporanei.
Un altro metodo di notevole interesse sviluppato dagli archeologi sovietici è quello della determinazione dei manufatti antichi in base al logorio: questo metodo non concerne tanto la datazione quanto la funzione degli oggetti, che le tracce di logorio in punti particolari aiutano appunto a stabilire. Vi sono poi metodi di carattere settoriale, e cioè specifici per ambienti determinati: valga da esempio l'analisi delle argille stratificate che costituiscono il residuo delle glaciazioni sulle coste baltiche. Come si vede, la tecnica contemporanea investe da ogni parte una disciplina che un tempo era classificata senza riserve come umanistica; e convergendo con le persistenti esigenze e finalità umanistiche, crea la simbiosi, ricca di prospettive, che caratterizza il nostro tempo.
6. Archeologia e ambiente
L'esplosione del problema ecologico, e cioè della salvaguardia dell'ambiente naturale dell'uomo, è senza dubbio una caratteristica degli anni più recenti del nostro secolo. Ora, è evidente che l'archeologia viene direttamente a interferire nel problema: lo scavo infatti, pur con ogni limite e riserva, è di per sé una distruzione nei confronti della situazione ambientale, in quanto altera e non consente di ricostruire appieno lo stato del terreno su cui si esercita. Emerge da ciò un'esigenza di salvaguardia, sia pure combinata con l'esigenza di conoscenza da cui muove lo scavo; e tale salvaguardia è tanto più necessaria quando si abbia presente il continuo progredire della tecnica, e quindi l'eventualità che nel prossimo futuro essa consenta di scavare con minori alterazioni rispetto a quelle del tempo presente.
In tal senso, studiosi inglesi hanno parlato recentemente di un'‛etica' archeologica come caratteristica dell'epoca in cui viviamo. In particolare, il Thomas ha rilevato la necessità che ogni resto da cui s'illumina il nostro passato rimanga visibile, tangibile, scopribile o recuperabile, al fine di essere impiegato ad accrescere la conoscenza dell'uomo e del suo ambiente. Ogni generazione, egli ha aggiunto, eredita il dovere di esaminare, di registrare e di preservare per quanto possibile il suo patrimonio archeologico: come si vede, il discorso converge con quello già svolto sulla necessità di limitare e di condizionare gli scavi.
Tutela del patrimonio archeologico, dunque, come esigenza primaria del nostro tempo nel quadro più ampio della salvaguardia dell'ambiente: questo problema di assai vasta portata, che rientra del resto in quello ancor più ampio della tutela dei beni culturali, deve esaminarsi e chiarirsi nei suoi molteplici aspetti. L'archeologia contemporanea ne sta prendendo coscienza, come risulta da indagini e dibattiti, analizzando e distinguendo nell'ordine: l'oggetto del problema stesso, e cioè la varia realtà del patrimonio archeologico; le cause del suo depauperamento, tra cui lo scavo non è certo la sola nè la principale; i provvedimenti possibili al fine di combattere il depauperamento, promuovendo per converso la valorizzazione e la fruibilità di questi beni culturali.
Per quanto concerne l'oggetto del problema, si rileva ormai la distinzione basilare tra i monumenti archeologici già noti e quelli che sono ancora da conoscere. La tutela è evidentemente più agevole nel primo caso: sistemazione monumentale, parchi archeologici, musei saranno trattati in seguito, come pure in seguito saranno esposti, per i monumenti singoli, i criteri attuali della conservazione e del restauro. Ma i monumenti ancora da conoscere rappresentano il problema più complesso e più grave. Non v'è dubbio che vastissima è la consistenza del ‛patrimomo sepolto'; e proprio qui la legislazione attuale è carente, per l'ovvia difficoltà di tutelare quanto ancora non è noto. La protezione si applica ai monumenti conosciuti, operando al fine di evitare per essi ogni possibile danno; ma non prevede adeguatamente il problema dei monumenti da ritrovare, e quanto ai vincoli protettivi che gli organi di tutela possono imporre, essi sono sovente vanificati sia dall'insistenza delle leggi su quanto è noto e non su quanto è ipotizzato, sia dall'obbligo, una volta istituito il vincolo, di procedere senz'altro agli scavi.
Si constata così, ed è ormai chiara alla coscienza degli archeologi, la carenza di una componente primaria nella prevenzione del depauperamento del patrimonio archeologico, e insieme dell'ambiente che pure dovrebbe esserne valorizzato. Ma considerando ancora, prima dei rimedi, le cause per cui i monumenti deperiscono, si può osservare che il fenomeno ha assunto negli ultimi anni un ritmo sempre più accelerato e preoccupante. Un primo ordine di cause è costituito da quelle naturali: pioggia, gelo, infiltrazione di acque nel terreno, agenti patogeni dell'aria e dell'acqua. Si ricordino i danni, ammontanti a varie diecine di milioni, che l'infiltrarsi dell'acqua nelle crepe dei muri e il suo successivo gelare con aumento di volume e spaccatura dei muri stessi ha provocato alcuni anni or sono al Foro Romano. Non meno dannoso è l'inquinamento dell'atmosfera, che ad esempio ha determinato fenomeni di corrosione nei marmi del Partenone.
Lo stesso Partenone può fornire l'esempio di un secondo ordine di cause nel deperimento, quelle riferibili all'azione dell'uomo. Le vibrazioni prodotte nel cielo dagli aerei a reazione hanno messo in pericolo, come risulta da una drammatica denuncia dell'UNESCO e delle autorità locali, la stabilità del celebre monumento. Sempre all'azione dell'uomo si riferiscono i danni provocati dall'agricoltura e dall'edilizia, che con lo sviluppo dei mezzi meccanici recano sempre più grave pregiudizio ai monumenti ancora giacenti nel sottosuolo. Specialmente l'edilizia può dirsi protagonista delle maggiori lesioni al patrimonio sepolto avvenute negli ultimi anni; sebbene, per equità, si debba aggiungere che essa è stata anche causa di numerose scoperte.
Ormai l'azione dell'uomo (per altra via indubbiamente utile e necessaria) entra più volte in contrasto con gli interessi archeologici. Così, il dilagare delle costruzioni non sempre si è arrestato al limite dei monumenti, determinando celebri polemiche come quella relativa ai templi di Agrigento. Altrettanto si dica per le industrie: una polemica non meno celebre ha opposto i fautori dell'industrializzazione del territorio di Sibari agli archeologi che intendevano salvaguardare il patrimonio monumentale, accertato ma scavato solo in minima parte. L'accordo infine raggiunto (e sperabilmente durevole) ha consentito alle industrie di cercare sbocco ai margini della pianura, mentre l'archeologia ha avviato con mezzi cospicui lo scavo della famosa città.
Quanto ai provvedimenti, già in atto e da attuare, per la salvaguardia delle zone archeologiche e dunque per la tutela dell'ambiente, l'indagine approfondita effettuata negli ultimi anni consente di articolarli in due categorie principali: provvedimenti d'autorità e provvedimenti d'intervento. I primi, con riferimento a una legislazione di cui abbiamo già indicato le carenze, sono costituiti in ordine di gradualità dall'obbligo della denunzia, dal vincolo e dall'esproprio. L'obbligo della denunzia incombe a tutti coloro che scoprano per qualunque motivo dei beni archeologici: portando la scoperta a conoscenza delle autorità competenti, essi determinano il primo e insostituibile atto nell'opera di queste ultime. Il vincolo è costituito dalla dichiarazione e dalla notifica di zona archeologica che le autorità effettuano su un determinato territorio, con la conseguenza di limitarne e di sottoporne a controllo l'utilizzazione da parte dei proprietari. L'esproprio è l'alienazione a favore dello Stato di quei territori il cui interesse archeologico è tale da non potersi tutelare a mezzo del semplice vincolo.
L'insieme di questi provvedimenti d'autorità, già operante nella legislazione attuale, non è scevro di carenze e di problemi. Da un lato, la limitazione ai monumenti già accertati e la mitezza delle sanzioni previste per gli inadempienti fanno sì che la legge operi con difficoltà e non sempre con efficacia. D'altro lato, all'accentuazione dell'autorità dello Stato dovrebbe pur corrispondere una serie di agevolazioni ai cittadini che si trovano, per così dire, ‛coinvolti' senza loro interesse in una scoperta archeologica; e dunque occorrerebbe adeguare i premi per le denunzie, gli indennizzi per i vincoli e i pagamenti per gli espropri, nonché snellire le procedure affinché chi compie il proprio dovere verso lo Stato abbia a trarne vantaggio e comunque non danno.
La seconda categoria di provvedimenti per la tutela del territorio archeologico è quella già definita d'intervento. Rientrano in essa anzitutto gli scavi preventivi, vera e propria ‛chirurgia d'urgenza' laddove motivi esterni ma inevitabili lo richiedano: le ricerche condotte negli ultimi anni in Nubia, per evitare che i templi delle regioni scomparissero sotto le acque del Nilo rialzate dalla diga di Assuan, ne costituiscono il miglior esempio. E tuttavia, gli scavi preventivi dovrebbero divenire sempre più eccezionali di fronte all'affermarsi dei metodi razionali dell'intervento: la pianificazione urbanistica e territoriale, la costituzione di ‛riserve' archeologiche e il controllo degli scavi, tutti aspetti della programmazione che abbiamo già illustrato come una direttrice essenziale della moderna archeologia.
Un capitolo a sé nel depauperamento del patrimonio e dell'ambiente archeologico è costituito dagli scavi clandestini e dal commercio illegale dei materiali scoperti. Il fenomeno interessa soprattutto i paesi che posseggono ancora ricchi giacimenti archeologici: così l'Italia, la Grecia, l'Egitto e gli Stati del Vicino Oriente. La ricchezza del sottosuolo fa sì che le autorità preposte alla tutela e gli stessi organi di polizia siano insufficienti a mantenere sotto controllo assiduo tutte le zone archeologiche e monumentali. Si aggiunga che taluni paesi, evidentemente non ricchi di antichità locali, consentono il libero commercio del materiale archeologico, incrementando così il fenomeno.
Fondamentalmente, la legislazione dei paesi interessati mostra adeguata coscienza dei problemi derivanti dagli scavi clandestini, afferma la proprietà dello Stato sul sottosuolo e commina pene a chi scavi senza autorizzazione o venda clandestinamente il materiale archeologico. Sennonché, l'applicazione delle leggi è spesso lenta e la mitezza delle pene non scoraggia adeguatamente i trasgressori. L'indagine approfondita che si va facendo punta dunque per il futuro a una gamma organica di provvedimenti, che va dall'inasprimento delle sanzioni vigenti all'irrobustimento dei nuclei operativi e allo snellimento delle procedure, dal censimento generale dei beni archeologici alla liberalizzazione della ricerca controllata e anche, entro certi limiti, del commercio e dell'esportazione. Una legislazione da un lato più severa ed efficiente, dall'altro lato più aperta e realistica, dovrebbe intervenire a ridurre un fenomeno che tuttora danneggia il patrimonio e con esso l'ambiente, in quanto l'asportazione del materiale dal terreno non avviene certo in condizioni di sicurezza.
7. La conservazione dei reperti
Un capitolo a sé, nell'ambito generale della tutela del patrimonio archeologico, è quello che concerne la conservazione e il restauro dei singoli monumenti, siano essi mobili o immobili. Si tratta di problemi indissolubilmente legati allo scavo e non solo successivi a esso: infatti l'intervento può occorrere immediatamente durante il lavoro, o addirittura esser disposto prima, per non perdere di efficacia. Al contempo, si tratta di problemi legati alla tecnica, che fornisce strumenti e sussidi sempre più ammodernati e validi. Infine, si tratta di problemi che interferiscono nella generale concezione dell'archeologia e dell'ambiente, in quanto la pura protezione del materiale s'integra con la sua ricostruzione, evidentemente opinabile nei criteri e nei metodi.
Iniziando dalla conservazione, i reperti immobili (e in primo luogo i muri) sono spesso pericolanti, sicché occorre puntellarli e consolidarli: ciò avviene sia durante gli scavi sia indipendentemente da essi. Ma anche dopo tali operazioni, gli agenti esterni costituiscono un costante pericolo. Così, ad esempio, l'acqua che s'infiltra nelle crepe dei muri gelando nella stagione invernale determina, come si è già visto, un aumento di volume e provoca la spaccatura dei muri stessi; né meno pericolosi sono i microrganismi, che corrodono la pietra proliferando col favore dell'umidità. Di fronte a queste situazioni, l'archeologia moderna contempla provvedimenti diversi, non escludendo l'ipotesi che il monumento in pericolo venga smontato e ricostruito in altra sede. Quando a questa soluzione non si voglia o non si possa giungere, si provvede a isolare le costruzioni dal terreno mediante solette di cemento armato e a trattare la pietra mediante sistemi di aereazione che eliminino l'umidità e sostanze chimiche che distruggano gli agenti patogeni. Questi metodi più recenti integrano, senza sostituirli, quelli tradizionali, come la copertura mediante tettoie in lamiera e la chiusura entro pareti di vetro. Al limite, resta pur sempre valida la soluzione del reinterro temporaneo.
Uno dei problemi più dibattuti nell'archeologia del nostro tempo è quello del restauro: vi convergono, infatti, questioni relative al gusto e alla fruibilità delle opere d'arte, che pure appaiono tipiche dell'età presente. Restauro, al limite minimo, significa ricongiungimento di parti di monumenti mobili o immobili staccate e ricomponibili: nel qual caso si può dire che la soluzione sia ovvia e non si ponga il problema. Ma diversa è la situazione quando qualche parte di un monumento manchi ovvero quando un edificio sia abbattuto. Occorre allora davvero, e fino a qual punto è possibile e giovevole, tentar di ricostruire la condizione originaria? Occorre dare maggior peso alle esigenze di esattezza o a quelle di leggibilità del monumento?
In genere, prevale oggi il criterio che il restauro sia possibile purché riconoscibile. Per esempio, una statua mancante di qualche pezzo ma ricostruibile con sufficiente probabilità può essere di fatto ricostruita, purché le parti mancanti siano di una materia o di un colore lievemente diversi: così la vista d'insieme non sarà disturbata, e d'altronde resterà indubbia la distinzione tra quanto è originale e quanto è integrato. Tale orientamento del giudizio moderno lascia, evidentemente, un ristretto margine alla possibilità dell'errore; ma non pregiudica l'individuazione dell'errore stesso, e nel frattempo consente di realizzare la già ricordata esigenza di fruibilità dell'opera artistica.
Un aspetto a sé della moderna arte del restauro, il più tecnicamente evoluto e il più spettacolare, concerne le pitture. È chiaro che, quando ciò è possibile, conviene ‛fissarle' sul posto, e cioè assicurare mediante opportune sostanze la loro conservazione contro gli agenti atmosferici che possono deteriorarle. Poiché peraltro ciò non è in molti casi possibile, ha avuto ampio sviluppo recentemente il sistema dello ‛strappo', e cioè dell'asportazione di una sottile pellicola di colore e di intonaco dalla parete mediante applicazione su un rotolo di tela con speciali sostanze adesive; dal rotolo la pellicola viene poi nuovamente staccata e applicata su telaio nella sede di nuova destinazione, e cioè in museo.
Un altro problema particolare del restauro è quello del risollevamento (anastilosi) dei monumenti abbattuti, inteso a ripresentarli quali furono presumibilmente in passato. L'anastilosi, che in altri tempi sarebbe stata ricusata in base al concetto romantico delle ‛rovine', trova oggi larga applicazione ma con oscillazioni di criteri. Taluni si spingono a ricostruzioni che vogliono essere complete anche dove permangono lacune e dubbi, giungendo al punto di ‛rilavorare' le parti mancanti: il che, in base ai criteri generali del restauro, non sembra da accettarsi. Migliore, senza dubbio, è il criterio di rialzare le colonne e di ricostruire i monumenti nei limiti del possibile, procedendo a integrazioni solo là dove ciò sia indispensabile e in maniera tale, come già per le statue, che le integrazioni siano visibili chiaramente, pur senza disturbare la vista.
Nel moderno allargarsi e articolarsi critico delle componenti dell'archeologia, comincia intanto a farsi strada il concetto che un elemento integrante della conservazione è, al limite, anche la pubblicazione delle scoperte. Da ciò discende un riesame della situazione attuale in questo settore, che si rivela largamente deficitaria. Infatti, un bilancio agevole a farsi mostra che numerose missioni non hanno pubblicato affatto, o hanno pubblicato solo in parte, i loro ritrovamenti, e più in generale che gli scavi inediti superano quelli editi. Anche a ciò si collega il già citato argomento di alcuni, secondo cui sarebbe preferibile non scavare: essi intendono, evidentemente, che l'esigenza di rendere noti gli scavi già effettuati dovrebbe precedere quella di effettuarne dei nuovi; e inoltre che, invece di sottrarre per sempre dei materiali archeologici allo studio, converrebbe non porli in luce.
In ogni caso, sembra opportuno ricordare l'articolazione dei rapporti di scavo in preliminari e definitivi, insistendo sulla diversa impostazione di fondo: il rapporto preliminare deve fornire, campagna per campagna, il sommario delle scoperte in prospettiva storica; il rapporto definitivo deve fornire, per categorie monumentali, la presentazione delle scoperte in prospettiva sistematica. L'esperienza insegna che, senza rapporti preliminari, pressoché impossibili sono i rapporti definitivi; e dunque occorre accentuare la necessità dei primi, quale condizione indispensabile per i secondi. In qualche paese si va facendo strada, e non è affatto da sottovalutare, la proposta di limitare per legge il tempo destinato alla pubblicazione: ciò consentirebbe di restituire alla pubblica conoscenza e al libero studio quei reperti che non fossero editi in tempo adeguato, anche se la vicenda del loro ritrovamento, le circostanze e le condizioni di contesto andrebbero irrimediabilmente perduti.
8. Archeologia e società
Accanto all'ambiente naturale, v'è l'ambiente umano. E senza dubbio il crescente interesse generale per l'archeologia concorre a determinare le condizioni per una più chiara coscienza della natura dei beni archeologici, della loro funzione, del loro apporto a una società nella quale organicamente siano integrati e, per converso, della loro fruibilità da parte della società stessa. Nel che, del resto, si riflette la concezione ormai affermata, dell'archeologia come parte integrante della cultura, anziché come curiosità o svago.
È, in sostanza, un problema di integrazione. Ed è, dal punto di vista critico, un problema di analisi, che richiama gli archeologi alla metodologia generale della storia: lo studio dei monumenti antichi, non meno che quello dei documenti, deve passare attraverso l'accertamento ‛filologico' per giungere alla ricostruzione dell'ambiente sociale, del sistema di produzione e delle strutture che in esso operano, delle ideologie contestuali e condizionanti (Bianchi Bandinelli). Il giudizio di qualità, che la critica idealistica volle in qualche senso astratto o agnostico, viene oggi sempre più integrato da un giudizio che può essere definito di contesto, e dunque in ultima analisi storico nel senso pieno del termine.
L'integrazione dell'archeologia nella società al livello del giudizio critico trova riscontro nella maturata coscienza della fruizione dei beni archeologici come legittima esigenza da parte della società in cui essi s'inseriscono. Da ciò il dibattito crescente, nella teoria prima ancora che nella pratica, sui problemi dei musei, delle mostre, degli spettacoli, e cioè di tutte le forme attraverso cui l'archeologia (e con essa l'arte) si fa partecipe delle manifestazioni sociali e assolve una propria funzione educativa e ricreativa. Se i problemi ora enunciati non sono di per sé nuovi, nuova è peraltro la loro impostazione nel tempo presente, e soprattutto la generale coscienza che vi si riflette di una moderna archeologia.
In termini generali, il denominatore comune dei problemi dei musei, delle mostre e degli spettacoli può dirsi l'esposizione. Di essa si distinguono e si graduano varie forme: esposizione all'aperto o al chiuso; sul luogo della scoperta o in altro luogo; sistematica o settoriale. L'esposizione all'aperto, che avviene evidentemente sul luogo, concerne soprattutto i grandi complessi monumentali, come il Foro Romano e altri analoghi. Al riguardo si può registrare, come caratteristica del tempo presente, il progressivo affermarsi dei ‛parchi archeologici', e cioè di una sistemazione razionale dei resti antichi tra verde e giardini sotto adeguata custodia. La costituzione dei ‛parchi archeologici', che ha immediata incidenza sul rapporto tra archeologia e turismo, è naturalmente condizionata dall'importanza e dalla vastità delle zone, che generalmente coincidono con i maggiori centri dell'antichità (tra essi sono in evidenza Agrigento e Selinunte).
Il ‛parco archeologico' è sovente integrato dall'Antiquarium, altro aspetto peculiare della moderna esposizione del patrimonio monumentale: si tratta del piccolo museo locale, che riunisce e protegge sul luogo gli oggetti mobili di maggiore significato ivi scoperti. L'istituzione dell'Antiquarium risponde alla crescente coscienza del rapporto tra archeologia e ambiente: si tende il più possibile, quando non ostino ragioni di sicurezza, a consentire la presentazione dei reperti archeologici nella sede stessa in cui sono affiorati, evitando l'artificiosa opposizione tra tale sede e lontani musei. Nello stesso senso convergono anche le esigenze locali e regionali, legittimamente contrarie a quella sorta di ‛ammasso' dei beni archeologici che, pur senza alcuna intenzionalità, costituiscono i grandi musei centrali.
Ma questi, evidentemente, hanno altri vantaggi. E così si assiste di volta in volta al dibattito se incrementare le grandi collezioni esistenti ovvero favorire il sorgere di collezioni minori e decentrate. Le grandi collezioni, si osserva da un lato, posseggono attrezzature adeguate per la catalogazione, l'esposizione e lo studio, agevolando quest'ultimo attraverso la concentrazione e la giustapposizione dei reperti; le piccole collezioni, dall'altro lato, sono più definite e caratterizzate, articolandosi nel senso di quei centri di produzione che come tali, nella loro fisionomia distinta e autonoma, costituiscono un oggetto primario nelle ricerche dell'archeologia modernamente intesa.
Un discorso a sé meritano i musei speciali, cioè quelli limitati a reperti di provenienze omogenee o di classi particolari: così ad esempio, un museo egizio è circoscritto per la provenienza del materiale, un ‛medagliere' o museo numismatico è definito per la classe. Pure speciali ma per motivi diversi, e cioè non la provenienza o la classe bensì il fine dell'esposizione, debbono considerarsi i musei didattici, destinati in particolare all'insegnamento e presenti per conseguenza soprattutto nelle università. Tali musei, che si caratterizzano per i calchi e cioè le copie a fini di studio, sono specialmente in sviluppo nei paesi in cui scarseggiano i resti archeologici, o comunque non ve ne sono del genere che si vuole insegnare: valgano da esempio i musei di antichità classiche e orientali in America.
Accanto al museo, la mostra costituisce un altro e concomitante aspetto dell'esposizione dei beni archeologici, al fine della loro fruizione da parte della società; e in questo caso si aggiunge la significativa componente della possibile mobilità, per cui la fruizione non si limita alla società in cui i beni s'inseriscono, bensì si estende a tutte quelle che vi sono interessate. In tal senso, lo sviluppo che si registra negli ultimi anni delle mostre in genere, e di quelle itineranti in particolare, appare significativo nel quadro di una maturata coscienza archeologica. Le mostre vengono organizzate sovente su scala internazionale mediante accordi tra vari paesi per il successivo trasferimento nei paesi stessi: successi come la mostra dei tesori di Tutankhamon a Parigi, effettuata in base a un accordo tra l'Egitto e la Francia, o quella dell'arte etrusca a Vienna e Stoccolma, promossa dall'Italia d'intesa con l'Austria e la Svezia, documentano lo sviluppo ora indicato e il significato culturale che gli è proprio.
L'utilizzazione dei luoghi archeologici per spettacoli all'aperto è un altro aspetto dell'esposizione: parzialmente diverso, peraltro, in quanto l'archeologia appare qui in funzione ambientale e contestuale piuttosto che esclusiva o primaria. La rappresentazione delle opere di autori classici nei teatri antichi è la manifestazione più tipica di tali spettacoli. Vero è, peraltro, che ambienti antichi vengono usati anche per manifestazioni moderne adatte o adattate alla loro natura: così, anfiteatri e stadi per manifestazioni liriche e sportive. Al limite, l'utilizzazione può diventare discutibile: così nel caso di riunioni politiche completamente estranee agli interessi della cultura; ovvero nel caso di spettacoli del tipo ‛suoni e luci', in cui la voluta evocazione delle civiltà del passato non va esente da degenerazioni divulgative e da alterazioni dello stesso ambiente monumentale.
Il discorso sugli spettacoli conduce a un altro aspetto primario della situazione dell'archeologia nella società contemporanea, e cioè al suo rapporto con il turismo. V'è appena bisogno di rilevare che il patrimonio archeologico da un lato ha un valore economico rilevante, dall'altro lato concorre come oggetto di fruibilità all'economia del paese in cui si trova, convogliandovi l'afflusso di visitatori nel quadro di un turismo che il tempo presente ha trasformato da fenomeno di élite in fenomeno di massa. Occorre perciò soffermarsi sulla funzione che ai fini turistici rivestono gli scavi e le scoperte di oggetti antichi, di città, di templi, di ville, in una parola delle testimonianze di un passato che può essere ignoto ovvero già vivo e presente nelle fonti letterarie, ma che in ogni caso è ‛inedito' nella sua realtà archeologica agli occhi del visitatore.
Il profitto economico determinato dal turismo è, per quanto concerne l'archeologia, di duplice natura: anzitutto diretta, attraverso le tasse d'ingresso ai monumenti e ai musei e i diritti per le riproduzioni fotografiche; inoltre e ben più largamente indiretta, attraverso l'utilizzazione degli alberghi, dei ristoranti, dei mezzi pubblici e privati di trasporto, dei negozi, ecc. Ciò malgrado, si può dire che l'economia archeologica sia soltanto ai suoi inizi. I vari paesi stanno ancora prendendo coscienza della necessità di iscrivere nei bilanci somme adeguate per la tutela e l'incremento del patrimonio archeologico, quale corrispettivo della sua valorizzazione ai fini del turismo. Non v'è dubbio che occorre far presto: i mezzi di comunicazione rapidi che caratterizzano il tempo presente possono spostare agevolmente le correnti turistiche secondo la recepibilità delle esigenze che in esse si esprimono.
In sostanza, l'archeologia indica oggi tra i compiti più urgenti di ogni paese civile l'apertura al pubblico dei maggiori complessi monumentali, la loro sistemazione con zone di verde e ampie fasce di rispetto, la manutenzione adeguata e la sorveglianza assidua, l'installazione di cartelli esplicativi in più lingue, l'approntamento di guide che rispondano ai fini della chiarezza e dell'aggiornamento. Le esigenze turistiche, come si vede, convergono con quelle della tutela monumentale.
Così, sotto varie angolazioni, si definisce e si trasforma l'archeologia del Novecento. Superata ormai la fase della curiosità erudita, essa tende a inserirsi appieno nella società in cui vive, della quale interpreta e riflette talune esigenze primarie: l'acquisizione di una conoscenza storica fondata sui monumenti oltreché sui documenti, quale termine di confronto e quindi di sapere per il nostro tempo; la globalità di tale sapere, dilatato a ogni continente e a ogni epoca; la razionalità delle conoscenze, sulla base di una programmazione sempre più organica; l'incontro tra umanesimo e scienza, con l'utilizzazione delle tecniche più progredite ai fini della ricostruzione della storia dell'uomo; la salvaguardia dell'ambiente, in cui le testimonianze del passato s'inquadrano come una componente primaria; la valorizzazione dell'ambiente stesso, attraverso la fruizione dei beni archeologici offerti a una società che ormai li ritiene parte integrante e insostituibile della sua cultura, e quindi della sua stessa esistenza.
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