ARCHEOLOGIA
(IV, p. 26; App. II, I, p. 228; III, I, p. 120)
A. è parola greca (ἀϱχαιολογία), introdotta nella letteratura storica da Tucidide, ripresa da Platone, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, per indicare la ricostruzione storica di un periodo remoto con cui non sono evidenti connessioni dirette e del quale manca continuità di testimonianze, ma che è inteso come necessaria premessa di avvenimenti più recenti e più dettagliatamente illustrati.
La parola non ha fortuna quando inizia, con l'umanesimo italiano, il recupero del passato greco e romano, indicato come ''antichità'' per antonomasia; ricompare nell'Ottocento riferita a una disciplina il cui compito consiste nell'analizzare e interpretare quelle ''antichità'' che da oggetto di ammirazione o da modelli da imitare divengono supporto di elaborazioni storiche. Il termine è ancora riferito a un passato che si limita alle civiltà del Mediterraneo, la greca e la romana soprattutto, le civiltà classiche per eccellenza, sulla scia della profonda suggestione di una tradizione letteraria che del recupero dei documenti della cultura materiale riconducibili a quelle civiltà è la guida fondamentale.
Si è tuttavia ancora lontani dall'estendere queste testimonianze a tutto l'insieme dei prodotti dell'attività dell'uomo, concretatasi in materiali diversamente impiegati per soddisfare esigenze pratiche o espressive, per comunicare attraverso immagini plastiche o dipinte, per modellare lo spazio a disposizione dell'uomo con le strutture di un edificio, dalle più semplici alle più complesse. Gli oggetti dell'arte figurativa e del costruire, come quelli a cui la tradizione letteraria fa più sovente riferimento e che appaiono quindi componenti prioritarie di un'immagine dell'antichità fondata sui testi superstiti, assumono di conseguenza il ruolo principale nel recupero, che viene così identificato con la storia dell'arte antica.
Poiché quest'ultima richiede un complesso di ricerche e di elaborazioni − a cominciare dalla disponibilità degli oggetti della ricostruzione storica, nonché di tutti i dati che permettono d'inquadrarli e di classificarli − il termine a. copre la sequenza di operazioni e di elaborazioni conseguenti che risultano necessarie per giungere alla lettura, alla valutazione e all'inquadramento dei documenti d'arte antica.
Archaeologie der Kunst o "Archeologia e storia dell'arte" sono le accezioni più diffuse di una disciplina che per l'arte greca è soprattutto impegnata nella problematica delle ''identificazioni'', cioè del riconoscimento degli originali dei maestri dell'arte greca, soprattutto di età classica, nelle copie prodotte a partire dalla fine del 2° sec. a.C., per la domanda del mercato romano, copie che costituiscono la maggior parte dei rinvenimenti di opere d'arte mobili, specialmente su suolo italiano e delle province dell'impero romano. L'a. romana s'impegna invece nella risposta all'impostazione classicistica, esemplificata soprattutto dalla storiografia di età augustea, che si può condensare nella famosa espressione Graecia capta ferum victorem cepit. Questa risposta si fonda sullo sforzo d'individuare l'''originalità'' dell'arte romana, l'indipendenza della civiltà di Roma da quella della Grecia per dimostrarne un'autonoma creatività. È stato questo uno degli aspetti più elusivi e devianti della storiografia del primo quarantennio del 20° sec., sia nell'ambito specifico della ricerca archeologica che in quello delle scienze storiche più in generale.
La prima reazione a queste accezioni limitative di a. nasce con l'estensione dei confini geografici e cronologici dell'oggetto di studio. Le scoperte delle antiche civiltà orientali, l'Egitto e la Mesopotamia in primo luogo, poi l'Iran, l'India, la Cina, da un lato, la ricostruzione fondata su dati sempre più numerosi ed evidenti delle culture delle più remote presenze dell'uomo sulla terra, dall'altro, nell'ambito di quelle che chiamiamo scienze preistoriche, hanno esaltato il momento della ricerca che s'identifica con il recupero dei dati del terreno. La scoperta, preziosa spesso per il materiale, per la sua remota antichità o per la pertinenza a una cultura manifestatasi in aree, fino agli ultimi anni, difficili da raggiungere, ha concorso, in maniera decisiva, a esaltare artificiosamente gli aspetti avventurosi della ricerca, immaginata come impresa di esplorazione in zone remote e inconsuete. Nasce così l'''avventura'' dell'a. che ha avuto e ha tutt'ora tanto credito nei mezzi d'informazione e presso una concezione popolare della disciplina, ritardandone la corretta interpretazione come scienza che ha il compito di recuperare presenze umane nel passato, in luoghi e tempi determinati, attraverso la più completa interpretazione di manufatti e di tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente. Gli uni e le altre sono acquisibili dal terreno: il riconoscimento che l'indagine su di esso e l'apertura degli accumuli formatisi dagli ''scarti'' lasciati da passate presenze umane, più o meno remote, costituiscono tappe decisive di una ricerca che a pieno titolo oggi pretende di raggiungere l'acribia, la sistematicità e la garanzia di verifiche proprie della metodologia scientifica, hanno condotto ad approfondire le tecniche di ricognizione e di scavo per un sempre più accurato recupero dei dati. Nello stesso tempo si sono sviluppate riflessioni e scelte di accezioni nella definizione, negli obiettivi e nei metodi dell'archeologia.
Nuovi orientamenti dell'archeologia. − Specialmente nel mondo anglosassone questi sforzi hanno condotto a elaborazioni stimolate soprattutto dall'inaccettata limitazione della tradizionale ricerca archeologica dell'Ottocento e della prima metà del 20° sec., fondata sul recupero letterario del mondo greco e romano o sulle ''scoperte'' delle civiltà orientali condizionate alla decifrazione dei documenti scritti. In questa ''rivolta'' l'apporto dell'antropologia culturale è stato fondamentale, essendosi spostato il fuoco della ricerca dal manufatto al comportamento dell'uomo. Nasce quella che si definì la New Archaeo logy. Essa ha costituito, nell'ultimo quarto di secolo, non soltanto un importante capitolo storiografico della disciplina − anche se ai margini della cultura italiana fondata sulla tradizione classica − ma altresì un momento culturale che, pur se oggi rifiutato e superato, rappresenta sempre un'importante componente del sedime di fondazione dell'attuale scienza archeologica.
Dall'a. come antropologia è scaturito il filone della etnoarcheo logia, fondata sul contributo all'interpretazione di culture del passato offerto dall'analisi di situazioni primitive in aree remote rispetto allo sviluppo della civiltà moderna. Essa fa parte della concezione intesa ad agevolare l'interpretazione ricostruttiva attraverso l'apporto di modelli efficaci a integrare le lacune di documenti diretti. Abbiamo così l'a. dell'insediamento (Siedlungsarchaeologie), che si fonda sulla morfologia dell'apporto di una società umana al territorio e l'a. spaziale, che privilegia le indicazioni offerte dalla distribuzione dei documenti di una cultura, quella che chiamiamo appunto organizzazione spaziale della cultura. È importante ricordare l'a. sperimentale, che mira ad approfondire la conoscenza del passato ripetendo materialmente situazioni e manufatti delle culture indagate per trarne le osservazioni necessarie a completare il quadro delle interpretazioni.
Possiamo aggiungere a questi modelli, matematici e culturali, che ci si è sforzati di adottare per la ricostruzione di contesti storici, i modelli legati a un'ideologia soprattutto politica, modelli che, se hanno avuto il merito di scuotere interpretazioni puramente evoluzionistiche o meccanicamente classificatorie, hanno condotto sovente a ricostruzioni artificiose che strumentalizzano i dati alterandone l'obiettiva e scientifica interpretazione.
Crediamo si possa affermare che il fatto che ha più inciso sulla definizione e sull'impostazione metodologica della ricerca archeologica − conducendo anche al completo superamento della tensione culturale manifestatasi con la New Archaeology generalmente intesa − sia stato l'impatto delle scienze fisiche, matematiche e naturali. Il termine ''impatto'' è stato formalmente impiegato già alla fine degli anni Sessanta e appare efficace per indicare un apporto essenziale nel processo d'individuazione e d'interpretazione di manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, compito, questo, fondamentale della ricerca archeologica.
Anche se etimologicamente i primi contatti delle scienze con l'a. sono di data più antica, possiamo stabilirne il momento iniziale nel 1950, anno delle prime datazioni fondate sulle determinazioni del Carbonio 14 (W.F. Libby).
Da allora il contributo delle discipline fisiche, matematiche, naturali è stato sempre più consistente fino a divenire determinante in un'indispensabile integrazione richiesta da quella sistematica ed esaustiva interpretazione da cui scaturisce la completa ricostruzione storica di presenze umane in luoghi e tempi determinati.
Questi contatti hanno stimolato l'attenzione degli specialisti ''scientifici'' per le applicazioni delle loro metodologie a tematiche archeologiche: queste non sono soltanto proprie delle civiltà orientali, greca e romana, ma si riferiscono a quasi tutte le testimonianze finora recuperate dell'uomo sulla terra. L'entusiasmo è andato crescendo e ha portato, nell'ultimo decennio, a risultati di grande rilevanza anche se ancora solo parzialmente sfruttati per quella ricostruzione integrale di cui abbiamo detto.
L'affermazione della centralità della domanda storica che vede sollecitare l'apporto delle scienze è essenziale. Ciò non significa un'insostenibile supremazia disciplinare (l'espressione, usata anni or sono, di ''scienze sussidiarie'' dell'a. è assolutamente inaccettabile), ma semplicemente impostare correttamente la ricerca. Il tema di essa va svolto attraverso più canali specifici, ciascuno dei quali esige, per essere percorso, indagini di base e applicate. Queste si rinnovano quando la soddisfazione della prima richiesta genera necessariamente un nuovo più ampio numero di domande storiche: le nuove risposte non possono ancora una volta giungere che utilizzando tutte le vie che il presente stadio culturale e tecnologico della civiltà umana consente.
Si stabilisce in questo modo una dialettica intensa di rapporti che, senza instaurare alcuna gerarchia disciplinare, finalizzano ogni ricerca alla soddisfazione del fondamentale bisogno dell'uomo di conoscere il passato per acquisire certezze per il suo futuro. Questa impostazione comporta la piena attuazione di una vera integrazione disciplinare in cui l'intrecciarsi degli apporti consente di giungere a una ricostruzione storica che permette di avvicinare gli uomini nel tempo, come le tecnologie moderne li avvicinano più facilmente e rapidamente nello spazio. È questa una delle strade attraverso cui si salda la dicotomia tra scienze fisiche e scienze storiche in un'unitaria finalizzazione indirizzata a soddisfare i fondamentali bisogni dell'uomo, dopo quelli elementari di sussistenza, e non condizionata dalla sola logica del profitto e della conseguente alienazione tecnologica. Gli apporti delle scienze intesi in chiave d'integrazione disciplinare permettono di scoprire un passato che si libera di canoniche attribuzioni per offrire una serie sempre più cospicua di esperienze innovative in cui scopriamo le radici del nostro modo di essere e di comportarci.
L'apporto delle scienze fisiche, matematiche e naturali si è articolato in ambiti di aree disciplinari, definiti nel mondo anglosassone, per bisogno di chiarezza epistemologica, con termini del tutto accettabili. Essi non indicano discipline nel senso proprio del termine, ma zone d'incontro tra le metodologie delle scienze e la domanda storica: in sostanza, sistemi d'interfaccia e non soltanto particolare ricerca di una delle scienze su problematiche connesse con il patrimonio culturale. Questa precisazione appare essenziale per assicurare il momento dell'integrazione da cui soltanto può scaturire il progresso nell'indagine storica che, come obiettivo specifico della scienza archeologica, è in questo caso prevalente. Possiamo così parlare di archeometria per l'area d'integrazione delle scienze fisiche e matematiche (fisica, chimica, geometria e topografia soprattutto); di geoarcheologia per l'area d'integrazione delle scienze della terra, dalla mineralogia alla geotecnica, dalla geomorfologia alla pedologia, dall'idrologia alla sismologia, con particolare riguardo all'ampio campo della geofisica e dei metodi di prospezione a essa attinenti; e infine di bioarcheologia per l'area d'integrazione con la domanda storica degli apporti delle discipline biologiche a cui è demandato il compito di esplorare e utilizzare l'immenso archivio di dati che l'uomo stesso, e tutto l'ambiente vegetale e animale che lo circonda, hanno lasciato.
Se archeometria, geoarcheologia, bioarcheologia sono aree d'incontro e non discipline, coloro che vi si dedicano sono impegnati soprattutto ad attuare l'integrazione ancora prima di recare un contributo specifico da una determinata area di ricerca. Il compito fondamentale delle aree d'incontro è quello d'istituzionalizzare l'interazione dialettica tra domanda storica e risposta scientifica in un ambito di discipline in cui più facilmente si può sviluppare anche una nuova ricerca di base come conseguenza dell'interazione stessa. L'apporto delle scienze nella suesposta articolazione investe parimenti tutti i momenti della ricerca archeologica, dall'individuazione e interpretazione dei manufatti e delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente, alla loro conservazione come oggetti del patrimonio culturale per assicurare l'autentificazione della ricostruzione proposta, e infine alla loro valorizzazione, cioè alla loro messa a disposizione del pubblico, in modo che manufatti e tracce non siano soltanto oggetto di ammirazione o appaiano interessanti per l'emozione che suscitano, ma si trasformino in elementi di un insieme di coerenti risposte che soddisfa le esigenze culturali della società contemporanea.
Pur se intendiamo correttamente il processo d'integrazione disciplinare e i tre momenti dell'individuazione, della conservazione e della valorizzazione di ciò che è oggetto della scienza archeologica, la definizione che abbiamo dato di quest'ultima rende assai importante il chiarire la via attraverso cui ci assicuriamo manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente.
Nell'opinione comune, l'a. si fonda sulla scoperta fortunata, ma casuale, che può entusiasmare per la sua qualità, ma che non può garantire, appunto perché fortuita, la scientifica ricostruzione integrale del contesto cui si riferisce. L'espressione puntuale di un linguaggio, anche altissimo, non surroga il manifestarsi di tutti quei fenomeni che non abbiamo scoperto. Così la nostra ricostruzione deve troppo interpolare, anche quando dispone di una tradizione letteraria che, non dobbiamo dimenticarlo, è espressione di un singolo, appartenente a una categoria economica e culturale ben definita, di cui esprime il punto di vista, mentre il nostro fine è quello di recuperare nel modo più completo possibile il quadro generale di una società umana. La terra è, invece, conservatrice imparziale. Essa va quindi indagata con l'apporto delle scienze affinché possa restituire, in maniera sistematica, tutti i dati che contiene, accumulatisi come ''scarti'' di passate presenze umane. Lo sforzo più importante dell'attuale scienza archeologica è quello di passare dalla casualità della scoperta − quindi del dato oggetto d'indagine, d'interpretazione e di ricostruzione − a una sistematicità di recupero e di acquisizione che conferisca all'indagine tutti i caratteri di una ricerca scientifica. Da sempre lo studio di un territorio insediato è stato compito primario dell'archeologia. Le metodologie indirizzate a questo scopo si sono susseguite per cercare di facilitare la ricognizione e l'accertamento. Le conclusioni più oggettive sono state ottenute applicando, soprattutto, procedure statistiche, fondate naturalmente su quanto − manufatti generalmente − poteva essere raccolto in superficie.
Un notevole salto qualitativo è stato ottenuto, fin dall'inizio del 20° sec., con l'interpretazione di fotografie riprese dall'alto, da un pallone o da un aereo. L'esame delle modificazioni di vegetazione o di altri traccianti in superficie consente d'individuare presenza e configurazione di strutture sepolte. La fotografia aerea, che nel frattempo si è andata largamente diffondendo per ricognizioni e rilevamenti topografici a uso militare e civile, è divenuta dagli anni Trenta un formidabile supporto della ricerca sul terreno. L'interpretazione si è raffinata con attenzione sempre più acuta ai traccianti in superficie rivelatori di ''anomalie'' di origine antropica nel terreno. Ai successi internazionali nel campo (limes siriaco e africano, insediamenti nella Francia settentrionale e in Inghilterra, voli su Persepolis, per non citare che pochissimi significativi esempi), si affiancano importanti risultati in Italia che fanno capo soprattutto ai lavori di G. Schmiedt e D. Adamesteanu.
Ma l'interpretazione di foto aeree di fronte al sempre più severo impatto sul territorio non solo di ampi insediamenti e pesanti infrastrutture, ma anche di incisive tecnologie di coltivazione, ha purtroppo oggi perduto l'aiuto di molti di quei traccianti su cui si fondava, riuscendo assai meno stimolante di venti o trent'anni fa. Fortunatamente lo sviluppo di riprese che utilizzano più canali dello spettro delle onde elettromagnetiche ha aperto nuove e più sicure possibilità d'interpretazione, anche perché disponiamo di una più larga gamma di piattaforme di ripresa che possono soddisfare diverse esigenze specifiche. È nato quel settore di ricerca che si chiama, con termine inglese, remote sensing e in italiano ''telerilevamento'', per indagare sistematicamente le risorse del pianeta a disposizione dell'uomo. Ne è stato suggerito, e in qualche caso sperimentato, l'impiego per le risorse culturali, ma una vera ricerca approfondita, da alcuni lustri, è stata compiuta in Italia come ''approccio sistematico al territorio'' e oggi comincia a dare significativi risultati. Questi consentono di ottenere, da un'area storicamente e fisicamente definita, tutte le informazioni possibili su preesistenze fisiche e antropiche che portano all'individuazione integrale di manufatti e tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente. La metodologia, che si appresta a divenire familiare per l'avvio scientifico di una ricerca archeologica sul terreno, si avvale in primo luogo di immagini riprese da una piattaforma orbitale. Tra i numerosi satelliti che ruotano attorno alla Terra sono soprattutto utili allo studio di preesistenze antropiche, accanto alle risorse naturali, quelli della serie Landsat (statunitense) e della serie Spot (francese). Le immagini riprese su diverse lunghezze d'onda − quindi finalizzate a esaltare diverse caratteristiche dell'energia riflessa ed emessa dalla superficie terrestre − sono trattate in mappe tematiche che, frutto di una prima elaborazione, consentono le preliminari interpretazioni di sintesi su scale di restituzione tra 1:250.000 e 1:75.000. Questa interpretazione si fonda sulla lettura diretta da riproduzioni fotografiche delle immagini o su ulteriori trattamenti al calcolatore, usando i nastri delle stesse immagini. All'interpretazione, nel caso di immagini Spot, si può aggiungere la restituzione fotogrammetrica. La risoluzione delle immagini Landsat è, al suolo, di m 30 × 30, mentre quella delle immagini Spot di m 10 × 10. Risoluzioni più spinte (m 5 × 5) si hanno con la Soyuz Kart sovietica, commercializzata di recente solo per alcune regioni del pianeta, mentre le immagini Landsat e Spot si possono ottenere per tutta la Terra. Il risultato dell'interpretazione delle immagini orbitali, riportato su una cartografia esistente, consente di acquisire le immagini da aereo in opportune strisciate, per le zone indiziate. Poiché è molto importante approfondire informazioni, immagini multitemporali sono di grande rilevanza. Si possono recuperare ottime levate che risalgono agli anni Trenta, cosicché certi fenomeni possono essere osservati nell'arco di mezzo secolo, utilizzando, per gli anni più recenti, quando gli interventi dell'uomo si sono fatti più massicci e incisivi sul territorio, riprese multispettrali, specialmente nell'area dell'infrarosso, che, sensibili in parte all'energia emessa, consentono informazioni anche dove i tradizionali traccianti dell'interpretazione del visibile non sono più utilizzabili.
Nella raccolta e nell'esame delle fotografie aeree occorre coprire un'ampia sequenza di scale, da 1:30.000 ca. ad almeno 1:5000. Se le lacune sono troppe è necessario predisporre appositi piani di volo. Il frutto delle interpretazioni, restituito fotogrammetricamente, viene inserito su una cartografia nella scala adeguata, da 1:10.000 a 1:500, a seconda della consistenza e della densità delle informazioni. A questo punto un primo controllo verità-terreno consente di verificare le informazioni attraverso indicatori di superficie che possono essere manufatti identificabili e classificabili, o traccianti espressi da morfologie derivate dallo stesso uso del territorio che non trovano altra spiegazione se non con più consistenti preesistenze. In questo riscontro è facile individuare le informazioni attribuibili a manufatti o a interventi attuali, interessanti per un quadro di controllo del territorio, ma non nella ricerca di preesistenze antropiche.
La cartografia tematica, che a questo punto del procedimento è stata costruita, costituisce la base per un più approfondito controllo attuato con la procedura più innovativa del metodo − cioè attraverso riprese termiche da bassa quota tra m 300 e m 50, sulle aree indiziate, in modo da ottenere risoluzioni fino a pochi centimetri. Si tratta di un tipo d'indagine che finora è, come analisi di un territorio, esclusivo della metodologia archeologica, impiegando apparecchiature ideate per controlli nell'ambito industriale, medico e della fisica tecnica.
Le risposte offrono un pressoché puntuale esame del terreno quando questo è interessato non solo dalla presenza di strutture architettoniche, ma anche dai resti di semplici paleosuoli antropizzati, come piani di calpestio di antichi abitati o di aree comunque occupate.
Le immagini sono riprese da aereo ultraleggero o da pallone cavoguidato; il loro trattamento ed elaborazione consentono, per l'interfaccia con le immagini fotogrammetriche scattate dalla stessa piattaforma, di ottenere una cartografia tematica a grande scala delle informazioni raccolte; questa costituisce un progressivo ingrandimento di quanto si è raccolto di informazioni dalle immagini orbitali e da quelle aeree.
Il prodotto finale della cartografia tematica così ottenuta dev'essere sottoposto a una serie di controlli verità-terreno, in primo luogo per ottenere una maggiore discriminazione delle informazioni visive e in secondo luogo per tradurre le informazioni stesse in dati più precisamente attinenti a preesistenze antropiche.
Il primo controllo verità-terreno avviene attraverso le prospezioni geofisiche applicate agli strati più superficiali del suolo. Le diverse metodologie (magnetiche, elettriche, microsismiche, gravimetriche, radar) danno i più significativi risultati in tempi ragionevoli, se incrociate sulla stessa area indiziata: in tal modo le risposte vengono vagliate attraverso i diversi sistemi d'indagine fondati su diverse caratteristiche fisiche. Una maglia di precisi vertici topografici (oggi ottenuti rapidamente con i posizionatori satellitari GPS) permette l'immediata interfaccia con i risultati delle interpretazioni di immagini e quindi il prodotto delle informazioni raccolte sullo stesso punto attraverso le diverse metodologie geofisiche. In tal modo la cartografia tematica, iniziata con le interpretazioni, si arricchisce e s'infittisce di dati che forniscono un quadro sempre più preciso e consistente delle preesistenze antropiche dell'area interessata.
Manca ancora, se non per indizi esteriori, ogni precisazione di cronologia relativa nonché di cronologia assoluta, poiché non è stato ancora affrontato l'aspetto fondamentale della ricerca archeologica sul terreno: l'esplorazione stratigrafica. A soccorrerci in questa direzione intervengono le prospezioni meccaniche, cioè sondaggi con prelievo di campioni indisturbati, di diametro da 10 a 22 cm, effettuati nei punti ritenuti più significativi dalle informazioni della cartografia. Questi sondaggi, chiamati comunemente carotaggi per la forma del materiale che se ne ricava, costituiscono una puntuale verifica di tutto il procedimento di approccio e il finale arricchimento di dati. Essi infatti consentono di accertare non solo natura e consistenza delle preesistenze che determinano le informazioni termiche o geofisiche, ma anche le caratteristiche strutturali dell'insediamento e, attraverso piccoli manufatti, permettono di recuperare preziose indicazioni di carattere attributivo e cronologico. Si aggiunga, inoltre, che, trattandosi di campioni indisturbati, sono possibili prelievi per analisi polliniche, botaniche, zoologiche e talvolta addirittura antropologiche, oltre che di campioni per determinazioni cronologiche, specialmente con il C 14.
A questo punto il processo di conoscenza è maturo per affrontare lo scavo come apertura di un contesto di sequenze relative a presenze umane, nel sito che promette risultati più significativi. Nello stesso tempo si offre la possibilità di estendere i risultati ottenuti dallo scavo al territorio circostante il sito esplorato, una volta che siano state conosciute tutte le caratteristiche del suo contesto. In questo modo l'acquisizione di manufatti e di tracce delle trasformazioni apportate dall'uomo all'ambiente avviene in maniera sistematica, nel senso che viene raccolto tutto quanto ci è pervenuto nel territorio indagato. Ciò consente quella completa ricostruzione storica che abbiamo posto a obiettivo della scienza archeologica. D'altro canto solo partendo da questo approccio lo studio dei materiali già noti con la loro provenienza, classificati nell'attribuzione e nella cronologia, può assumere funzione determinante nella ricostruzione dell'organizzazione spaziale della cultura che altrimenti rimarrebbe soltanto un modello matematico mai traducibile in un prodotto storico.
Archeologia greca e romana
Nell'ambito dell'a. lo studio della cultura greca e romana costituisce il settore più consueto alla civiltà occidentale, quello da cui può dirsi sia nata la disciplina con la riscoperta del passato principalmente su base letteraria, secondo un'impostazione che ha privilegiato per molto tempo, anche nel campo delle civiltà orientali, i documenti sui dati del terreno. Appare in crisi la definizione ''greca e romana'' come endiade imprescindibile o come somma di due distinti momenti culturali (quando distinti) nei quali ricercare per ciascuno i tratti distintivi e originali; come se le manifestazioni culturali debbano soprattutto riconoscersi per lo sforzo di differenziarsi da ciò che le ha precedute o, ancora peggio, preoccuparsi di distinguersi da ciò che le seguirà. Tutti gli studi, anche brillanti, che si sono succeduti nella prima metà del 20° sec. per dimostrare l'originalità dell'arte romana, presentano complessivamente un panorama scientificamente deludente anche quando intessuto di geniali letture puntuali. L'approfondimento delle ricerche sul terreno, superando il vincolo condizionante della tradizione letteraria, ha portato ad acquisire punti fermi che infrangono la presunta unità culturale del mondo antico (altro pernicioso luogo comune). Eredità di lingue, di tradizioni culturali, religiose e figurative non significano unità di diversi quadri di civiltà, che solo l'artificiosa costruzione classicistica può sostenere, per ritrovarvi rispecchiato lo sviluppo antropomorfo in cui crede, articolato in origini, maturità, senescenza. Disponiamo oggi di fili conduttori assai più pregnanti e significativi che consentono di articolare il lungo periodo, che va dall'età geometrica greca alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, in tappe, ciascuna delle quali offre evidenze ed emergenze che hanno profondamente inciso nelle vicende culturali successive fino alle nostre. Non è qui il caso di riscrivere secondo una visione ''moderna'' la storia dell'arte greca fondandoci su analisi che di solito rimangono ai margini delle ricostruzioni storico-artistiche, per renderci conto di come il problema esiga una profonda revisione e apra numerosi spazi alla ricerca: mi riferisco alla concezione dello spazio come quella categoria in cui si realizza ogni gesto dell'uomo e in cui si colloca ogni prodotto della sua attività, da un lato e, dall'altro, ai rapporti tra la scienza antica e il mondo figurativo e architettonico.
Questi rapporti sono tanto più significativi in una cultura che non conosce la dicotomia attuale tra scienze umane e scienze fisiche, matematiche e naturali. Se seguiamo questi due filoni ci accorgiamo che la tradizionale periodizzazione in età arcaica, classica, ellenistica o repubblicana, imperiale e tardo antica non è sufficiente a comprendere fenomeni che rappresentano emergenze culturali diversamente localizzate e certamente molto più ricche di conseguenze della continuità conservatrice di un lessico di fondo. Basta ricordare quale momento cruciale sia stato, nella civiltà greca, il terzo quarto del 6° sec. a.C. con l'applicazione delle curvature delle orizzontali sul solido che è l'edificio templare greco e con l'invenzione dello scorcio (obliquae imagines di Plinio) ricondotta a Kimone di Kleonai. Ciò rivela un'idea di solido assoluto generato attraverso i singoli elementi che costituiscono le forme architettoniche da un lato, e l'interesse dall'altro, per suggerire la solidità di una figura o il raccordo di superfici che rimarrà per sempre un caposaldo del modo di vedere dell'uomo. Ci sembra cruciale l'apporto delle scienze nel corso del 3° sec. a.C., con Euclide e Archimede, alle cui scoperte geometriche si deve la costruzione prospettica che produce la piena oggettività spaziale dell'illusionismo (il caso più famoso è quello del fregio piccolo di Telefo sull'altare di Pergamo). Ma la piena oggettivazione dello spazio appare come la ''morte dell'arte'', secondo l'espressione pliniana, perché in questo modo la rappresentazione figurata diventa un'alternativa della realtà, cancellando la funzione che da sempre era stata propria dell'arte greca, di essere mimesi della realtà stessa.
Ma un altro aspetto appare importante da rivedere nella concezione generale di a. e storia dell'arte greca e romana: il recupero dell'arte greca e, in particolare, della scultura, fondato sulle identificazioni dei tipi degli originali, citati dalle fonti, nelle copie romane. Queste ultime non volevano essere soltanto riproduzioni più o meno fedeli, ma soprattutto documento di un riuso della scultura ''classica'' quale arredo e integrazione delle architetture residenziali o pubbliche romane. Lo sforzo dell'identificazione ci ha dato una sfocata immagine dello sviluppo dell'arte greca, ma nel contempo ha pesantemente limitato la comprensione di momenti della cultura romana, spesso alterando, nel risultato, l'intendimento dell'architettura nella quale l'astratta interpretazione spaziale appare svuotata di un arredo, non soltanto costituito dai marmi dei rivestimenti, ma soprattutto fondato sull'impiego in chiave dimensionale, cromatica, tematica, del repertorio della scultura greca selezionato spesso indipendentemente dai tradizionali canoni classicistici che sono rigidi solo per alcuni periodi. Per quanto sopra esposto ci sembra che l'a. greca e romana non sia ancora uscita dalla crisi d'identità stimolata dalla nuova accezione generale di archeologia. Una via di soluzione potrà aprirsi riflettendo, negli altri ambiti artistici, i dati obiettivi che si possono recuperare dalla produzione architettonica. L'architettura, come quella manifestazione che richiede, per attuare un'invenzione, concorso di mezzi, di tecnologie e di apporti energetici, non può dare risposte mistificanti se ci si sforza di approfondirne tutti gli aspetti interpretativi. Ad essa si riconducono tutti i progressi tecnologici e culturali di una società, le sue possibilità finanziarie, la sua organizzazione sociale, le prerogative della committenza e la genialità dell'architetto. Solo partendo da indagini di questo tipo si potrà ritornare, anche nell'ambito della scultura e della pittura, a una lettura che permetta l'integrale interpretazione di manufatti, ordinari ed eccezionali, per una completa ricostruzione storica che è il punto fondamentale dell'a. come scienza.
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Archeologia italica
Il progresso delle ricerche archeologiche e le scoperte di nuovi documenti epigrafici hanno consolidato lo statuto di questa disciplina, che studia le culture sviluppatesi in Italia fra l'età del Ferro e la romanizzazione presso genti parlanti lingue di origine indoeuropea. Varietà dei caratteri naturali della penisola e differenze nelle forme di contatto con culture compatte e tecnologicamente più avanzate come quella greca o quella etrusca impediscono ovviamente omogeneità di tratti. Il quadro è piuttosto quello di aree regionali in cui si assiste, in tempi diversi, all'emergere di una società di classi dotata di forte autoconsapevolezza politica che si organizza in comunità urbane o territoriali.
La natura stessa delle evidenze tende a privilegiare per l'età più antica lo studio degli usi funerari e dei tipi di materiali restituiti dalle necropoli. Fra il 9° e l'8° sec. a.C. è diffuso il rito inumatorio che prevede il defunto in posizione rannicchiata (versante medio- e bassoadriatico, Basilicata orientale) o supina (valli dell'Agri e del Sinni, Calabria); in zone limitate (Pontecagnano e Vallo di Diano; Fermo; Verucchio) rito incineratorio e forme della cultura materiale vengono attribuiti a nuclei di Etruschi migrati dalle regioni d'origine (Etruria propria, area bolognese). Il numero dei sepolti suggerisce una distribuzione del popolamento per grossi agglomerati, posti in aree ecologicamente favorevoli alla sussistenza, lungo itinerari terrestri o marittimi, fra i quali s'instaurano forme sistematiche di scambio: è progressivo, stando alle combinazioni di oggetti nei corredi funerari, l'emergere di un ceto connotato militarmente detentore di maggior ricchezza. Questo processo s'interrompe alla fine dell'8° sec. a.C. lungo le coste ioniche e quelle della Sicilia orientale e della Campania colonizzate dai Greci: forme d'integrazione forzata dei nativi appaiono prevalenti (Cuma, Siracusa, Megara, Sibari, Metaponto) di fronte ai pochi casi di coesistenza pacifica (Siris).
I gruppi respinti all'interno delle regioni (in Sicilia orientale, Basilicata, Campania) creano una rete di comunicazioni che utilizza valli fluviali e passi montani, mentre quelli solo toccati dalla frequentazione dei Greci (la Puglia degli Iapigi, il Lazio, l'Etruria) o dalla mediazione dei loro modelli culturali accelerano i processi produttivi in atto, giungendo precocemente a forme di civiltà urbana. Nell'Italia centrale, infatti, la mediazione etrusca appare prevalente nella formazione di modelli di aggregazione attuati presso le genti italiche stanziate lungo la riva sinistra del Tevere: fenomeni di accumulazione di ricchezza e di trasmissione di tratti culturali (la scrittura, soprattutto) interessano non solo la Sabina tiberina, ma si riversano anche oltre Appennino, nel versante medio-adriatico, dove le forme di mobilità si attuano secondo itinerari paralleli alla costa, percorsi dalla transumanza stagionale. Oltre il Po le comunità veneto-alpine appaiono legate agli aspetti culturali delle genti che gravitavano sul Caput Adriae. Prevalgono come forme abitative in pianura grossi agglomerati disposti lungo il corso dei grandi fiumi alpini (Este, Padova), mentre nelle necropoli è esclusivo il rito dell'incinerazione entro l'ossuario: gli usi funerari e le combinazioni di oggetti nei corredi portano a distinguere un ceto di guerrieri-cavalieri entro il quale emerge, alla fine del 7° e 6° sec. a.C., una classe aristocratica dotata di alto potenziale economico.
Fenomeno generalizzato fra 7°-6° sec. a.C. è l'affermarsi presso tutte le società non urbanizzate di una classe di ''principi-guerrieri'' nella quale si polarizzano anche i valori politici dell'ethnos di appartenenza. Di fronte a regioni in cui la caratterizzazione etnico-culturale appare definita e continuativa, come la Puglia degli Iapigi − distinti, secondo la tradizione, in Messapi (Salento), Peucezi (area barese) e Daunii (area foggiana) − la Sicilia orientale interna dei Siculi o la regione dei Veneti, esistono vasti territori dell'Italia centro-meridionale nei quali risultano difficili analoghe identificazioni per discordanti informazioni delle fonti letterarie e per lo sviluppo degli eventi politico-militari successivi. Felice eccezione è costituita dalla scoperta delle stele iscritte di Penna Sant'Andrea (Teramo), dove viene ricordato uno ''stato sabino'' (safinas tútas): è così permesso individuare nel 6° sec. a.C. attraverso documenti epigrafici che esprimono la stessa lingua diffusi nella Sabina tiberina, nella zona meridionale delle Marche, in Abruzzo e parte del Molise, gruppi che si richiamano a tradizioni etniche comuni mostrando anche tratti culturali omogenei. Premature, invece, appaiono analoghe identificazioni per gli abitanti delle Marche settentrionali (area di Novilara) e anche per l'Italia meridionale, dove le genealogie contraddittorie della tradizione e gli scarsi documenti epigrafici di 6°-5° sec. a.C. indicano piuttosto una fluidità di aggregazioni etniche.
I fenomeni di migrazione che interessano l'Italia peninsulare alla fine del 6° sec. a.C. provocano l'espansione di genti montane verso aree ecologicamente più favorevoli: in gruppi militarmente organizzati, forse al seguito di ''principiguerrieri'', gli Umbri occupano la Romagna, mentre popolazioni di stirpe sabellica (i Sanniti della tradizione) si riversano in Campania, Basilicata e Calabria. Il processo di frantumazione viene adombrato dai numerosi nomi di popoli abitanti il versante medio-adriatico noti alla tradizione romana (da Nord Picenti, Pretuzi, Marrucini, Caracini, Vestini, Marsi, Pentri e Frentani) e dalla formazione dei più vasti stati territoriali dei Campani, dei Lucani e dei Bruzi. Centri urbanizzati degli Iapigi, dei Campani e degli Umbri dove s'impongono modelli culturali greci o etruschi e città greche conquistate dai Lucani (Poseidonia e Laos) esprimono l'aspetto politico-urbano delle genti italiche, mentre diramati sistemi di centri fortificati nelle zone montane abitate da Bruzi, Lucani, Sanniti e Umbri accolgono in caso di guerra popolazioni organizzate secondo modelli paganico-vicani. Grande spicco assumono ora i luoghi di culto, cittadini, rurali o posti lungo le vie transappenniniche: si tratta di sedi in cui si riconoscono identità etnico-politiche e in cui vengono accolti i prodotti di una diffusa arte devozionale. Gli aspetti militari di queste società appaiono prevalere sia nelle forme del culto (dominano fra i bronzi votivi le immagini di Marte in assalto al Nord, di Ercole al Sud), sia nella sfera cerimoniale riflessa nei corredi e nelle decorazioni funerarie. I valori etici connessi con la guerra si riflettono nelle pitture delle città campane e lucane (seconda metà del 4° sec. a.C.) decorate con scene di ritorno di guerrieri trionfanti o con immagini di equites. Strutture militari organizzate adombrate nel termine osco vereia costituiranno, dopo la conquista romana, gruppi di mercenari che tenteranno di conquistare momentaneamente le città dello Stretto (Mamertini a Messina, Campani a Reggio).
Al Nord lo sfruttamento intensivo delle campagne padane provocato dalla colonizzazione etrusca dello scorcio del 6° sec. a.C. apre alle rotte adriatiche porti di commercio controllati dalle rispettive autorità statali: Numana (Ancona), Spina e Adria, questa in territorio veneto, vengono raggiunte dalla navigazione eginetica e ateniese che soppianta le meno organizzate forme di ''pirateria'' precedente, daunia e liburnica. I risultati di questi scambi a lungo raggio provocano forme di accumulazione e redistribuzione di prodotti pregiati come le ceramiche attiche, ma anche la propagazione di forme di lusso cerimoniale e di credenze oltremondane. Agli inizi del 4° sec. a.C. la discesa dei Galli pone fine a questo sistema isolando il Veneto e occupando stabilmente i centri etruschi dell'Emilia, quelli dell'Umbria e del Piceno.
Il 3° sec. a.C. rappresenta per le genti italiche il periodo d'impatto e di successiva sottomissione a Roma. Deduzioni di colonie e annessioni modificano sensibilmente il quadro culturale, che tende progressivamente a omogeneizzarsi, fatte salve, fino alla guerra sociale, le istituzioni locali e le diverse lingue. Regioni che mantengono inalterate le proprie strutture appaiono soprattutto quelle interne del Sannio e della Lucania dove, nella generale ripresa dell'Italia dopo la guerra annibalica, si assiste, per volontà dei magistrati e dell'aristocrazia afferente ai diversi distretti territoriali, ad attività edilizie che interessano santuari ''nazionali'' (Rossano di Vaglio, Pietrabbondante) o cantonali. È da sedi di questo tipo che hanno origine le forme di rivolta dei socii culminate nella guerra sociale del 90 a.C.: solo ora il nome ''Italia'' (osco Víteliú, "degli Itali"), scritto sulle monete emesse dalla lega, identifica fittiziamente una realtà geografica che fino ad allora aveva mantenuto le proprie identità etnico-regionali.
Bibl.: Popoli e civiltà dell'Italia antica, 1-8, Roma 1974-88; AA.VV., Culture adriatiche antiche dell'Abruzzo e del Molise, i-ii, ivi 1978; Prima Italia, Catalogo della mostra, ivi 1981; A. Pontrandolfo Greco, I Lucani, Milano 1982; M. Frederiksen, Campania, Hertford 1984; M. Pallottino, Storia della prima Italia, Milano 1984; AA.VV., Preistoria, storia e civiltà dei Sabini, Rieti 1985; G. Fogolari, A. L. Prosdocimi, I Veneti antichi, Padova 1987; E. De Juliis, Gli Iapigi, Milano 1988; P. G. Guzzo, I Bruzi, ivi 1989; E. Lepore, Origini e strutture della Campania antica, Bologna 1989.
Archeologia subacquea
L'a. subacquea è una branca dell'a. generale di cui ha fatto propri metodi e finalità. La diversità principale deriva dal suo particolare campo d'azione (mari, laghi, fiumi, stagni, ecc.), caratterizzato dalla presenza dell'acqua che costituisce un ostacolo fisico fortemente condizionante. Grazie ad attrezzature specifiche l'archeologo è ora in grado di superarlo, almeno in parte, e di svolgere direttamente sott'acqua attività di ricognizione, di scavo, di documentazione. Al normale equipaggiamento per le immersioni (tuta di gomma sintetica, respiratore autonomo e bombole con aria compressa o con miscele gassose) si accompagna una serie di strumentazioni variabili a seconda delle esigenze.
Una fase preliminare, comune a tutta la ricerca archeologica, è quella della prospezione, che può essere a vasto raggio se rivolta a una prima localizzazione dei giacimenti, oppure circoscritta a un'area già individuata. Se favorita dalle condizioni ambientali, anche la fotografia aerea può dare contributi determinanti, specialmente in presenza di strutture sommerse, come nel caso della costa dei Campi Flegrei, in Campania, sprofondata per bradisismo in età tardo-antica, dove si evidenziano nitidamente gli impianti commerciali del Portus Iulius e dell'area suburbana della Pozzuoli romana. A profondità maggiori è necessario, invece, affidarsi a strumenti di osservazione e di misurazione più sofisticati, quali la televisione comandata a distanza, che in pratica costituisce un prolungamento dell'osservazione diretta non richiedendo particolari passaggi interpretativi, oppure i sonar e i magnetometri di vario tipo, la cui applicazione al campo archeologico subacqueo, ancora in fase sperimentale, non sempre risulta adeguata. Certamente utile è, inoltre, l'impiego dei rilevatori di metalli (metaldetectors). Per quanto riguarda le operazioni di scavo, che consistono nella rimozione dei sedimenti in cui sono sepolti oggetti e strutture, si applicano i metodi usati a terra, distinguendo gli strati, sia che documentino successioni cronologiche negli abitati sommersi, sia che si riferiscano a differenti livelli di carico sovrapposti nei relitti di nave.
Lo scavo subacqueo è necessariamente lento e costoso, ma in compenso permette di raccogliere dati che l'a. di terra molto raramente è in grado di fornire. Tale raccolta avviene, infatti, in condizioni scientificamente privilegiate, come accade, per es., su un relitto di nave che rappresenta una sorta di giacimento chiuso, cronologicamente ben determinabile e con abbondanza di materiali di ogni tipo (anfore, ceramiche, metalli, marmi, opere d'arte, attrezzature di bordo, ecc.) in grado di ovviare alla penuria di dati quantitativi di cui soffre lo studio dell'economia antica.
Strumenti essenziali per lo scavo sono la sorbona ad aria o ad acqua e la lancia ad acqua. La sorbona ad aria è costituita da un lungo tubo all'interno del quale viene immessa aria compressa che, risalendo con forza alla su perficie, crea un'aspirazione mista di aria e acqua e con esse, quindi, anche dei sedimenti da asportare. La sorbona ad acqua, sebbene fondata su un principio diverso, funziona più o meno allo stesso modo. La lancia ad acqua, invece, svolge la funzione dirompente che ha il piccone negli scavi a terra. Non è altro che un tubo con un getto regolabile d'acqua sotto pressione che, a seconda dell'intensità, rimuove delicatamente gli strati archeologici oppure smembra con forza masse di fango o di sabbia o di detriti compatti.
Tuttavia, benché gli ostacoli fisici non rappresentino più un impedimento insormontabile per l'a. subacquea, che può ormai avvalersi delle tecniche più perfezionate, essa rimane rigidamente condizionata da regole e tempi la cui trasgressione comporta rischi assai gravi. La durata di un'immersione è limitata e diminuisce progressivamente con l'aumentare della profondità; di conseguenza l'indagine archeologica dev'essere veloce, ma senza nulla togliere alla completezza della documentazione che spesso è quanto si conserva di un sito che è oggetto di scavo e quindi, per forza di cose, viene in gran parte distrutto.
Proprio la sua natura di tecnica specialistica al servizio della ricostruzione storica in generale ha portato l'a. subacquea a estendere le sue applicazioni agli ambienti e ai periodi più diversi. Essa non si limita più, infatti, al bacino del Mediterraneo, ossia all'area del ''mondo classico'' − dove è nata e ha fatto esperienza −, ma si esplica ormai intensamente anche in Europa settentrionale, nelle Americhe, in Africa, in Australia, in Estremo Oriente. Nello stesso Mediterraneo, poi, le ricerche si sono estese da un lato verso un passato sempre più remoto attraverso le testimonianze dell'a. preistorica, dall'altro verso quelle d'epoca medievale e rinascimentale, con punte che si spingono fin quasi ai giorni nostri.
Una così vasta gamma di applicazioni deve avvalersi di esperienze specialistiche per affrontare settori di studio assai diversi, per geografia, per cronologia o anche per la stessa natura dei giacimenti investigati. Per questi ultimi, una principale distinzione va fatta tra i siti di terra sommersi, che presentano problemi di carattere prevalentemente topografico, e i relitti di nave, che documentano aspetti della navigazione, dei commerci marittimi, dell'architettura navale, ecc.
Nel primo caso si tratta di siti originariamente ''all'asciutto'' che, essendo stati più o meno a lungo soggetti a modificazioni e a stratificazioni determinate dal susseguirsi della frequentazione umana, presentano caratteristiche del tutto simili agli scavi di terra. Rientrano tuttavia in quest'ambito situazioni ben differenziate: dagli abitati preistorici lacustri e dalle grotte preistoriche sottomarine, agli impianti marittimi (porti e peschiere) e a interi centri sommersi nelle varie epoche in seguito a fenomeni naturali (terremoto, maremoto, eustatismo, bradisismo, ecc.). Ancor più vasto, per varietà e ampiezza, è il panorama dei relitti di nave. Pur con alcuni limiti, dovuti all'accentuata deperibilità dei materiali in ambiente marino, un relitto di nave conserva in sé numerosi elementi d'interesse, essendo testimonianza insostituibile di un processo economico in movimento, di un meccanismo commerciale perpetuatosi nella fase dinamica. Il relitto di un'antica nave mercantile − già in sé stessa importante macchina produttiva in quanto strumento di trasformazione di valore − offre all'archeologo e allo storico un'omogenea messe di informazioni di prima mano, da controllare e valorizzare sottoponendole a un confronto con gli strumenti consueti della ricostruzione storica (fonti letterarie, giuridiche, epigrafiche, ecc.). Ne derivano notizie preziose per lo studio delle comunicazioni e delle rotte di navigazione, della tecnologia nautica, delle costruzioni navali, dei commerci, della distribuzione delle merci e quindi della storia economica, con i molteplici aspetti umani, sociali e politici in essi implicati.
Di relitti se ne conoscono ormai migliaia soprattutto nel Mediterraneo, a partire dalle più antiche testimonianze della navigazione micenea (è recente la scoperta, a Kaçs in Turchia, di un relitto del 14° sec. a.C.), a quelle della Grecia arcaica e classica, a quelle etrusche, a quelle puniche, ai numerosissimi relitti romani, a quelli bizantini e arabi e così via fino a età moderna.
Fuori del Mediterraneo, scoperte altrettanto rilevanti riguardano navigazioni medievali (navi vichinghe nel Mar del Nord) e soprattutto rinascimentali, riconducibili ad avvenimenti storici particolari, come, per es., la disfatta dell'Invincibile Armata nel 1588 (decine i relitti ritrovati lungo le coste inglesi), oppure riferibili a importanti vie della navigazione commerciale. Testimonianze sottomarine documentano quelle con il Nuovo Mondo, attraverso i relitti delle navi spagnole individuate lungo le coste dell'America centro-meridionale, e quelle con l'Oriente, intensamente battute dalle navi delle varie compagnie europee delle Indie orientali, numerose delle quali sono state ormai rintracciate lungo tutto il percorso (in Inghilterra, in Africa centrale e meridionale, in Australia).
Bibl.: K. Muckelroy, Maritime archaeology, Cambridge 1978; P. A. Gianfrotta, P. Pomey, Archeologia subacquea, Milano 1981. Numerose notizie, di carattere sia archeologico che tecnico, sono pubblicate in riviste specializzate. Principalmente in: The International Journal of Nautical Archaeology and Underwater Exploration; The Mariner's Mirror; Archaeonautica; Forma Maris Antiqui (in Rivista di Studi Liguri); Bollettino d'Arte, supplementi al n. 4, 1982; al n. 29, 1985; ai nn. 37-38, 1986.
Tecniche di analisi chimico-fisica
In passato i metodi di analisi chimica pur poco sensibili, ed efficaci solo con campioni di un certo peso, si sono dimostrati in molti casi di valido aiuto nella soluzione di problemi quali la composizione di reperti archeologici e la loro possibile provenienza, l'origine, ecc. L'introduzione più recente di metodi, chimici e fisici, di analisi non distruttiva, che richiedono quantità minime di prodotto e sono enormemente più sensibili, ha offerto all'a. strumenti capaci di fornire informazioni più attendibili e di più vasta portata, come, per es., la datazione più certa dei reperti, le abitudini alimentari dell'antichità attraverso l'esame delle ossa, la provenienza dei metalli, i sistemi di preparazione di manufatti metallici, la ''ricostruzione'' di tessuti distrutti dal tempo, la composizione di vetri, di ceramiche e la loro possibile provenienza, l'indicazione dei prodotti da usare nei restauri, ecc.
Datazioni. − L'importanza del sistema di datazione a mezzo dell'isotopo radioattivo del carbonio, il 14C, è testimoniata dal conferimento del premio Nobel a W. F. Libby (1960) che lo aveva proposto.
Il metodo (App. III, i, p. 120 e 624) in un primo tempo presentava una certa approssimazione e alcune limitazioni, a causa dell'ipotesi di costanza del rapporto degli isotopi nel tempo e in ambienti diversi, dimostratasi negli ultimi decenni non esatta; per apportare le necessarie correzioni sono state presentate e raccomandate alla 12° Conferenza del radiocarbonio (Trondheim 1985) tabelle correttive che tolgono al sistema parte del grado di approssimazione precedentemente presentato. Recentemente il sistema è stato modificato: anziché ricorrere alla conta del 14C attraverso la misura di eventi di disintegrazione, è stato messo a punto un metodo di misura diretta degli atomi di 14C presenti, mediante un sistema che consente una valutazione (diretta) delle quantità relative dei vari isotopi presenti (spettroscopia di massa). Anziché utilizzare un contatore di radiazioni β provenienti dalla disintegrazione, s'impiega uno spettrometro di massa. Se però sono presenti altri atomi, o aggruppamenti, di massa uguale a 14C (per esempio 14N, 12CH2, ecc.), occorre adottare qualche accorgimento per la separazione, come l'accoppiamento dello spettrometro di massa con un acceleratore (elettrostatico o ciclotrone) di elevata energia. La sensibilità di questo sistema consente di effettuare determinazioni anche disponendo di campioni piccolissimi (da 1 a 10 mg) e in tempi assai brevi (0,1÷1 ora, anziché alcuni giorni o decine di giorni). Sono stati introdotti altri metodi di datazione che hanno dimostrato una buona validità, in casi più limitati di quelli che si possono studiare col 14C, ma che, talora, possono essere di maggiore interesse. Recentemente il metodo è stato applicato per la datazione di insediamenti preistorici rinvenuti a Torre Spaccata (Roma), a Laterza (Bari), a Faenza (Ravenna).
Termoluminescenza. − Le argille contengono fra le impurità elementi radioattivi naturali (uranio, torio, potassio-40, ecc.) che de cadendo eccitano gli elettroni portandoli a livelli metastabili. Riscaldando un'argilla (o suoi manufatti) al di sopra di 400 °C, gli elettroni ricadono a livelli stabili, emettendo nel contempo una luce visibile (bagliore termoluminescente), la cui intensità, misurabile, è funzione del tempo intercorso fra il momento del riscaldamento e quello del bombardamento elettronico. Sottoponendo un reperto ceramico a riscaldamento e misurando l'intensità del bagliore termo luminescente, si può valutare il tempo nel quale l'oggetto è stato fatto e ''cotto''.
Il metodo è in grado di dare buoni risultati, specie per oggetti di età rilevante, non è però un metodo di routine. Si calcola che consenta valutazioni con un grado di errore del 7÷%. Recenti misure effettuate, in collaborazione fra ENEA e dipartimento di Fisica di Milano, su laterizi di ricupero dell'Abbazia di Val di Susa, del Castello di Piadena e delle fornaci di Morgantina, hanno dato risultati soddisfacenti; così pure per argille del Quadrato di Torre Spaccata, per frammenti di due crogioli usati per fondere rame rinvenuti a Failaka (Kuwait) da una missione danese intorno al 1960, e ai quali, con questo metodo, è stata attribuita rispettivamente l'età di 2133±210 e di 3676±360 anni.
Un'altra importante applicazione è stata il controllo recentemente effettuato sull'autenticità di alcune statuette ceramiche ritenute di epoca precolombiana, controllo operato in seguito alla confessione di un ceramista messicano (B. Lara) che si dichiarava autore di centinaia di analoghi manufatti, alcuni dei quali erano finiti in importanti musei. Un'indagine condotta su molti di questi esemplari ha rilevato che parte di quelli conservati nei musei erano stati effettivamente prodotti in epoca recente.
Datazione con amminoacidi. − Questo tipo di analisi è basata sul fatto che negli esseri viventi gli amminoacidi sono presenti in forma otticamente attiva (di solito nella forma levogira) mentre, dopo la morte, essi tendono a racemizzare, cioè a formare una miscela dei due composti levogiro e destrogiro. La velocità di questa trasformazione dipende dal tipo di amminoacido e da fattori esterni, quali temperatura, pH, ecc.
Qualora esistano ipotesi attendibili circa le condizioni attraverso cui il reperto è passato, è possibile determinare l'età in base al rapporto tra le due forme otticamente attive di amminoacido presente. In diversi casi l'età di reperti determinata per questa via ha trovato riscontro in quella calcolata in base al sistema del carbonio radioattivo.
Idratazione dell'ossidiana. − Questo sistema, di recente sperimentazione, si basa sulla constatazione che un frammento di ossidiana a contatto dell'atmosfera ne assorbe l'umidità, diffondendola poi al proprio interno; lo spessore dello strato idratato (che di solito varia da 1 a 50 μ in rapporto al tempo di esposizione) si può misurare a mezzo di microscopi ottici.
Lo spessore dello strato idratato è funzione della composizione dell'ossidiana e delle condizioni termiche dell'ambiente esterno. L'acqua, nel suo lento diffondersi all'interno, scambia gli ioni alcalini, che, risalendo in superficie, sono allontanati dagli agenti ambientali. Il sistema, proposto fin dagli anni Cinquanta, si è sviluppato lentamente e solo dopo il 1970 ha trovato applicazione, specie in ricerche condotte in zone vulcaniche dell'America Centrale e dell'Africa Orientale, dove si ritrovano prodotti vetrosi naturali (ossidiana, ecc.).
Datazioni di vari reperti ottenute sia con il sistema al radiocarbonio sia col sistema dell'idratazione dell'ossidiana hanno dato in molti casi valori analoghi, mentre in altri si sono riscontrate deviazioni dovute specialmente all'incertezza delle variazioni atmosferiche considerate.
Datazione archeomagnetica. − Si basa sul fatto che materiali riscaldati a temperatura relativamente alta conservano caratteristiche magnetiche che hanno relazione col campo geomagnetico esistente al momento in cui è avvenuto il loro raffreddamento. Poiché direzione e intensità del campo magnetico variano, il sistema può dare valori precisi solo in casi particolari (quando siano state accertate per altra via le variazioni del campo magnetico).
Il sistema può fornire interessanti indicazioni nel caso si voglia stabilire la contemporaneità o meno di determinati avvenimenti. Il metodo è stato infatti applicato per stabilire se la distruzione avvenuta nell'isola di Santorino è stata o no contemporanea a quella dell'isola di Creta. Le rilevazioni hanno dimostrato che, al momento della distruzione dell'isola di Santorino, nell'isola di Creta si depositarono alcuni centimetri di ceneri solo sulla fascia centrale e che quindi le distruzioni avvenute in questa parte dell'isola furono causate da terremoti, mentre le zone periferiche furono distrutte da eruzioni vulcaniche posteriori di alcuni decenni.
Altre applicazioni. − I metodi di analisi strumentale con la loro elevata sensibilità consentono di rilevare con buona esattezza le tracce di elementi secondari presenti nei vari materiali (argille, ceramiche, vetri, metalli, ecc.) che spesso rappresentano un ''carattere distintivo'' di grande utilità per identificarne, a seconda dei casi, l'origine, il sistema di preparazione, ecc., caratteristiche che non si possono trarre dallo studio degli elementi principali.
Nel caso dei metalli e loro leghe sono gli elementi in traccia gli unici che possono dare indicazioni sulla specifica provenienza dei minerali usati oppure sulla tecnologia di estrazione o di lavorazione seguita; questi elementi secondari, che si accompagnano al minerale principale, sono infatti tipici delle miniere di provenienza o del sistema metallurgico seguito e possono quindi consentire di fare correlazioni fra antiche miniere e centri di produzione dei manufatti, di stabilire l'evoluzione delle tecniche metallurgiche seguite, la distribuzione di manufatti prodotti in una data regione, le relazioni fra i diversi insediamenti, le vie seguite dai commerci, ecc. Così per lungo tempo si è ritenuto che gli Indiani precolombiani del Minnesota per confezionare i vari oggetti derivassero il rame nativo dal Michigan, zona molto ricca di questo metallo; ricerche recenti hanno invece rivelato che il materiale usato proveniva dai depositi dello Snake River, del Minnesota centrale, e ciò in base alle differenze di composizione dei metalli tra le due zone. Fino a un decennio fa gli archeologi ritenevano che le conoscenze metallurgiche dei popoli del Sud-Est asiatico derivassero dall'India e dalla Cina. Lo studio micrografico di oggetti di bronzo trovati a Ban Chiang, nel Nord-Est della Tailandia (e anche in altre località), ha messo in evidenza una lavorazione sofisticata e indica che per fabbricare utensili, armi, oggetti d'ornamento, ecc., tali popolazioni fin dal 3° millennio a.C. usavano colare il bronzo con tecniche sviluppate in maniera indipendente.
Le tecniche di analisi non distruttiva (raggi X, fluorescenza, ecc.), che consentono lo studio di reperti senza alterarli, hanno permesso di studiare la composizione di leghe metalliche usate dai vari fonditori o dalle varie Zecche nel caso di monete. I recenti restauri eseguiti sulla statua equestre di Marc'Aurelio posta nella piazza del Campidoglio a Roma, grazie ad analisi delle varie parti realizzate con sistemi di fluorescenza a raggi X, hanno dimostrato che mentre per la colata delle zampe è stata usata una stessa lega (all'incirca 80% di rame, 10% di piombo e 10% di stagno), i tre pezzi di cui risulta costituita la coda hanno composizione fra loro sensibilmente diversa, differente anche da quella delle zampe.
Lo studio degli elementi in tracce presenti nelle ossa di sche letri umani di popoli antichi può consentire di stabilire il sistema prevalente di alimentazione di quei popoli (v. paleontologia, in questa App.).
Differenze nei sistemi di alimentazione si possono inoltre ricavare con la ricerca degli isotopi del carbonio 13C e 12C. L'anidride carbonica dell'atmosfera viene assorbita dai vegetali e convertita in composti organici, ma mentre alcune piante, specie del Nord dell'America e dell'Europa, formano composti a 3 atomi di carbonio, altre che crescono in zone assolate (mais, canna da zucchero, ecc.) formano composti a 4 atomi di carbonio. Poiché le reazioni che portano alla fissazione dell'anidride carbonica in questi due tipi di composti organici sono diverse, differente sarà anche il rapporto che in essi si riscontra fra i due isotopi del carbonio assorbito. Lo studio di questa differenza fra i due isotopi del carbonio presente nelle ossa di antiche popolazioni può contribuire a stabilire la zona e dunque il clima nel quale esse sono cresciute.
Prodotti organici come i tessuti, il legno, le penne di animali, ecc., dopo essere rimasti a lungo nel terreno subiscono col tempo alterazioni profonde, fino alla completa distruzione. In molti casi, al posto dei prodotti, rimangono le loro tracce fossilizzate, sotto forma d'impronta, di fedele riproduzione, fissata sui materiali inorganici che si trovano a diretto contatto. Queste strutture fossili consentono di risalire a quelle dei materiali organici che le hanno generate, e di ricavare così una serie di utili informazioni. Recentemente sono stati studiati tessuti fossilizzati che al momento della decomposizione si trovavano a contatto di oggetti metallici (armi, utensili, monili). Dalle impronte lasciate su questi materiali è stato possibile risalire alle fibre dei tessuti (seta, lana, fibre cellulosiche), ai trattamenti subiti dai tessuti, ai coloranti usati per la loro tintura, ecc.
Un metodo di analisi non distruttiva recentemente utilizzato anche per ricerche archeologiche è quello indicato con l'acronimo PIXE (Particle Induced X-ray Emission).
Quando particelle cariche attraversano un materiale, vengono emessi raggi X; poiché ciascun elemento produce un proprio spettro caratteristico, dall'analisi dei raggi emessi è possibile risalire all'elemento che li ha generati e anche alla sua concentrazione. Il sistema ha già trovato varie applicazioni nel campo analitico per la ricerca e il dosaggio di elementi in traccia in vari prodotti (in biologia, in geologia, nella ricerca di inquinanti delle acque, ecc.); è stato inoltre applicato allo studio dei primi inchiostri da stampa nella ricerca di falsificazioni di scritti o di francobolli, ecc.
Un esempio di applicazione in a. si è avuto nello studio di alcuni manufatti a forma di cuneo ritrovati in Scandinavia, attribuiti al periodo neolitico e costituiti da frammenti di lavagna nera che presentano sulla superficie delle tracce gialle. L'analisi di tali tracce ha rivelato che si tratta di oro contenente argento (ma non rame) nella misura del 10÷20% e che, probabilmente, il manufatto costituisce una sorta di pietra di paragone impiegata dai primitivi fabbricanti di monili.
Bibl.: P.S. Zurer, Archeological chemistry, in Chemical and Engineering News, 21 febbraio 1983; R. Cesareo, M. Marabelli, M. Ferretti, Tecniche analitiche nucleari in archeometria, in Notiziario dell'ENEA, maggio 1984, p. 51; M. Martini, E Sibilia, G. Spinolo, La datazione di ceramiche con termoluminescenza, ibid., novembre-dicembre 1985, p. 32; J.W. Michels, Obsidian hydration dating, in Endeavour, vol. 10, n. 2 (1986); S.A.E. Johansson, Pixe: a novel technique for elemental analysis, ibid., vol. 13, n. 2 (1989); J.D. Wilde, Archeology, in Yearbook of science and the future, Enciclopaedia Britannica, 1990.