Archeologia
di Enzo Lippolis
Negli ultimi dieci anni, i profondi cambiamenti determinati dalla rivoluzione informatica e dalle sue applicazioni hanno fortemente incrementato il processo di globalizzazione culturale, obbligando anche a un ripensamento del ruolo tradizionale dell’a. classica nella cultura europea. Si sta, quindi, definendo una riconversione di obiettivi e strategie, non solo a livello ideologico e di metodo, ma anche negli aspetti applicativi e nella tipologia degli interventi.
Nell’ambito della progressiva rivalutazione del concetto di contesto e dei diversi livelli di contesto, è aumentato l’interesse per la ricostruzione complessiva dei sistemi insediativi. L’archeologia dei paesaggi (v. archeologia, analisi spaziali per la) riprende esigenze, metodiche e percorsi già presenti nella tradizione italiana ed europea (come nel caso degli studi di topografia antica), ma ne ripropone una gestione integrata e organica, concependo lo spazio come una trama in modificazione progressiva, nelle sue forme materiali, funzionali e percettive.
Su un altro piano, l’attenzione per gli aspetti antropologici e sociali, incrementatasi sin dagli anni Sessanta, rappresenta un filone che negli ultimi tempi alimenta soprattutto studi volti alla percezione e alla rappresentazione dell’individuo o del gruppo sociale all’interno della comunità; in alcuni casi, l’analisi cerca di comprendere fenomeni che coinvolgono interi gruppi di popolamento nel loro insieme. Rispetto alle riflessioni ‘antropologiche’ degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, volte soprattutto alla ricostruzione dell’immaginario mentale, in particolare della cultura greca, si pone ora maggiore attenzione alla contestualizzazione storica dei fenomeni esaminati, concentrandosi sulla definizione dei comportamenti nel tempo. In questa direzione, uno sviluppo rilevante ha assunto soprattutto l’a. del culto, l’analisi delle pratiche e dei materiali della ritualità sacra, sia nei suoi aspetti teorici sia in quelli ricostruttivi.
L’incremento delle scienze applicative, anche nel settore dell’a. classica, dopo il superamento del determinismo della new archaeology, rappresenta, infine, il terzo fattore di rilievo più generale. La disponibilità e la sempre maggiore flessibilità dei sistemi informatici permettono di mettere a punto programmi di registrazione e di elaborazione dei dati in forma agevole e articolata, mentre le diverse tecnologie, da quelle del telerilevamento a quelle archeobotaniche, archeozoologiche, demografiche o alle analisi sui materiali e sulle tecniche della produzione, stanno costruendo una rete informativa che amplia gli obiettivi e le possibilità conoscitive. Non si tratta, comunque, di aspetti gestibili all’esterno della prospettiva storico-critica, che ne definisce obiettivi cognitivi e finalità, pur nella molteplicità degli approcci e dei metodi.
La riflessione critica sugli esiti del colonialismo europeo ha accentuato l’attenzione per i contatti culturali, per la demistificazione dei processi coloniali più in generale, per l’analisi delle forme di integrazione, di ibridismo o di creolizzazione, per la costruzione della percezione identitaria. In questa direzione, i fenomeni coloniali dell’arcaismo greco arcaico, quelli del Mediterraneo ellenistico e il complesso sistema di occupazione e di integrazione coloniale dell’impero romano emergono come casi di studio di fondamentale importanza, non solo per capire il passato, ma anche per comprendere le forme di interazione possibili. In tutti questi ambiti, la ricerca ha ridimensionato il ruolo dei ‘colonizzatori’ rispetto a quello delle comunità ospitanti, con un dichiarato richiamo alle situazioni contemporanee. In genere, tali problemi sono stati affrontati da un punto di vista che privilegia la documentazione archeologica rispetto a quella delle fonti letterarie ed epigrafiche, con un approccio decostruttivista che tende a mettere in discussione alcune convinzioni tradizionali, non sempre in maniera condivisibile. L’Italia meridionale e le apoikìai greche sono divenute uno degli ambiti privilegiati per rileggere in termini nuovi le forme della colonizzazione greca tra 8° e 6° sec. a.C., giungendo a negare o a ridimensionare drasticamente il ruolo e a volte l’effettiva esistenza di componenti colonizzatrici organizzate.
In maniera analoga, ma in un contesto diverso, è stato messo sotto esame, invece, il concetto di romanizzazione, cercando di valorizzare la pluralità di forme di questo lungo e complesso processo politico-culturale, la partecipazione delle popolazioni coinvolte, le modalità e i ruoli delle élites che ne hanno gestito in molti casi l’affermazione. Con un’attenzione a volte troppo concentrata sulla definizione terminologica dei fenomeni più che sulla loro reale espressione, si è proposto, quindi, di parlare piuttosto di ‘romanizzazioni’ oppure di rinunciare completamente a questa definizione, in effetti a volte troppo generale e banalizzante. I percorsi conoscitivi si sono fondati sempre su una più approfondita analisi dei contesti, della produzione materiale e della sua commercializzazione, quindi sulla ricostruzione dei comportamenti sociali, anche in questo caso ponendo una rinnovata attenzione alle espressioni del culto, esaminate sempre attraverso aspetti materiali e considerate manifestazioni delle identità specifiche come dei processi di cooptazione e di integrazione.
L’interesse per i rituali sacri come forme primarie della cultura sociale nelle società antiche si è affermato gradualmente, con proposte importanti già negli anni Settanta del 20° secolo. La valorizzazione dei riti di passaggio e la composizione dei depositi votivi, elementi da leggere in stretto collegamento, hanno rappresentato un filone di ricerca che si è incrementato progressivamente, grazie alle nuove tecniche di scavo e al riesame di contesti e fenomeni espressivi. Nel mondo greco gli studi incentivati dagli incontri sistematici promossi soprattutto da Robin Hägg hanno rappresentato un’occasione fondamentale di confronto e di sviluppo conoscitivo, insieme alle ricerche condotte sulla produzione, il significato e le funzioni della coroplastica votiva.
Nel settore dell’a. del Mediterraneo greco ed ellenizzato, le novità principali sono emerse soprattutto in Turchia e in Grecia. A parte alcuni rinvenimenti specifici, di grande interesse, come il nucleo di sculture arcaiche dall’isola di Kalymnos, tra i risultati che aprono la strada a nuovi percorsi di ricerca si devono ricordare l’esame sistematico dell’insediamento geometrico di Oropòs, il proseguimento dell’esplorazione e del restauro di Messene, il riconoscimento del grande Mausoleo di Mylas detto di Ekatomnos, la prosecuzione delle ricerche a Efeso, Pergamo e Mileto. Sono di una certa pregnanza, inoltre, le analisi, le continue scoperte e i restauri condotti in Macedonia e Tracia; in particolare, le esplorazioni e la sistemazione dell’area archeologica e del Museo di Pella, come delle tombe reali di Verghina, dove si sta conducendo un importante restauro conoscitivo del palazzo; presso Amphipolis, infine, la scoperta della maggiore delle tombe a camera macedoni sotto tumulo sinora note pone nuovi problemi interpretativi per le dimensioni, la cronologia e la ricca decorazione architettonica, scultorea e figurativa. Atene, infine, continua a concentrare l’interesse per materiali e rinvenimenti; le numerose esplorazioni condotte dall’ente di tutela hanno offerto nuova luce su complessi importanti come l’agorà romana e la Biblioteca di Adriano, ma anche su numerose altre situazioni archeologiche. La Scuola americana ha proseguito le ricerche nell’agorà del Ceramico, in particolare nell’area Nord-Ovest e in altri punti della piazza. Emerge anche in questo caso il carattere complesso della stratigrafia di frequentazione e monumentale del sito, con una grande stoà di età classica, interpretata come la poikìle nota dalle fonti, nonostante alcuni dubbi. Di particolare interesse appare anche l’edizione dei depositi con materiali ceramici e tracce di produzione della fase geometrica della piazza, che ha determinato lo sviluppo di un interessante dibattito sui processi di formazione della città. Allo stesso tempo, l’attenzione si concentra nell’area alle pendici Est dell’Acropoli, dove si colloca un altro spazio pubblico, in corrispondenza del Pritaneo, per l’ubicazione del quale, come degli altri monumenti della zona, sono state proposte interpretazioni diverse. La ricerca sulla topografia ateniese vede, infine, un’importante edizione sistematica suddivisa in volumi, distinti per argomenti e per quartieri, curata dalla Scuola archeologica italiana. Sempre nel settore delle ricerche sull’urbanistica antica, due nuove acquisizioni riguardano la città di Kos e quella di Sicione, grazie all’applicazione di metodologie di indagine differenti. Nel primo caso, il recupero dei vecchi scavi e il rilievo sistematico dei nuovi, all’interno del complesso sviluppo costruttivo della città moderna, ha permesso di restituire in maniera completa la topografia del centro antico. Nel secondo, invece, le indagini non distruttive delle prospezioni hanno permesso di restituire la fisionomia dell’impianto nella forma ottenuta dopo la rifondazione di Demetrio Poliorcete in maniera complessiva e con un buon livello di dettaglio. In ambito coloniale, infine, di notevole importanza appaiono le scoperte effettuate a Cirene, comprendenti nuovi santuari extraurbani e il loro eccezionale arredo scultoreo e architettonico.
Per quanto concerne l’Italia, numerose sono le ricerche sul campo e la rielaborazione di dati già noti. Nell’area interessata dalla colonizzazione greca, notevoli sono i risultati degli scavi condotti nel sito di L’Amastuola, sia dall’ente di tutela, sia da una missione olandese, che hanno generato un proficuo confronto sulle forme della colonizzazione. La stessa fase cronologica, tra 8° e 6° sec. a.C., è stata indagata negli importanti siti di Incoronata e di Saturo, nei quali è ripresa l’esplorazione sul campo già con significativi risultati. Lavori per infrastrutture hanno permesso, invece, di scoprire presso Himera, in Sicilia, una parte della necropoli di età classica, che è stata identificata anche come area di sepoltura dei caduti nella battaglia svoltasi intorno al 470 contro i Cartaginesi.
Del tutto eccezionali sono i rinvenimenti di Torre di Satriano, che permettono di riconoscere la graduale trasformazione dell’abitato sin dall’età del Ferro. Nel sito spicca un grande edificio monumentale con un ricco arredo decorativo, di attrezzature e suppellettili, che permette di conoscere meglio forme e manifestazioni delle élites arcaiche di area enotria. Dopo l’affermazione dell’éthnos lucano, invece, da segnalare sono soprattutto le esplorazioni condotte nel sito di Civita di Tricarico, per le implicazioni di carattere storico, per la migliore definizione della cultura materiale e delle cronologie e per la riscoperta di una complessità insediativa che sinora non era stata presa in considerazione. Anche in molti altri siti italici è stato possibile iniziare a ricostruire il processo di formazione urbana, a volte rimasto interrotto nel corso del 2° sec. a.C., a volte proseguito nel tempo. In area latina, le esplorazioni condotte in diversi siti hanno offerto importanti risultati; a Gabii sono state indagate importanti testimonianze di età arcaica e repubblicana mentre a Cori emergono progressivamente nuovi monumenti pubblici, la complessità dell’apparato monumentale urbano e il suo sviluppo nel tempo. La ripresa degli scavi a Lavinio e a Nemi, come il recupero delle terrecotte di rivestimento templare arcaiche dell’edificio di culto in località Caprifico (Cisterna di Latina), costituiscono alcune tra le numerose nuove emergenze archeologiche dell’area.
Una citazione è obbligatoria nel caso della scoperta dei santuari di Campo della Fiera presso Orvieto, sito probabilmente riconoscibile nel Fanum Voltumnae noto dalle fonti, che attiene alla cultura etrusca, ma coinvolge anche la storia delle altre popolazioni italiche e di Roma.
Roma stessa continua a essere oggetto di scavi che offrono dati di fondamentale rilievo per la ricostruzione dello sviluppo urbano e culturale della città. Se si prescinde da una serie di novità importanti che riguardano sia il Campo Mar-zio sia lo stesso Palatino, sono le pendici di questo colle verso il Foro e la Velia che hanno fornito contesti di eccezionale interesse. Nella zona, i cantieri hanno riguardato la zona a sud del tempio di Vesta e quella verso la valle del Colosseo, entrambe esplorate da tempo con programmi sistematici. La seconda, in particolare, ha restituito una rilevante sequenza stratigrafica che permette di ricostruire la storia complessa di un’interessante area sacra e di altre testimonianze vicine. Alle diverse fasi di vita di questo settore urbano appartengono scoperte di notevole importanza, per quanto concerne sia i materiali sia le strutture, ma l’aspetto più significativo è rappresentato dalla possibilità di ricostruire uno schema di sviluppo che possa divenire un modello interpretativo. Anche in questo caso le ricerche hanno sollevato dubbi e discussioni, in particolare sulla lettura pro posta per le aree prossime al tempio di Vesta e sulle caratteristiche delle fasi iniziali dell’insediamento storico. Altri elementi nella stessa direzione provengono dalle ricerche condotte nel Foro di Cesare, che hanno permesso di individuare un settore di necropoli protostorica e, in successione, alcuni elementi della frequentazione urbana prima dell’erezione del complesso, chiarendo, di quest’ultimo, anche fasi costruttive e forme edilizie del settore di accesso. I lavori per la realizzazione della Linea C della metropolitana sono stati l’occasione di numerosi interven ti curati dall’ente di tutela che contribuiscono a mostrare la complessità dello sviluppo urbano. Tra le varie scoperte, l’esplorazione di un settore monumentale in Piazza Venezia ha restituito tre grandi aule rettangolari destinate ad attività pubbliche, con gradinate rettilinee interne, in cui si è proposto di riconoscere un settore dell’Athenaeum medioimperiale della capitale.
Il restauro e l’analisi delle statue provenienti dal relitto di Punta del Serrone presso Brindisi continuano a offrire nuove indicazioni sulla plastica in bronzo tra l’età ellenistica e il principato. In numerose città antiche dell’Italia, comunque, gli scavi sistematici permettono approfondimenti ed estensioni importanti della conoscenza (per es., Alba Fucens, Peltuinum, diversi insediamenti del Picenum, Ravenna, Aquileia).
Nelle provincie occidentali dell’impero la ricerca ha avuto uno sviluppo significativo soprattutto in Spagna. Esplorazioni più o meno sistematiche hanno permesso di conoscere meglio l’impegno architettonico e la fisionomia di numerose città della penisola iberica, ma è forse Tarragona, capitale di una delle province in cui era suddivisa, che ha rivelato gli elementi di maggiore interesse. L’altura sormontante l’insediamento romano, che diventò il cuore dell’abitato medievale, nella prima età imperiale era stata occupata da un esteso complesso terrazzato che includeva uno stadio e una vasta piazza destinata al culto politico di Roma e della famiglia imperiale con due fasi principali, che sono entrambe comprese entro il 1° sec. d.C. Le dimensioni, l’impegno economico, la complessità costruttiva denotano questa enorme area monumentale, facendone una delle principali del mondo romano, con un’adesione ai modelli formulati a Roma che si esplica attraverso una rielaborazione autonoma. Le grandi capitali delle principali province erano quindi oggetto di programmi monumentali di notevole impegno e il caso di Tarragona, con il suo grande complesso santuariale, che forse ospitava le competenze rappresentative della provincia stessa (mentre la città sottostante era la sede della monumentalità pubblica della specifica comunità), comincia a illustrare meglio analoghe situazioni riconoscibili sia in Occidente (Lione) sia in Oriente (Efeso, Hierapolis, Gortina di Creta).
Sono però le numerose ricerche condotte nelle diverse regioni dell’Europa, su contesti non necessariamente denotati da un impegno architettonico rappresentativo, e spesso anche su strutture semplici e in materiali deperibili, a mostrare la complessità e la capillarità del processo insediativo in età imperiale. La Gallia, la Britannia, le due Germanie, ma anche le complesse zone di confine restituiscono dati e materiali che mostrano il progressivo inserimento, con diverse forme, di comunità eterogenee all’interno della rete culturale ed economica mediterranea, anche in maniera indipendente dalla presenza militare romana. La ricerca rivaluta e chiarisce meglio il ruolo delle élites locali e la loro capacità di coinvolgimento, con forme diverse, all’interno del sistema, segnalando spesso l’inadeguatezza del concetto tradizionale di romanizzazione, cui si è fatto riferimento in precedenza. Non si può evitare di ricordare, infine, come al normale progresso conoscitivo si affianchino gravi depauperazioni delle aree archeologiche dovute al commercio clandestino; a questa ingiuria endemica si affiancano ora gli enormi danni causati dai conflitti sorti nei Paesi arabi del Mediterraneo meridionale, in particolare in ῾Irāq e in Siria.
Mancano sistematici repertori bibliografici di aggiornamento a cui poter rimandare in maniera sintetica, mentre si dispone piuttosto di bibliografie parziali, con una distinzione per temi e ambiti geografici, come nel caso della «Revue archéologique» o di «Kernos»; recensioni bibliografiche sistematiche in «Gnomon» e su altre riviste, tra cui l’«American journal of archae ology». Anche i notiziari sono diffusi, ma fortemente parcellizzati; tra quelli connessi alle attività promosse dalle accademie archeologiche si può citare in particolare «Archäologischer Anzeiger», per il carattere complessivo delle informazioni fornite nei vari settori di attività degli archeologi tedeschi.
Per la Grecia e il mondo egeo si vedano «Archaiologikon Deltion» e «Archaeological reports», on-line dal 2009 in collaborazione con la «Chronique des fouilles» già compresa nel «Bulletin de correspondance hellénique».
Per l’Italia meridionale e gli ambienti coloniali d’Occidente Atti dei Convegni dell’Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia. La «Chronique des fouilles des activités archéologiques de l’École française de Rome» (dal 1984 come parte dei «Mélangesde l’École française de Rome. Antiquité»; dal 2012, come rivista elettronica autonoma) presenta interventi e ricerche sul territorio italiano; più ampia la presentazione degli scavi in «Fasti on-line», che riprende una storica testata dell’a. italiana, aggiornandola nella versione on-line (attiva in questa forma dal 2000) e rivolta non solo al territorio italiano, ma anche a varie regioni europee e al Marocco, in maniera indipendente dalle fasi storiche.
Sui popoli dell’Italia preromana, una sintesi aggiornata con bibliografia in Les peuples de l’Italie préromaine: identités, territoires et relations inter-ethniques en Italie centrale et septentrionale (VIIIe-Ier s. av. J.-C.), éd. S. Bourdin, Rome 2012, e in Origines. Percorsi di ricerca sulle identità etniche nell’Italia antica – Identity problems in Early Italy: a workshop on methodology, «Mélanges de l’École française de Rome», 2014, 126, 2. Per l’area latina e centroitalica, di particolare importanza gli Atti del Convegno Lazio e Sabina, Roma 2002, a cura di J. Rasmus Brandt, X. Dupré Raventós, G. Ghini, Roma 2003.
Per Roma, un repertorio fondamentale è fornito dal «Bullettino della Commissione archeologica»; sulle scoperte recenti si vedano inoltre: Cantieristica archeologica e opere pubbliche: la linea C della metropolitana di Roma, tratta T4: stazioni San Giovanni, Lodi: indagini 2010-2011, a cura di R. Rea, Milano 2012; Roma: scavi archeologici e scoperte degli ultimi 10 anni, a cura di H. Di Giuseppe, E. Fentress, Roma 2014.
È molto più dispersa la bibliografia sulle province occidentali, per le quali forniscono un importante riferimento soprattutto le riviste «Gallia», «Jahrbücher des Römisch-Germanischen Zentralmuseums», «Britannia». Più in generale sul mondo romano si vedano «Papers of the British School at Rome» (comprende contributi su tutte le fasi cronologiche, anche postantiche, in Italia, in Europa e nel Mediterraneo), «Journal of Roman studies», «Journal of Roman archaeology».
di Paola Buzi
Le indagini archeologiche condotte in Egitto hanno visto il progressivo sensibile incremento della collaborazione tra specialisti di diverse discipline, nella consapevolezza che solo l’unione di differenti competenze possa favorire una reale comprensione di siti che sono spesso frutto della stratificazione di numerose fasi antropi che. Tale orientamento, che ha messo in campo, finalmente anche in Egitto, l’uso di nuove tecnologie e strumentazioni (laser scanner, magnetometri, droni ecc.), oltre a favorire una documentazione più accurata, ha consentito di ottimizzare i tempi e di selezionare con maggiore discernimento le aree in cui è opportuno intervenire.
Le condizioni climatiche egiziane, infatti, unite al fatto che le missioni di scavo, con poche eccezioni, lavorano per periodi relativamente brevi, rendono particolarmente importante la scelta di una strategia di lavoro mirata ed efficace, tanto più in una situazione politica che, dalla rivoluzione del 2011, è fortemente instabile, con il risultato che non pochi siti archeologici vengono periodicamente saccheggiati da ‘cercatori di tesori’.
È in quest’ottica che sono stati concepiti numerosi progetti di mappatura (per es. The Delta survey) e di archeologia regionale (Fayyūm, New Valley, Deserto Orientale ecc.), spesso costituiti da consorzi di missioni che lavorano contemporaneamente in più siti della stessa regione. Tra di essi spicca, per i sorprendenti risultati, archeologici e testuali, il Dakhleh oasis project, attraverso la cui attività, tra le altre cose, si è potuto chiarire che, nonostante i costanti scambi commerciali con la Valle del Nilo, fino all’Antico Regno l’oasi di Dakhleh ha sviluppato forme culturali e artistiche del tutto indipendenti (cultura di Sheikh Muftah) e in stretta comunicazione con l’Africa interna, come dimostra anche la rete di vie carovaniere attrezzate per il rifornimento idrico che si diramava dall’oasi.
Continuano naturalmente anche le ricerche in aree più circoscritte e nei cantieri ‘storici’, con notevoli risultati per ognuna delle principali fasi dell’a. egiziana.
Per il periodo precedente e immediatamente seguente l’unificazione dell’Egitto a opera di Menes/Narmer, di grande interesse sono i lavori condotti a Buto (Per Uadjet) dal Deutsches Archäologisches Institut che indaga la fase di occupazione del sito risalente alla I dinastia. Si tratta di un luogo chiave per la comprensione delle dinamiche della formazione dello Stato, oltre che delle forme di culto della fase dinastica più remota.
L’evoluzione delle prassi funerarie e delle credenze proprie della classe dirigente dell’Antico Regno è al centro delle ricerche della missione dell’Università di Praga che ad Abusir ha identificato un intricato e ricco complesso di tombe ipogee della V dinastia (regno di Djedkara Isesi), compresa quella della principessa Sheretnebty, che costituisce il fulcro del complesso stesso.
A Dashur la missione del Metropolitan Museum continua l’indagine della piramide di Sesostri III, interessante esempio di come questo tipo di complesso sepolcrale si evolva nel Medio Regno.
La nuova sensibilità dell’egittologia per la topografia urbana è la principale ragione della ripresa dei lavori del Metropolitan Museum a Malqata, che preserva i resti del tempio-palazzo che Amenhotep III fece costruire per celebrare le sue tre feste heb-sed (giubilei). Dal 2008 le indagini archeologico-topografiche sono prevalentemente concentrate sulla planimetria della città e sul suo rapporto con il porto fluviale a essa connesso.
Ad Amarna, contemporaneamente allo svolgimento di scuole di bioarcheologia, sono riprese le indagini del ‘grande recinto’ di Aton.
Il sito di Karnak, grazie alla sua ricchezza di documentazione e alla diacronicità delle attestazioni, si sta dimostrando un punto di vista privilegiato per l’osservazione del fenomeno dell’avanzamento di Osiride quale divinità primaria nella religione egiziana del I millennio a.C. I lavori dell’IFAO (Institut Français d’Archéologie Orientale) nel settore nord del tempio indagano da tempo proprio questo aspetto, dapprima con una campagna epigrafica in strutture del 6° sec. a.C., poi attraverso lo scavo delle ‘catacombe osiriane’, e ora per mezzo dell’indagine di una specifica cappella. Ne emerge il chiaro legame sacrale di tale area con i misteri osiriaci di Abydos e l’esistenza di un percorso processionale che connetteva a Tebe vari edifici legati al culto del dio.
All’Università di Strasburgo si deve l’analisi della tomba di Padiamenope (Valle dell’Asasif). Appartenuta a un funzionario della XXV-XXVI dinastia, con le sue 22 stanze è la più ampia della necropoli e ha fornito novità sull’architettura funeraria del periodo, mostrando affinità sia con le tombe della Valle dei Re sia con gli ambienti funerari delle piramidi della VI dinastia.
Le novità archeologiche più significative degli ultimi anni provengono però probabilmente da siti tolemaico-romani. La missione archeologica dell’Università di New York, in collaborazione con l’Università del Salento, attiva nell’antica Trimithis (oasi di Dakhleh), sito abitato già dal 3° millennio a.C. e definitivamente abbandonato verso la fine del 4° sec. d.C., ha effettuato ritrovamenti destinati a cambiare del tutto la valutazione della geografia insediativa di età romana. La missione, tra le altre cose, sta infatti mettendo in luce i resti di un’articolata città del 4° sec. alla cui fase appartiene la casa di Serenos, membro del locale consiglio cittadino, comprendente una scuola in cui si impartiva l’insegnamento della lingua greca. Si tratta di un ritrovamento eccezionale, data la rarità delle testimonianze di luoghi adibiti a uso scolastico e ciò per tutto il periodo tolemaico-romano. Una ricchezza, quella mostrata dalla romana Trimithis, confermata anche dalla non lontana Kellis, non a caso appellata Pompei del deserto.
K.A. Bard, An introduction to the archaeology of ancient Egypt, Oxford 2008 (trad. it. Archeologia dell’antico Egitto, Roma 2013); P. Spencer, Digging diary, «Egyptian archaeology», 2008, 33-2014, 45. Si vedano inoltre: Fouilles et travaux en Égypte et au Soudan, http://www.egyptologues.net/orientalia/chroniques (4 maggio 2015); http://www.ifao.egnet.net/revuepresse/ (4 maggio 2015).
di Marcella Frangipane
Le ricerche archeologiche degli ultimi dieci anni hanno messo in luce la complessità e la varietà di quei fenomeni fondativi, quali la nascita delle prime società agricole di villaggio e delle più antiche società urbane e statuali, di cui il Vicino Oriente è stato teatro primario, e, al tempo stesso, hanno evidenziato la costante interazione che ha legato tra loro le comunità di queste regioni nel corso di parecchi millenni, giustificando l’uso di un termine unitario per designarle al di là delle considerevoli diversità ambientali e culturali.
Gli scavi condotti negli anni Duemila in vari siti del medio e alto Eufrate e dell’alto Tigri turco, in occasione della costruzione di dighe, hanno mostrato che in varie regioni della cosiddetta mezzaluna fertile le comunità epipaleolitiche sperimentarono processi di domesticazione diversi e differenti tipi di adattamento alle nuove tecnologie di sussistenza. Mentre la prevalente attenzione ai caprovini nelle valli intermontane degli Zagros favorì lo sviluppo di modi di vita mobili, l’enfasi maggiore sui cereali fu la causa della precoce sedentarizzazione, attestata sin dall’11°-10° millennio a.C., in tutta la metà occidentale della mezzaluna fertile (Levante e Tauro), dove villaggi complessi come Tell el-῾Abr o Jerf el Ahmar precedettero di parecchi secoli la fondazione dei grandi siti del Neolitico preceramico B. Altra peculiarità regionale si riscontra nell’alto Tigri turco, dove, nel 10° millennio a.C., sorse Körtik Tepe, un villaggio esteso con sepolture sotto le capanne e una straordinaria produzione di vasi e oggetti in pietra decorata pur in assenza di una base alimentare cerealicola, mentre ad Hallan Çemi si sperimentava un’iniziale e precocissima domesticazione del maiale. Le ricerche ancora in corso nel 2015 nell’ormai famoso sito di Göbekli, con i suoi santuari e giganteschi pilastri scolpiti a figure animali ed elementi simbolici, hanno rivelato che nella regione ai piedi del Tauro, nel momento di transizione dalle economie predatorie a quelle produttive, il rituale assunse forme di straordinaria imponenza e divenne un importante elemento di unità e coesione sociale.
Indagini archeologiche condotte da missioni turche e inglesi in Anatolia centrale in vecchi e nuovi siti, da Aşıklı e Çatal Hüyük a Boncuklu, Musular e Tepecik-Çiftlik, hanno rivelato l’esistenza di un altro nucleo di precoce ‘rivoluzione agricola’ nel 9°-8° millennio, e di un originale sviluppo culturale neolitico, mentre le ricerche intraprese negli ultimi dieci anni da équipes turche e olandesi in vari siti dell’Anatolia nord-occidentale e della Tracia turca offrono informazioni innovative sulle complesse dinamiche di ‘neolitizzazione secondaria’ e di diffusione dei nuovi modi di vita verso l’Egeo e l’Europa continentale.
In Turchia, la costruzione di dighe sul Tigri e sull’Eufrate ha stimolato molteplici indagini nelle valli medio-alte dei due fiumi, restituendo importanti novità anche sulle culture di Hassuna e Samarra, originarie della Mesopotamia settentrionale e centrale, che nel corso del 7° e 6° millennio a.C. estesero enormemente le loro relazioni interregionali raggiungendo le montagne dell’Antitauro.
Questo sistema di relazioni su ampia scala geografica nel mondo mesopotamico allargato giocò un ruolo decisivo anche nella successiva formazione di società gerarchiche complesse.
L’intensa attività archeologica nelle aree settentrionali del Vicino Oriente, come la Siria (oggi purtroppo preclusa) e la Turchia, ha permesso di evidenziare l’importante ruolo svolto anche da queste regioni nei fenomeni di sviluppo delle prime civiltà urbane e statali. Le indagini in abitati di grandi dimensioni della regione del Khabour, come Tell Brak e Hamoukar, e in un sito dell’alto Eufrate turco come Arslantepe, più piccolo, ma con un’imponente area pubblica protopalaziale, hanno mostrato che straordinari centri di potere politico ed economico-amministrativo sorsero anche nel Nord, con e senza urbanizzazione, ed ebbero uno sviluppo autonomo e originale già agli inizi del 4° millennio.
Gli scavi nelle aree a Sud del Caucaso e dell’Anatolia nord-orientale hanno evidenziato la rilevanza di queste regioni, ricche di giacimenti metalliferi, nello sviluppo della metallurgia, e un probabile coinvolgimento delle loro popolazioni, prevalentemente pastorali e mobili, nei fenomeni di dissoluzione o trasformazione delle prime società protostatali settentrionali alla fine del 4° millennio. Gli scavi nel sito di Başur Höyük in Anatolia orientale, per es., hanno portato in luce eccezionali sepolture a cista di pietra dell’età del Bronzo antico I del tutto estranee alle tradizioni funerarie mesopotamiche e riferibili piuttosto al mondo transcaucasico, nelle quali, a corredi ricchissimi di oggetti di metallo, anch’essi legati a tradizioni settentrionali, si uniscono ceramiche dipinte tipiche della Mesopotamia settentrionale (Ninevite 5). Una simile ibridazione di culture è attestata anche nella zona dell’Eufrate anatolico.
Negli ultimi dieci anni l’attività di scavo nel Levante è stata molto intensa, con ritrovamenti significativi anche nelle aree desertiche della Giordania (Khirbet al-Batrawi). I ritrovamenti riferibili al 4° e 3° millennio a.C. mostrano un processo di ‘urbanizzazione’ con caratteristiche diverse da quella mesopotamica o egiziana, con centri spesso fortificati, aree pubbliche senza evidenze significative di attività redistributive o amministrative, metallurgia sviluppata e testimonianze di attività di scambio.
Un modello con aspetti affini è emerso in Anatolia occidentale, dove scavi in siti come Kulluoba e Limantepe hanno confermato uno sviluppo simile a quanto già evidenziato a Troia e a Karataş, con cittadelle fortificate racchiudenti edifici a carattere pubblico o comunitario, divenute, soprattutto dall’età del Bronzo antico II in poi, sedi del potere politico di élites emergenti. Oggetti rinvenuti in questi siti confermano le relazioni con l’Anatolia interna, la Tracia e l’Egeo.
Non si hanno molti dati nuovi sulle civiltà sud-mesopotamiche e iraniche del 3° e 2° millennio a causa delle difficoltà politiche che hanno impedito per molti anni di lavorare in quelle regioni. Dal 2011-12 sono stati avviati scavi nel Sud dell’῾Irāq presso Ur ed Eridu, e in siti del Kurdistan iracheno, ma molti di questi sono stati quasi subito interrotti o sospesi per il nuovo precipitare della situazione politica. Ancora una volta le attività in Siria, con gli scavi di Ebla, Mari, Tell Mozan, Tell Brak, Tell Beydar, hanno offerto le maggiori informazioni, arricchite dallo studio degli archivi reali (Ebla e Mari) e dalla scoperta di nuove tavolette (Tell Beydar).
In Anatolia, gli scavi ripresi nel 2009 a Kültepe-Kanış hanno messo in luce un grande edificio del Bronzo antico III, probabilmente a carattere amministrativo, con un migliaio di impressioni di sigillo (cretulae) recanti iconografie siro-mesopotamiche, che rivela come il sito fu un potente centro anatolico in contatto con l’impero accadico e polo di una rete commerciale internazionale già alla fine del 3° millennio, prima dell’impianto delle colonie paleoassire. Scavi condotti in nuovi e vecchi siti nel cuore dell’impero ittita, come Boğazköy-Hattusha, Alaça, Kuşaklı, offrono nuove importanti informazioni sulla natura e sulla storia del grande impero centro-anatolico, mentre ricerche nelle aree orientali più periferiche ad Arslantepe, Tell Tayinat, Zincirli e Karkemish, per citarne solo alcune, illustrano gli eventi successivi al crollo dell’impero nella delicata transizione all’età del Ferro, contribuendo al dibattito sulla formazione dei regni autonomi di età neoittita.
K. Schmidt, Sie bauten die ersten Tempel: das rätselhafte Heiligtum der Steinzeitjäger, München 2006 (trad. it. Sestri Levante 2011); G. Algaze, Ancient Mesopotamia at the dawn of civilization, Chicago 2008; A. Sagona, P. Zimansky, Ancient Turkey, London - New York 2009; Economic centralisation in formative states. The archaeological reconstruction of the economic system in 4th millennium Arslantepe, ed. M. Frangipane, Roma 2010; The Oxford handbook of ancient Anatolia, ed. S.R. Steadman, G. McMahon, Oxford 2011; Neolithic in Turkey, ed. M. Özdoğan, N. Başgelen, P. Kuniholm, 5 voll., Istanbul 2011-2013; Il Vicino Oriente antico. Dalle origini ad Alessandro Magno, a cura di L. Milano, Milano 2012; M. Liverani, Immaginare Babele, Bari 2013; Ebla and its landscape. Early state formation in the ancient Near East, ed. P. Matthiae, N. Marchetti, Walnut Creek 2013; Western Anatolia before Troy. Proto-urbanisation in the 4th millennium BC?, Proceedings of the International symposium, Wien 2012, ed. Barbara Horejs, Mathias Mehofer, Wien 2014.
di Massimo Vidale
Intorno a 1,4 milioni di anni fa ominini giunti dall’Africa e dalla penisola arabica si erano ben adattati nelle regioni del Levante, diffondendosi nell’entroterra cinese 1 milione di anni fa circa. Oltre ai ben noti resti di ominini nell’arcipelago indonesiano (1,8-1,6 milioni di anni fa ca.), ai manufatti in pietra scheggiata straordinariamente antichi trovati a Riwat, nell’altopiano di Potwar in Pakistan (più di 2 milioni di anni), si sono aggiunte altre stazioni di industria litica lungo i monti Siwalik variamente datate tra 2,2 e 1,4 milioni di anni.
In tutto il resto del Subcontinente, con l’eccezione dell’Acheuleano arcaico (1,2 milioni di anni) nel sito di Isampur Quarry, nel cuore del Deccan, i siti più antichi oscillano tra 700.000 e 250.000 anni. Nel Nord-Est del deserto del Thar, nel sito stratificato di Katoati, industrie del Paleolitico medio appartengono a una fase climatica più umida di circa 60.000 anni fa. Industrie simili (schegge e punte Levallois, raschiatoi e lame con piattaforma a chapeau de gendarme) sono state studiate da Paolo Biagi ed Elisabetta Starnini (2014) nel Sindh meridionale. Questi complessi sono ormai identificati senza interruzioni dalle coste dello Yemen e del Dofar fino a quelle meridionali del Golfo Persico, una delle possibili rotte di diffusione di forme umane moderne verso il Subcontinente. Si ipotizza, al proposito, l’uso di imbarcazioni a partire da età molto arcaiche. La navigazione preistorica, d’altra parte, ebbe un ruolo fondamentale almeno dall’inizio dell’Olocene (ca. 12.000-10.000 anni fa), alla luce della somiglianza degli adattamenti delle comunità di cacciatori-raccoglitori nei mangroveti e negli ambienti perilagunari di entrambe le coste orientali del Golfo Persico e del Mare d’Omān. La valle di Las Bela, le coste del Makran e del Baluchistan pakistano sono costellate di shell middens – cumuli di conchiglie, ossa di pesci, uccelli e mammiferi marini – su antiche terrazze marine pleistoceniche, con focolari, strumenti in pietra, in conchiglia e osso, risalenti al 7° millennio a.C.
Il quadro dell’inizio dell’agricoltura e dell’allevamento nel Subcontinente continua a complicarsi. Ai tre principali nuclei di diffusione agricola già noti in Eurasia (Levante e Vicino Oriente, bacino dello Yangtze in Cina per la risicultura, e steppe asiatiche nord-orientali per il miglio) si accostano altri possibili (anche se più tardi) centri di origine nel Deccan meridionale, in Gujarat (miglio e leguminose), nelle fasce pedemontane dell’Himalaya occidentale e nelle pianure gangetiche dell’India nord-orientale (riso), dove l’effettiva antichità della domesticazione del riso è oggetto di accese discussioni.
Dopo il conflitto afghano (dal 1978 in poi) innumerevoli cimiteri preistorici in Afghānistān, nel Baluchistan pakistano e nelle regioni di confine tra Pakistan e Irān sono stati saccheggiati. Decine di migliaia di manufatti preistorici delle culture di Nal e Kulli (3° millennio a.C.) sono stati trafugati per confluire in collezioni private e musei di varie parti del mondo. Solo una piccola parte è stata recuperata, consegnata alle autorità competenti e pubblicata (malgrado l’irreparabile perdita delle informazioni di provenienza). L’aggravarsi delle condizioni di sicurezza in Afghānistān e Pakistan ha fortemente ridotto le attività di scavo di missioni straniere; chiuso lo scavo di Harappa (2001), nuove indagini estensive sono state eseguite soprattutto in India nord-occidentale, negli Stati dell’Haryana e Gujarat. Ricerche a Rakhigarhi (distretto di Hissar, Haryana) rivelano che il sito si estende per 400 ha, areale comparabile o superiore a quello di Mohenjo Daro. La disposizione topografico-urbanistica, per cittadelle murate e accessi controllati, è molto simile a quelle di Harappa e Mohenjo Daro. Ricerche in corso nel Sindh, in Pakistan, rivelano che Lakheen-jo Daro, 100 km ca. a nord di Mohenjo Daro, nell’attuale periferia industriale di Sukkur, si estende da nord a sud per tre chilometri, qualificandosi così come un altro grande sito protourbano. Gli scavi rivelano case in mattoni cotti, strade, piattaforme da bagno, scale, canalizzazioni fognarie coperte; tra i reperti, sigilli in steatite, una figurina in rame, una tavoletta minia-turistica con l’immagine di colonne a segmenti sovrapposti, ornamenti e oggetti in avorio.
In India, importanti sono gli scavi del sito di Farmana, sempre in Haryana. Centro di dimensioni intermedie (ca. 20 ha), ospitava lussuose abitazioni (fino a 26 stanze interne, tre-quattro cucine e altrettante stanze da bagno). Nelle 70 tombe scavate, una parte della popolazione era stata sepolta con ceramiche, bracciali in conchiglia e rame, elementi di collana e orecchini nello stesso metallo. Si coltivavano grano, orzo, migliacee, fagiolo di Madras, melanzane, mango, zenzero, curcuma, falasco; in altri centri tra le fibre tessili sono state identificate la seta e la iuta.
A sud, il territorio della civiltà dell’Indo (2600-1900 a.C.) in Gujarat era protetto da una linea di villaggi fortificati, con spesse mura in mattone crudo, bastioni e torri angolari, partecipi delle reti commerciali che rifornivano di risorse rare (agata, diaspro, conchiglie marine) i mercati dell’entroterra. Questo sistema, probabilmente incentrato su Dholavira, comprende i forti di Gola Dhoro (Bagasra, scavi 1996-2005), Shikarpur (2008-12, porto marino e centro industriale), Kotada-Bhadli e altri. Vi vivevano comunità culturalmente e forse etnicamente legate alla valle dell’Indo, e società locali, che sembrano distinte le une dalle altre dall’uso di oggetti diversi e diversi regimi alimentari.
La penisola araba orientale mostra intensi contatti con il Subcontinente. In grandi edifici circolari in pietra scavati a Bat e Salut, nell’῾Omān interno, compaiono sigilli in steatite di tipo indiano, ma prodotti localmente, ed elementi di collana dell’Indo in cornalina. Questi oggetti si aggiungono alle ceramiche importate da Est, che ora non si limitano a grandi giare da trasporto, ma includono anche comuni vasi da cucina, a sostenere l’ipotesi di un radicamento maggiore di quanto sinora sospettato.
Sono in corso ricerche paleoclimatiche di ampio respiro, che cercano di valutare l’effetto di un incremento dell’aridità verificatosi anche nella valle dell’Indo alla fine del 3° millennio, e le modalità della migrazione verso il bacino gangetico del corso occidentale della valle, variamente chiamato Hakra-Ghaggar-Sarasvati. Tra le ricerche sulle culture dell’età della Localizzazione (1900-1300 a.C. ca.) si ricordano lo scavo della ricca necropoli di Sanauli (Uttar Pradesh, India), i cui corredi legano le fasi finali della civiltà dell’Indo alla cultura dei cosiddetti ripostigli gangetici in un quadro di montante militarismo, e una nuova campagna di scavo delle necropoli della tarda età del Bronzo dello Swat, che stanno producendo quadri del tutto nuovi sulla ritualità funeraria di queste popolazioni dardiche, tra le prime, forse, a introdurre nel Subcontinente una o più lingue indo-arie.
N. Shaik, G.M. Veesar, Q.H. Mallah, The excavation of the Indus period site Lakhan-Jo-Daro 2006, «Ancient Sindh», 2004-2005, 8, pp. 7-193; K. Bhan, P. Ajithprasad, Excavations at Shikarpur, Gujarat, 2008-2009, http://a.harap pa.com/content/excavations-shikarpur-gujarat-2008-2009; Harappan necropolis at Farmana in the Ghaggar basin, ed. V. Shinde, T. Osada, A. Uesugi et al., New Delhi 2009; C.P. Thornton, Mesopotamia, Meluhha, and those in between, in The Sumerian world, ed. H. Crawford, London 2012, pp. 598-617; V.N. Prabhakar, Ceramic typology of the late harappan cemetery at Sanauli, Uttar Pradesh, «Heritage. Journal of multidisciplinary studies in archaeology», 2013, 1, pp. 78-103; P. Biagi, Shell middens of the coast of Balochistan, in Encyclopaedia of the history of science, technology, and medicine in Non-Western cultures, Berlin-Heidelberg 2014, pp. 1-21; P. Biagi, E. Starnini, Neanderthals at the South-Easternmost edge:the spread of levalloisian Mousterian in the Indian Subcontinent, in Aeolian scripts. New ideas on the lithic world. Studies in honour of Viola T. Dobosi, ed. K.T. Biró, A. Markó, K.P. Bajnok, Budapest 2014,pp. 11-22; D.Q. Fuller, C. Murphy, Overlooked but not forgotten:India as a center for agricultural domestication, «General anthropology», 2014, 21, 2, pp. 1-8; Simboli vivi. Il potere delle immagini nelle ceramiche preistoriche del Pakistan, a cura di G. Lombardo, M. Vidale, catalogo della mostra, Roma, Museo nazionale d’arte orientale Giuseppe Tucci, Roma 2014.
di Marco Meccarelli
Gli studi condotti negli ultimi anni tendono sempre più ad adottare un approccio multidisciplinare, in una visione geograficamente estesa e comparata, che vede nelle massicce correnti di interazione, più o meno circoscritte, la premessa alla formazione delle diverse aree culturali. Sebbene non vi siano ancora prove sufficienti per respingere la teoria out-of-Africa sull’origine degli esseri umani moderni in Estremo Oriente, i nuovi dati raccolti nel corso dell’ultimo decennio, come le scoperte nel 2007 a Lingjing (provincia di Henan) di frammenti cranici di Homo sapiens di 100.000-80.000 anni fa e, soprattutto, il rinvenimento nel 2009 nella grotta di Mulan (Guangxi) di una mandibola umana, attribuita, non senza contestazioni, a un Homo sapiens di 110.000 anni fa (Jin, Pan, Zhang et al. 2009), non permettono di escludere la possibilità di un’evoluzione indipendente, avallando in questo modo le ipotesi dell’origine multiregionale e/o della continuità locale con ibridazione (X. Gao, X. Zhang, D. Yang et al. 2010).
La ricognizione archeologica sull’estesa e diversificata area dell’Estremo Oriente rende complicata una periodizzazione comune, tanto da indurre diversi studiosi a evitare terminologie comparative di sviluppo unilineare, come Mesolitico e Neolitico. A tal riguardo, i recenti rinvenimenti di frammenti di ceramica presso il sito in grotta di Yuchanyan (Hunan) riferibili a 18.000-17.000 anni fa (Boaretto, Wu, Yuan et al. 2009), quelli scoperti nel sito in grotta di Xianrendong (Jiangxi) datati addirittura a 20.000 anni fa (Wu, Zang, Goldberg et al. 2012), assieme a quelli già attestati in Giappone (13.000 anni fa, cultura Jomon) e in Corea (8000 anni fa, cultura Chulmon), confermerebbero la mancanza di una relazione diretta – eccezionale nel contesto geografico dell’Asia orientale – tra l’uso della ceramica e le pratiche agricole.
I reperti riferibili alla fine del Pleistocene e all’Olocene antico rinvenuti tra l’Estremo Oriente russo, il territorio cinese, l’arcipelago giapponese e la penisola coreana, sembrano segnalare da un lato una ‘lenta’ conversione economica di caccia e raccolta in forme regionalmente specializzate di pesca-caccia-raccolta che hanno portato a forme di coltivazione preagricola, produzione fittile e probabili scambi tra gruppi, presso le culture Chulmon (Corea) e Jomon (Giappone); dall’altro lato, nella media valle del Fiume Giallo e nella zona dei laghi del Medio Yangzi, si assiste invece a un ‘veloce’ superamento della conversione in pesca-caccia-raccolta per dare avvio alle due principali tradizioni agricole della Cina storica: a nord miglio/panico e a sud riso. Nel territorio cinese, le interazioni culturali a livello regionale sono particolarmente evidenti nei reperti neolitici recentemente rinvenuti, che sono spesso in connessione con forti credenze religiose e rituali: nel sito di Beifudi (Hebei), scoperto nel 2003-04 (Duan 2007), la cui fase più antica va fatta risalire al 6000-5000 a.C., gli utensili prodotti in situ, assieme a maschere in terracotta a motivi incisi con fori perimetrali e anelli in giada ( jue), probabilmente utilizzati per i cerimoniali, così come segnalato anche dal rinvenimento di una ‘zona rituale’, sembrano attestare i contatti tra la Cina nord-orientale (culture Cishan 6000-5700 a.C. e Xinglongwa 6000-5400 a.C.) e la Pianura Centrale (Peiligang, 6500-5500 a.C.). Il raggiungimento di un maturo e complesso sistema di credenze religiose, dal carattere rituale e condivi so da tutto il tessuto sociale (Zhongguo Shehui 2008) pare riscontrarsi soprattutto nelle singolari abitazioni e in una composizione, realizzata con pietre bruno-rossastre, raffigurante un ‘drago’ (lungo 19,7 m), presso il sito di Chahai (Liaoning) della cultura Xinglongwa.
Altrettanto significativi sono i frammenti ceramici di più di 7500 anni fa di Gaomiao (Hunan), che attestano il coinvolgimento di comunità di raccoglitori, precedentemente sconosciuti in Cina, paragonabili alle popolazioni di raccoglitori dalle abitudini sedentarie presenti in Giappone (Jomon) e nel Medio Oriente (cultura Natufiana). Continua a essere oggetto di grande diaspora l’attribuzione di Erlitou (Henan), prima complessa forma di società urbana in Cina, alla omonima cultura o alla dinastia Xia (21°?-16°? sec. a.C., Li Liu 2009). L’analisi di reperti e la scoperta di nuove città in Henan (Zhang, Wu 2010) non forniscono ancora testimonianze scritte evidenti, ma sembrano convalidare il carattere multipolare del processo formativo delle entità statali, le cui relazioni non sono da intendersi tanto in senso verticale, lungo una linea ideale di successione dinastica, ma in senso prevalentemente orizzontale, come rapporti tra entità diverse, in una sfera di interazione molto estesa, in cui momenti di conflitto si sono alternati a fasi di supremazia. Particolarmente significativi sono i più recenti studi sulla cultura Jomon, che tendono ad allargare i confini geografici di indagine archeologica, fino a includere, oltre all’arcipelago giapponese, anche l’Asia orientale, l’Asia sudorientale, le isole del Pacifico, l’Australia e persino le Americhe (Brace, Seguchi, Nelson et al. 2014).
H. Duan, Beifudi: Yi Shui Liu Yu Shi Qian Yi Zhi (Beifudi: sito preistorico della valle del fiume Yi), Beijing 2007; Zhongguo Shehui Kexueyuan Kaogu Yanjiusuo (Istituto di archeologia dell’Accademia cinese delle scienze sociali), Zhongguo Kaoguxue, Shiqian juan (Archeologia cinese, volume sulla Preistoria), Beijing 2008; E. Boaretto, X. Wu, J. Yuan et al., Radiocarbon dating of charcoal and bone collagen associated with early pottery at Yuchanyan cave, Hunan province, China, «PNAS, Proceedings of the National Academy of science of the United States of America», 2009, 106, pp. 9595-600; C.Z. Jin, W.S. Pan, Y.Q. Zhang et al., The Homo sapiens cave hominin site of Mulan Mountain, Jiangzhou district,Chongzuo, Guangxi with emphasis on its age, «Chinese science bullettin», 2009, 54, pp. 3848-56; Li Liu, Academic freedom, politicalcorrectness and early civilization in Chinese archaeology: the debateon Xia-Erlitou relations, «Antiquity», 2009, 83, pp. 831-43; X. Gao, X. Zhang, D. Yang et al., Revisiting the origin of modern humans in China and its implications for global human evolution, «Science China Earth sciences», 2010, 53, pp. 1927-40; S. Zhang, Q. Wu, Xinzheng Wangjinglou faxian: Erlitou wenhua he Erligangwenhua chengzhi (Scoperte nel sito di Wangjinglou a Xinzheng: siti urbani della cultura Erlitou ed Erligang), «Zhongguo Wenwubao» (Giornale dei beni culturali cinesi), 4 dic. 2010, p. 28; X. Wu, C. Zang, P. Goldberg et al., Early pottery at 20,000 years ago in Xianrendong cave, China, «Science», 2012, 336, pp. 1696-700; C.L. Brace, N. Seguchi, A.R. Nelson et al., The Ainu and Jomon connection, in Kennewick man. The scientific inves tigation of an ancientAmerican skeleton, ed. D.W. Owsley, R.L Jantz, Texas 2014, pp. 463-71.
di Marco Meccarelli
Gli studi degli ultimi anni hanno fornito dati fondamentali per una più corretta comprensione della preistoria del Sud-Est asiatico. Sebbene la maggior parte degli studiosi si riveli concorde sulla successione culturale, restano dubbi per quanto concerne la scansione temporale. Gli antenati dei primi coltivatori di riso stabilitisi in Asia sud-orientale vivevano probabilmente nell’area settentrionale della valle dello Yangzi (Liu, Lee, Jiang et al. 2007), per poi spingersi a sud lungo la costa e i grandi fiumi fino alle vaste pianure fluviali del Sud-Est asiatico. Essi importarono i propri idiomi austro-asiatici, e stabilirono un sistema incentrato su comunità di villaggi stanziali caratterizzati da una sofisticata industria ceramica, attività tessile, scambi commerciali e una tradizione mortuaria che comprendeva sia l’inumazione sia l’incinerazione entro urne funerarie con coperchio. Alla fase neolitica d’insediamento seguì l’adozione della metallurgia del rame, che vide la produzione delle prime leghe di rame e stagno.
La transizione verso l’età del Ferro non è stata ancora precisamente datata: sono documentati solo in parte i tempi e i modi in cui le comunità riuscirono a sviluppare una sempre maggiore complessità sociotecnologica, fino al sorgere dei primi Stati, attorno al 4°-5° sec. d.C. L’unico sito dell’età del Ferro ampiamente scavato è quello di Noen U-Loke in Thailandia (The origins of the civilization of Angkor, 2007). Ulteriori scavi condotti presso il vicino sito di Ban Non Wat hanno permesso di gettare una luce sul probabile esordio della metallurgia del rame nel Sud-Est asiatico. L’utilizzo del paradigma bayesiano dell’inferenza statistica ha permesso di identificare e datare una sequenza culturale che, se confermata da analisi future, permetterà di ridurre radicalmente la durata della fase preistorica dall’iniziale stanziamento degli agricoltori alla fondazione dei primi Stati.
Nuovi importanti dati sono emersi da studi effettuati presso siti coevi in Myanmar. In quest’area ha assunto particolare rilevanza lo scavo di siti funerari nelle antiche città Pyu di Sri Ksetra e Beikthano, condotto negli anni 2011-14, che ha portato alla luce i resti di strutture in mattoni, una delle quali contenente oltre 200 urne cinerarie. Nel 2014 tali città Pyu (200 a.C.-900 d.C.), costruite nel bacino del fiume Ayeyarwady (Irrawaddy), insieme a Halin, hanno conseguito il titolo di patrimonio mondiale dell’umanità. Il complesso include resti di costruzioni, siti funerari e di produzione industriale, monumentali stupa in mattoni, mura e un sistema di gestione delle acque propedeutico all’agricoltura intensiva. L’iscrizione nei registri UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è stata fortemente caldeggiata dal governo italiano e dalla fondazione Lerici del Politecnico di Milano, alla quale si deve il rinvenimento delle importanti evidenze archeologiche.
I dati più numerosi emersi negli anni 2007-14 provengono tuttavia dal Vietnam. Del 2007 è lo scavo di una tomba riconducibile alla cultura Phung Nguyen (35004000 anni fa) nel distretto di Vinh Tuong, provincia di Vinh Phuc, che ha portato alla luce centinaia di utensili in pietra e gioielli. Numerose le evidenze e i nuovi ritrovamenti in seno all’abbondantemente documentata cultura Sa Huyhn (1000 a.C.-200 d.C.), tra cui le 216 sepolture preistoriche scoperte nella provincia centrale di Thua Thian-Hue. Lo scavo presso un sito archeologico nella provincia meridionale di Khanh Hoa ha inoltre restituito circa 120.000 manufatti in ceramica e utensili in metallo. I ritrovamenti ne attestano lo status di sito rilevante per la produzione ceramica risalente ad almeno 3000 anni fa. Nel 2008, oltre al rinvenimenro di manufatti risalenti a circa 40.000 anni fa e appartenenti alla cultura di Ha Long, in prossimità di una grotta preistorica nella provincia nord-orientale di Quang Ninh, va segnalata anche la scoperta di una grotta neolitica a Cao Bang che ha portato alla luce utensili e minerali utilizzati nella pittura corporale. Inoltre, una sepoltura Dong Son, datata a circa 1800 anni fa, è stata rinvenuta vicino alla città di Hai Phon. Numerosi anche i ritrovamenti riconducibili alla cultura Cham (5°-16° sec.) presso la città di Danang e nelle province di Binh Dinh e Ba Ria-Vung Tau. Qui, in prossimità del villaggio di Go Cat, sono emerse evidenze di una cittadella in laterite e utensili che sembrano risalire al 6°-7° secolo. Nel 2010 la sezione centrale della cittadella imperiale di Thang Long (Hanoi), costruita dai dinasti Ly nell’11° sec., è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità. Potenzialmente interessante per le possibili implicazioni socioculturali è stato inoltre il rinvenimento della cosiddetta Grande muraglia vietnamita (Truong Luy), che corre per circa 200 km attraverso le province di Binh Dinh e Quang Ngai, ufficialmente riconosciuta patrimonio nazionale nel 2011.
Da segnalare, infine, l’iscrizione di altri siti di interesse archeologico nella World heritage list: Malacca e George Town (Malaysia, 2008), il tempio khmer di Preah Vihear (Cambogia, 2008), la cittadella della dinastia Ho (Vietnam, 2011) costruita secondo i principi del feng shui e testimonianza della fioritura del neoconfucianesimo nel Vietnam del 14° sec., la valle di Lenggong (Malaysia, 2012) con i suoi quattro siti archeologici che coprono una storia lunga quasi due milioni di anni, un complesso unico nel suo genere in Asia sud-orientale, e il complesso paesaggistico di Trang An (Vietnam, 2014), sito d’interesse naturale e archeologico che presenta tracce di insediamenti umani databili a 30.000 anni fa.
L. Liu, G.-A. Lee, L. Jiang et al., Evidence for the early beginning (c .9000 cal BP) of rice domestication in China: a response, «The holocene», 2007, 17, pp. 1059-68; The origins of the civilization of Angkor, 2° vol., The excavation of Noen U-Loke and Non Muang Kao, ed. C.F.W. Higham, A. Kijngam, S. Talbot, Bangkok 2007; C. Higham, T. Higham, A new chronological framework for prehistoric Southeast Asia, based ona Bayesian model from Ban Non Wat, «Antiquity», 2009, 83, pp.125-44; Champa and the archaeology of Mỹ So’n (Vietnam), ed. A. Hardy, M. Cucarzi, P. Zolese, Singapore 2009; C. Higham, Early mainland Southeast Asia. From first humans to Angkor, Bangkok 2014; T. Lwin, W. Kyaing, J. Stargardt, The Pyucivilization of Myanmar and the city of Śrī Kṣetra, in Lost kingdoms.Hindu-buddhist sculpture of early Southeast Asia, ed. J. Guy,New Haven 2014, pp. 63-68.
di Maria Antonietta Marino
La definizione di a. islamica è stata recentemente oggetto di dibattito dal punto di vista teorico; in linea generale viene oggi accettata la pragmatica definizione secondo cui l’a. islamica studia gli aspetti materiali del passato in territori governati da un’élite professante la religione islamica. Si tratta di una definizione di tipo geografico e cronologico che dev’essere intesa in maniera elastica poiché deve tenere conto di aspetti sociali diversi propri del mondo islamico, come la multiculturalità dovuta alla consistente presenza di etnie e religioni diverse, cristiana ed ebraica in particolare, e deve considerare, d’altro lato, anche le evidenze islamiche in contesti ‘di frontiera’ dove le comunità musulmane vivevano sotto altre dominazioni, come per es. è avvenuto in Sicilia, in Spagna, in Asia centrale o nell’Africa subsahariana.
Prosegue la ricerca e la discussione sui cosiddetti castelli del deserto, o qusur, residenze rurali parzialmente isolate di committenza omayyade situate in Giordania, Siria e Palestina: s’indagano le funzioni sociali ed economiche a essi associate prendendo in considerazione le risorse idriche, lo sfruttamento agricolo e la posizione lungo le principali vie di comunicazione; viene messo l’accento sulla multifunzionalità di queste strutture, allontanando l’ipotesi che faceva dei qusur omayyadi esclusive residenze private e proponendo d’interpretare i più grandi complessi come Qaṣr al-Ḥayr al-Sharqī o Khirbat al-Mafjar come forme di protourbanesimo.
Interessante per lo studio del periodo di transizione e, in particolare, del passaggio da pòlis a medina è il caso di Jerash, antica città romana della Giordania settentrionale trasformata in città islamica con l’espansione delle strutture commerciali e abitative e l’erezione di una moschea.
Una menzione a parte merita lo studio delle aree rurali e dell’agricoltura, intimamente connesso allo sfruttamento delle acque. Oggi la multidisciplinarità degli scavi permette un avanzamento di questo settore della ricerca, importante per la conoscenza dell’alimentazione, del commercio e dei cambiamenti climatici. Proprio in questo ambito si coglie bene la differenza tra l’a. islamica del secolo scorso, incentrata sulle scoperte di valore artistico legate all’élite di governo, e quella odierna che studia tutti gli aspetti della vita sociale, compresa quella delle classi meno abbienti, urbane o rurali.
Un interesse particolare suscitano le aree extraurbane dedicate alla produzione manifatturiera di ceramica, vetro e metalli, materiali che lasciano evidenti tracce archeologiche come forni e scarti di lavorazione. Importante esempio è la città siriana di Raqqa, con la sua intensa e lunga attività manifatturiera attestata dall’8° al 13° sec. e la sua produzione ceramica esportata su ampio raggio.
Particolare attenzione continua a essere rivolta alle rotte commerciali che attraverso l’Oceano Indiano collegano il mondo musulmano con l’India, l’Africa orientale, la Cina e il Sud-Est asiatico. A partire del periodo abbaside i rapporti commerciali s’intensificano: ne sono testimonianza i molti reperti di ceramica islamica e cinese rinvenuti nei porti del Mar Rosso e del Golfo Persico. Il più noto esempio è quello della fiorente città persiana di Siraf che tra il 9° sec. e la metà dell’11° fu uno dei principali porti del Golfo Persico. La costa orientale della penisola araba, dal Kuwait fino allo Stretto di Hormuz, è stata oggetto di sopralluoghi e scavi: siti come Kush, Kadhima, Hulaylah, Jumeirah, Julfar, permettono di ricostruire la storia, finora poco nota, della regione.
Anche insediamenti di epoca moderna sono stati oggetto di indagini archeologiche. È il caso di al-Zubarah, in Qaṭar, città fondata nel 18° sec. per la lavorazione e il commercio delle perle, diventata nel 2013 sito protetto dell’UNESCO.
Proseguono le ricerche dell’Institut français d’archéologie orientale lungo le mura del Cairo, dove sono state riportate alla luce strutture di periodo fatimide e ayyubide di particolare importanza per la storia della città e per la conoscenza delle fortificazioni. L’esempio migliore nel campo dell’architettura militare è lo studio del castello medievale di Shayzar, in Siria, in cui l’analisi delle tecniche di costruzione è affrontata con metodi stratigrafici, costituendo un raro esempio di a. dell’architettura nell’ambito dell’a. islamica. Nello studio dell’architettura militare vengono spesso prese in esame le fortificazioni di periodo crociato, come nel caso del castello di Kerak in Giordania.
Vi è un notevole sforzo nel pubblicare scavi datati, ma importanti, come, per es., quello di Gerusalemme intrapreso da Kathleen Kenyon tra il 1961 e il 1967. Una significativa ricerca, di cui si attende ancora la pubblicazione finale, è quella condotta dai francesi nel sito di Istabl Antar a Fustat, primo insediamento islamico del Cairo, dove, tra il 1985 e il 2005, è stata riportata alla luce un’enorme mole di materiali tra cui ceramica, vetro, tessuti, legni, oggetti in osso, papiri, òstraca in arabo, di cui sono stati intrapresi lo studio e la pubblicazione.
I rinvenimenti di periodo islamico avvengono spesso durante scavi di siti molto stratificati: è il caso di molti tell della grande Siria che sono oggetto di ricerche soprattutto nei livelli più bassi, ovvero più antichi, dell’insediamento. La maggiore attenzione alla documentazione completa dello scavo fa sì che anche i livelli più alti di epoca islamica vengano documentati; lo studio della ceramica islamica si avvale spesso di questo tipo di documentazione sporadica.
Un caso emblematico è quello di Tell Chuera, sito di 3° millennio, dove è stata riportata alla luce la città islamica di epoca abbaside di Kharab Sayyar.
Negli ultimi anni le incerte condizioni di sicurezza del Medio Oriente hanno inevitabilmente rallentato le attività archeologiche.
Negli ultimi anni le incerte condizioni di sicurezza dovute ai sommovimenti sociali noti come primavere arabe e le guerre che oggi affliggono il Medio Oriente hanno rallentato e in alcuni casi, com’è avvenuto in Siria, in ῾Irāq, in Libia o nello Yemen, interrotto le attività archeologiche. In particolare la guerra civile che dal 2012 imperversa in territorio siriano ha danneggiato gran parte del patrimonio culturale di un Paese che poteva vantare testimonianze artistiche e archeologiche dalla preistoria a oggi. Gli scontri hanno rovinato alcuni dei siti di maggior interesse artistico e archeologico come la città di Aleppo con la sua imponente cittadella, sito patrimonio dell’umanità, l’antica Grande Moschea, e il suq medievale, come anche le città di Hama e di Bosra. La Siria è stata inoltre uno dei teatri della storia delle crociate, come testimonia il noto Crac des Chevaliers, anch’esso purtroppo finito sotto il fuoco della guerriglia. Infine la nascita del movimento integralista dell’IS (v.), con la sua foga distruttrice indirizzata al patrimonio preislamico, ma anche a quello di epoca islamica, sta portando un durissimo colpo a un patrimonio culturale già messo in ginocchio.
J. Henderson, K. Challis, S. O’Hara et al., Experiment and innovation: early Islamic industry at al-Raqqa,Syria, «Antiquity», 2005, 79, pp. 130-45; A. Walmsley, Early Islamic Syria. An archaeological assessment, London 2007; M. Milwright, The fortress of the Raven. Karak in the Middle Islamic period (1100-1650), Leiden 2008; K. Prag, Excavations by K.M.Kenyon in Jerusalem 1961-1967, 5° vol., Discoveries in Hellenistic to Ottoman Jerusalem centenary, Oxford 2008; D. Whitehouse, Siraf. History, topography and environment, Oxford 2009; M. Milwright, An introduction to Islamic archaeology, Edinburgh2010; C. Tonghini, Shayzar I. The fortification of the citadel, Leiden 2011; D. Genequand, Les établissements des élites omeyyadesen Palmyrène et au Proche-Orient, Beyrouth 2012; A. Northedge, D. Kennet, Archaeological atlas of Samarra. Samarra studies II, London 2012; D. Kennet, An outline archaeological history of the Northern Emirates in the Islamic period, in Second international conference on the archaeology in the UAE, ed. D. Potts, P. Hellyer, Abū Dhābi 2013, pp. 189-201; E. Rodziewicz, Fustat I. Bone carvings from Fustat - Istabl ‘Antar, Le Caire 2013; D. Whitcomb, H. Taha, Khirbet al-Mafjar and its place in the archaeological heritage of Palestine, «Journal of eastern Mediterranean archaeology and heritage studies», 2013, 1, pp. 54-65.
di Jean-François Genotte
Negli anni dal 2005 al 2014 una grande importanza è stata data all’a. relativa al 2° millennio d.C. dell’Africa subsahariana.
L’a. dell’Africa occidentale è legata alla storia dei suoi imperi medievali – Ghana o Wagadu (8°-11° sec.), Gao (6°10° sec.) e Mali (11°-15° sec.) a ovest, e Kanem-Bornu (9°14° sec.) a est – e ai tentativi di identificare le loro capitali.
Nella parte occidentale, le campagne di scavo (2007-09) avrebbero identificato la capitale dell’impero del Mali nel sito di Sorotomo (13°-15° sec). Nella regione del Ségou (Mali) alcune ricerche (2010-11) suggeriscono l’esistenza di due tipi di sviluppo urbano nell’area del Medio Niger nel 2° millennio d.C.: insediamenti dipendenti da un potere politico statale (Fadugu) e città indipendenti di fondazione commerciale e/o religiosa (Markadugu).
Nella parte orientale, dal fiume Niger al lago Ciad, tra il 2006 e il 2009 sono state condotte campagne di scavo in diversi siti dell’impero del Kanem-Bornu: Garoumélé (13°14° sec.), Gazargamo (15°-18° sec.) e Garu Kime (17°-19° sec.), considerati antiche capitali. Nella stessa area e nello stesso periodo sono state indagate numerose città-stato Hausa (15°-19° sec.). Nelle pianure a sud-est del lago Ciad, un tempo occupate dalle città-stato Kotoko, evidenze archeologiche hanno dimostrato l’influenza dell’impero del Kanem-Bornu nell’area già a partire dal 14° secolo.
Nella parte meridionale, tra il Ghana e la Nigeria, alcune ricerche (2008-10) hanno evidenziato la presenza di insediamenti agricoli (5°-14° sec.), che tra il 9° e l’11° sec. formarono centri urbani, diventati poi, dal 12°-13° sec., potenti città (Benin, Ife-Ile, Begho, Bono Manso), che conobbero un’esplosione demografica e urbanistica con gli europei (17°-19° sec.).
Poca rilevanza è stata data all’a. dell’Africa centrale. Gli scavi si sono concentrati nel 2005-06 a Mbanza Congo (Angola), capitale del regno Congo (14°-19° sec.), e nel 2008-09 a Mankhamba (13° sec.), un sito del regno di Maravi (Malawi). Numerosi ritrovamenti di perle di vetro e ceramiche di importazione in necropoli (17°-18° sec.) nell’area del lago Malawi attestano l’esistenza di relazioni commerciali con l’Oceano Indiano.
L’a. del Corno d’Africa è legata alla storia del regno etiopico-cristiano (8°-18° sec.) conosciuta grazie alle sue chiese rupestri e in muratura. Le ricerche archeologiche condotte dal 2005 al 2008 in Etiopia negli Altipiani orientali del Tigrè, e più a sud, nella regione di Amhara, hanno dimostrato l’anteriorità delle prime chiese del Tigrè (6°-7° sec.) su quelle di Amhara (8° sec.) e l’esistenza di uno iato (11° sec.) nell’edificazione dei santuari tigrini. Questo periodo di stallo a nord coincide a sud con una fase di proliferazione (11°-12° sec.) delle chiese con caratteristiche aksumite dovuta al trasferimento del potere politico verso sud e al forte desiderio dei nuovi governanti, i Zagwe, di sottolineare le loro origini aksumite. Nella regione del lago Tana, numerose chiese di forma circolare attestano l’arrivo del cristianesimo nel 14° secolo. Nell’Etiopia meridionale, nel 2006 sono stati indagati resti di monumenti funerari con stele (10°-14° sec.) in relazione con la cultura aksumita.
In Africa orientale, tra il 2006 e il 2009 le ricerche si sono concentrate sull’a. rurale del mondo Swahili (10°-19° sec.) e sulle sue relazioni con le città. Lungo la costa sono state indagate diverse città, come Kilwa (Tanzania), riportando alla luce strutture abitative e portuali (13°-16° sec.). Alcune evidenze archeologiche a Mombasa (Kenya) e a Zanzibar (Tanzania) hanno permesso di documentare meglio il periodo di occupazione (18°-19° sec.) del sultanato di ῾Omān.
A occidente, nella regione dei Grandi Laghi, le ricerche (2009-10) hanno ridimensionato le datazioni e la successione delle tradizioni ceramiche. Interessanti lavori hanno dimostrato, a partire dal 1000 d.C., lo sviluppo di una diversificazione economica, in particolare nella produzione del bestiame e delle banane, e la formazione di piccoli regni.
Nuove indagini archeologiche hanno confermato il processo di formazione dei regni dell’Africa meridionale che si succedettero a sud del fiume Zambesi durante il 2° millennio d.C.: Toutswe (8°-14° sec.), Mapungubwe (13°-14° sec.), Great Zimbabwe (14°-16° sec.), Torwa-Rozvi (15°19° sec.) e Mutapa (15°-19° sec.). Essi nacquero dallo sviluppo di insediamenti di agricoltori-allevatori che, tra il 900 e il 1300, si trasformarono in entità socioeconomiche e politiche sempre più complesse. Le scoperte (2005-06) hanno evidenziato durante il periodo K2 (1000-1220) l’intensificazione dell’agricoltura e la comparsa di pratiche rituali legate al culto dell’acqua e della pioggia. A Mapungubwe Hill, un sito recintato con palazzo nella parte sommitale e grande stratificazione sociale, è stata identificata la presenza di una ‘leadership sacra’ e di una élite regnante. Ricognizioni archeologiche attestano la presenza di numerosi siti di questo tipo nel bacino del Limpopo. Sono state proposte nuove interpretazioni relative al declino e all’organizzazione sociale e spaziale di Great Zimbabwe, la più grande città dell’Africa meridionale durante il 2° millennio d.C. Le indagini (2005-08) hanno permesso di ricostruire il processo di declino e di disintegrazione degli Stati (Mutapa, Torwa-Rozvi) dell’altopiano dello Zimbabwe e di evidenziare le relazioni tra quest’area e l’Oceano Indiano.
Attenzione è stata data all’indagine archeologica relativa alla presenza europea (15°-19° sec.) lungo le coste occidentale e centrale dell’Africa e nella parte meridionale del continente. Le ricerche sono state condotte in numerosi forti, basi commerciali e fattorie, mentre scavi subacquei hanno indagato resti di vascelli commerciali e da guerra (16°-19° sec.) dal Ghana al Sudafrica. Le attività delle Compagnie europee delle Indie Orientali sono state evidenziate dalle numerose scoperte di relitti di navi naufragate tra il 17° e il 18° secolo.
T.N. Huffman, Handbook to the Iron age. Thearchaeology of pre-colonial farming societies in Southern Africa, Scottsville 2007; J. Webster, Slave ships and maritime archaeology. An overview, «International journal of historical archaeology», 2008, 12, pp. 6-19; D.W. Phillipson, Ancient churches of Ethiopia, fourth-fourteenth centuries, New Haven-London 2009; J.B. Fleisher, Swahili synoecism: rural settlements and town formation on the central East African coast, AD 750-1500, «Journal of field archaeology», 2010, 35, pp. 265-82; I. Pikirayi, S. Chirikure, Debating great Zimbabwe, «Azania. Archaeological research in Africa», 2011, 46, pp. 221-31; Gold, slaves and ivory. Medieval empires in Northern Nigeria, ed. D. Gronenborn, Mainz 2011; The Oxford handbook of African archaeology, ed. P. Mitchell, P. Lane, Oxford 2013.
di Gaetano Cofini
Il popolamento pleistocenico della Near Oceania (comprendente Nuova Guinea, Arcipelago di Bismarck e isole Salomone, abitate fin dal Pleistocene) va inquadrato nel complesso degli eventi biogeografici e delle variazioni del livello marino, quando Nuova Guinea e Tasmania formavano con l’Australia un’unica massa continentale (Sahul). Rudimentali imbarcazioni sono state utilizzate per raggiungere queste terre attraverso la regione insulare della Wallacea, in area indonesiana, e per spingersi fin nelle isole del Mar di Bismarck e nelle Salomone. Sono noti al momento più di 150 siti pleistocenici e il quadro delle datazioni lascia presumere una rapida diffusione dell’uomo nei differenti ecosistemi del Sahul. Del 2010 è la scoperta di un sito rivierasco in Tasmania, presso il fiume Derwent, nell’estremo Sud del continente pleistocenico, frequentato, si ipotizza, almeno da 38.000 anni fa. L’estensione dei depositi e il rilevante numero di utensili litici, frammenti di molluschi e residui alimentari sottolineano l’importanza di un’area archeologica tra le più antiche rinvenute a queste latitudini.
In Near Oceania le datazioni più antiche provengono da Huon, in Nuova Guinea: tra 60.000 e 40.000 anni or sono. Per la Nuova Britannia e la Nuova Irlanda risalgono fino a circa 35.000 anni, 28.000 per Buka, nel gruppo delle Salomone, e non più tardi di 13.000 anni per Manus. La sussistenza delle comunità pleistoceniche era basata sulla caccia di marsupiali, rettili e uccelli, sulla raccolta di vegetali e molluschi e sulla pesca in ambienti corallini.
Intorno a 4000-3500 anni fa in quest’area penetrarono gruppi austronesiani del Sud-Est asiatico, provenienti probabilmente dalla regione di Halmahera-Sulawesi, e introdussero la navigazione su piroghe a vela con bilanciere, la pesca in mare aperto e la lavorazione di un vasellame con elaborate ornamentazioni impresse, conosciuto come Lapita dal sito neocaledone dove fu scoperto nella metà del 20° sec.; l’orticoltura (taro, igname), l’arboricoltura (banano, albero del pane, Canarium) e l’allevamento (Sus, Gallus) erano già praticati dagli autoctoni. La grande variabilità genetica e linguistica osservata in questa regione ha indotto a ritenere che i rapporti tra i nuovi arrivati e i gruppi preesistenti non si siano limitati a scambi e contatti episodici. Secondo un modello largamente condiviso proposto da Roger Curtis Green (Triple-I model), il complesso culturale Lapita sarebbe scaturito pertanto dall’intrusione nel Nord della Nuova Guinea di nativi delle Filippine e delle isole indonesiane e dall’integrazione con le comunità locali, e dal successivo sviluppo di elementi originali.
Il popolamento Lapita delle isole a est delle Salomone (Remote Oceania) richiese un affinamento delle tecnologie e conoscenze nautiche per superare centinaia di chilometri di mare. Inoltre, se inizialmente la sopravvivenza sarebbe stata garantita dalle immense risorse ittiche e avifaunistiche di ambienti incontaminati, con il tempo la stabilità degli insediamenti dipese dalle capacità di impiantare modelli di sussistenza basati sull’orticoltura e sull’allevamento. I trasferimenti Lapita negli arcipelaghi dell’Oceania ‘lontana’ ebbero luogo in un arco di 15 generazioni circa, da 3200 a 2900 anni or sono, attraverso le isole di Reef-Santa Cruz, Nuova Caledonia, Vanuatu e Figi. Nei due ultimi gruppi insulari indagini condotte a partire dal 2004-06 hanno rinvenuto siti delle fasi iniziali, come il cimitero di Téouma, a Efate (3200-3000 anni fa), o l’insediamento di Bourewa a Viti Levu (3100-2550 anni dal presente). Intorno a 2900-2800 anni fa le comunità Lapita raggiunsero Tonga e Samoa in Polinesia occidentale, dove, secoli dopo, i loro discendenti svilupparono tratti culturali (ancestral Polynesian culture) e linguistici (Protopolinesiano) tipicamente regionali. Come documentato dai depositi stratificati di To’aga (Samoa Americane), si assistette nel tempo a un impoverimento delle decorazioni e delle forme vascolari più articolate per arrivare alla produzione di un vasellame grossolano inornato e, quindi, alla sua definitiva scomparsa. La funzione sociale e cerimoniale della ceramica Lapita fu trasferita forse su altri manufatti, come le stoffe di scorza (tapa) su cui spiccano motivi ricorrenti tra le ornamentazioni vascolari. Inoltre, in area polinesiana, il vasellame venne efficacemente sostituito da contenitori in legno e dai gusci delle noci di cocco, mentre gli alimenti erano cotti in forni interrati.
Ancora aperto è il dibattito su quando abbia avuto inizio l’espansione verso le isole polinesiane più remote, quanto rapido sia stato questo processo e quando sarebbe terminato. Negli ultimi due decenni sono state riviste le datazioni degli antichi siti della regione (Ha’atuatua e Hane nelle Marchesi, Bellows e Halawa Dune nelle Hawaii, Vaito’otia e Maupiti nelle Isole della Società e siti arcaici neozelandesi), sono state effettuate indagini nelle Cook, Mangareva, Henderson e Pitcairn. Dall’esame dei dati emerge che l’uomo avrebbe colonizzato una catena insulare dalle Australi fino all’Isola di Pasqua in due secoli circa (800-1000 d.C.). Le Hawaii non sembrano essere state occupate prima dell’800, mentre la Nuova Zelanda tra il 1250 e il 1300 d.C. Ancora lacunose sono le indicazioni dalle Isole della Società, la cui posizione è cruciale per la comprensione dei processi che portarono l’uomo a stabilirsi nelle ultime terre del globo. Appare ormai evidente come tali movimenti migratori furono il risultato di viaggi esplorativi non accidentali e come i contatti tra i distanti arcipelaghi della Polinesia orientale, resi possibili dall’invenzione di grandi piroghe a doppio scafo dotate di velatura, non si siano interrotti dopo il popolamento iniziale. Alcuni gruppi si spinsero fin sulle coste dell’America Meridionale favorendo verosimilmente l’introduzione della patata dolce (Ipomoea batatas) nell’alimentazione polinesiana.
La Micronesia occidentale (Marianne, Palau) potrebbe essere stata popolata intorno alla metà del 2° millennio a.C., o anche prima, dall’Asia sud-orientale, come suggeriscono i dati linguistici e le affinità con il vasellame delle Filippine e delle Sulawesi, o dall’arcipelago di Bismarck e dai litorali settentrionali della Nuova Guinea secondo simulazioni al computer. Nelle isole vulcaniche delle Caroline i depositi hanno restituito ceramiche in associazione ad asce e ornamenti affini alle forme più tarde Lapita, del termine del 1° millennio a.C., lasciando presumere l’arrivo di migranti dalle Salomone e Vanuatu. Per Yap è stata ipotizzata una colonizzazione diretta dall’arcipelago di Bismarck e contatti successivi sia a ovest sia a est.
Maggiore è l’interesse rivolto alle indagini del periodo storico o coloniale, limitate in larga parte in Australia e Nuova Zelanda e, dagli ultimi 10-20 anni, in alcune isole melanesiane e micronesiane. Grande può essere il contributo di tali studi nel riconsiderare modelli teorici fondati su interpretazioni dicotomiche di cambiamento e continuità, ponendo in luce il complesso sistema di interazioni tra i protagonisti della storia più recente del Pacifico.
P.V. Kirch, Peopling of the Pacific. A holistic anthropological perspective, «Annual review of anthropology», 2010, 39, pp. 131-48; Lapita: ancêtres océaniens, Oceanic ances tors, éd. Ch. Sand, S. Bedford, Paris 2010; J.-C. Galipaud, A. Dury, Les Lapita, nomades du Pacifique, Marseille 2011; J.L. Flexner, His torical archaeology, contact, and colonialism in Oceania, «Journal of archaeological research», 2014, 22, pp. 43-87.