Archeometria. Metodi per lo studio e la diagnostica
Con l’espressione ‘scienza per l’arte’ si indica generalmente il complesso dei metodi sperimentali delle scienze fisiche, chimiche, biologiche, geologiche e informatiche impiegato per lo studio e la diagnostica di opere d’arte di ogni epoca e stile. Gli archeologi, che hanno applicato per primi i metodi scientifici moderni, hanno coniato per queste attività il termine ‘archeometria’. Con l’affinarsi delle tecniche elettroniche e con l’introduzione delle analisi di tipo non distruttivo, il campo delle applicazioni della scienza per l’arte si è esteso – e con esso anche l’uso del termine archeometria – fino a comprendere lo studio e la diagnostica della totalità dei beni culturali: archeologici, storici, artistici, archivistici e librari.
Le attività di ricerca e di diagnostica sono svolte in laboratori specializzati; tuttavia, nel caso in cui il bene artistico sia un dipinto murale, una statua, una vetrata o qualsiasi altro tipo di opera giudicata intrasportabile, si ricorre a esami e diagnostiche in situ. In questi casi, molto frequenti in Italia, si impiegano apparecchiature portatili che, grazie alle ultime innovazioni tecnologiche, forniscono prestazioni confrontabili con quelle ottenute nei laboratori con strumentazioni convenzionali. Oggi si tende a raggruppare in una stazione mobile tutte le strumentazioni portatili richieste per una completa caratterizzazione del bene artistico in questione.
I metodi impiegati per lo studio di un bene artistico consentono di effettuare le seguenti operazioni: (a) analizzare il materiale – sia esso una statua, un dipinto, una ceramica, – determinandone i vari componenti a livello atomico e molecolare; (b) effettuare la ricostruzione virtuale delle principali caratteristiche (geometriche, fotometriche e colorimetriche) mediante riprese di immagini; (c) esaminare le strutture interne; (d) determinare l’età; (e) determinare il luogo di fabbricazione. Per l’analisi dei reperti di epoca preistorica l’archeometria si avvale anche di sofisticati metodi di datazione, nonché di tecniche biofisiche.
I metodi di analisi più impiegati in archeometria sono la spettrometria di fluorescenza a raggi X (XRF, X-Ray fluorescence) e la spettrometria Raman. La prima analizza gli atomi degli elementi chimici, la seconda analizza le molecole, cioè i composti chimici. Lo strumento più usato per le analisi XRF è lo spettrometro EDXRF (Energy dispersive XRF), realizzato in diverse versioni, compresa quella portatile. La fluorescenza a raggi X in un atomo consiste nella diseccitazione dei tre livelli più vicini al nucleo atomico (k, il livello più vicino, l e m). L’eccitazione per produrre la fluorescenza è effettuata asportando un elettrone appartenente a uno dei suddetti tre livelli. L’asportazione (ionizzazione) può essere ottenuta in due modi diversi: attraverso una sorgente di raggi X, oppure mediante l’urto particella carica-atomo. La particella carica può essere un elettrone, un protone o una particella α con opportune energie. L’asportazione dell’elettrone k provoca un’emissione a cascata di radiazioni che iniziano con le righe X di maggiore energia, le k, seguite dalle l e dalle m, e quindi da altre righe di energie che non interessano i raggi X, ossia nell’ultravioletto (UV), nel visibile (VIS) e nell’infrarosso (IR). Il modo più semplice ed economico per produrre la fluorescenza è il primo, ossia quello che utilizza una sorgente di raggi X. L’analisi XRF si basa sul fatto che gli atomi di un elemento diseccitandosi emettono righe X con valori di energia caratteristici per quell’elemento. La riga k degli atomi del ferro, per esempio, ha un’energia di 6,40 keV, quella dello zinco di 8,64 keV, quella dello stagno di 25,27 keV, quella del piombo di 74,96 keV ecc., cioè energie che crescono con l’aumentare del numero atomico. Uguale andamento hanno le righe l e m che partono da energie più basse.
Lo spettrometro EDXRF più semplice, impiegato per le misure in situ (fig. 2), è costituito da un piccolo tubo a raggi X (sorgente), dal rivelatore proporzionale per raggi X – un semiconduttore al silicio raffreddato elettricamente – e da un’elettronica che interpreta i segnali trasmessi dal rivelatore catalogando le varie righe emesse e infine riconoscendo, previa taratura, gli elementi che le hanno generate e le loro percentuali relative. I raggi X escono dal tubo attraverso un opportuno collimatore. Il fascio così prodotto, molto sottile, viene diretto, zona per zona, sui punti prescelti dell’oggetto da analizzare. Il fascio penetra nel punto colpito per uno spessore che dipende dalla materia di cui è fatto l’oggetto: nel caso di dipinti, per esempio, il fascio penetra per qualche decina di micron. Un personal computer (PC), parte integrante dello spettrometro, elabora i dati i quali possono essere raccolti sotto forma di tabelle di conteggi per ogni elemento trovato, oppure di percentuali relative, o ancora come spettri di righe (fig. 3).
Le modeste dimensioni di uno spettrometro del tipo descritto (può essere contenuto in una valigetta) permettono di utilizzarlo per analisi in situ. La minima quantità rivelabile con questo spettrometro è dell’ordine di 0,1 mg per grammo di matrice, una quantità piuttosto modesta ma più che sufficiente per analizzare gli elementi più abbondanti, cioè presenti in quantità superiore all’1%; gli strumenti fissi di laboratorio hanno ovviamente maggiore sensibilità. L’EDXRF è impiegata per le analisi di dipinti, di vetri antichi, di porcellane, di terrecotte, di metalli e loro leghe ecc. Lo spettrometro ora descritto opera in presenza di aria e quindi le righe X di fluorescenza prodotte da elementi leggeri (azoto, ossigeno, magnesio ecc.) non sono rivelate, in quanto la loro energia è così bassa da essere assorbita dalla finestra di protezione del rivelatore e dallo strato d’aria interposto. Gli elementi rilevabili, in ordine di peso molecolare crescente, sono alluminio, silicio, zolfo, fino al piombo e all’uranio. La XRF portatile ha l’enorme vantaggio di essere facilmente manovrabile e quindi può essere spostata agevolmente al fine di analizzare, per punti, oggetti di dimensioni anche molto estese, per esempio un intero dipinto murale di 100 m2 di superficie.
Se l’oggetto da analizzare è un dipinto, la XRF consente di individuare non solo gli elementi in superficie che caratterizzano i vari pigmenti di colore, ma anche gli elementi dello strato sottostante, cioè dell’intonaco, in quanto la radiazione primaria ha, come già detto, una penetrazione dell’ordine di una decina di micron.
Oggi, oltre alle analisi atomiche fornite dalla EDXRF, si possono effettuare in situ anche analisi molecolari mediante uno spettrometro Raman portatile. Lo spettrometro impiega una sorgente di luce (monocromatica) laser che viene diretta attraverso un microscopio ottico su determinati punti dell’oggetto integro o di un suo frammento. Lo spettro Raman è raccolto e letto dal PC mediante una scheda dotata di monocromatore alloggiata nel PC stesso. I percorsi ottici sono effettuati mediante opportune fibre ottiche. L’impiego dello spettrometro Raman è indispensabile per individuare la presenza di composti, specialmente di tipo organico, non identificabili con la XRF. Gli strumenti che si impiegano nei laboratori di archeometria, i quali, essendo più sensibili e più versatili del tipo portatile, permettono di effettuare analisi più accurate e approfondite di quelle che possono essere condotte in situ.
Lo spettrometro EDXRF da laboratorio, disponibile in diverse versioni, è simile a quello portatile già descritto, con due differenze: opera sotto vuoto e impiega come sorgente eccitatrice un tubo a raggi X di elevata potenza, per cui si raggiungono sensibilità di analisi dell’ordine dei microgrammi per grammo di matrice. Il rivelatore è un semiconduttore a silicio-litio raffreddato ad azoto liquido. Questo spettrometro permette di analizzare anche elementi in tracce.
All’interno di microscopi elettronici operanti in riflessione (SEM, Scanning electron microscope), è possibile effettuare microanalisi XRF (fig. 4). La fluorescenza è provocata dalla ionizzazione da parte del fascio di elettroni, che incide su un campione del reperto in studio. Grazie a questa estensione si effettuano microanalisi delle stesse parti visualizzate al microscopio.
Nello spettrometro PIXE (Proton induced X-ray emission) l’eccitazione degli atomi da analizzare è prodotta dalla ionizzazione ‘profonda’ effettuata da un fascio di protoni con energia di qualche MeV in un acceleratore elettrostatico di tipo Van de Graaff (fig. 5). Questo tipo di spettrometro presenta una migliore sensibilità e ha inoltre il vantaggio di impiegare opportuni campi elettrici e magnetici deflettori per dirigere il fascio di protoni su qualsiasi punto del reperto, effettuando una scansione automatica della sua superficie e analizzando ogni punto con un passo molto piccolo. Registrando la riga di un elemento per volta si ottengono mappe che riproducono le singole distribuzioni di un dato elemento chimico su tutta la superficie del campione. Inoltre, variando l’energia dei protoni si possono includere o escludere dall’analisi strati a diverse profondità (si parla di spessori microscopici) dalla superficie. Il processo di ionizzazione, diversamente dagli effetti di piccola entità prodotti dalla radiazione X, genera nel punto in esame aumenti di temperatura che in alcuni casi possono danneggiare l’oggetto. La corrente del fascio deve essere quindi opportunamente regolata. Anche per la PIXE si usano rivelatori a semiconduttore e un sistema elettronico di analisi particolarmente complesso.
L’analisi SIXRF (Synchrotron induced X-ray fluorescence) è un’analisi XRF in cui i raggi X sono prodotti da elettroni relativistici accelerati. Si utilizza a questo scopo un acceleratore nucleare ad anello chiuso, l’elettrosincrotrone, del diametro di decine di metri. Il percorso degli elettroni nel grande anello non è tutto circolare, ma presenta tratti curvi e tratti rettilinei. Questa analisi consente di raggiungere sensibilità estremamente elevate, per esempio dell’ordine di un miliardesimo di grammo per grammo di campione, in quanto l’intensità del fascio di raggi X è superiore di almeno un fattore mille a quella di un potente tubo a raggi X. Il metodo SIXRF è senza dubbio il sistema ideale per sostituire vantaggiosamente il metodo di analisi per attivazione di neutroni (NAA, Neutron activation analysis), effettuato nei reattori nucleari, un metodo che ha permesso di risolvere alcuni problemi fondamentali dell’archeologia per quanto concerne gli artefatti ceramici e metallici dell’antica Grecia, di Roma e di altri Paesi del bacino mediterraneo. Per conoscere la provenienza geografica di un artefatto ceramico (o metallico) si devono individuare gli elementi che con la loro presenza e la loro quantità relativa caratterizzano il sito geologico della cava (o della miniera) di provenienza. Purtroppo questi elementi rivelatori sono così diluiti nella materia massiccia da essere presenti solamente in tracce. Da qui la necessità di impiegare strumenti di analisi a elevata sensibilità. Oggi è più conveniente impiegare la SIXRF al posto della NAA per varie ragioni: in primo luogo, perché i tempi di misura sono di pochi minuti rispetto alle ore o ai giorni richiesti dalla NAA; in secondo luogo, perché, a differenza della NAA, la SIXRF non genera radioattività; infine, perché con la NAA diversi elementi non sono analizzabili con la sensibilità richiesta.
La luce di sincrotrone è caratterizzata da uno spettro continuo di radiazione elettromagnetica – dall’infrarosso al visibile, all’ultravioletto e ai raggi X – prodotto dalla radiazione emessa dagli elettroni relativistici sottoposti ad accelerazione nei tratti curvi dell’anello. Per estendere lo spettro anche alla radiazione X occorre produrre accelerazioni più elevate. A questo scopo si inseriscono nei tratti rettilinei dell’anello particolari magneti ‘ondulatori’, che fanno percorrere traiettorie a zigzag agli elettroni lungo i loro percorsi.
In Europa vi sono diversi elettrosincrotroni con elettroni circolanti a energie di qualche miliardo di elettronvolt (GeV), dedicati esclusivamente a ricerche di fisica, chimica e biologia con la luce di sincrotrone. Importanti impianti si trovano in Italia, a Trieste e a Frascati, e in Francia, a Grenoble, dove è operante il prestigioso Centro Europeo di Luce di Sincrotrone (ESRF, European Synchrotron Radiation Facility). Le varie ricerche mediante la luce di sincrotrone si svolgono contemporaneamente utilizzando decine di canali di uscita della radiazione, situati nei tratti curvi per esperienze con radiazioni dall’infrarosso all’UV, e negli ondulatori per esperienze con i raggi X. Pertanto vi è la possibilità di creare stazioni permanenti SIXRF dedicate alle analisi archeometriche di elementi in tracce, analisi che possono essere condotte in due diverse condizioni di fascio X: con un fascio di raggi X monocromatici di energia variabile a piacere, oppure con il fascio ‘bianco’, cioè con l’intenso fascio a largo spettro energetico prodotto direttamente all’uscita dell’ondulatore. Le misure con il fascio bianco, oltre a essere adatte alle analisi di elementi in tracce, sono utilizzate nei casi che richiedono l’impiego di un fascio di sezione microscopica e di alta intensità. Nelle ricerche di archeometallurgia, per esempio, per sottoporre a microanalisi gli elementi estranei presenti nelle inclusioni, il campione da esaminare, montato su un banco ottico di precisione dotato di microscopio, telecamera e comandi remoti, viene posizionato in modo che il fascio colpisca le inclusioni.
Assai importante in archeometria è l’impiego di sistemi optoelettronici per la ripresa di immagini digitali, che vengono analizzate e ‘riprocessate’ dal computer che fa parte integrante del sistema. La possibilità di riprendere immagini in vari campi spettrali, ciascuno con proprietà diverse, risulta molto utile per lo studio e la diagnostica di dipinti e di documenti scritti su supporti vari.
Le telecamere e le fotocamere impiegate sono dotate di un sensore a mosaico (CCD, Charge coupled device) sensibile alla luce in un vasto campo spettrale. Ciascun tassello (pixel) del mosaico opera come un elemento dell’immagine da riprodurre. Al crescere del numero totale di pixel cresce la risoluzione dell’immagine. Oggi sono disponibili telecamere digitali di prezzo contenuto che consentono risoluzioni, per esempio, di 3040×2016 pixel. Il rapido sviluppo di queste tecnologie fa prevedere che saranno presto in commercio strumenti con prestazioni più elevate e di costo inferiore. Con un buon obiettivo dotato di uno zoom ottico si ottengono ingrandimenti di ottima qualità, permettendo di distinguere particolari di dimensioni quasi microscopiche. Anche per le riprese di immagini l’impiego di un PC è indispensabile per riprocessare le immagini stesse.
Nel visibile (400÷800 nm) si opera con fotocamere a CCD di buona risoluzione, a colori o in bianco e nero. In entrambi i casi occorre avere un filtro per eliminare l’infrarosso, che impedisce una messa a fuoco nitida. Le riprese sono utili nel caso di dipinti, di scritte su vari tipi di supporto, di vetrate ecc. Una ripresa opportunamente riprocessata può dare utili informazioni di carattere fotometrico, geometrico e colorimetrico previe adeguate tarature. La valutazione dei toni di grigio nell’immagine in bianco e nero di un dipinto può essere effettuata a piacere su un punto, una linea o una superficie. Questi dati sono molto utili per fare confronti con altre riprese dello stesso tipo opportunamente normalizzate. Nel caso di istogrammi relativi a linee basterà confrontare le derivate del grafico. I toni di grigio possono essere rappresentati, a gruppi, da colori, ottenendo una rappresentazione in falsi colori. In immagini di questo tipo la distribuzione dei 256 toni è rappresentata da colori: in una rappresentazione a sette colori, per esempio, sei colori raggrupperanno ciascuno 36 toni e uno ne raggrupperà 40.
Per effettuare un restauro virtuale di disegni o scritti scoloriti in dipinti, epigrafi, documenti, fotografie ecc., conviene prima di tutto scegliere la banda spettrale che riproduce l’immagine con il miglior rapporto segnale/rumore (fondo), provando con opportuni filtri passabanda. Quindi, l’immagine scelta viene nuovamente processata con un programma iterativo che agisca sui toni di grigio fino a ottenere una loro soddisfacente dilatazione verso i due estremi (dal nero al bianco). Spesso conviene effettuare queste procedure nella banda dell’infrarosso vicino.
La radiazione elettromagnetica nell’infrarosso vicino (NIR, Near infra-red: 800÷2000 nm) è impiegata per l’esame delle superfici pittoriche e del loro strato sottostante. Si può utilizzare ancora la telecamera digitale a CCD, sensibile al NIR fino a 1200 nm, eliminando il visibile con un filtro passabanda posto davanti all’obiettivo. Essa risulta di grande utilità per un primo esame di un grande dipinto antico: una telecamera in bianco e nero e un buon monitor consentono infatti una visione nel NIR di gran lunga migliore di quella a occhio nudo per quanto riguarda la nitidezza dei contorni, in quanto la polvere che certamente copre il dipinto risulta trasparente al NIR. Nel caso che il dipinto sia un buon fresco, la visione nel NIR permette di leggere più facilmente le linee della ‘giornata’ e di riconoscere se i cartoni sono stati applicati con la tecnica dello spolvero o con quella dell’incisione. La trasparenza dello strato pittorico al NIR consente di osservare disegni, rattoppi ecc. sottostanti allo strato. Naturalmente non tutti i pigmenti di colore sono trasparenti al NIR. Sono trasparenti l’indaco, gli smalti (silicati alcalini o alcalino terrosi con alluminio e/o ossidi di Sn, di Sb ecc.), l’azzurrite grezza (se fine è opaca), l’ocra gialla e l’orpimento. Meno trasparenti risultano: il bianco di calce, il minio di ferro, il minio di piombo, il giallo di litargirio (PbO); il vermiglione, rosso artificiale, è meno trasparente del cinabro (entrambi HgS). Infine, la malachite, la biacca e il blu di Prussia sono opachi al NIR.
La radiazione nell’infrarosso lontano (FIR, Far infra-red, 2000÷10.000 nm ca.) viene impiegata per osservare, attraverso l’emissione termica spontanea di un edificio antico, le irregolarità e gli eventuali danni murali nelle sue pareti interne ed esterne; nei dipinti murali per individuare rigonfiamenti e inizi di crepe; ancora in muri e pareti per evidenziare rifacimenti strutturali, come chiusure di varchi o altri cambiamenti di opere murarie, nonché danni incipienti dovuti a infiltrazioni d’acqua. Le analisi nel FIR sfruttano i gradienti termici dovuti a diversa conducibilità termica che generalmente esistono tra la parte sana e quella alterata, oppure tra una fonte di calore e la parte circostante. Le osservazioni vengono svolte mediante termocamere dotate di sensori di tipo radiometrico, cioè sensibili allo spettro termico.
Largo impiego in archeometria trovano anche le immagini radiografiche, che oggi sono prese in tempo reale mediante un opportuno convertitore di radiazione, che sostituisce la lastra fotografica, realizzato in diversi modi. Il sistema radioscopico più semplice usa come convertitore uno schermo fluorescente che riproduce nel visibile l’immagine radiografica. Le immagini vengono riprese da una fotocamera digitale (fig. 6). Le radiografie sono realizzate anche con altre tecniche, per esempio impiegando convertitori elettronici e, più recentemente, lastre fluorescenti in cui l’immagine formatasi nel visibile resta ‘latente’, in quanto la radiazione X provoca in questo materiale stati eccitati che non decadono ma restano intrappolati. L’immagine viene restituita istantaneamente e ripresa da telecamera scandendo la lastra con un fascetto di luce laser.
In archeometria si impiega anche la TAC (Tomografia assiale computerizzata) per l’esame accurato delle strutture interne di ceramiche e di oggetti lignei. In quest’ultimo caso la TAC viene impiegata anche per contare gli anelli di crescita del tronco d’albero ancora esistenti nella statua o in oggetti di dimensioni trasversali sufficientemente grandi da conservare tali anelli integri nel loro interno. Con la TAC si effettua quindi una datazione dendrologica di tipo non distruttivo.
Riprese di immagini di tipo radiografico sono impiegate anche per oggetti metallici, che per ragione di spessore non possono essere ripresi con i raggi X. Tale tecnica, denominata gammagrafia, utilizza come sorgente le radiazioni γ emesse da isotopi radioattivi o da macchine acceleratici. Le energie della radiazione γ impiegata vanno dalle centinaia di keV ai MeV. Il sensore che converte l’immagine radiografica può essere costituito da un’emulsione fotografica di tipo nucleare, oppure dai nuovi convertitori di radiazione che emettono fluorescenza a queste energie. L’immagine viene ripresa da una telecamera digitale.
La valutazione dell’età di un reperto antico viene effettuata con metodi diversi, la cui scelta dipende dalla natura del reperto e dalla presunta epoca di appartenenza. Questi metodi sono basati sui fenomeni della radioattività naturale che scandisce il passare degli anni, dei secoli e dei millenni, fino a risalire al Pliocene-Pleistocene. L’orologio che segna il tempo archeologico, basato sul decadimento radioattivo, impiega radioisotopi naturali come uranio, torio, radio, potassio, o l’isotopo cosmogenico del carbonio, il 14C.
Vi sono anche due metodi di datazione che non sono basati sulla radioattività, bensì l’uno sulla variazione del campo magnetico terrestre nel tempo (archeomagnetismo) e l’altro sulla produzione annuale di anelli negli alberi (dendrocronologia).
I limiti di età databile dipendono dal radioisotopo impiegato. Con il 14C l’intervallo di datazione va da zero a un massimo di cinquantamila anni dal presente, con la termoluminescenza (TL) si va da zero a un massimo di centomila anni. Per datare i reperti più antichi, i fossili, la cui età è dell’ordine di milioni di anni dal presente, si applica il metodo del potassio-argon.
Datazione con il 14C. Questo radioisotopo artificiale è generato nell’alta atmosfera a seguito della reazione prodotta nell’atmosfera da neutroni su nuclei di azoto:
[1] formula
ovvero un neutrone, n, entra nel nucleo di azoto 14, e un protone, p, esce dal nuovo nucleo di carbonio 14.
Ogni organismo vivente ha scambi continui con l’esterno, in particolare con le componenti dell’atmosfera tra le quali, oltre l’ossigeno e l’azoto, vi è il 14C, che non viene riemesso, ma è assorbito e va ad aggiungersi agli isotopi stabili del carbonio, 12C e 13C, provenienti dalla catena alimentare. Pertanto nelle ossa, nelle fibre vegetali, di ogni organismo vivente è fissata una quantità costante di 14C grazie al continuo scambio di CO2 tra l’organismo stesso e l’atmosfera. Alla morte dell’organismo animale o vegetale cessa il ricambio di 14C, il cui tenore comincia a decrescere esponenzialmente nel tempo a causa del decadimento β− in azoto di questo isotopo, che ha una costante di dimezzamento di circa 5600 anni.
Il primo metodo di datazione con il 14C è stato il RID (Radio isotope dating), che consiste nel misurare direttamente la debole radioattività dovuta alla massa sopravvissuta di 14C. Questo metodo, in uso dagli anni Cinquanta del XX sec., richiede misurazioni molto lunghe ed è ormai in declino. Il metodo moderno, che è molto più rapido e richiede prelievi molto modesti, consiste nel confrontare quantitativamente il 14C sopravvissuto al momento dell’esame e le quantità di isotopi naturali del carbonio anch’essi presenti nel campione. Al tempo zero (la morte dell’organismo) erano presenti in un rapporto noto i tre isotopi del carbonio, e cioè i due isotopi naturali 12C e 13C, stabili e quindi più abbondanti, e l’isotopo cosmogenico radioattivo, 14C. Con il passare del tempo i primi due restano in quantità costante, mentre il terzo diminuisce per decadimento radioattivo. I loro rapporti variano nel tempo in modo noto e quindi l’età del reperto viene determinata agevolmente, purché si apportino alcune indispensabili correzioni dovute a variazioni non trascurabili della quantità di 14C iniziale causate da eventi esterni di varia natura. Questa metodica si basa sulla spettroscopia di massa con acceleratori ad alta energia (AMS, Accelerator mass spectroscopy). Allo scopo si impiega un acceleratore tandem dotato di una sorgente di ioni di carbonio, cioè i tre isotopi provenienti dal reperto da datare (fig. 7). Alla fine di una misurazione (cioè quando la sorgente è esaurita) si raccolgono i dati relativi ai tre canali, calcolando quindi mediante il computer i rapporti citati con le varie correzioni finali per stabilire l’età del reperto e l’errore associato.
Termoluminescenza (TL). Si tratta di una tecnica che consente di datare qualsiasi oggetto fatto con sostanze argillose rifinite al forno, come ceramiche, terrecotte ecc. La datazione con la TL richiede una serie di manipolazioni e valutazioni notevolmente lunghe e delicate, ma di estrema importanza per la grande quantità di informazioni che può fornire lo studio del vasellame.
Per effettuare la datazione occorre prelevare un campione dal reperto e valutare, il più accuratamente possibile, alcune essenziali caratteristiche fisiche dell’ambiente – terra, acqua, sabbia ecc. – in cui è stato trovato. Il metodo di datazione è basato sul principio che le radiazioni (α, β e γ) emesse da sostanze radioattive alterano la struttura elettronica del materiale argilloso producendo un accumulo di energia, dovuto all’intrappolamento di elettroni in livelli eccitati che non si diseccitano spontaneamente e aumentano nel tempo. Il rilascio di questa energia avviene solo riscaldando il materiale. Per effetto del calore la struttura si rilassa e l’energia immagazzinata viene rilasciata sotto forma di luce (quanti di luce). La luce di TL viene misurata previo un elevato rialzo di temperatura, purché al di sotto della soglia di emissione termica (fig. 8). La radiazione ionizzante che produce queste eccitazioni è dovuta ai materiali radioattivi naturali che possono essere presenti in piccole concentrazioni nel reperto stesso. Inoltre, anche la materia circostante che ha ospitato per secoli il reperto contiene materiale radioattivo che, insieme alla radiazione cosmica, contribuisce ulteriormente ad aumentare l’accumulo di energia TL. Il materiale ceramico si comporta come un orologio marcatempo il cui inizio (tempo zero) risale a quando l’oggetto venne cotto al forno liberando tutta l’energia precedentemente accumulata. Per leggere il tempo trascorso si devono determinare almeno due dati importanti, e cioè la dose annuale di radiazione assorbita dal reperto D0, e la dose archeologica assorbita in tutto il tempo trascorso Da. Da questi fattori si ottiene l’età, che viene data dal rapporto Da/D0.
La TL può essere utilmente impiegata anche per determinare indirettamente l’età di una statua antica di bronzo. Infatti, se è possibile recuperare dal suo interno un poco della terra di fusione, la datazione di questo materiale coinciderà con l’età della statua.
Si può utilizzare questa tecnica in modo semplificato, e quindi veloce, per effettuare esami di sola autenticazione: basterà valutare la quantità di luce intrappolata mediante il conteggio dei fotoni di TL per stabilire se l’oggetto è autentico o un falso fabbricato di recente.
Archeomagnetismo. Il metodo di datazione che si basa sul magnetismo termorimanente consente di datare il materiale ceramico. La datazione (approssimata) di un reperto archeologico di terracotta o di altro materiale fittile può essere effettuata misurando la sua magnetizzazione residua e attraverso mappe che riportino i valori (inclinazione e declinazione) assunti dal campo magnetico terrestre nel corso dei secoli nelle regioni interessate. La datazione è possibile se il reperto alla fine della sua fabbricazione è stato messo al forno, in quanto a temperatura superiore a 700 °C il materiale si smagnetizza completamente, perdendo il ricordo della magnetizzazione che aveva nel luogo dal quale è stato prelevato. Uscendo dal forno si magnetizza nuovamente secondo i valori del campo magnetico di quel momento (tempo zero). Il materiale ferromagnetico (piccole quantità di ossidi di ferro presenti in tutti i materiali fittili) è il responsabile di questo magnetismo, detto termopermanente (o termorimanente). Per la misura di tale debole magnetismo si impiega un sensibile magnetometro dotato di un sensore SQUID (Superconducting quantum interference device) raffreddato in elio liquido. Dal confronto con le mappe menzionate sopra si può desumere la sua epoca di fabbricazione.
Datazione mediante il rapporto 40K/40Ar. Lo studio del materiale archeologico incontra crescenti difficoltà via via che si va indietro nel tempo, in quanto i reperti da studiare sono sempre più danneggiati e di difficile interpretazione. Ciò è particolarmente vero quando si studiano i primi fossili umani, che potrebbero risalire a milioni di anni fa, cioè alle soglie del Pliocene-Pleistocene. Tale limite cronologico non era databile fino a circa la metà del secolo scorso, quando finalmente si dimostrò che l’isotopo 40Ar prodotto dal decadimento dell’isotopo 40K si accumulava nei minerali vulcanici come la mica, il feldspato, l’orneblenda. Si scoprì inoltre che l’argon si libera non appena la lava esce dal vulcano, disperdendosi nell’ambiente, mentre la miscela 39K-40K resta intrappolata. Pertanto la situazione è favorevole per una datazione attraverso il potassio. Il tempo di dimezzamento del 40K è di 1,3×106 anni, cioè gli atomi di 40K dopo 1,3 milioni di anni si sono ridotti del 50% trasformandosi in atomi di argon, i quali risultano quindi aumentati della stessa percentuale. Determinando il rapporto fra questi due isotopi si determina l’età del reperto. Le misure di questo parametro sono molto delicate e in continuo miglioramento.
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