ARCHIBUGIO (fr. e ingl. arquebuse; sp. arquebuz; ted. Büchse)
Antica arma da fuoco portatile composta di una canna di ferro, che si carica con polvere e pallottola di piombo, fissata ad un'armatura di legno, detta cassa, e munita di un dispositivo, molto vario a seconda dei tempi, destinato a dar fuoco alla carica. Probabilmente il nome deriva dal basso tedesco haakbuse "canna con dispositivo a uncino per l'accensione", che si modificò in Francia in harquebusche e poi harquebuse; l'italiano archibugio, che deriva dal francese, ha subito l'influenza delle parole arco e bugio "perforato".
L'arma originaria, detta propriamente schioppo, era una canna di ferro o di bronzo, con focone (foro) ricavato nella parte superiore e posteriore che era chiusa (culatta); e il modo primitivo per comunicare il fuoco alla carica fu di accenderla direttamente attraverso il focone con un ferruzzo arroventato o, meglio, in progresso di tempo, con una corda o miccia o spugna accesa, tenuta in mano dall'archibugiere. Successivamente il focone fu praticato sul lato destro della canna e vi fu adattato un bacinetto o scodellino, nel quale si poneva un poco di polverino sottile in comunicazione con la polvere interna; poi si applicò allo scodellino un coperchietto girevole e si diede fuoco alla carica con la serpa o serpentino o draghetto. Quasi contemporaneamente a quest'ultima innovazione si abbandonò il nome primitivo di schioppo e si generalizzò quello di archibugio (o archibuso); da cui archibugio da miccia, da corda, a fuoco, a draghetto, a serpentino: nomi tutti che si equivalgono.
L'archibugio era adoperato dagli archibugieri a cavallo e da quelli a piedi; essi portavano nei giorni di fazione dieci o dodici pezzi di corda appesi alla tracolla o infilati nella cintura, tenendone sempre uno acceso in mano. Caricato l'archibugio, ne volgevano la bocca verso il nemico, col calcio sotto il braccio destro; prendevano uno dei capi della corda e lo ponevano sul serpentino; quindi, scoperto il focone ed aggiustato l'archibugio alla spalla, toccavano col dito il grilletto, che, facendo scattare il serpentino, portava il fuoco della corda sul polverino e da questo alla carica interna. Gli archibugi più grossi e pesanti erano sorretti da un cavalletto (v. affusto).
Nel sec. xvi la serpa fu surrogata dalla ruota, e sulla fine di quello o nel seguente le fu sostituito l'acciarino a focile, al quale tenne dietro il percuotitoio; così si ebbero archibugi a ruota, a pietra, a focile, i quali ultimi, prendendo la parte per il tutto, si chiamarono focili (fucili).
L'archibugio è stato confuso da molti scrittori non solo con lo schioppo, dal quale originò, ma anche col moschetto, il quale fu dapprima una piccola artiglieria, e poi divenne arma portatile. Però, secondo i migliori testi, è da ritenere che l'archibugio fosse più piccolo e più leggiero del moschetto.
Col diffondersi delle armi da fuoco gli archibugi si perfezionarono, e si ebbero archibugi con più canne, archibugi rigati, archibugi a doppio fuoco, ecc.
Archibugio a serpentino o draghetto (fig. 1). - Era munito di tale tipo di acciarino. Sembra che quest'arma sia attestata per la prima volta in Germania. L'acciarino a serpentino era costituito da un'asticciuola di ferro, mobile intorno a un perno orizzontale a; all'estremità libera era foggiata come il collo di un drago o come il collo e la testa di un serpente, che stringeva con la bocca l'estremità accesa di una miccia m. Quando il tiratore premeva sull'appendice g, fissata con la sua estremità alla leva caudata c, riunita da una piccola noce n all'asse del serpentino e girevole attorno ad un perno d, portava dolcemente e senza scosse la miccia m a contatto della polvere del bacinetto. Partito il colpo, bastava abbandonare l'appendice g, perché la molla r riportasse a posto il serpentino, la noce e la leva. Secondo alcuni autori, il serpentino non comparve che nel 1423 e fu invenzione spagnuola. All'appendice g fu poi sostituita una piccola leva, di poco sporgente dall'incassatura dell'arma, che si chiamò grilletto, come ancora appare nelle armi moderne. L'invenzione del serpentino fu un notevole perfezionamento rispetto alla miccia a mano, poiché permise al tiratore di far partire il colpo senza abbandonare il puntamento; ma di per sé stesso non contribuì in modo notevole a far maggiormente sviluppare l'impiego delle armi da fuoco portabili. Tanto quelle a miccia a mano, quanto quelle a serpentino, avevano il bacinetto sempre scoperto, il che importava la necessità di sparare l'arma appena era innescata, senza la possibilità di attendere o di cercare l'opportunità di fare il colpo. L'arma diveniva inutile in caso di pioggia o di vento forte; impossibili erano di notte gli agguati, giacché occorreva avere le micce sempre accese, rivelando così la presenza dell'arma. Le micce si consumavano rapidamente, e difficile tornava talvolta il rifornirsene.
Archibugio a ruota. - Così detto per un congegno a rotella nel sistema di accensione, congegno che tardò parecchi anni a diffondersi. L'origine di questi archibugi è incerta: alcuni l'ascrivono a un orologiaio di Norimberga nell'anno 1517; ma sembra invece più probabile, come implicitamente risulta da alcuni documenti dell'epoca, che si tratti di un'invenzione italiana. Un esempio di tali archibugi ci dà la fig. 2, che rappresenta un esemplare esistente nel Museo nazionale d'artiglieria a Torino. È a canna ottagona, del calibro di mm. 15,5 (con palle di grammi 18,5), lunga mm. 893 senza cassa e mm. 1248 con la cassa, del peso totale di kg. 3,400. Ha il mirino, e sulla cornicetta del vitone ha la tacca di mira (perfezionamenti questi alle armi da fuoco, che già appaiono nel secolo XVI, al quale appartiene quest'archibugio). Le parti essenziali dell'arma sono, oltre alla canna: la cassa e l'acciarino a ruota. La cassa, di legno, serve a tener ferme le varie parti dell'arma, e a costituire l'impugnatura e la parte d'appoggio alla spalla per il tiro (calcio); ed è talora curva (come nella fig. 1) per facilitare lo sparo dall'alto (delle mura) in basso. L'acciarino a ruota (fig. 3) consta delle seguenti parti: una ruota a (parte essenziale dell'apparecchio) scabra o dentata alla periferia e che sporge un poco dal fondo del bacinetto b. Essa è imperniata e solidale con un albero a sezione quadrata esternamente, il quale s'imbocca con una chiave c, occorrente per montarla; e l'albero è collegato, per mezzo di una catenella d, ad un mollone a gomito e, fisso alla cartella dell'archibugio. Di più, tale albero è sostenuto esternamente da un ponticello f fissato con due viti alla cartella. Quando la ruota è carica (e la molla è in tensione) è tenuta ferma da un braccetto a leva, che, sollecitato da apposita molla, va a contrastare con un dente ricavato nella periferia della ruota stessa, mentre sull'estremità opposta del braccetto agisce il grilletto dell'arma. In altre armi la ruota è tenuta in carica per mezzo di un'asticciola che penetra (spinta dalla molla) in un foro della sua periferia, ma il sistema varia poco da quello precedentemente detto. Si ha poi un dispositivo per portare la pietra focaia o silice; dispositivo che nelle armi di lusso di quell'epoca aveva propriamente la forma di testa di cane. Il cane (e tale nome rimase poi sempre a quella parte dell'archibugio che ebbe l'ufficio di produrre l'accensione della carica a colpo) poteva avere due posizioni: in una era rovesciato sulla canna dell'arma (verso la bocca della canna stessa), nell'altra era abbattuto sul bacinetto. Tanto nell'una quanto nell'altra posizione era tenuto fermo da una molla a gomito h, che contrastava sotto l'estremità inferiore del fusto del cane. Caricata l'arma, si rovesciava il cane in avanti, si montava la ruota dando un mezzo giro con la chiave (la ruota girava nel senso della freccia x) e il braccetto a leva, impegnandosi nel dente della ruota, la teneva ferma con la molla tesa. Fatto ciò, si spingeva avanti il copribacinetto i (che scorreva su apposite guide) e si poneva il polverino nel bacinetto. Se si voleva tenere l'arma pronta, ma senza far fuoco, si poteva coprire di nuovo il bacinetto; se invece si voleva sparare, si abbassava il cane sul bacinetto finché la pietra focaia si fosse appoggiata sull'orlo della ruota, e, presa la mira, si premeva sul grilletto. Questo disimpegnava il braccetto a leva del dente di scatto della ruota, la quale, per effetto della tensione del mollone, girava (nel senso della freccia x) producendo un vivace sfregamento contro la pietra del cane, dalla quale sprizzavano scintille, che accendevano il polverino e quindi la carica. L'archibugio, dopo partito il colpo, rimaneva nella posizione indicata in figura e si dovevano rifare le operazioni dianzi descritte, dopo una nuova carica dell'arma. La figura ci dimostra una disposizione ingegnosa della ruota, cioè la sua imperniatura eccentrica; dal che deriva che quando essa è scarica (come in fig.) il maggior raggio dell'eccentricità è rivolto verso la silice, mentre, quando la ruota è carica, verso la silice è rivolto uno dei raggi medî. Così si ottiene che, nello scaricarsi, la parte di ruota che sporge dal bacinetto aumenta di altezza e quindi aumenta il contrasto sulla pietra, facilitando lo sprizzamento delle scintille.
L'ingegnosità e la varietà di questi congegni di sparo dell'archibugio, nei quali si riassumono le principali caratteristiche di quelle armi, sono grandi. Si giunse perfino a qualche congegno per così dire automatico. Il Sardi (L'artiglieria, Venezia 1621) scrive di congegni nei quali, all'alzar del cane, caricavasi la ruota: "ma, aggiunge, conviene che li ferramenti siano ben doppî, il che rende gravezza, e poi per chi è necessitato travagliar alla campagna non sono utili per molti accidenti, ed in particolare, perciocché poche persone sapranno svitarle, risvitate che siano, rimetterle insieme, e pochissimi maestri racconciarle".
Archibugio a focile (o fucile). - In luogo del serpentino o della ruota ha l'acciarino a martellina o a focile, da cui il nome di fucile derivatone all'arma. Questo acciarino rese più semplice l'apparecchio per l'accensione delle armi da fuoco lunghe e corte, in confronto con quello a ruota. Esso comparve non più tardi della metà del sec. XVI per opera degli Spagnoli, secondo alcuni, dei Francesi, secondo altri. In questo acciarino l'accensione della polvere del bacinetto avviene per scintille provocate dall'urto della pietra focaia, fissata al cane, contro una piastrina metallica sgusciata, o acciarino propriamente detto, sovrapposto al bacinetto. La figura 4 mostra, senza bisogno di entrare in particolari, il funzionamento di questo congegno. La fig. 4 a corrisponde alla posizione prima dello sparo, e la fig. 4 b alla posizione dopo lo sparo. Riportando indietro il cane, dopo lo scatto, il congegno si ricarica da sé. L'effetto delle scintille era però incerto, specialmente con tempo piovoso e quando la pietra era consumata dall'uso; per cui gli acciarini a miccia e serpentina furono predominanti in tutta la guerra dei Trent'anni, e si conservarono per la loro semplicità in servizio per tutto il sec. XVII; l'acciarino a ruota fu usato quasi esclusivamente per armi di lusso e per truppe scelte. L'archibugio a focile durò per ben due secoli senza grandi modificazioni nell'essenza del meccanismo. È da notare che il Montecuccoli sulla metà del 1600 lo perfezionò per dare gli scatti al cane nelle cariche e per metterlo a riposo, mentre prima non aveva che il solo movimento per armarlo e quello per spararlo. Gli archibugi, come in genere le altre armi, furono talora riccamente ornati, e se ne fecero anche di costruzioni multiple e bizzarre, come è dato largamente vederne nelle raccolte di armi. Così per es. la fig. 4 c riporta l'acciarino di un archibugio con duplice sistema di accensione (a miccia e a fucile).