ARCHILOCO ('Αρχίλοχος, Archilŏchus)
Principe dei poeti giambici, può anche esser detto col Crusius, senza iperbole, il fondatore della lirica greca. Nacque nell'isola di Paro, una fra le maggiori Cicladi. La cronologia, malcerta per gli antichi lirici, è invece fondata e sostanzialmente concorde per A., forse il più antico: egli "fiorì" nella prima metà del sec. VII a. C. (nato probabilmente intorno al 700, visse almeno sino alla primavera del 648).
In uno dei frammenti meno informi (74 Bergk4) A. fa esprimere a un padre la comune paurosa meraviglia (cfr. Odiss., XX, 351 segg.) per un'eclissi totale di sole, che la moderna astronomia insegna essere avvenuta il mattino del 6 aprile 648 (la sola visibile da tutto il bacino dell'Egeo, fra quelle del 761 e del 585). Allo stesso periodo di tempo ci riportano: la menzione, contenuta in un altro frammento (25), del re di Lidia Gige e delle sue favolose ricchezze (sincronismo esplicitamente affermato in un passo di Erodoto, I, 12), quella delle sventure dei Magneti (Magnesia sul Meandro fu distrutta poco avanti il 650), e infine l'accordo tra cronografi e scrittori antichi, i quali fissano il culmine della vita di A. nei primi decennî del sec. VII. Ora la scoperta d'una iscrizione di Paro, appartenente al monumento di A. (51 Diehl) ed estratta dall'opera dello storico pario Demea (del sec. III a. C. o forse anteriore), prova che anche la cronologia dei poeti, almeno di A., non venne stabilita, nell'età classica e alessandrina, senza critica e senza fondamento, come si ama supporre nella nostra. A ogni modo il frammento archilocheo sull'eclissi resta il primo dato cronologico sicuro della storia letteraria greca (Marx, in Rheinisches Museum für Philologie, 1925, p. 419).
La vita. - Poco più che due secoli dopo, Crizia, il poeta e tiranno dell'età di Socrate, rinfacciava ad A. (fr. 149) d'essere stato pessimo testimone della propria vita, conservandoci ne' suoi versi il ricordo di vicende e colpe che si sarebbero altrimenti dimenticate. L'arguto rimprovero è lusinghiero riconoscimento della sincerità e dell'audacia del cantore, il quale osava far di sé medesimo e delle proprie gioie e sofferenze centro e oggetto del suo canto; onde può a ragione A. definirsi anche il primo poeta "moderno" dell'antichità. Nella ricca epopea omerica che lo precede, la personalità dell'autore o degli autori scompare affatto fra il tumulto della narrazione favolosa; si affaccia, ma con segni percettibili appena, nell'epica esiodea (il poeta delle Opere e giorni suol collocarsi pochi decennî avanti A.), e sembra oscurata di nuovo negli elegiaci Callino e Tirteo: dei quali il primo, contemporaneo di A., e il secondo, ad A. posteriore, nulla ci han detto di sé, e nulla ne sappiamo da altri. Invece i pochi e mutili frammenti dell'opera archilochea, al lume di qualche notizia biografica, ci consentono di tracciare uno schizzo preciso e relativamente sicuro dell'uomo e dell'artista.
Nella seconda metà del sec. VIII, durante il grande movimento di colonizzazione ellenica, i Parî (Ioni, cioè della stirpe intellettualmente più dotata dell'Ellade, gente ardita e litigiosa) dedussero a nord una colonia nell'isola di Taso; ma vi dovettero sostenere lunghe lotte contro i barbari (Sapei o Sai) del continente e contro le colonie delle città rivali, fra cui la vicina Nasso (fr. 51 Diehl; 55; Hauvette, p. 60 segg.). Pronipote o piuttosto figlio del fondatore della colonia tasia (Telesicles o Tellis, ritratto poi dal tasio Polignoto nelle sue celebri pitture murali di Delfi) fu A. e a tali guerre partecipò e ne cantò le vicende. L'ufficio di colonizzatore (οἰκιστής) attesta la nobiltà sacerdotale della famiglia; non c'è bisogno di ragioni speciali (lotte politiche) per spiegare il trasferimento di A. dalla metropoli alla colonia che il padre, o il bisnonno, aveva fondata. Invece Crizia diceva di sapere dal testo di A. stesso che la madre di lui fosse una schiava, Enipo, ed egli emigrato per miseria: può darsi che Crizia abbia preso troppo alla lettera qualche invettiva che forse A. diresse, in giovinezza, come poi il suo imitatore Ipponatte, contro la rigidità dei genitori e l'avarizia della sorte. Non sarebbe questo il solo punto per il quale il blasfemo di Paro ci ricorda il senese Cecco Angiolieri (fr. 61, 75, 93, 125). Agl'imbarazzi del "maldicente A." accenna Pindaro nella seconda ode pitica (v. 54 segg.): ma neppure il rimprovero del poeta aulico va inteso troppo alla lettera. Bastardo o no, povero o impoverito, A. si volge, con spiriti ugualmente aggressivi, al servizio di Ares e delle Muse (fr. 1): nella lancia è il suo pane e il suo vino (2); egli vuol bere per ingannar gli ozî d'una crociera in armi (4); senza apprensione ma con esperienza di veterano, prevede le fasi di un sanguinoso a corpo a corpo in Eubea (3), là dove (guerra di Lelanto) una convenzione vietava l'uso di fionde e d'archi; e mostra all'amico Glauco l'addensarsi del nembo guerresco (54). Ma il guerriero senza macchia e senza paura sarà l'eroe della leggenda cavalleresca medievale: secondo il codice omerico del valore, A. fugge davanti al sacrificio inutile, alla morte sicura. Nella vana resistenza a una vittoriosa avanzata dei traci Sai, egli getta lo scudo (6) (la lingua greca conierà per chi abbandoni lo scudo un vocabolo, ῥίψασπις, ch'è sinonimo di vile):
Povero scudo! non so - chi de' Sai se n'adorni: alla macchia,
splendido arnese, io l'ho - proprio dovuto buttar...
Ci ho guadagnato, però, - la pelle. E che al diavolo vada
quello scudo! n'avrò - presto uno ancora miglior!
Per giustificare tale condotta (il Nostro se ne giustifica appunto, non se ne vanta, come gli rinfacceranno i posteri: Sext. Empir., Pyrrhon. hypotyp., III, 216) non c'è bisogno di ammettere che A. esercitasse il mestiere vero e proprio di mercenario: se nel fr. 24 egli esprime proposito o timore di diventarlo, altrove (14) sembra condanni, con un'espressione divenuta poi proverbiale, la instabile fede dei soldati di ventura. Del suo valore nessuno, invece, può oggi dubitare, se si pensi all'esortazione rivolta ai giovani (55), al vivace schizzo del generale piccolo, storto, ma saldo in gambe e pieno di coraggio (58), al motivo omerico di Ares uguale per tutti (62), al plastico epitafio in onore di due guerrieri, "colonne" di Nasso (17); e alla morte gloriosa del Nostro sul campo, in combattimento contro i Nassî. L'episodio dello scudo abbandonato non sarà solo oggetto di scandalo per Crizia e per l'austera Sparta, ma di frequente imitazione per i lirici posteriori (Alceo, fr. 32; Anacreonte, 28, 29; e spec. Orazio, Carm., II, 7, 9 segg.: i quali ultimi erano richiamati al modello anche da una singolare coincidenza di luoghi). Se A. cadde in battaglia, non morì troppo vecchio (tuttavia il fr. 115 accenna a ricordi di gioventù). Secondo una tradizione delfica molto antica, un tale Calonda (o Archia), soprannominato Corvo, presentatosi a interrogare la Pizia, fu scacciato dal tempio per essere stato l'uccisore di A.; e, com'egli se ne giusticava col diritto di legittima difesa, fu costretto ad offerte espiatorie in onore del defunto. L'aneddoto prova, se non altro, in qual conto si tenesse a Delfi non solo la poesia archilochea (Fraccaroli) ma altresì il valor militare del poeta-soldato.
A. aveva menato vita errabonda: irrequieto per indole e uscito da una stirpe isolana di navigatori nel secolo della colonizzazione mediterranea, figlio di quella società che - non molto prima di lui - scrisse nell'Odissea il proprio romanzo di avventure, egli trascorse sul mare buona parte della vita. In una famosa elegia all'amico Pericle esprimeva virile compianto per la fine del proprio cognato scomparso, e non da solo, in un naufragio (9-13): "ora tocca all'uno, ora all'altro!". Si augurava buona nave e buon nocchiero (45); aveva evitato tante volte gli scogli, dall'Eubea al Mar Nero (54, 128; 79 Diehl); era di quelli che han la vita affidata alle "braccia" del mare (23); sua è la prima figurazione allegorica della battaglia come di paurosa tempesta (54). Tale esistenza randagia esponeva il poeta, benché di lignaggio non vile, ad ogni stento. Non perché sia vero, ma solo per compiangersi egli dice: "tendo la mano e mèndico" (130); e presenta sé stesso, se pur non parla d'altri, tormentato dai pidocchi (137): mendicante che, in fondo, come un suo umile personaggio, non invidia Gige né i tiranni (la parola compare in A. per la prima volta) né gli dei (25). Per sé o per altri lanciava l'invito a lasciar Paro e i suoi fichi e il suo vitto peschereccio (51, 194); ma non bastò a trattenerlo nella vicina Nasso il vino dolce come nettare (151); verso Sud si può supporre giungesse a Carpato e a Creta (152, 175, 133); verso Nord visitò, come s'è detto, l'Eubea, toccò Lesbo (76) e forse il Ponto; visse e combatté a lungo in Taso e sulle coste del mare tracico (2, 146). Ma non combatté contro i nemici soltanto: Archiloco, a sentir Crizia, attaccava amici ed avversarî, sicché venne ben presto in odio a tutti; se ne vendicò maledicendo la "tre volte disgraziata" città di Taso (129), piena di guai (20), anzi di tutti i guai del mondo panellenico (52), minacciata dalla rupe di Tantalo (53). E alla scabra Taso contrapponeva la ridente, impareggiabile vallata italica del fiume Siris, in Lucania (21):
Ma questa è un dorso d'asino,
con tutt'in giro i boschi suoi selvatici!
Davvero non c'è luogo bello e amabile
e dolce, qual laggiù sul Siris rapido!
L'esclamazione ha tutto il sapore delle cose viste e godute.
La critica moderna suol negare che A. visitasse l'Italia e si accontenta di osservare (Crusius) che la Magna Grecia era come una terra promessa: supposizione, per il tempo di A., eccessiva. Qual meraviglia che, peregrinando per tutti gli angoli dei Panelleni (52), il poeta toccasse anche l'Occidente, sede di celebrate scuole musicali (p. es. la locrese), mèta delle principali correnti migratorie, come già il ciclico Eumelo e poi Arione, l'innografo e rapsodo Cineto, e Saffo, Simonide, Bacchilide, Pindaro? (U. Mancuso, La lir. class. gr. in Sic. ecc., p. 41 segg.). Assidui erano gli scambî fra le Cicladi ioniche e la ionica Siris; non sarà caso che fra le glosse archilochee ci siano conservati due idiotismi siculo-tarentini (122,138), né la notizia che A. ricordava una storiella proverbiale in Occidente: quella del crapulone corinzio Etiope, il quale, navigando con Archia a fondar Siracusa, vendé il suo lotto ai commensali (145). A. insomma, prima ancora che la sua gloria poetica, si spinse a Occidente e a Oriente (Teocrito, XXI, 3). Sembra possibile che qualche ricordo concreto di A. si tramandasse nella regione delle ioniche Siris e Sibari: il poeta Alessi, di Turii, scrisse una commedia Archiloco.
Può darsi che A. fosse anche a Olimpia, come vogliono gli scoliasti di Pindaro (119); certo vi giunse e vi rimase per secoli un suo inno in onore del mitico fondatore dell'agone, Eracle: specie d'epinicio rituale di cui ci resta solo lo squillante ritornello; esso risuonava nel luogo stesso della vittoria sulle bocche del corteo che soleva accompagnare l'olimpionica, al tempo di Pindaro poeta ufficiale dell'epinicio, che, nel sec. V, ne prende le mosse per una delle sue odi più celebri (Ol. IX).
Gli amori. - È naturale, nel primo schietto cantore ellenico delle passioni individuali, nell'avventuroso, ardente campione della mollezza (τρυϕή) ionica, che amore e donna fossero le note favorite, se non predominanti; ma nessuna traccia in lui, nessun'accusa a lui di quella macchia che contaminò la società greca fra il VII e il V secolo (specialmente i Dori), la pederastia. Com'egli soleva amare e cantare le etère dei simposî, la sua poesia violentemente erotica (47, 72, 34) pullulava delle oscenità più crude: anzi nel linguaggio e nelle immagini scurrili A. ostentò una sorta di bizzarra, originale fantasia. Tuttavia questo Heine ellenico trovava parole profonde per esprimere le trafitture e lo smarrimento d'amore (84, 85, 103): parole di cui si riudrà l'eco distinta nell'ode immortale di Saffo; e colori dolcissimi per ritrarre una fanciulla profumata nei capelli e nel petto, irresistibile (30); o un'altra la quale (29)
un ramo avea di mirto e dilettavasi
col fior soave della rosa: i riccioli
le spalle e il dorso tutta la ombreggiavano.
Una buona massaia, ch'egli aveva in casa, sembra gratificata col non lusinghiero epiteto di "bue da lavoro" (39); di dubbia autenticità è il delicato epigramma (18) scritto per quella fanciulla che, ottenute giuste nozze, offriva alla pronuba Era ex voto il nastro delle sue trecce. Qual meraviglia se al poeta dissoluto e incostante il vecchio, saggio concittadino Licambe negò, dopo avergliela promessa, la sua figliola maggiore Neobule? [τὴν ὑπερτέρην la chiama A., fr. 28; e invano uno scoliasta omerico torce il comparativo ad opposto significato, sotto l'influsso della leggenda che, forse per equivoco sul fr. 30 o su qualche altro elogio archilocheo, tendeva a esagerare la differenza di età fra il pretendente e la ragazza Neobule, la sola (28) ch'egli sognasse di poter carezzare (71)]. Storiella ben nota: non solo sul padre Licambe violatore della sacra promessa, reo delle nozze mancate (94, 96, 99), forse per aver dato retta alle ciarle d'altri vecchi (50 Diehl), ma sulla perduta Neobule e persino sulla sorella di lei si volse il furore implacabile del poeta respinto. La leggenda che le vittime dei giambi archilochei fossero ridotte a impiccarsi è sorta in un'età più vicina, certo, ad Orazio (Epist., I, 19, 25 e 30-1; Epod., VI, 13) che ad A., ed è sorta, come hanno indovinato i nostri Piccolomini e Graziadei, da un'interpretazione eccessiva delle espressioni metaforiche di A. (35 soffocati dalla bile o sim.; cfr. 67, 122); ma dà giusta misura dell'invettiva archilochea, nell'apprezzamento di chi ne leggeva le opere. Nessun fondamento ha la questione, su cui polemizzano i filologi, se l'episodio di Neobule sia da ascriversi alla prima o all'ultima permanenza in patria, alla giovinezza insomma o alla maturità. Nel primo caso ci spiegheremmo meglio l'amara acredine che restò in fondo all'anima di questo volubile trovatore, donnaiolo e misogino. Se il tono pessimistico e beffardo, in genere, e la misoginia, in particolare, furono caratteristici dello spirito greco, da Esiodo in poi, nessun cantore più greco di Archiloco! Alle graziose pitture delle etère predilette si contrappongono gli accenni beffardi a sgualdrine insaziabili, briache (32, 142, 179): A. non sa più qual epiteto escogitare per costoro (184); in un macabro epitafio (19) chiama la troppo ospitale Pasifile (soprannome) "fico rupestre che alimenta molti corvi"; al lontano Catullo insegna feroci espressioni di obbrobrio (124, 101, 138), ad Orazio lascia la caricatura delle vecchie petulanti e profumate ma grinzose (100, 31, 19; 49 Diehl).
L'invettiva. - I Greci non dicevano "pestare una vipera", ma "pestare Archiloco" (se pure il motto proverbiale 'Αρχίλοχον πατεῖν non significa soltanto imitare A.); "archilochi" (nome d'una commedia di Cratino) si chiamavano forse i persecutori senza pietà. Ei s'era paragonato alla cicala che sempre strilla, e più che mai se tu ne afferri l'ali (143); s'era vantato (65):
Una cosa sola io so,
grande: chi mi fa del male, mali orribili gli fo!
Incredibile - già ce n'è occorso qualche saggio - quante figure, e vive, popolino le misere reliquie archilochee: dall'odioso chiacchierone, che gironzola per casa (33, 132), al nottambulo (46), ai dissoluti (134); da quel capitano Spavento, imponente e azzimato (58), a Miclo flautista, prototipo del donnaiolo (183). Forse era un rivale d'amore quel Leofilo di cui A. ripeteva con petulanza il nome ben quattro volte (70). Né risparmiò i rimbrotti al fido Pericle che, scampato al pericolo di morir sott'acqua, s'invitava da solo ai banchetti per ubbriacarvisi di vino schietto (78); né le beffe al ben pettinato Glauco, secondo compagno di feste e di rischi (57; altri amici invocati: Esimide e Batusiade, soprannomi; Erxia o Erxione, Carilao; il figlio di un Pisistrato), né alla vanagloria propria e dei commilitoni (59). Qui e dovunque si sente già il sale della commedia. L'odio contro i nemici tocca i culmini della violenza: A. arde di assalirli, come un assetato di bere (68); sfida i più valorosi (107), insulta i più vili (131), offre a tutti lugubri doni (7); invoca la punizione su qualcuno (109). Se al sacerdote omerico bastava la vendetta di un dio solo, A. chiama, oltre ad Apollo (27), Sirio (61), Efesto (75), Zeus (88, 125). Il più gustoso saggio della invettiva archilochea noi lo avremmo nel primo dei due epodi scoperti recentemente su papiri egizî di Strasburgo (79 Diehl), se fossimo certi ch'esso appartiene proprio ad A., anziché al suo imitatore Ipponatte menzionato nel secondo (80, 3 Diehl). Eppure la fedelissima imitazione fattane, nell'epodo decimo, da quell'Orazio il quale si compiacque di indicare A. come maestro e autore della sua poesia giambica, anzi come modello e compagno indivisibile (Sat., II, 3, 12; Epist., I, 19, 23 segg.; Epod., VI. 13), basterebbe da sola ad accreditare la convinzione dei filologi (eccetto il Blass e il Fraccaroli) che di A. esso sia, non d'altri. Ivi il poeta, maledicendo un amico fedifrago, gli augura di naufragare sulle coste barbariche del Ponto:
pur che vagasse pel mar,
e nudo in Salmidesso lo acchiappassero
(con la migliore intenzion!)
i Traci irsuti e, in mezzo a mille triboli,
schiavo strappasse il suo pan,
col corpo intirizzito e sovraccarico
d'alighe pel fortunal,
e i denti come un can battesse, esausto,
lungo disteso boccon,
ancor tra i flutti e contro a scogli ripidi...
Tale vorrei contemplar
l'amico che m'offese e i sacri vincoli
sotto i suoi pie' calpestò.
Da un uomo come A. non ci attenderemo la morale dell'oracolo di Delfi né quella dei Sette Savî: il poeta sbaglia, come tutti (73), ma si ribella alle eccessive preoccupazioni umane (15); tanto, l'animo umano suol mutare secondo le circostanze, come il giorno (70); il caso e il destino fa tutto (16); gli dei sollevano o prostrano chi vogliono, come vogliono (56); tutto può accadere per opera di chi riesce anche a oscurare il sole meridiano (74): Zeus è onnisciente e onnipotente (84 Diehl). Da tale fatalismo, che sta nel fondo dell'anima ellenica, nasce l'invito a godere la vita: chi muore non conta più per i superstiti (63); consoliamoci dunque l'un l'altro (36) e affoghiamo il dolore in feste e banchetti (13). Questo grido dell'"ebbro Archiloco", per dirla con Callimaco, riecheggerà in tutta la lirica simposiaca greca e romana. Ma il grido s'affievolisce talvolta e il dardo del sarcasmo si spunta, quando il poeta, a tu per tu con sé medesimo, si confessa e ammonisce, secondo il motto delfico, così (66):
Cuore, cuore, tu sconvolto da insanabili dolor,
risollévati, respingi gli avversarî, contro a lor
porgi il petto, negli agguati saldo affrontali, o mio cuor!
Quando vinci, l'esultanza non lasciarla trapelar;
se sei vinto, nella casa non prostrarti a lacrimar:
de' tuoi gaudî godi, soffri - ma non troppo! - del tuo mal,
ed impara la vicenda che governa ogni mortal.
Mito. - Eppure una parte non trascurabile della lirica archilochea ebbe carattere obiettivo e addirittura narrativo: perciò A. sta a capo non della sola lirica monodica, cioè personale, ma altresì di quella corale, cioè mitologica. Stesicoro siceliota, il poeta epico-lirico che consacrò in forme definitive la canzone corale, lo segue a distanza di un buon mezzo secolo. Il nome di A. è connesso, secondo gli antichi trattatisti, con alcune innovazioni musicali, oltre che metriche, dove l'accompagnamento strumentale (Plutarco sembra attribuirgli anche un accompagnamento polifonico) assunse tale complessità quale non si conveniva più a odicine autobiografiche. Il peane (in origine cantato per Apollo e Artemide), il ditirambo (per Dioniso: prima menzione in Grecia), che largo favore avrà nella lirica (Arione, Bacchilide) e darà, come suol dirsi, origine al teatro, gli iobacchi (per Dioniso e Demetra), sono espressamente citati dallo stesso A. (76, 77, 120-1); gli vengono attribuiti inni e addirittura l'epinicio (119). L'espressione di sentimenti intimi del poeta era tollerabile nelle orge bacchiche (83) o fra amici (81), non dinanzi a una folla adunata per le gare (104). D'altronde è attestato che A. - contemporaneamente ai primi poeti del ciclo epico, che elaboravano la materia mitica - trattò le leggende di Eracle (144; Eracle e Iolao, 119; Eracle, Nesso e l'Acheloo, 147; una tradizione locale voleva che Eracle cacciasse da Taso i barbari Traci per dar l'isola ai Parî: Seyrig, Quatre cultes de Thasos, in Bull. de corresp. hellén., LI, 1927, p. 192), d'Euripilo e Pirro (190), dell'egizio Danao e di Linceo (150), del pario Coiranos salvato da un delfino (114 e iscrizione di Paro); ed è attestato ch'egli non scarseggiava di miti (Giuliano). Come sapesse intrecciare il mito persino alla storia contemporanea, noi vedremmo dalla stessa iscrizione di Paro se fosse meno frammentaria. Dal parallelo fra A. e Omero, un luogo comune della critica letteraria antica, dalle notizie (Platone) che i rapsodi greci dell'età aurea recitavano A. come Omero ed Esiodo, e ch'egli era letto e imparato a memoria nelle scuole, dalla stessa famosa lode (Cic., Ep. ad Att., XVI, 11, 2) del grande critico alessandrino Aristofane di Bisanzio, essere il miglior giambo di A. il più lungo (vi s'intenderebbero, dunque, le poesie più impersonali, le narrative), il Valgimigli (La crit. letter. di Dione Cris., p. 54 segg., seguito dal Rostagni, in Riv. di Filol. class., 1927, p. 11 segg.) sostiene addirittura che A. per la sua materia mitica, cioè per le sue odi narrative, appariva agli antichi emulo di Omero e veniva da essi ammirato, essendo il mito la sostanza stessa d'ogni poesia degna di tal nome, secondo la poetica aristotelica.
Favola. - Come il mito eroico è rappresentazione ideale della vita umana, così ne è rappresentazione volgare, parodica, il mito animale: la favola (αἶνος). Il divino prodigio ammonitore o la vasta similitudine omerica, col secondo termine svolto fino alle proporzioni e alle minuzie di una scena autonoma, lo stesso uso metaforico di nomi d'animali divenuti maschere dei vizî umani - uso più frequente nella meno antica Odissea - documentano esser la favola patrimonio preistorico degli Elleni, probabilmente protoindoeuropeo. Esiodo le dié il primo e modesto battesimo letterario (Opp., 202-12), ma A. ne fece strumento prediletto della sua invettiva un buon secolo avanti il trace Esopo e una generazione almeno innanzi la celebre satira giambica di Simonide contro le donne, che presuppone la diffusa popolarità della favola. Gli scarsi frammenti ci provano che le favole della volpe e dell'aquila (38, 86, 87, 88, 110, 126, 189; 92b Diehl), cioè della perfidia e tracotanza punite dal giusto Zeus, o della scimmia e della volpe (89, 91), cioè della vanità beffata, erano trattate da A. con tale ampiezza che gli consentiva discorsi diretti fra gli animali protagonisti, parodiche invocazioni a Zeus e forse il riferimento esplicito alla realtà. Altrove si accenna alla volpe e al riccio (118), al cervo o al cammello (131, cf. 188). Sarà caso, ma la volpe (ἀλώπηξ compare per la prima volta non in Pindaro ed Erodoto, come dicono i lessici, ma in A.; dalla chiusa della XI Olimpica di Pindaro e dalla Istm. IV, 47, dove cogliamo un'eco della favola archilochea, sicuramente si deduce che la volpe era il contrapposto del leone, e altrettanto commendevole per la sua saggezza, μῆτις), la volpe che nella favola archilochea è un po' come il leone nella similitudine omerica (a Omero invece la volpe rimase estranea non potendo servir bene, come simbolo dell'astuzia, a illustrare né l'audacia né la viltà), ha tutta l'aria di rappresentar le parti dell'autore; non è detto perciò che l'aquila fedifraga o la scimmia presuntuosa debba esser proprio Licambe.
L'artista. - Alla sua arte A. accenna volentieri; però non terremo per buona una pretesa citazione del poemetto pseudomerico Margite (153), che in tal caso sarebbe il precedente diretto dei giambi archilochei. S'è detto degli accenni al peane, al ditirambo, agli iobacchi; altrove si menzionano i giambi festosi (22), la lira e spesso il flauto (propriamente un clarinetto, semplice o doppio) o il flautista (51 Diehl, 76, 123, 172). Del pubblico biasimo A. ha fiero sdegno (8) ed esclama orgogliosamente, con un'apostrofe che i commediografi faranno propria: "Miserabili cittadini, capitemi!" (50). Noi, di fronte a tanta miseria di frammenti, non potremo misurare l'autorità e l'importanza di lui meglio che dall'eco della sua fama e della fortuna stessa delle sue innovazioni formali, molteplici e definitive.
Lingua e stile. - Lo ionico di A. fu certo il dialetto parlato nelle Cicladi; un linguaggio puramente letterario può intendersi per la poesia cavalleresca o aulica, non per la lirica personale e l'invettiva. Tuttavia, secondo il computo del Hauvette, di 859 parole archilochee superstiti ben 680 appartengono all'epica (che pertanto riposa essa pure sul dialetto parlato) e quasi tutte a Omero; i neologismi veri e proprî (quasi solo nei giambi) toccano la settantina: in parte vivi nel volgare o designanti concetti nuovi (come ditirambo, giambo, tirannide), in parte coniati dalla fantasia di A.: alle glosse appunto siam debitori di molte citazioni archilochee. I pregi stilistici di A. sono esaltati da critici autorevoli, come dall'autore del trattato Del sublime e da Quintiliano: brevità, efficacia espressiva, moltissimo sangue e nerbo. Nella scarsezza delle reliquie s'intravvede anche una geniale ricchezza tropica (metafore, similitudini, allegorie), specialmente nel linguaggio burlesco, satirico, scurrile: da A. molto impareranno i commediografi.
Metri. - Nella metrica fu A. un creatore senza rivali. Già Greci e Latini dubitarono a chi spettasse il merito di aver posta in circolazione quella rudimentale strofa dattilica che è il distico elegiaco (dove il cosiddetto pentametro è un esametro con due mezzi piedi in pausa). I moderni errano dando, sulla base di una semplice congettura di Strabone (XIV, p. 647, 40), la precedenza a Callino di Efeso: cronologicamente si può far di costui, nell'ipotesi migliore, un contemporaneo di A.; ma Callino, come persona, non sembra più d'una larva evanescente; l'unico suo frammento di qualche entità è un evidente doppione dei motivi bellici di Tirteo; mentre A. ci offre tracce di distici militari, conviviali, satirici, funebri, gnomici: tutta la gamma degli accenti che ritroveremo negli elegiaci greci. Anche secondo un criterio analogico noi preferiamo vedere in A. colui il quale primus, per modo di dire, emiserit exiguos elegos (Orazio), se fu A. senza contrasto l'inventore o introduttore di quel distico giambico ch'è l'epodo. A. dava così alla lirica, in ogni campo, il suo elemento essenziale: la strofe.
Il giambo (parola d'etimologia incerta, forse dionisiaca, e indicante, fino a Orazio, il genere della poesia satirica o d'invettiva, non il piede) fu, nell'uso letterario, creazione tutta archilochea (Teocrito, Orazio, Plutarco, Ovidio, ecc.). A. volse a forma d'arte le improvvisazioni popolaresche consuete nei misteri e nelle processioni di Demetra (si rammentino gli scherzi di Iambe nell'inno omerico a Demetra, 202 segg., e la riproduzione parodica nelle Rane aristofanesche, dove il coro chiede, 387 segg., di scherzare, ballare e dir buffonate; si pensi altresì al duplice significato di πομπεία, processione e beffa) e di Dioniso, culti prediletti ai Parî e ai Tasî, sopra un ritmo di danza: come A. usa versi giambici e trocaici con tecnica rigorosa e perfetta, non v'ha dubbio ch'essi avevano già subito una elaborazione anteriore di cui s'è perduta la traccia (un tetrametro trocaico in un documento epigrafico bustrofedo di Paro: Inscript. Gr., XII, 5, n. 219, p. 61); ma questa circostanza medesima c'insegna che il genio di A. oscurò presto i lirici prearchilochei, come Omero gli epici preomerici. I ritmi giambici e trocaici erano i più vicini alla lingua viva (Aristotele), a quella parlata nelle processioni, non solo, ma nell'ἀγορά, nel banchetto, nel loggiato (cfr. Esiodo, Opp., 439 segg.): dunque i più adatti alla poesia soggettiva e satirica. A. predilige, nell'uso continuo, il trimetro giambico e il tetrametro trocaico (usato, in origine, dalla tragedia, che poi, come ogni altra forma di teatro, adottò il trimetro giambico). A parecchi schemi, dattilici, giambici, trocaici, è stato imposto, dai trattatisti metrici antichi, e rimane il nome di A.: nella storia delle forme nessun poeta ha lasciato orma così duratura; a lui risale in buona parte, se non tutta, la metrica oraziana, e certo gli Eolici (Alceo, Saffo) molto gli dovettero anche sotto questo riguardo (Orazio, Epist., I, 19, 28 segg). Ad A. la gloria di avere non solo creata la prima strofe (epodo), ma di avervi innestato versi di ritmo differente e di aver combinato persino nello stesso verso membri ritmici differenti: la poesia greca, almeno quella letteraria, che fino ad allora conosceva soltanto le uniformi serie dattiliche, acquistò pertanto una ricchezza e varietà metrica ignota a ogni altro popolo e a ogni altro tempo. E, poiché troviamo, fra le strofe che da A. han nome, le combinazioni dell'esametro dattilico con un trimetro o un tetrametro dattilico, nuova e maggior ragione n'avremo di considerarci nel giusto attribuendogli anche il distico elegiaco. L'epodo archilocheo, il distico della poesia giambica, risulta dall'accoppiamento di un verso (dattilico o giambico o trocaico o anapestico), semplice o composto, con uno (a sua volta dattilico, giambico o trocaico) generalmente più breve (donde forse il vocabolo epodo). Lo schema classico è quello di un trimetro più un dimetro giambico, adottato da Orazio in dieci dei suoi diciassette epodi (Iambi).
I saggi di versione metrica già dati rendono fedelmente i ritmi originali nelle forme più frequenti tra le reliquie archilochee: elegia (fr. 6), trimetro giambico continuato (21, 29), tetrametro trocaico continuato (catalettico: 65, 66), epodo (79 Diehl: trimetro giambico + trimetro dattilico catalettico).
Invano tenteremmo di definire le varie forme in relazione al contenuto: A., arbitro d'ogni legge metrica, seppe dare a' suoi trimetri, ai tetrametri, agli epodi varietà di tono non minore che alle elegie, ed esprimere ciò che voleva, dove più voleva.
Musica. - Tutta la poesia greca ebbe, com'è noto, almeno nell'età più antica, accompagnamento musicale; la lirica non era concepita altrimenti che quale poesia cantata. La cetra, parola forse non greca (poi: lira), fu lo strumento nazionale ellenico; il flauto (αὐλός, parola greca) venne importato dall'Asia Minore; contemporaneamente ad Archiloco, la musica strumentale trovava i suoi riformatori e maestri in Olimpo, Terpandro, Taleta, Senocrito, Polimnesto: il cretese Taleta viene detto, da Glauco, imitatore delle "arie" di Archiloco. Lira e flauto sono ad Archiloco ugualmente familiari: in un tetrametro (51 Diehl) egli ne accoppia i nomi. L'allusione al peane lesbio con accompagnamento auletico (76) stabilisce un rapporto di dipendenza da quella scuola eolica che più tardi, con Alceo e Saffo, deriverà a sua volta dai giambi e trochei di A. le celebri strofe alcaica e saffica. Il flauto accompagnava la patetica elegia; per i giambi si cita anche uno speciale strumento a corde (ἰαμβύκη); per la paracatàloge (παρακαταλογή), creazione archilochea (Plut., De mus., c. 28: una specie di recitativo melodrammatico in cui forse si salvava l'intelligibilità delle parole, essenziale alla satira), il κλεψίαμβος (che, a rigor d'etimologia, può indicare qualcosa che accompagni il giambo furtivamente, senza che ci s'accorga, in sordina): strumenti sconosciuti entrambi (cfr. Fillide di Delo presso Ateneo, XIV, 636 b, c, e l'Onomastico di Polluce, IV, 59). Nel poco che sappiamo c'è dunque quanto basta a intendere la lode degli antichi, i quali salutarono in ogni tempo A. come padre della musica (cioè della metrica e musica insieme: Archilochum.... parentem artis musicae iuxta multiformem metrorum seriem diversamque progeniem omnis aetas canit, Mario Vittorino, Ars gramm., IV, 1, p. 141; cfr. Keil, p. 104, 143 e passim). Non v'ha dubbio, per gli stessi accenni contenuti nei frammenti superstiti, che le odi di A., destinate in maggior parte all'esecuzione di uno solo (monodiche), fossero talvolta veri e proprî canti corali (basti, per tutti, l'inno olimpico ad Eracle). A. sta dunque a capo, giova ripeterlo, delle due schiere in cui i trattatisti soglion distinguere i poeti della lirica o, più esattamente, della melica classica greca.
L'opera. - L'edizione alessandrina di A., ove confluirono l'attività di storici e trattatisti prealessandrini (rapsodi, sofisti, Glauco di Reggio, Aristotele, Eraclide pontico, Demea, ecc.) e la critica dei più celebri filologi d'Alessandria (Eratostene, Aristofane bizantino, Aristarco, Apollonio rodio, Callimaco), comprendeva, completa o no, parecchi libri del poeta proclamato, nel canone aristarcheo (Quintil., X, 1, 59), principe dei giambografi. Quanti libri (trimetri giambici, tetrametri trocaici, epodi), non è dato precisare: ma uno almeno di elegie, tre almeno di giambi e qualche altro. Per es. degli "iobacchi" abbiamo distinte citazioni da cui essi apparirebbero anzi di contestata autenticità: fr. 120; può darsi che anche inni e ditirambi fossero raccolti a parte. L'edizione non sopravvisse ai primi secoli dell'Impero che attraverso gli estratti di antologie, sul genere di quella dello Stobeo (V sec. d. C., ma di seconda o terza mano), o dei papiri egizî di Strasburgo (II secolo d. C.) con note marginali e interlineari. La diretta conoscenza di A., combattuta, nella crescente ignoranza, da filosofi morali e da apologisti cristiani, s'oscurò sempre più: mentre Giuliano imperatore (IV sec.) ne vietava la lettura, il monumento eretto in Paro dall'ammirazione dei concittadini veniva ridotto in frantumi. Ed era serbata a noi moderni la cura di rintracciarli.
La fama. - Spazio soverchio richiederebbe la documentazione dell'influsso di A. sulle letterature posteriori: il Crusius affermava ch'esso è paragonabile solo a quello d'Omero, e l'affermazione non sembrerà audace a chi rifletta come, in mancanza del modello, tali apprezzamenti riposino sulle semplici, casuali indicazioni o imitazioni degli antichi scrittori superstiti; quando pure queste ultime non ci sfuggano, ed è raro senza dubbio. Maestro agli elegiaci d'ogni tono, ai giambici (la satira di Simonide co' suoi 118 trimetri è certo il componimento greco più archilocheo, per spirito e forma, che oggi ci sia dato di leggere); ad Alceo e Saffo, ad Anacreonte (e quindi al mimografo Eronda), all'emulo Pindaro; recitato dai rapsodi ex cathedra in teatro (un Simonide zacinzio vi si era specializzato), dai cori negli agoni e nelle feste, studiato nelle scuole; noto ai tragici, imitato o copiato e canzonato dai comici, primo, e più d'ogni altro, Aristofane (Aristotele farà derivare la commedia dal giambo); discusso da filosofi e sofisti; σοϕώτατος, cioè artista sommo, per Platone; fonte per gli storici; oggetto di un'opera speciale d'Aristotele (malgrado il pregiudizio aristotelico contro la lirica soggettiva); edito e commentato dai massimi dotti alessandrini, cantato da Teocrito; esaltato nel Del sublime, e altrove, al par di Omero; largamente accolto in florilegi e citato da grammatici, retori, metrici e musici; familiare a Plutarco e Luciano; riconosciuto, a contraggenio, segno della universale ammirazione dall'austero Filodemo: A. raccoglie presso i Greci d'ogni luogo, d'ogni età e d'ogni tendenza, tale messe di lodi che siamo quasi disposti ad approvare l'autorevole Dione Crisostomo quando (Or., XXXIII, 397 M), nonostante le sue preoccupazioni parenetiche, esclama: "Da che mondo è mondo, due soli poeti ci sono stati, ai quali non può paragonarsi nessuno degli altri: Omero e Archiloco". Nella lirica latina Orazio - dopo Lucilio e Catullo e prima d'Ovidio - sul punto stesso di rivendicare in Roma la propria originalità, si vanta, sfogandosi col dotto Mecenate, di aver imitato i ritmi giambici e l'impeto di A., press'a poco come avean fatto, ai tempi loro, Alceo e Saffo in Grecia; l'epodo di Strasburgo, anche se non fosse archilocheo, ci mostrerebbe che tale imitazione va intesa (nonostante le abili giustificazioni del Pasquali, Orazio, p. 108) in senso tanto stretto quanto è consentito dall'estetica antica, non dalla nostra; e certo non si limita al libro oraziano dei giambi, ma si estende ai quattro delle odi, se sappiamo intendere l'accenno, più vago, che chiude la prefazione (I, 1) e il commiato (III, 30) dei primi tre. Due odi primaverili, di movenze analoghe e di spiriti archilochei, sono nei sistemi metrici ch'ebbero nome dal Pario (I, 4; IV, 7) e trattano un motivo frequente anche altrove nella lirica oraziana. Qualche decennio, appena, dopo la morte del celeberrimo amico d'Augusto, in Roma Velleio Patercolo, storico acuto anche in cose letterarie e indagatore delle personalità, osa passare il Venosino sotto silenzio e dice del Pario (Hist. Rom., I, 5) ch'ei solo - con Omero (solus poeta, inimitabile) - deve reputarsi, fra i creatori de' proprî generi, perfetto. Poco di poi il prudente Quintiliano, dopo aver additato A. come unico e sommo maestro di stile, cita il giudizio della critica puritana, antiarchilochea, che proclamava A. inferiore a taluno per i soggetti trattati, a nessun altro per genio.
Ulrico von Wilamowitz, dopo aver definito A. "poeta dell'emancipazione individuale" (Sappho u. Simon., Berlino 1913, p. 10) in contrapposto agli epici, osserva perplesso ch'egli, anziché apparirci arcaico secondo le esigenze della cronologia, ci si presenta invece già perfetto e "classico" nella tecnica. Come uomo A. si contrappone nettamente all'etica del dio di Delfi, che lo protesse, alla σωϕροσύνη e alla misurata compostezza degli Elleni convenzionali. Ma il preteso enigma archilocheo è, in fondo, quello stesso che suol turbarci di fronte a tutti i grandi, anche quando ci sia dato di leggerne le pagine: essi aderiscono sempre, eppur sempre contrastano alla società loro; appartengono e sfuggono, insieme, al proprio tempo.
Nel grande naufragio delle letterature classiche anche l'opera di A., tramandata e studiata attraverso tutta l'antichità greco-latina, è dunque perduta. Se ne hanno le ultime attendibili tracce (divieto dell'imperatore Giuliano) nel IV sec. d. C. Non è infondato il voto che i papiri egiziani ci riserbino, come già d'altri, qualche prezioso dono di questo sommo poeta: per ora, il caso ci ha giocato questo brutto scherzo, che l'unico fr. di A. tornato in luce fra i ricchi papiri di Ossirinco (The Ox. Pap., VI, 1908, n. 854, p. 149 seggi) coincide con uno (4) già noto da Ateneo. I framm. (120, talora ridotti a un verso o a un emistichio; uno solo, e dubbio, superiore alla dozzina; in tutto circa 280 vv.; inoltre poche decine di scolî, glosse e riferimenti) li dobbiamo a citazioni di scrittori e antologisti antichi, a un monumento epigrafico (iscrizione di Paro), a due papiri egizî della bibl. universitaria di Strasburgo (paternità incerta): iscrizione e papiri venuti in luce recentemente (1899-1900). Editio princeps dei framm.: del Liebel, Archil. iambographorum principis reliquiae, Vienna 1812, 1ª ediz., 1818, 2ª ediz.; principali successive: quarta e ultima del Bergk, Poetae lyrici Graeci, Lipsia 1882, II, pp. 381-440 (framm. numerati 199, testo restituito con critica acuta ma arbitraria; op. ristampata nel 1915 con indici, senza modificazioni: se ne attende da decennî un radicale rifacimento); Hoffmann, Die griech. Dialekte ecc., Gottinga 1891 segg., III; 120 fr. nella Anthologia lyrica Graeca del Diehl, Lipsia 1925, I, pp. 209-244 (a p. xii la tav. di corrispondenza fra la numerazione del Diehl e quella del Bergk4, seguita nel pres. artic.), il quale ha rifatto la precedente Anthologia lyrica di Hiller-Crusius (Lipsia), già da lui integrata nelle varie ediz. del suo Supplementum lyricum (Bonn 1908 segg.).
Bibl.: Per la bibliografia archilochea, ricca in confronto alla deplorevole scarsità dei frammenti superstiti, rimandiamo anzitutto alle fonti bibliografiche della storia letteraria ellenica: per la produzione vecchissima (1700-1878), alla Bibliotheca script. classicorum di Engelmann-Preuss, Lipsia 1880, pp. 160-161; per la meno recente (1878-96), alla stessa Bibl. scr. cl. del Kulssmann, Lipsia 1900, I, 262-263; per la nuova, ai fascicoli periodici dello Jahresbericht über die Fortschritte der klass. Altertumswissenschaft e della Bibl. philologica classica aggiunta in append., Lipsia, Reisland: ivi spec. ai rendiconti riassuntivi del Sitzler (1900, CIV, pp. 99-100; 1907, CXXXIII, pp. 114-20; 1919, CLXXIV, pp. 20-22; 1922, CXCI, pp. 32-33), il quale arriva al 1920. Per la produzione italiana cfr. anche l'utile guida bibliogr. di G. A. Piovano, Gli studi di Greco, Roma, Fondaz. Leonardo, 1924, pp. 124-125. Inoltre: le storie generali della letteratura greca (specialmente di Christ-Schmid, 6ª ed.), le storie speciali, le antologie della lirica greca, ecc. Da consultarsi specialmente: A. Hauvette, Un poète ionien du VII siècle - Archiloque, sa vie et ses poésies, Parigi 1905 (monografia completa, anzi prolissa); Crusius, artic. Arch., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., II, coll. 487-507; Gerhard, art. Iambographen, nella stessa enciclopedia, IX, coll. 651-80; Piccolomini, Quaestionum de A. capp. III, in Hermes, XVIII (1883), p. 264 segg.; Graziadei, A. studiato nei suoi framm., in Riv. di filol. e d'istr. class., XII (1883), p. 446 segg.; Wölfflin, Die Epoden des A., in Rheinisches Mus. für Phil., XXXIX (1884), p. 156; Setti, Omero ed A., in Riv. di storia ant. e scienze aff., II (1896), p. 25 segg. (diligente raccolta dei testimonia veterum, ma non felice processo al tradizionale parallelo fra i due poeti); Reitzenstein, nei Sitzungsberichte dell'Accad. di Berlino, 1899, p. 857 segg.; Piccolomini, in Nuova Antol., del 1° genn. 1900; Hiller von Gärtringen, Archilochosinschrift aus Paros, in Mittheil. des athen. Inst., XXV (1900), p. 1 segg.; in Inscr. Gr., XII, 5, 1, 445 e nei Sitzungsber. dell'Accad. di Berlino, 1904, p. 1236 segg.; Jurenka, Arch. von. P., Vienna 1900 (ingegnoso ma arbitrario tentativo di ricostruzione biografica); Bahntje, Quaest. Archilocheae, Gottinga 1900; Leo, De Horat. et A., Gottinga 1900 (sul quale argom. v. anche il dotto vol. del Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1920, p. 104 segg.); Dettmer, De arte metr. Arch. quaest., Hildesheim 1900; Valgimigli, La crit. letter. di Dione Cris., Bologna 1912 (dove, a proposito della critica dionea, si formula su A. un giudizio interessante); De Falco, A. nei papiri ercolanesi, in Aegyptus, III (1922), p. 287 segg.; Wilamowitz-Möllendorf, in Hermes, LIX (1924), p. 271. - Sul lessico dei frammenti di A., raccolto e analizzato nel cit. vol. del Hauvette, p. 234 segg. v. l'anteriore Index Archilocheus di A. Monti (Torino 1904), il quale lo raffrontò con Omero, Esiodo ed Erodoto.
I frammenti sono tutti tradotti nel libro di A. Hauvette (indice a p. 292 segg.). Vers. metrica ital. dei principali (una quarantina), nel vol. I dell'opera di G. Fraccaroli, I lirici greci: Elegia e giambo, Torino 1910, con introduzione e comm., pp. 37-66; saggi parziali di altri molti (ad es. del Bignone, L'epigr. greco, p. 221 ed Eros, p. 33); una nuova traduzione in versi è preannunziata nella collezione I poeti greci trad. da Ettore Romagnoli, Bologna.
Iconografia: L'erma bicipite del Museo Vaticano (fig. pag. 44), scoperta sul Celio alla fine del Settecento, venne riferita a Omero e A. dal suo primo editore E. Q. Visconti (Iconogr. gr.), poi dal Welcker (colui che ravvicinava A. a Dante, come gli antichi a Omero), e, sull'autorità loro, dal Baumeister (Denkmäler des klass. Altert., Monaco 1885, p. 116, fig. 121), e dagli altri tutti, eccetto il Setti (art. cit.), e il Bernoulli (Griech. Ikonogr., Monaco 1901, pp. 28-29, 33 segg.). Quanto a Omero (cieco, maestoso), non può esservi dubbio, e il Setti medesimo ne convenne; con ben altro fondamento egli sosteneva tuttavia che l'attribuzione ad A. fosse arbitraria: fra gli autori "omericissimi" (όμηρικώτατοι) della tradizione letteraria ellenica, si può pensare con probabilità maggiore a Stesicoro imerese (il Bernoulli mette innanzi il nome di Esiodo). Quest'ipotesi, formulata dal Setti non senza esitazione (art. cit., p. 33, 63), ci sembra avvalorata, più che dal verso di Simonide dove si appaiano i nomi de' due poeti come ugualmente popolari, e dal giudizio di Quintiliano che definisce Stesicoro poeta epico-lirico ed emulo d'Omero (Dione Crisost., Or., LV, 559 M, considera Stesicoro emulo d'Omero quanto A.), dal semplice raffronto con un altro monumento figurato romano: la Tabula Iliaca del Museo Capitolino - piccolo bassorilievo (del genere della celebre Apoteosi d'Om. di Archelao, scoperta nello stesso luogo e ora al British Museum) destinato alle pareti d'una scuola o d'una biblioteca, dove il ciclo troiano è illustrato "secondo Stesicoro e secondo Omero". E ciò soprattutto perché Stesicoro, localizzando in Occidente i più celebrati miti di Grecia, presentava per primo, secondo l'iscrizione, "Enea che salpa con i suoi verso l'Esperia": donde il mito ufficiale romano, consacrato nel poema di Virgilio (Mancuso, La Tab. II. del Mus. Cap., in Mem. della R. Accademia dei Lincei, XIV, 1911, p. 661 segg., e La lir. class. greca in Sic. e nella M. Grecia, Pisa 1912, p. 174 segg.). Nell'Urbe grecizzata del primo Impero, o per essa in Sicilia, in Egitto, in Grecia, qualche statuario (come l'autore della statua senilis di Stesicoro, che tanto piaceva a Verre e da cui si suppone derivi una moenta di Termini Imerese: Bernoulli, p. 57 seg.) accoppiò le immagini dei due poeti di cui gl'incisori solevano abbinare, per illustrarle, le opere: l'uno e gli altri in ricordo del troiano progenitore di Roma e della gens Iulia. Si aggiunga che, mentre di A. non conosciamo nessun documento iconografico (Bernoulli, p. 34), un'altra erma frammentaria (da Tivoli) del Museo Vaticano reca inciso (Kaibel) Inscr. Graec., XIV Inscr. It. et Sic. n. 1213, p. 318) il nome di Stesicoro imerese. Tuttavia rammentisi che l'iscrizione di Paro (51 Diehl), così ricca in citazioni archilochee, ornava la base di una statua erettagli dal concittadino Sosteo circa un secolo a. C.; che, col nome di Teocrito (XXI), l'Anthol. Palatina ci conserva un epigramma sottoscritto a qualche statua del poeta, e infine che statue o busti di A. non potevano mancare nella Roma imperiale.