Archimede, matematico, fisico e astronomo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sebbene sia spesso ricordato principalmente per la sua attività di ingegnere e di inventore, capace di ideare macchine belliche e dispositivi meccanici di vario tipo, Archimede di Siracusa è il maggiore scienziato di tutta l’antichità. Considerato il padre della fisica matematica, assai distante dalle speculazioni dei filosofi e in grado di fornire risultati quantitativi, il suo nome resta indissolubilmente legato al principio idrostatico. Fu inoltre prolifico autore di testi di matematica, disciplina alla quale dette contributi numerosissimi e di straordinaria importanza.
Archimede nasce nel 287 a.C. a Siracusa, dove trascorrerà l’intera esistenza – tranne forse un periodo di studi ad Alessandria sotto la guida dei discepoli dell’ormai scomparso Euclide – e dove morirà, settantacinquenne, per mano di un soldato romano durante il sacco della città nel 212 a.C.
Matematico, fisico e astronomo, Archimede è, senza dubbio, il massimo scienziato di tutta l’antichità. Per lungo tempo il suo nome resta legato all’invenzione di macchine belliche (dalla manus ferrea, sorta di gru utilizzata per ribaltare le navi nemiche, agli specchi ustori), utilizzate dai Siracusani per resistere agli attacchi dei Romani, e di congegni meccanici per uso civile, tra cui un dispositivo per il sollevamento dell’acqua, detto coclea e oggi più noto come vite di Archimede. Ma queste attività avranno nella sua vita un ruolo episodico e marginale.
Archimede è considerato il padre della fisica matematica. Due i trattati di argomento fisico: Sull’equilibrio dei piani e Sui corpi galleggianti. Nel primo egli affronta la teoria della leva, il cui principio fondamentale, secondo il quale due corpi sono in equilibrio se i loro pesi stanno in proporzione inversa alle rispettive distanze dal fulcro, era noto da tempo. Dell’argomento, infatti, si erano già occupati gli aristotelici, che avevano fornito una spiegazione fisica del fenomeno: nelle Questioni meccaniche – considerate il più antico trattato di meccanica dell’Occidente e sulla cui paternità si è a lungo discusso senza giungere ad una conclusione certa (la maggior parte dei critici lo attribuisce ad Aristotele o ad altro autore gravitante attorno al Peripato) – il principio della leva viene ricondotto alla teoria aristotelica dei moti (e dei luoghi) naturali. In sintesi, la spiegazione del fenomeno starebbe nel fatto che i pesi situati alle estremità dei due bracci della leva sono vincolati, dai bracci stessi, a muoversi di moto circolare e quindi preternaturale, poiché, per i corpi della regione sublunare, il moto naturale è quello rettilineo. Tuttavia il peso situato all’estremità del braccio più lungo si muove su una circonferenza di raggio maggiore e quindi con maggior velocità e su una traiettoria più vicina a quella rettilinea, più vicina cioè al suo moto naturale. Ciò spiegherebbe il fatto che il peso applicato al braccio più lungo riesce a controbilanciare un peso maggiore, situato all’estremità del braccio più corto.
Al contrario dell’approccio aristotelico, nel quale alcuni storici hanno voluto ravvisare la prima formulazione del principio dei lavori virtuali, quello di Archimede è totalmente statico e si fonda sul solo postulato di simmetria, secondo il quale i corpi (omogenei) a simmetria bilaterale sono in equilibrio. Egli inizia la sua dimostrazione da una leva, di peso trascurabile, i cui bracci hanno entrambi una lunghezza pari a due unità. Alla leva sono applicati tre pesi uguali, due dei quali situati alle estremità dei bracci e uno sul fulcro. Per il postulato di simmetria, il sistema risulta in equilibrio. Prendendo poi in considerazione un solo braccio, per esempio quello di destra, possiamo constatare che, in virtù del medesimo postulato, esso si trova in equilibrio rispetto al proprio centro e che in tale stato rimane per ogni posizione dei due pesi simmetrica rispetto a quest’ultimo, compreso il caso in cui essi siano posizionati entrambi esattamente in questo punto. Considerando di nuovo il sistema nel suo insieme, si ha dunque che, in questa nuova configurazione, il peso di sinistra, posto a due unità di lunghezza dal fulcro, controbilancia esattamente i due pesi, applicati a un braccio di lunghezza unitaria. Generalizzando il procedimento, Archimede riesce a dimostrare il principio della leva con un metodo matematico, lontano dall’ approccio speculativo dei suoi predecessori e assai simile, per rigore logico, a quello utilizzato da Euclide negli Elementi, stabilendo così, per la prima volta, quel legame tra matematica e meccanica destinato a caratterizzare la fisica moderna.
Nel trattato Sui corpi galleggianti, in due libri, Archimede formula il ben noto principio idrostatico, che ancora oggi porta il suo nome, secondo cui un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto uguale al peso del volume di fluido spostato. Nell’originaria formulazione archimedea, il principio viene espresso attraverso le seguenti due proposizioni, contenute nel libro I: “Qualsiasi corpo solido più leggero di un liquido, se posto nel liquido, si immergerà in misura tale che il peso del corpo solido sarà uguale a quello del liquido spostato” (Prop. 5).
“Un corpo solido più pesante di un liquido, se posto in esso, discenderà in fondo al liquido e, se il solido immerso nel liquido verrà pesato, esso risulterà più leggero del suo peso reale e la differenza di peso sarà uguale al peso del fluido spostato” (Prop. 7).
Il libro II contiene inoltre numerose e importanti proposizioni riguardanti le posizioni di equilibrio idrostatico dei segmenti di paraboloide immersi in un liquido.
Ai suoi studi di idrostatica è legato il celeberrimo aneddoto riportato da Vitruvio nel De architectura. Gerone, tiranno di Siracusa, aveva commissionato un serto d’oro a un artigiano, fornendogli la quantità di metallo necessaria per realizzarlo. Sospettando però che questi, nell’eseguire il lavoro, avesse trattenuto parte dell’oro rimpiazzandola con dell’argento, chiese ad Archimede di trovare un modo di verificare l’onestà dell’orafo. Tradizione vuole che egli abbia trovato la soluzione del problema mentre si immergeva in una vasca da bagno, notando come da questa traboccasse una quantità d’acqua equivalente al volume del proprio corpo. In preda alla gioia, si sarebbe allora precipitato verso casa, ancora nudo, gridando: “Eureka! Eureka!”, “Ho trovato! ho trovato!”. Sempre secondo il resoconto di Vitruvio, Archimede avrebbe ricavato, immergendoli separatamente in un recipiente colmo d’acqua e misurando la quantità di liquido traboccata, i volumi della corona e di un eguale peso d’oro. Secondo una versione più tarda e oggi più accreditata, contenuta nel Carmen de ponderibus et mensuris, scritto attorno al 400 da un autore anonimo, Archimede avrebbe invece utilizzato il principio idrostatico, pesando, immersi nell’acqua, la corona e un quantitativo di oro uguale in peso.
Nel campo della matematica, i contributi di Archimede sono numerosissimi e di straordinaria importanza. Nell’Arenario, dopo aver stabilito, sulla base di considerazioni astronomiche, un limite superiore alle dimensioni dell’universo, egli calcola il numero di granelli di sabbia che occorrerebbero per riempirlo completamente. Non si tratta di un mero esercizio accademico: ad Archimede serve un numero enorme, che non sia tuttavia una pura astrazione priva di significato fisico. Lo scopo del trattato è infatti quello di illustrare un sistema di numerazione esponenziale, da lui elaborato, potenzialmente in grado di esprimere qualunque numero. Egli assume così, per tutte le grandezze in gioco (raggio terrestre, distanza Terra-Sole ecc.), valori abbondantemente sovrastimati rispetto a quelli adottati al tempo, e addirittura – non essendoci, all’epoca, unanime consenso circa l’architettura del cosmo – effettua il calcolo sulla base della teoria di Aristarco, che implicava un universo di dimensioni assai maggiori rispetto ai modelli geostatici. Anticipando Copernico di diciotto secoli, Aristarco di Samo, un contemporaneo di Archimede di poco anteriore, aveva infatti elaborato il primo vero sistema eliocentrico e, per spiegare l’assenza di parallasse delle stelle fisse (troppo piccola per poter essere rilevata a occhio nudo), era stato costretto, come lo sarà Copernico, ad ammettere che queste si trovassero a una distanza immensa dalla Terra; una distanza che, presumibilmente, sta alla distanza Terra-Sole come questa sta al raggio terrestre. È interessante notare che, per quanto scarna, la descrizione del sistema di Aristarco fornita da Archimede nell’Arenario costituisce la principale fonte di cui disponiamo sull’argomento.
Il breve trattato Sulla misurazione del cerchio, che ebbe larga diffusione durante il Medioevo, contiene, ammesso che l’opera ci sia giunta in maniera completa, tre sole proposizioni. Tra queste la dimostrazione – ricavata tramite il metodo di esaustione, equivalente greco del moderno calcolo integrale, introdotto da Eudosso nella prima metà del IV secolo a.C. – del teorema secondo cui l’area di un cerchio è equivalente a quella di un triangolo rettangolo che ha per cateti il segmento rettificante la circonferenza e il raggio del cerchio stesso, il che equivale a dire che l’area del cerchio è uguale a πr2 (è, questa, la notazione moderna, giacché nell’antichità, per indicare il rapporto tra la circonferenza e il suo diametro, non si utilizzerà mai il simbolo π, che sarà introdotto solo nel 1706 dal matematico gallese William Jones e reso poi di uso comune da Leonhard Euler). Il teorema, con ogni probabilità, era già noto a Dinostrato di Pitane, fratello di Menecmo, attivo attorno alla metà del IV secolo a.C., che lo assume implicitamente in un metodo per la quadratura del cerchio a lui attribuito. Di grande originalità è invece la proposizione 3, che contiene un metodo, oggi noto come algoritmo archimedeo, per calcolare il valore di π con una qualsivoglia approssimazione. Il metodo fa uso di poligoni regolari, inscritti e circoscritti ad una circonferenza, per approssimare, rispettivamente per difetto e per eccesso, la lunghezza di quest’ultima e giungere così a determinare un limite inferiore e uno superiore al valore di π.
Naturalmente, quanto maggiore è il numero dei lati dei poligoni utilizzati, tanto migliore è la stima che si ottiene (la circonferenza può infatti essere pensata come un poligono di infiniti lati). Archimede sviluppa quindi una procedura numerica che fornisce il perimetro del poligono di 2n lati, una volta noto il perimetro del poligono di n lati. Partendo dall’esagono regolare inscritto in una circonferenza di raggio r e da quello ad essa circoscritto, i cui perimetri sono rispettivamente 6r e 4√3r [ndr: √ = radice quadrata], che divisi per il diametro, 2r, della circonferenza, forniscono un valore di π compreso tra 3 e 2√3 ≈ 3,464) e reiterando la procedura, egli calcola i perimetri dei poligoni regolari, inscritti e circoscritti, di 12, 24, 48 e 96 lati, giungendo così a determinare un valore di π compreso tra 3+ (≈ 3,141) e 3+ (≈ 3,143). L’aspetto assolutamente innovativo di questo metodo risiede nell’avere, per così dire, eliminato la geometria sottostante, riconducendola a una procedura puramente aritmetica, reiterabile ad libitum per giungere all’approssimazione desiderata.
È questo il motivo per il quale π è talvolta indicato come costante di Archimede o anche costante (o numero) di Ludolph, in onore del matematico tedesco Ludolph van Ceulenche (1540-1610), che, servendosi sostanzialmente dell’algoritmo archimedeo e utilizzando poligoni regolari di ben 2 miliardi di lati, giunse a determinare i primi 35 decimali di questo numero irrazionale. Un risultato che lo impegnò per gran parte dell’esistenza e del quale andava così fiero da farlo poi incidere sulla propria tomba (i calcolatori elettronici hanno reso possibile calcolare π con un’esattezza assolutamente inimmaginabile prima del loro avvento: al momento in cui il presente volume va in stampa, sono note 5 bilioni, cioè 5000 miliardi, di cifre decimali!).
Nel trattato Sulle spirali, Archimede definisce cinematicamente la curva che porta oggi il suo nome (ma che lui stesso attribuisce all’amico Conone di Alessandria), la spirale di Archimede appunto, come il luogo piano di un punto che si muove uniformemente su di una semiretta partendo dal suo estremo, mentre, incentrata su questo, essa ruota con velocità angolare uniforme. Gli studi sulla spirale – che Archimede utilizza per risolvere (sia pure violando, consapevolmente, le ferree regole della costruzione con riga e compasso) due dei tre problemi classici della matematica greca, cioè la trisezione dell’angolo e la quadratura del cerchio – lo conducono a due risultati di grande importanza: il calcolo dell’area del primo giro della spirale, con un metodo che anticipa l’integrazione di Riemann, e la determinazione, per qualsiasi punto della curva, della direzione della tangente (a quanto consta, nessuno prima di allora aveva mai determinato la tangente di una curva che non fosse una circonferenza).
Archimede si occupa a fondo anche del calcolo delle superfici delimitate da coniche o da segmenti di coniche.
Nel trattato Sulla quadratura della parabola, servendosi ancora del metodo di esaustione, dimostra che l’area di un segmento parabolico è uguale ai 4/3 del triangolo che ha per base e per altezza rispettivamente la base e l’altezza del segmento parabolico. Archimede non giungerà a trovare una soluzione generale, valevole cioè anche per l’ellisse e per l’iperbole, al problema dell’area dei segmenti di una conica. Dell’ellisse, però, riuscirà a determinare l’intera area, dimostrando, nel trattato Sui conoidi e gli sferoidi, che essa vale πab, dove a e b sono rispettivamente il semiasse maggiore e il semiasse minore dell’ellisse. Nella stessa opera si trovano inoltre le formule per il calcolo dei volumi dei segmenti dell’ellissoide, del paraboloide e dell’iperboloide (a due falde) di rivoluzione, delle quali, sempre utilizzando il metodo di esaustione, Archimede fornisce dimostrazioni incredibilmente simili a quelle moderne.
Il trattato Sulla sfera e sul cilindro contiene numerosi e importantissimi teoremi relativi a questi due solidi, tra i quali il teorema secondo cui il volume di una qualsiasi sfera è uguale a quattro volte quello del cono che ha la base uguale al cerchio massimo della sfera e l’altezza uguale al raggio della stessa, e quello relativo alla superficie delle calotte sferiche. Ma il trattato contiene anche il teorema di cui forse Archimede andava più fiero, tanto da fare incidere sulla propria tomba una sfera inscritta in un cilindro circolare retto di altezza uguale al diametro della sfera: il rapporto tra i volumi dei due solidi sta nello stesso rapporto, ovvero 3/2, delle rispettive aree. Che le due figure fossero realmente incise sul suo sepolcro è testimoniato da Cicerone che, nel corso del suo mandato di questore a Siracusa, riscoprì la tomba di Archimede, di cui si ripersero presto le tracce (quella oggi nota come tale, situata a Siracusa nella necropoli Grotticelle, infatti, è in realtà un colombarium, cioè una camera sepolcrale munita di nicchie per la conservazione delle urne cinerarie, di epoca romana). Carl Boyer definisce la scoperta della tomba di Archimede ad opera di Cicerone “forse l’unico contributo dato da un romano alla storia della matematica”. Un’asserzione che si potrebbe essere tentati di liquidare come una battuta – arguta, ma iperbolica – e che è invece drammaticamente vera.
Come è testimoniato da numerosi riferimenti dello stesso Archimede e di autori successivi, non tutta la vasta produzione archimedea è sopravvissuta. Pappo, il matematico tardo-alessandrino attivo attorno al 320, gli attribuisce la scoperta dei 13 solidi semiregolari, per questo oggi detti anche solidi archimedei, cioè di quei poliedri convessi le cui facce sono costituite da due o più tipi di poligoni regolari.
Dai matematici arabi sappiamo inoltre che la cosiddetta formula di Erone che consente di ricavare l’area di un triangolo qualunque note le lunghezze dei suoi lati –, dove A è l’area del triangolo, a, b e c sono i suoi lati e p il suo semiperimetro, ovvero la metà della somma di questi ultimi – era in realtà già nota ad Archimede.
A lui i matematici arabi attribuiscono anche il teorema della corda spezzata, secondo cui, se i segmenti AB e BC costituiscono una corda spezzata, sono cioè due corde consecutive di una circonferenza, M è il punto medio dell’arco AC, e H il piede della proiezione ortogonale di M sulla corda (maggiore), allora H è il punto medio della corda spezzata, ovvero, in simboli, AB + BH = HC. Dal teorema si possono ricavare varie identità relative alle relazioni tra archi e corde, e non è quindi escluso che Archimede possa essersene servito, ben prima di Ipparco di Nicea, come equivalente della moderna formula di sottrazione del seno: sen (α – β) = sen α cos β – sen β cos α.
Sempre riguardo alle opere di Archimede andate perdute, vale qui la pena di ricordare brevemente la fortunosa storia di un celebre palinsesto contenente alcune sue opere. I palinsesti sono codici manoscritti, solitamente pergamenacei (poiché la pergamena, ricavata da pelli animali, è più duratura del papiro e della carta), dai quali è stata raschiata la scrittura originaria per poterli riutilizzare scrivendovi un nuovo testo. Il palinsesto di Archimede fu scritto nel X secolo, probabilmente a Costantinopoli, e successivamente, forse in seguito al saccheggio della città ad opera dei crociati, nel 1204, raggiunse Gerusalemme. All’inizio del XIII secolo il manoscritto fu raschiato e utilizzato per trascrivervi un testo di preghiere ortodosse. Nel XIX secolo si scoprì l’esistenza di testi matematici ancora leggibili sotto la riscrittura e, dal 1906 al 1908, il palinsesto fu esaminato dal celebre filologo danese Johan Ludvig Heiberg che vi individuò la presenza di alcune opere di Archimede. Oltre agli scritti di altri autori, esso contiene infatti, sebbene non tutti in maniera completa, ben sette trattati di Archimede: Sull’equilibrio dei piani, Sulle spirali, La misura del cerchio, Sulla sfera e il cilindro, che erano già noti anche nella versione greca, Sui corpi galleggianti, che ci era pervenuto solo in una versione latina, lo Stomachion, del quale erano conosciuti solo dei frammenti di una traduzione araba, e Il metodo, che era invece totalmente sconosciuto. La scoperta di questo testo, dopo secoli di oblio, ha segnato una svolta decisiva nell’interpretazione dell’intera opera di Archimede. In tutti gli altri suoi trattati, infatti, non v’è quasi mai traccia delle indagini antecedenti alla formulazione definitiva dei suoi teoremi e delle relative dimostrazioni, tanto da indurre alcuni matematici di epoca moderna a sospettare che Archimede avesse volutamente tenuto nascosti i suoi metodi, quasi a voler avvolgere in un'aura di mistero i risultati delle proprie ricerche. Al contrario, proprio attraverso questo scritto, Archimede desiderava far conoscere all’intera comunità scientifica un metodo che si era rivelato estremamente fecondo e che sta alla base delle sue più importanti scoperte matematiche: “Ritengo che questa pubblicazione” – si legge, infatti, nel Metodo – “non sarà di mediocre giovamento alla nostra scienza. Poiché senza dubbio molti scienziati presenti e futuri, dal metodo che io esporrò, saranno posti in grado di scoprire altri teoremi che io non ho ancora incontrati sul mio cammino”.
Il metodo di Archimede è mutuato dalla meccanica e, per questo, egli stesso non lo considera rigoroso. Pur tuttavia esso rivela un grande valore euristico, perché capace di agevolare la ricerca di nuovi teoremi e delle relative dimostrazioni, successivamente formalizzate in maniera rigorosa attraverso il metodo di esaustione:
“Spesso io scopersi con l’aiuto della meccanica proposizioni che ho poi dimostrato col mezzo della geometria, perché il metodo in questione non costituisce una vera dimostrazione. Giacché riesce più facile, dopo che con tale metodo si sia acquistata una cognizione all’ingrosso delle questioni, immaginarne poi la dimostrazione, che se si cercasse questa senza alcuna nozione preliminare”.
Il primo teorema scoperto da Archimede col suo metodo “meccanico” è stato quello, ricordato precedentemente, relativo all’area del segmento parabolico. Egli giunge a formularne l’enunciato immaginando di porre in equilibrio su una bilancia segmenti (di retta) appartenenti al segmento di parabola, esattamente come si fa in meccanica quando si pongono in equilibrio dei pesi sui bracci di una leva. In pratica il metodo di Archimede consentiva di eseguire vere e proprie integrazioni, nelle quali un “segmento parabolico è formato da tutte le corde parallele a un diametro” o, ancora, “la sfera (o un qualunque altro solido di rotazione) è riempita da tutte le sue sezioni, circolari parallele”.
Il metodo è, insomma, un’opera straordinaria che sarebbe andata perduta per sempre se non si fosse miracolosamente conservata allo stato latente per i lunghi secoli di un Medioevo del quale il palinsesto di Archimede, privilegiando preghiera e liturgia a scapito della sapienza pagana, è a suo modo l’emblema.