Archimede: tecnologia, meccanica, innovazione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lungi dall’immagine platonica dell’Archimede volutamente avverso nei confronti della tecnica e delle sue realizzazioni, lo studioso siracusano viene celebrato, già nell’antichità, come straordinario inventore di apparati e dispositivi meccanici. Al periodo trascorso ad Alessandria e ai suoi contatti con la comunità di studiosi che frequenta la Biblioteca e il Museo della città egizia dobbiamo la stesura di opere fondamentali per lo sviluppo delle conoscenze in campo matematico e fisico; al periodo siracusano, nell’imminenza dello scontro con Roma, dobbiamo invece l’ideazione di macchine destinate ad entrare nell’immaginario collettivo per la loro ingegnosità.
Lo sviluppo degli studi di storia della scienza e della tecnica sembra avere definitivamente accantonato l’immagine dell’Archimede platonico raccontata da Plutarco nella Vita di Marcello e l’idea che il grande Siracusano rifiutasse ogni sorta di applicazione pratica conseguente alle sue ricerche, non ritenendola degna, è oggi superata. D’altro canto, la stessa città di Siracusa era andata sviluppando, sin dal secolo precedente la nascita di Archimede e in particolare sotto il governo del tiranno Dioniso I, una spiccata attitudine verso i saperi tecnici e scientifici. Secondo lo storico Diodoro Siculo (Biblioteca storica, 14, 41) i migliori tecnici del Mediterraneo sarebbero giunti a Siracusa dalla Grecia, dall’Italia Meridionale e anche dai territori sottoposti al controllo di quella Cartagine con cui la città sicula è in guerra. Opere tecniche mirabili sono visibili nella città, prodotto della collaborazione tra architetti, meccanici e artigiani: il tempio di Apollo all’ingresso in Ortigia, primo edificio religioso in stile dorico d’Occidente, le poderose mura del castello Eurialo, la più grande fortezza mai realizzata, e poi la catapulta, inventata e perfezionata proprio a Siracusa, non sono che alcuni indizi del livello raggiunto dalla pratica della scienza nella città sicula.
È in questo contesto particolarmente favorevole che Archimede rivela una particolare inventiva nel settore della tecnologia meccanica, finendo con l’affascinare quegli stessi Romani che, dopo averlo eliminato dalla scena, ne hanno consegnato la vita e le incredibili opere di esperto nella scienza delle macchine ai posteri. Massimo matematico dell’antichità, maestro indiscusso di generazioni e generazioni di studiosi tra umanesimo e Rinascimento, Archimede vive tra Siracusa e Alessandria, dove ha modo di frequentare le locali istituzioni di cultura, la Biblioteca e il Museo, e la comunità di studiosi che attorno a esse va radunandosi. Se, come sostiene Proclo Archimede è stato allievo dell’astronomo e matematico Conone di Samo, allora il Siracusano è certamente ad Alessandria verso la metà del III secolo a.C. È plausibile che la scelta di Siracusa, davanti all’avanzata irresistibile di Annibale dopo la battaglia di Canne (216 a.C.), di lasciare l’alleanza con Roma per quella che, a tutti gli effetti, doveva apparire agli uomini di governo e di cultura come la rinascita del mondo greco, sia stato l’episodio che ha determinato il rientro di Archimede da Alessandria alla sua città natale. I buoni rapporti con Gerone, evocati da Plutarco che ricorda come sia stato proprio il tiranno locale a spingere Archimede a dedicarsi alle applicazioni pratiche della scienza possono avere influito sulla scelta del Siracusano. Secondo una tradizione araba medievale, prima di tornare in Sicilia Archimede avrebbe aiutato i locali a fronteggiare le inondazioni del Nilo gettando le fondamenta per una serie di ponti; ancora in Egitto avrebbe, secondo quanto già in ambito storiografico ellenico si raccontava, ideato la vite idraulica che ancora oggi reca il suo nome, un congegno di straordinaria efficacia per sollevare l’acqua e irrigare i campi.
Di indubbia utilità, l’utilizzo della vite di Archimede è attestato anche nelle regioni minerarie della penisola iberica, adoperata per prosciugare l’acqua che si infiltra nei pozzi. Ammirata da Leonardo e Galileo, questa macchina verrà proficuamente impiegata anche nel mondo romano, accuratamente descritta da Vitruvio nel capitolo X del De architectura. Si tratta di una vite lignea inserita dentro un cilindro cavo cosparso di pece per impermeabilizzarne la superficie: inserendone un’estremità nell’acqua e ruotando il tutto, avviene che il liquido vi entra e, per passi successivi lungo l’elica, fuoriesce dall’estremità opposta.
È da dire che la fama dell’Archimede inventore tra antichità e Medioevo è tale che venne attribuita al Siracusano l’ideazione di ogni sorta di dispositivo, dall’orologio ad acqua all’organo idraulico. Del resto il fascino delle macchine ha sedotto, fin dall’antichità, architetti e meccanici, filosofi e letterati: con i suoi ritrovati il Siracusano esalta le illimitate possibilità della tecnologia, costituendo il miglior manifesto per le Questioni di meccanica pseudo-aristoteliche, confermando come, grazie alla tecnica, il piccolo possa vincere il grande e il debole imporsi sul forte. Uomo di scienza capace di controllare la straordinaria potenza delle sue creature indirizzandola secondo la sua volontà, Archimede partecipa alla difesa di Siracusa assediata dai Romani costruendo una nuova potentissima catapulta e, soprattutto, mettendo a punto la manus ferrea, un gancio meccanico capace di afferrare la prua delle navi nemiche, sollevarle e distruggerle lasciandole cadere all’improvviso (Polibio, Storie, 8, 6; Livio, 24, 34; Plutarco, Vita di Marcello).
Per quanto riguarda le altre macchine che la tradizione attribuisce ad Archimede, vale la pena soffermarsi sulla tradizione, risalente a Cicerone, secondo la quale il Siracusano è autore di un planetario meccanico che mostra il moto dei pianeti e del Sole attorno alla Terra e le eclissi.
La scoperta della sfericità della Terra e della volta celeste era stata decisiva nello sviluppo delle conoscenze astronomiche e nel tentativo di spiegare il meccanismo che si credeva determinasse il funzionamento dell’universo. Conseguita questa nozione compaiono i primi modelli statici, volti a illustrare la configurazione della sfera celeste con i circoli principali e la posizione delle costellazioni. Affreschi di epoca romana mostrano filosofi e divinità in atto di osservare sfere di vetro o di cristallo: nel famoso mosaico con i filosofi dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli i personaggi sono intenti in una discussione di astronomia, alla quale allude la sfera di vetro posta nella scatola ai piedi degli studiosi. Un bellissimo mosaico datato al II secolo a.C. e rinvenuto in un’abitazione di Solunto, vicino Palermo, mostra una sfera armillare con la Terra al centro, mentre su un globo celeste di epoca romana (I secolo) rinvenuto a Mainz (Magonza) si trova la più antica raffigurazione della Via Lattea.
Costruito a Siracusa e portato a Roma dal console Marcello successivamente alla presa della città nel 212 a.C. al termine della seconda guerra punica, il planetario meccanico di Archimede non dovette essere l’unico nel suo genere. Un congegno simile è visto da Cicerone a Rodi, dove egli soggiorna nel 77 a.C.; secondo Cicerone (Cicerone, De natura deorum, II, 34-35) è opera di Posidonio (153-51 a.C. ca.), il quale avrebbe costruito una sfera che mostrava i movimenti del Sole, della Luna e delle stelle. Interessato tanto ad Archimede quanto a queste sfere meccaniche, Cicerone nel De republica (I, 22) registra una discussione avvenuta nell’anno 129 a.C. tra un gruppo di eruditi romani, uno dei quali ricorda un episodio accaduto nel 166 a.C., quando il console Sulpicio Gallo si trova a casa di Marco Marcello, nipote del Marcello che aveva conquistato Siracusa: “[…] Gallo ordinò che fosse portato fuori il globo celeste che il nonno di Marcello aveva portato via da Siracusa, quando quella ricca e bella città fu presa […] sebbene avessi sentito spesso citare questo globo come prova della fama di Archimede, quando lo vidi non lo ammirai più di tanto; perché l’altro globo celeste, sempre costruito da Archimede, che lo stesso Marcello aveva posto nel tempio della Virtù, è più bello e più noto tra le persone. Ma quando Gallo cominciò a dare una spiegazione molto dotta di questo congegno, conclusi che il famoso siciliano era stato dotato del più grande genio che sia possibile immaginare per un uomo. Gallo ci disse che l’altro tipo di globo celeste, che era solido e non conteneva vuoto all’interno, era un’invenzione molto antica, la prima delle quali era stata costruita da Talete di Mileto, e poi replicata da Eudosso di Cnido, allievo di Platone, con le costellazioni e le stelle fisse nel cielo. Egli aggiunse anche che molti anni dopo, Arato, prendendo spunto dalla soluzione di Eudosso, l’aveva descritta in versi, senza alcuna conoscenza di astronomia, ma con considerevole talento poetico. Ma questo nuovo tipo di globo, egli disse, nel quale erano delineati i moti del Sole e della Luna e di quelle cinque stelle che noi chiamiamo erranti o, come potremmo dire, vaganti, conteneva più di quanto potrebbe essere mostrato in un globo solido, e l’invenzione di Archimede merita una speciale ammirazione perché egli ha trovato il modo di rappresentare accuratamente, in un solo dispositivo con un globo girevole quei vari e diversi moti con le diverse velocità. E quando Gallo azionò il globo, era vero che la Luna si trovava dietro al Sole di diverse rivoluzioni, sul congegno bronzeo, in accordo col numero di giorni in cui era dietro nel cielo. E l’eclissi di Sole avvenne nel globo quando deve accadere, e la Luna si portò nel punto in cui l’ombra della Terra si trovava in quel momento col Sole […]. ”
Nelle Tusculanae disputationes (I, 63) Cicerone riporta una descrizione più breve, ma ugualmente importante: “Quando Archimede chiuse in una sfera i movimenti della Luna, del Sole e dei cinque pianeti erranti, egli, proprio come il Dio di Platone che aveva costruito il mondo nel Timeo, fece che una rivoluzione della sfera controllasse diversi moti differenti in velocità e lentezza. Ora, se questi fenomeni non possono accadere se non con l’aiuto della divinità, nemmeno Archimede potrebbe avere ricreato gli stessi moti in una sfera senza un ingegno divino”.
Il riconoscimento al divino ingegno di Archimede con cui Cicerone chiude questo passo è in particolare riferito all’incredibile abilità richiesta per creare un dispositivo meccanico capace di mostrare simultaneamente tutti i movimenti celesti, come si riteneva che avvenissero nel cielo e con gli stessi rapporti tra la durata delle rivoluzioni. Cicerone sottolinea che quello di Archimede è un tipo nuovo di globo, ciò che motiva la stesura, da parte del Siracusano, di un trattato oggi perduto, intitolato Sulla costruzione della sfera, dal quale avremmo certo potuto ricavare informazioni interessanti per conoscere i particolari meccanici che determinavano il funzionamento del tutto. Le due descrizioni di Cicerone autorizzano a ipotizzare che il motore che azionava gli ingranaggi fosse un contrappeso a discesa controllata all’interno di un serbatoio, già impiegato nei teatrini di automi e soluzione che non costituirebbe una novità se nel trattato Sulla costruzione degli orologi ad acqua, opera che oggi sopravvive solo in una versione araba medievale e che viene attribuita ad Archimede, è proprio questo il meccanismo che genera tutti i movimenti.
È da dire, inoltre, che il ritrovamento delle parti frammentarie del dispositivo di Antikhytera sembra dare credito alla possibilità che questi planetari meccanici siano realmente esistiti. Rinvenuto ai primi del Novecento nel mare antistante la piccola isola di Antikhytera, questo reperto è stato studiato da Derek De Solla Price, che imposta la sua analisi sulle rivoluzionarie, per l’epoca, immagini radiografiche dei frammenti (Gears from the Greeks: the Antikythera mechanism: a calendar computer from ca. 80, B.C., 1974); lo studioso propone che si tratti di un calendario astronomico all’interno di una custodia: lancette mobili sui due lati avrebbero mostrato le posizioni del Sole e della Luna nel corso dell’anno. Comprendente circa 30 ingranaggi, il dispositivo deve mettere in relazione l’anno solare con le fasi della Luna secondo il ciclo metonico (235 lunazioni in 19 anni solari). Studiati con nuove tecnologie, i medesimi frammenti sono stati oggetto di indagini recenti che hanno portato ad abbassare la data della realizzazione del congegno alla metà del II secolo a.C., ipotizzando una relazione diretta con Ipparco di Nicea, confermata dai dati archeologici del ritrovamento. Partita da Rodi, l’imbarcazione sarebbe affondata davanti alla piccola isola di Antikythera tra l’80 e il 60 a.C. trascinando in mare il suo prezioso carico.
Per completare la vicenda di Archimede meccanico vale la pena soffermarsi anche sulla tradizione che, risalente al perduto testo di un certo Moschione e poi recuperata da Ateneo di Naucrati nei Deipnosofisti (V, 40-44), racconta la vicenda della costruzione della gigantesca nave Syrakousia, la più grande mai vista nel Mediterraneo.
Operazione ambiziosa e complessa, richiede per la sua messa a punto la creazione di un network tecnologico, ovvero la collaborazione tra tecnici esperti in diversi ambiti: un certo Phileas di Taormina risolve il complicato compito di trasportare il gigantesco albero maestro dai boschi della Calabria, dove era stato tagliato, fino alla costa; un esperto in architettura navale, Archia di Corinto, segue la costruzione della prima metà della gigantesca nave e una figura nota per la sua esperienza nel settore della meccanica teorica e pratica, Archimede, soprintende a tutte le operazioni. Secondo la fonte che Ateneo cita, la scelta di costruire subito la prima metà dell’imbarcazione e di proseguire il resto in acqua è obbligata e discende dalle dimensioni della nave: del resto, nello scritto Sui galleggianti Archimede aveva già dimostrato di saper affrontare la questione del cambiamento di posizione del centro di gravità in un oggetto le cui dimensioni crescano col procedere della costruzione. A operazione ultimata Archimede, da solo, avrebbe tirato in secca oppure varato, comunque spostato l’enorme imbarcazione, dando in tal modo una pubblica straordinaria dimostrazione dell’efficacia della leva e delle combinazioni meccaniche (Plutarco, Vita di Marcello, 14). È possibile che si tratti di una dimostrazione contro Aristotele, che in un passo della Fisica (VII, 5, 250a, 1-19), avendo affermato che non tutte le operazioni meccaniche sono risolvibili grazie alla leva, aveva fatto ricorso al medesimo esempio dichiarando che sarebbe stato impossibile, per un uomo solo, spostare un’imbarcazione. È evidente che l’esperienza, se avvenuta, dovette consistere in un minimo spostamento della nave, sufficiente però a dare la dimostrazione voluta.
Relativamente alla combinazione meccanica adoperata, le fonti citano il poluspastos (Plutarco, Vita di Marcello, 14), cioè una combinazione di carrucole e l’ingranaggio della vite senza fine, effettivamente impiegato in cantiere per spostare i carichi più ingenti. Costruita con tanto legname quanto ne sarebbe servito per 60 galere, la Syrakousia era un’autentica città galleggiante.
Tralasciando l’apparato ornamentale, è di un certo interesse la presenza di una biblioteca al cui interno si trovava un orologio solare e il cui soffitto era decorato con una pittura raffigurante un cielo stellato. Dotata di piscina di acqua dolce, terme con sistemi di riscaldamento per aria e acqua, giardini con sofisticati percorsi per l’irrigazione, nonché di un apparato difensivo eccezionale nel quale trovava posto anche un nuovo tipo di catapulta ideato dallo stesso Archimede, la Syrakousia non era solo un’imbarcazione impressionante, ma soprattutto un compendio del livello eccezionale della pratica della scienza nella città siciliana.
Non a caso, la gigantesca nave ha come meta del suo unico viaggio nel Mediterraneo Alessandria, il solo porto che potesse ospitarla.
Se i riferimenti astronomici presenti nella biblioteca potevano trovare spiegazione nella stretta e necessaria relazione tra astronomia e navigazione, i percorsi dell’acqua di giardini, piscine e terme costituivano un preciso riferimento alla parte
pratica della pneumatica, disciplina assai popolare e in grande voga proprio sulla sponda opposta del Mediterraneo, ad Alessandria. La costruzione di un nuovo modello di catapulta, infine, costituiva un altro segnale importante relativo al vivacissimo settore della poliorcetica e delle nuove macchine da lancio inventate forse a Siracusa, ma certamente perfezionate proprio in quegli anni ad Alessandria.
Se la scienza meccanica stava vivendo nella città egizia una trasformazione che ne spostava il campo di applicazione dai principi che determinano il funzionamento della leva alla costruzione di macchine e dispositivi, allora la Syrakousia può ben costituire uno straordinario oggetto parlante, un pubblico ed eccezionale esempio del livello della tecnologia meccanica di Siracusa e di Archimede, il corrispettivo dunque del trattato di meccanica che il Siracusano, probabilmente, non scrisse mai.
La corona di Ierone II A
lla conoscenza da parte di Archimede dei principi dell’idrostatica rimanda anche il celebre episodio della corona che il tiranno di Siracusa, Ierone II, chiede a un artigiano di fabbricare con una certa quantità d’oro che viene in parte sottratto e sostituito con metallo grezzo. La vicenda ci è nota attraverso il lungo racconto fatto da Vitruvio (De architectura, IX, Praef.), secondo il quale Archimede avrebbe risolto il problema senza ricorrere a una particolare strumentazione e immergendo la corona e le masse d’oro e d’argento a essa equivalenti per poi verificare i diversi spostamenti di acqua; il tutto sarebbe stato compiuto servendosi dunque di bilance e misure di capacità. Oggi la versione vitruviana riceve poco credito. In effetti, le fonti letterarie registrano un’altra soluzione, diversa da quella riferita da Vitruvio e riportata dall’ignoto autore di un poemetto in versi scritto sul finire del IV secolo e intitolato Carmen de ponderibus.
Apprendiamo quindi che il Siracusano avrebbe seguito un procedimento questa volta basato sul pesare nell’acqua la corona e le masse d’oro e argento (vv. 123-162). Per compiere questa operazione Archimede si sarebbe servito di una bilancia a bracci uguali del tipo a cavaliere, munita cioè di un piccolo peso scorrevole su uno dei due lati. Sembra ormai accertato che la fonte principale dell’oscuro autore di questo poemetto fu Menelao di Alessandria, attivo a Roma verso la fine del I secolo. Al-Khazini, che nel 1121 in Persia scrive il Libro sulla bilancia del giudizio, cita Menelao di Alessandria come sua fonte principale e ne trascrive proprio il passo in cui si racconta il procedimento seguito da Archimede per smascherare l’imbroglio della corona (IV, 1): “Archimede ha detto, noi prendiamo una bilancia esatta ed esaminata il più attentamente possibile, e prendiamo un singolo peso d’oro e uno d’argento e li mettiamo nei due piatti della bilancia in modo che si facciano equilibrio nell’aria; poi mettiamo i due piatti nell’acqua in modo che quando si manifesta un’inclinazione della bilancia nell’acqua verso il piatto nel quale si trova l’oro, a causa della maggior consistenza dell’oro, noi correggiamo la bilancia per mezzo del peso scorrevole, in modo che essa diventi parallela all’orizzonte. Poi facciamo un segno sull’asta nella posizione in cui si trova il peso scorrevole”.
Il brano non sembra lasciare dubbi sul tipo di strumento adoperato dal Siracusano, che corrisponde alla bilancia “a cavaliere”. Una volta immersi entrambi i piatti di questa bilancia nell’acqua, dal momento che i metalli hanno differenti pesi specifici, si osserva un’inclinazione dalla parte del piatto che contiene l’oro, più denso dell’argento. Il piccolo peso serve a compensare lo squilibrio e a darne precisa quantificazione.
Resta da dire, infine, della celebre vicenda degli specchi ustori, ancora oggi assai controversa. Il primo a riferirne è Luciano (Ippia, II), che menziona “Archimede distruttore delle navi nemiche per mezzo del fuoco, con la sua inventiva”, senza dunque soffermarsi sulla tecnologia impiegata.
Importante la testimonianza (De magia, XVI) di Apuleio (125-180) il quale, difendendosi dall’accusa di compiere riti magici servendosi a questo scopo anche di specchi, ricorre a una citazione autorevole che lo aiuti a discolparsi. Innanzitutto afferma che dovrebbe essere compito dei filosofi, cioè dei saggi, investigare i fenomeni legati alla riflessione delle immagini e dunque occorrerebbe conoscere le ragioni per cui “gli specchi concavi, se tenuti fermi alla luce del sole, accendono un corpo infiammabile che sia posto vicino a loro”. Aggiunge poi che queste e altre questioni sono state discusse “in un grosso volume da Archimede di Siracusa, persona degna di massima ammirazione per la sua acutezza in ogni settore degli studi di geometria, ma che divenne famoso forse soprattutto per aver saputo guardare spesso e con attenzione lo specchio”.
In epoca bizantina Giovanni Tzetzes (Chiliades, II, 118-128) riferisce l’episodio dell’incendio delle navi romane da parte di Archimede citando la costruzione di uno specchio esagonale; così anche il bizantino Giovanni Zonara (IX, 4) il quale, epitomando le Storie di Dione Cassio, afferma che Archimede incenerì le navi romane servendosi di uno specchio. A sostegno di questa vicenda è solo possibile affermare che gli antichi dovettero rendersi conto, ben presto, delle proprietà riflettenti dell’acqua e dei metalli opportunamente lavorati e levigati. Nell’affresco pompeiano in cui Efesto consegna a Teti le armi di Achille, la madre dell’eroe è perfettamente riflessa sull’esterno dello scudo fabbricato dalla divinità. La maggior parte degli specchi giunti fino a noi è in bronzo oppure in argento, il cui potere riflettente era mantenuto vivo pulendo e levigando accuratamente le superfici. Ben presto si dovette diffondere anche l’usanza di inserire nelle pareti delle abitazioni degli specchi, invenzione di cui Seneca ripercorre le tappe (I, 17, 4): “Gli specchi furono inventati perché l’uomo conoscesse sé stesso, traendone molti vantaggi per il futuro, innanzitutto la conoscenza di sé, poi degli utili suggerimenti per affrontare diverse situazioni […] una fonte trasparente o un sasso levigato rinvia a ciascuno la sua immagine…”. Sulla base di osservazioni di carattere prevalentemente letterario e archeologico, la comparsa di specchi in vetro viene tradizionalmente posta nella tarda antichità anche in considerazione del fatto che un’inequivocabile descrizione di uno di questi oggetti si troverebbe in un brano di Alessandro di Afrodisia (Problemata, I, 132) risalente al primo ventennio del III secolo. Tuttavia, Empedocle aveva già compreso che i metalli possiedono una loro struttura e che le differenze tra gli elementi derivano da diverse composizioni delle particelle interne. A questa teoria si rifarà Gorgia per spiegare la proprietà comune a bronzo, argento e vetro di creare specchi capaci di concentrare i raggi solari e quindi di agire come specchi ustori (Teofrasto, De igne, LXXIII).
Queste poche considerazioni paiono di per sé sufficienti per affermare che i Greci sono perfettamente al corrente delle proprietà riflettenti dei metalli, così come le caratteristiche ustorie del vetro e del cristallo di rocca sono da tempo note e proficuamente utilizzate. In un passo delle Nuvole, commedia messa in scena da Aristofane ad Atene nel 423 a.C. (vv. 765-772), viene menzionata una sfera di cristallo, acquistabile all’emporio cittadino, con cui bruciare un oggetto esponendola ai raggi del sole. Plinio (Nat. hist., 37, 10) riferisce che in campo medico l’applicazione di globi in cristallo di rocca o in vetro direttamente sulla parte ferita è vivamente consigliata per la cauterizzazione delle ferite: “Trovo che, tra i medici, si ritiene che non c’è metodo migliore, per cauterizzare parti del corpo, che mediante una bolla di cristallo posizionata in modo da essere colpita dai raggi del sole”. Del resto, già Teofrasto (De igne, 73) sapeva che lasciate al sole queste sfere di cristallo potevano addirittura incendiare le vesti. All’inizio del II secolo a.C. Diocle scrive un trattato Sugli specchi ustori, opera assolutamente nuova nel panorama della trattatistica tecnico-scientifica antica e presumibilmente scaturita dalle forti suggestioni esercitate dall’eco dell’esperienza archimedea. Giuntoci solo nella traduzione araba medievale, il testo affronta in apertura la questione della costruzione, secondo un rigoroso procedimento geometrico, di un oggetto in vetro con caratteristiche ustorie da adoperare per accendere il fuoco sugli altari dei templi durante le cerimonie sacre. Un analogo dispositivo è citato da Plutarco nella Vita di Numa relativamente ai procedimenti da seguire quando si vuole accendere un fuoco sacro in un tempio (Numa, IX). Entrambi i riferimenti sembrano quindi dare credito alla possibilità che, sul finire del III secolo a.C., alcuni studiosi di ottica siano capaci di affrontare proficuamente il problema di incendiare un oggetto posto a una certa distanza grazie a uno specchio ustorio. Del resto, la straordinaria risonanza dell’esperienza condotta da Archimede con gli specchi ustori va ben oltre l’evo antico. In epoca tardo antica Proclo adopera specchi ustori per distruggere la flotta di Vitaliano che assedia Costantinopoli (Zonara, Epitome storica, CXXXVIII, 6). Di particolare interesse è il fatto che Proclo dichiara di attingere questa notizia da Dione Cassio, evidentemente contenuta in uno dei libri dell’opera dello storico che non ci sono giunti. Esperienze assai interessanti in materia sono compiute da Antemio di Tralle, l’architetto della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, autore di un trattato intitolato Paradossi meccanici, opera di cui sopravvivono solo alcuni frammenti; una parte del trattato è dedicata a osservazioni sull’uso ottimale degli specchi ustori e sui principi di geometria che ne determinano il funzionamento. A questo proposito Antemio chiarisce che non si può ottenere l’incendio di un oggetto se il Sole e ciò che si vuole bruciare non si trovano dalla stessa parte, cioè la metà orientale oppure quella occidentale del cielo. In conclusione, i passi citati, anche se la tradizione antica sembra vertere solo su un vago riferimento di Luciano e su un brano di Cassio Dione che non possediamo, sembrano indicare che ciò che Archimede avrebbe fatto non è frutto di una tecnologia inventata di sana pianta, ma di un’innovazione rispetto a effetti comunemente noti relativamente all’uso di lenti, specchi metallici e sfere di vetro o di cristallo di rocca piene d’acqua e poi esposte ai raggi del sole.