Archimoro
È il nome (esattamente Archemoro) con cui fu chiamato Ofelte, figlio di Licurgo re di Nemea nell'Argolide, in quanto i Sette della spedizione contro Tebe videro nella sua morte un triste presagio (greco Ἀρχέμορος propriamente " che precede nel destino "); secondo una tradizione i Sette stessi istituirono in suo onore le feste Nemee.
Ancora infante egli era stato affidato dal padre a Ipsipile (Isifile per D.), divenuta da regina di Lemno sua schiava. Essa lo abbandona momentaneamente sull'erba di un prato per condurre i Sette, riarsi dalla sete, alla fonte Langia, e indugia alquanto a raccontare al loro capo, Adrasto, la sua storia. Nel frattempo il bimbo è ucciso da un serpente. Le parole con cui, secondo Stazio, Ipsipile piange la sorte di A. e sua, sono tradotte da D. in Cv III XI 16 sì come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: " O consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio " (cfr. Stazio Theb. V 609-610 " ... O rerum et patriae solamen ademptae / servitiique decus... "). La citazione di Stazio segue quella di un passo di Virgilio (Aen. II 281) e serve, anch'essa, a provare come per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione. Nel caso particolare A. è chiamato consolazione e onore, mentre egli è il termine donde consolazione e onore provengono. Per illustrare una figura retorica, D. si è riferito qui al punto cruciale di una vicenda che, attraverso il racconto di Stazio, egli ha seguito in tutte le fasi del suo svolgimento (v. ISIFILE).