ARCHITETTO
L'autonomia della figura e della funzione professionale dell'a. medievale e la sua specifica appartenenza al campo dell'attività intellettuale, analogamente a quanto avvenne per gli altri 'produttori' di opere figurative, non furono riconosciute sul piano teorico se non verso la fine del Medioevo. La progettazione e la realizzazione architettonica venivano generalmente classificate, infatti, tra le attività manuali e non tra quelle di originale elaborazione intellettuale. L'opera dell'a. venne quindi, per la maggior parte dell'età medievale, ricondotta nel campo delle 'arti meccaniche', in tradizionale opposizione alle 'arti liberali'.Il ruolo dell'a., in rapporto a quello svolto dagli altri operatori presenti nel cantiere medievale, gli aspetti della sua formazione tecnica e intellettuale, gli strumenti operativi a sua disposizione, le norme e consuetudini che ne regolavano l'attività verso i committenti e in genere verso l'esterno, la stessa posizione sociale, sono problemi ancora in parte dibattuti e non riconducibili a un'unica risposta per l'intero periodo in esame, dai secc. 6°-7° fino alla metà del 15° ca. e, per alcune aree geografiche, anche oltre. Ma in tutto questo arco di tempo, pur nelle particolarità connesse alle circostanze di luogo e ambiente, si deve convenire che un a. responsabile della progettazione tecnico-esecutiva e della realizzazione dell'opera abbia sempre presieduto al compimento di qualsiasi impresa edilizia significativa, malgrado l'assenza quasi totale di fonti relative alla personalità di singoli a. - almeno fino al Mille - e nonostante l'attività di gruppi, scuole e, più tardi, logge, che ha suggerito l'interpretazione romantica dell'architettura medievale, dall'ideazione alla costruzione, come esclusivamente determinata da componenti corali e collettive.Ad associazioni di muratori e fabbricieri fa riferimento la legislazione longobarda dei secc. 7° e 8° (editto di Rotari, del 643, MGH. Font. iur. Germ., II, 1869, pp. 9-30; Memoratorium de mercedibus magistrorum commacinorum di Liutprando, del 714, ivi, pp. 147-149); ma i magistri citati da questi documenti (definiti con il termine commacini probabilmente da un etimo makjo, latinizzato macio, che significa 'fare', 'costruire') erano imprenditori edili, impresari costruttori con precisa responsabilità giuridica ed economica, longobardi o romani longobardizzati, alla guida di gruppi di artefici consociati, forse specializzati nell'impiego di particolari tecniche costruttive (opus romanense di mattoni o pietre squadrate, opus gallicum di pietrame irregolare), dei quali facevano parte, o che potevano valersi ad operam dictandam, di capomaestri e a., coincidenti o meno con gli stessi imprenditori. Una struttura professionale del genere perpetuava o ricalcava quella ben nota dei collegia (o scholae) romani o tardoantichi, ed è ancora attestata in epoca più tarda (secc. 11°-13°) dai costruttori itineranti 'lombardi' o 'antelami', per cui deve presumersi estesa al periodo intermedio meno documentato; nell'ambito di questi gruppi organizzati, la preparazione teorica e professionale dell'a. era assicurata dal sistema dell'apprendistato.Il controllo, quasi assoluto dal sec. 7° all'11° e in genere per tutto il Medioevo, delle attività intellettuali e di gran parte dell'attività edilizia da parte di ecclesiastici indica, accanto a quello delle consorterie di maestranze, un altro similare percorso formativo per l'a. e per i costruttori, rappresentato dai cantieri delle grandi abbazie e cattedrali, veri e propri centri di cultura artistica, secondo il modello dell'officina gentilizia tardoantica, già ripreso nella scuola palatina carolingia. Su queste basi, interpretando in modo letterale le numerose testimonianze che attribuiscono ad abati e vescovi la paternità creativa delle loro costruzioni e di conseguenza la qualifica di a., viene talora affermato che i compiti relativi, compreso il disegno del progetto e la conduzione dei lavori, erano assolti da queste stesse figure o da altri religiosi, designati allo scopo e che comunque il ruolo di a., almeno fino al sec. 12°, fu praticamente monopolio di chierici. A questo proposito tuttavia è stato osservato che le fonti cui si fa riferimento, iscrizioni o cronache scritte da monaci, non sono interessate a mettere in luce le componenti tecniche delle costruzioni, ma piuttosto il loro significato religioso e politico-culturale. Inoltre, espressioni come architectus o simili, e verbi come fecit, aedificavit o construxit, spesso si riferiscono al committente o al patrono dell'impresa (fieri fecit) e non al costruttore in senso tecnico.Dovrà comunque essere distinto il ruolo di conduzione amministrativa del cantiere (inclusi il rifornimento di materiali e i rapporti con le maestranze), pressoché sempre attribuito a un religioso o a un collegio di religiosi, da quello progettuale e tecnico che per tutto il Medioevo rimase separato dal primo, se non forse nelle costruzioni minori. Infine è stato notato che il numero dei chierici ai quali sia attribuibile la qualifica di a. è irrilevante a fronte di quello dei laici: in Inghilterra, per es., tra il 1050 e il 1550, non più di diciotto, dei quali cinque o sei con certezza assoluta, su ca. milleduecento nomi noti (Harvey, 1972). Pertanto, pur non aderendo all'ipotesi, sostenuta soprattutto da studiosi inglesi, che nega agli ecclesiastici qualsiasi ruolo nella concreta attività edificatoria, ammettendo, anzi, che tra i religiosi sia individuabile un certo numero di a. e costruttori (fratres barbati) e che i compiti principali dell'a. siano stati talora di fatto cumulati a quelli del vescovo o abate - come, probabilmente, nel caso di Guglielmo di Volpiano definito nel Chronicon Sancti Benigni Divisionensis: "reverendus abbas magistros conducendo et ipsum opus dictando" (Mortet, 1911, p. 27) - va respinto, anche per gli edifici chiesastici anteriori al sec. 12°, l'assioma di una costante coincidenza tra responsabile della progettazione e costruzione e responsabile spirituale della comunità.Ogni ulteriore precisazione riconduce alla necessità di chiarire i compiti dell'a. medievale. A questo proposito è di scarsa utilità la definizione di Isidoro di Siviglia (Etym., XIX, 8, 1): "Architecti autem cementarii sunt qui disponunt in fundamentis", che, in quanto connessa a un testo di s. Paolo ("ut sapiens architectus fundamentum posui, alius autem superaedificat"; 1 Cor. 3, 10), a parte un accenno al tracciamento della pianta, testimonia forse il limitato interesse nel sec. 7° per un'attività professionale allora ridotta. Il termine architectos, al plurale, è usato alla fine del sec. 11° in riferimento a maestri carpentieri, chiamati a riparare il campanile ligneo dell'abbaziale di Saint-Pierre a Oudenbourg (Belgio); è rilevante che il medesimo significato sia deducibile da altri documenti coevi e risulti adombrato, ancora molto più tardi, dall'etimo proposto nel Catholicon (1286) di Giovanni Balbi: "architector ab archos et tectos [...] qui facit tecta"; che aggiunge però: "vel potius principal artifex qui praeest aedificiis construendis, qui etiam architectus dicitur". Il vocabolo latino, nelle due forme, architectus o architector, fu comunque usato inequivocabilmente in senso proprio, per indicare chi disegnava, progettava e dirigeva l'opera - "architectus praecipuus caementarii operis solertissimus erat dispositor" (Mortet, 1911, pp. 69-70), dove il significato tecnico è ribadito dal richiamo alla dispositio - o in rapporto a personaggi la cui attività è ben nota: Lanfrancus architector (miniatura del sec. 13°, Modena, Arch. Capitolare, II. 11, c. 1v), o magister Henricus [Parler] architector (sec. 14°). In altri casi il termine sembra riferibile a un committente: Etelvoldo, vescovo di Winchester "in fundandis et reparandis monasteriis theoreticus architectus" (Pevsner, 1942, p. 553), soprattutto se accompagnato da qualifiche come sapiens o prudens, mediate dalle Sacre Scritture. In definitiva il vocabolo è soggetto a fluttuazioni di significato, che non consentono di derivarne le caratteristiche della figura. È opportuno esaminare brevemente gli altri termini con i quali, nei testi medievali, sono designati i diversi personaggi interessati alla costruzione e lo stesso a.; per quest'ultimo quello più usato è magister (Briggs, 1927), che rimane tuttavia generico, esteso ad altre categorie, come i carpentieri, spesso posposto al nome proprio per distinguere la professione fabrile da quella dei letterati, per i quali l'anteposizione del medesimo titolo d'a a questo il senso di dottore. Il termine fu spesso impiegato, a partire dal sec. 14°, nelle varie forme linguistiche nazionali: maistre o maître, master, maestro, maestro maior, Baumeister. Nella forma latina era talora usato nelle espressioni magister et fabricator o magister fabricae; quest'ultima e quella, assai frequente, di magister operis, potevano indicare l'a., ma anche il responsabile amministrativo del cantiere, generalmente un ecclesiastico (definito anche operarius), incaricato della predisposizione e raccolta dei fondi, della gestione finanziaria, dell'acquisto dei materiali e delle spese per i lavoranti, attività quasi sempre escluse dai compiti dell'a.; nei cantieri federiciani gli amministratori erano detti expensores, coordinati da un credencierus, mentre gli incaricati della conduzione tecnico-architettonica erano definiti protomagistri o praepositi. Anche termini come artifex, cementarius (muratore), lathomus o lapicida (tagliapietre) e le relative forme nazionali (maçon, mason, master-mason, ecc.) valevano in qualche caso per indicare un a., ma più spesso si riferivano a lavoranti specializzati o meno, cioè operarii (con senso diverso da quello definito sopra). In aggiunta a magister questi termini (magistri lathomi o lathomorum, magistri cementarii, ecc.) indicavano talvolta soprastanti o caposquadra, collaboratori dell'architetto. Nei grandi cantieri gotici accanto all'a. operavano altri aiuti, con il ruolo di tradurne operativamente le indicazioni: tra questi era l''apparecchiatore' (lathomorum praeparator, appareilleur, warden, aparejador) o, nei paesi germanici, il parlier, termine forse derivato dal compito di 'parlare' con le maestranze.Per quanto riguarda i compiti specifici, nei secc. 11° e 12° è stata riconosciuta una differenziazione tra l'a. responsabile dell'impianto generale e quello incaricato di trasformare il programma in progetto e di curarne la realizzazione, che riprende la distinzione bizantina di μηχανιϰόϚ (progettista) e ἀϱχιτέϰτων (maestro costruttore). Nella ricostruzione dell'abbaziale di Cluny (1088-1130) il primo ruolo è attribuito a Gunzo, già abate di Baume e psalmista praecipuus (musicista), che avrebbe introdotto nella composizione l'impiego di rapporti armonici, il secondo a Etzelo (o Hézelon, m. 1123) anch'egli monaco e intellettuale, esperto di matematica, che è ricordato per aver presieduto multo tempore ai lavori del cantiere. Forse però l'uno e l'altro non erano impegnati in compiti tecnici - improbabili rispetto alla loro qualifica - per i quali potevano valersi di specialisti, ma facevano parte di una commissione edilizia, incaricata della gestione amministrativa e del programma architettonico, quest'ultimo insolitamente elaborato in termini molto precisi, fino alla definizione delle principali dimensioni, basate su considerazioni proporzionali e simboliche. Una struttura direttiva simile era in funzione dal 1073 ca. a Santiago de Compostela, dove la commissione era composta da tre chierici, Wicart, Segered e Gundermund, mentre gli a. erano Bernardo, mirabilis magister (la qualifica esclude una funzione puramente subalterna), e Roberto, probabilmente il suo assistente; sono ben documentati anche il ruolo e i lavori condotti nel coro della cattedrale di Canterbury (1174-1178) da Guglielmo di Sens, che appare, nei confronti dei monaci, il principale artefice del progetto. In conclusione, l'operatività dell'a. era circoscritta al campo tecnico-progettuale, incluse macchine e strumentazione del cantiere, entro il quale però egli sviluppava le sue capacità inventive (d'altra parte testimoniate dall'alta qualità delle realizzazioni), non solo in soluzioni particolari, ma in ogni aspetto compositivo, seppure nei limiti determinati dalle ipotesi e dai programmi dei committenti e dal controllo che questi esercitavano sulla conduzione e gestione amministrativa dei lavori.I modi del controllo progettuale da parte dei committenti erano vari, dal richiamo a schemi predisposti, come probabilmente la notissima pianta di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), all'indicazione di modelli costituiti da edifici esistenti, prossimi o lontani: nel 1026 il vescovo di Arezzo Teodaldo diede incarico a Maginardo, "prudenti viro atque arte architectonica optime erudito", di eseguire un rilievo o modello (exemplar) della chiesa ravennate di S. Vitale, da utilizzare nella progettazione del duomo; nel 1036 il vescovo Meinwerk di Paderborn, volendo costruire un edificio "ad similitudinem S. Jerosolimitanae ecclesiae", inviò sul luogo l'abate Wino di Helmarhausen a prenderne le misure. Il riferimento a costruzioni considerate esemplari è frequentissimo, soprattutto nella stesura dei contratti. Il fatto poi che il Duomo Vecchio di Arezzo (distrutto nel 1561) risultasse diverso dal modello indicato, come pure che le numerose derivazioni medievali della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme differissero notevolmente tra loro e dall'edificio originale, attesta da un lato il particolare carattere del concetto medievale di copia, dall'altro la libertà di interpretazione concessa all'architetto. È evidente inoltre che lo studio e la rielaborazione di modelli prestigiosi rappresentarono per i costruttori medievali una formidabile occasione di perfezionamento professionale.In alcuni casi il committente assumeva in prima persona il coordinamento dei lavori: è ben nota, perché descritta da lui stesso, l'attività dell'abate Suger per Saint-Denis, dove egli dettò il programma e sorvegliò il cantiere in ogni dettaglio. Più in generale i compiti di supervisione venivano affidati a delegati in rappresentanza dei committenti; nel caso della costruzione di cattedrali, questi ultimi, il vescovo e il capitolo, insieme o separatamente e talvolta in contrasto tra loro, agivano attraverso un particolare strumento, la 'fabbrica' od 'opera', detentrice dei mezzi finanziari destinati alla costruzione e manutenzione dell'edificio. In seguito, soprattutto in Italia, la 'fabbrica' si rese indipendente dalla mensa vescovile o capitolare e venne amministrata dalle magistrature cittadine. Tra i compiti della 'fabbrica' era il ricorso a consulti e a concorsi, richiesti e promossi con frequenza a partire dalla metà del sec. 13°, per valutare lo stato e la condotta dei lavori, tramite la consulenza di a. e altri esperti, convocati anche da molto lontano; questa prassi contribuì ad ampliare le esperienze degli a. e a favorirne la mobilità, condizione indispensabile alla loro maturazione e progressione nel mestiere.Le conoscenze culturali e tecniche che l'a. aveva a disposizione nel Medioevo non possono ovviamente essere generalizzate, ma si deve ritenere che in ogni caso egli fosse in grado di esprimersi con il disegno e di maneggiare riga, squadra e compassi, a proporzione fissa o variabile, che costituivano la sua strumentazione professionale; inoltre, almeno a partire dal sec. 13°, la grande maggioranza degli a. più importanti era in grado di leggere e scrivere correntemente in latino e nella propria lingua nazionale. Le cognizioni in campo matematico e geometrico erano sicuramente modeste, ma è opportuno distinguere tra le une e le altre: le prime si limitavano a qualche elemento di calcolo a fini pratici, le seconde consentivano generalmente l'uso di pur semplici metodi di triangolazione, come le costruzioni e combinazioni di figure possibili con gli strumenti sopra indicati e conseguentemente l'impiego di moduli geometrici nella progettazione. La diffusione in Occidente della prima traduzione latina di Euclide, intorno al 1120, consentì uno sviluppo di queste conoscenze, che, applicate a fini operativi, divennero specifiche dell'architetto. D'altra parte, più complessi e astratti sistemi proporzionali, tracciati e griglie generatrici, basati su rapporti armonici, sono stati individuati negli impianti di alcune grandi costruzioni, per cui in determinati ambienti possono ritenersi sicuramente conosciuti e sperimentati. Le competenze in campo statico, prive di fondamento teorico, erano il risultato dell'esperienza, codificata in formule empiriche o elaborate attraverso considerazioni di natura geometrica, nella convinzione di una coincidenza tra regolarità proporzionale (ad quadratum o ad triangulum) ed equilibrio statico del sistema. Per quanto riguarda infine le relazioni tra geometria e ottica, traspare, dall'impianto stesso degli edifici e dall'impiego di calcoli, accorgimenti e correzioni visuali, una concezione prospettica, che tuttavia non trova spazio negli scritti teorici e non è riscontrabile nelle manifestazioni della pittura e della scultura prima del 13° secolo.Si è implicitamente affermato che lo strumento usato dall'a. medievale per condurre il suo lavoro è il disegno: la scarsità di grafici architettonici superstiti, pressoché limitati al periodo dal sec. 13° in avanti e per lo più realizzati a solo scopo dimostrativo anziché esecutivo, si giustifica appunto con il fine strumentale degli elaborati perduti, con la deperibilità del materiale su cui erano redatti (pannelli di gesso o tavolette di legno appositamente trattate, forse solo raramente strisce di pergamena), con la pratica di riutilizzare tali supporti per la stesura di nuovi disegni, infine con le loro stesse grandi dimensioni, che ne rendevano difficile la conservazione.Un altro motivo che probabilmente ha contribuito a ridurre il numero degli esemplari superstiti può essere indicato nel 'segreto' (solo riduttivamente inteso come metodo per dedurre l'alzato da una pianta), al quale, riguardo agli aspetti tecnico-professionali della loro attività, gli a. erano tenuti, in quanto membri di una loggia o di una gilda, associazioni di mestiere ormai largamente consolidate intorno alla metà del 13° secolo. L'obbligo al 'segreto' era ribadito nelle Costituzioni inglesi (1390) e negli Statuti di Ratisbona (1459), con i quali tra l'altro si cercò di uniformare le norme di apprendistato previste dalle singole logge delle città tedesche. In genere l'a. poteva avere un solo apprendista, che rimaneva con lui cinque o più anni (dall'età di quattordici anni, avendo prima appreso a leggere e scrivere); dopo tale periodo il giovane assumeva il ruolo di salariato, o poteva divenire maestro indipendente, se aveva mezzi economici sufficienti per iniziare tale attività; poteva inoltre conseguire il titolo di parlier, a condizione di completare la sua esperienza lavorando nei cantieri di altre città.Per raggiungere il più alto grado di a. (Werkmeister), il giovane maestro doveva fornire un certo numero di prove ('capolavori'), dopo aver comunque prolungato il suo apprendistato per alcuni anni in qualità di Kunstdiener, periodo che presumibilmente rappresentava il momento di acquisizione delle tecniche di disegno progettuale. Per l'esecuzione dei disegni, nel cantiere gotico gli a. disponevano di un ambiente particolare, distinto dalla loggia delle maestranze, la c.d. tracing-house (documentata, soprattutto in Inghilterra, a partire dal 1324), dove i profili e le sagome da trasmettere agli operai venivano preparati su tavole, pannelli o direttamente sulle pareti; dai disegni tracciati dall'a., l'appareilleur (parlier) traeva forme su legno o metallo o su pannelli di gesso, in grandezza d'esecuzione, che consentivano di eseguire le diverse parti dell'edificio. In alcuni casi si usavano anche modelli (in cera, in gesso o in legno) di edifici completi in scala ridotta, o di singole parti della costruzione in scala più grande (anche al vero), per verificarne l'effetto tridimensionale o sperimentarne il comportamento strutturale, prima della realizzazione.Per tutto il Medioevo non sembra possibile riconoscere all'a. uno stato giuridico superiore o diverso da quello delle altre maestranze; d'altra parte l'a. è spesso anche uno scalpellino o tagliapietra, che lavora sul cantiere, come faceva, ancora nel 1471, Hans Niesenberger, capomaestro della cattedrale di Friburgo in Brisgovia. La situazione di fatto, però, si presenta in termini diversi, non solo perché, come si è visto, non mancano esempi di esercizio della professione di a. da parte di ecclesiastici, generalmente nobili o membri delle classi superiori, ma perché la considerazione e i privilegi di cui godeva l'a. sono ampiamente testimoniati dalle remunerazioni accordate al suo lavoro. Egli riceveva in genere, come gli operai, un modesto salario giornaliero, al quale si aggiungevano però premi annuali in denaro o indennità in natura, esenzioni da imposte e anche garanzie o pensioni in caso di infermità, che lo collocavano su un piano assai differente da quello degli altri lavoranti. Il già ricordato Maginardo, nel sec. 11°, ottenne, come compenso per le sue prestazioni, un terreno con casa, orto e vigna; in Inghilterra, nel sec. 14°, sono ricorrenti contratti che concedevano all'a. il diritto a ricevere vesti di rango e cibi della stessa qualità servita sulla mensa di un cavaliere. Ancora più significative sono le glorificazioni pubblicamente concesse ai maestri di maggior fama, come Buscheto a Pisa o Lanfranco a Modena. In effetti la situazione italiana è, sotto questo aspetto, particolare - come rilevava lo svevo Ottone di Frisinga (sec. 12°), meravigliandosi di veder accedere alle più alte cariche e onori, in questo paese, 'operai' occupati nelle arti meccaniche (Ottonis et Rahewini gesta Friderici I Imperatoris; MGH. SS rer. Germ., XLVI, 19123, p. 116) - ma anche in Francia vanno ricordati i 'labirinti' delle cattedrali di Reims e di Amiens o l'iscrizione funeraria di Pierre de Montreuil, gratificato della qualifica di doctor lathomorum, con il fine evidente di equiparare il suo magistero a un titolo universitario.Con queste ultime testimonianze si è ormai oltre la metà del sec. 13°, quando il domenicano Nicolas du Biard scriveva: "nei cantieri maggiori è invalso l'uso di avere un maestro principale, che ordina gli edifici soltanto servendosi delle parole e non vi pone mano che raramente e tuttavia riceve un salario maggiore degli altri, [...] questi architetti (magistri cementariorum) tengono in mano una bacchetta e i guanti e dicono agli altri 'taglia qui, in questo modo', ma non lavorano affatto" (Mortet, Deschamps, 1929, p. 290). Il tono polemico e scandalizzato di questo testo probabilmente testimonia un periodo di transizione, destinato d'altra parte, come si è visto, a prolungarsi fino alla fine del Medioevo, ma soprattutto denuncia il progressivo distacco dell'a. medievale dagli altri operatori edilizi, riflesso negli ordinamenti professionali dei secc. 14° e 15°, e ne annuncia in prospettiva quello dal cantiere, che avrebbe segnato la conclusione della sua esperienza storica.
Bibl.: H. Stein, Les architectes des cathédrales gothiques, Paris [1909] (19292); V. Mortet, Recueil de textes relatifs à l'histoire de l'architecture et à la condition des architectes en France au Moyen Age, I, XIe-XIIe siècle, Paris 1911; M.S. Briggs, The Architect in History, Oxford 1927 (New York 19742); V. Mortet, P. Deschamps, Recueil de textes relatifs à l'histoire de l'architecture et à la condition des architectes en France au Moyen Age, II, XIIe-XIIIe siècle, Paris 1929; N. Pevsner, The Term ''Architect'' in the Middle Age, Speculum 17, 1942, pp. 549-562; P. Du Colombier, Les chantiers des cathédrales, Paris 1953 (19732, con bibl.); P. Booz, Der Baumeister der Gotik (Kunstwissenschaftliche Studien, 27), München 1956; J. Gimpel, Les bâtisseurs de cathédrales, Paris 1958 (19802; trad. it. I costruttori di cattedrali, Milano 1961, 19822); Les architectes célèbres, a cura di P. Francastel, 2 voll., Paris 1958-1959; J. Harvey, The Master Builders, London 1971; id., The Mediaeval Architect, London 1972 (con bibl.); F. Bucher, Architector. The Lodge Books and Sketchbooks of Medieval Architects, I, New York 1979; L. Vagnetti, L'architetto nella storia d'occidente, Padova 19802 (Firenze 1973), pp. 111-202 (con bibl.); R. Bechmann, Les racines des cathédrales, Paris 1981 (trad. it. Le radici delle cattedrali, Casale Monferrato 1984); Artistes, artisans et production artistique au Moyen Age, a cura di X. Barral i Altet, "Colloque international, Rennes, Haute Bretagne, 1983", 3 voll., Paris 1986-1990.C. Bozzoni
Sebbene la civiltà artistica islamica sia fondamentalmente architettonica, l'a., tranne poche eccezioni, non ha mai goduto, nell'Islam, di grande considerazione. Nell'Egitto e nella Siria, in epoca mamelucca (1250-1517) l'a. era stimato poco più del muratore, di rango inferiore al muezzin o al custode delle porte delle grandi moschee. Per contrasto, nella stessa epoca la famiglia Ṭūlūnī, i cui membri erano tutti a., era altamente onorata, tanto che due donne della casa sposarono successivamente Sulṭān Barqūq, mentre Ḥasan al- Ṭūlūnī, educato dallo storico al-Sakhāwī, esercitò la professione di a. ininterrottamente dal 1453 al 1517. Anche nella Turchia ottomana gli a. venivano apprezzati, tanto che il grande Sinan divenne amico intimo del sultano Solimano, oltre che capo-costruttore dell'impero.La grande maggioranza degli a. islamici non aveva una solida preparazione teorica. Spesso il mestiere, come ogni altro nell'Islam, veniva tramandato da padre in figlio; insieme con lezioni di disegno, si impartivano nozioni di geometria, matematica e meccanica applicata. In alcuni casi, tuttavia, gli a. erano famosi e qualificati matematici, come Aḥmad b. Muḥammad al-Ḥāsib, che nell'861 restaurò il Nilometro di Roda e costruì vari edifici in Iraq. Anche Shaykh 'Alam al-Dīn Qayṣar fu contemporaneamente a., astronomo e matematico insigne, mentre Maslama ibn 'Abdallāh, costruttore alla corte omayyade di Cordova, era anche geometra.Le fonti designano gli a. con vari nomi, i più comuni dei quali sono mi'mār, bannā' e muhandis, tutti derivati da radici indicanti il costruire, l'edificare, l'erigere, ma anche il progettare e il restaurare edifici, termini affini, anche se non perfettamente equivalenti, a quelli di ingegnere e a. nelle lingue occidentali. Talvolta gli a. sono qualificati ustād (mastro) in Persia, Iraq, Asia Minore e Siria settentrionale; mu'allim (maestro) in Egitto, in Africa settentrionale e in altre zone dell'Asia occidentale; ṣāḥib in Algeria, titolo che significa maestro, ma che spesso corrisponde a costruttore qualificato o soprintendente. Come i loro omologhi in Europa, gli a. islamici erano spesso maestri in altre arti, come l'ebanisteria, la decorazione in stucco, l'intaglio del marmo, la lavorazione della madreperla. Altri erano astrologi, poiché la costruzione di edifici è stata sovente legata all'astrologia, come viene documentato anche dalle biografie dei sovrani Moghul, specie Humāyūn e Shāhjahān.In confronto con il gran numero di edifici islamici di notevole valore estetico, i nomi degli a. che sono pervenuti sono solo un'esigua minoranza. In gran copia si tramandano invece quelli dei direttori amministrativi dell'opera, il cui titolo, diverso nei vari paesi musulmani, è preceduto dalle parole 'alà yaday, equivalenti a 'opera di' (letteralmente 'per mano di'). In qualche caso questi personaggi, scelti di solito fra i membri della classe militare, potevano anche essere a., come Aḥmad b. Jamāl al-Āmidī, soprintendente e ingegnerea. di Diyarbakır, nel 909-910.Quando compare, il nome dell'a. è relegato alla fine dell'iscrizione commemorativa, al cui posto d'onore sono il nome e i titoli del committente, sempre un laico - sovrano, governante, nobile di corte - benché quasi tutte le costruzioni islamiche siano dedicate all'uso religioso (moschea, madrasa, kuttāb, zawiya) o siano state create per procurarsi meriti (ospedale, sabīl). Alcuni a. selgiuqidi hanno apposto il loro nome, eccezionalmente, entro un cartiglio accanto all'iscrizione principale o presso qualche zona architettonicamente importante dell'edificio. Anche il costruttore persiano del Gūr-i Mīr di Samarcanda, Muḥammad b. Maḥmūd, ha inciso il suo nome sull'architrave del portale (1434). Talvolta il progettista del lavoro era lo stesso committente: se ne hanno testimonianze in Anatolia e nell'India Moghul. In taluni casi i costruttori venivano reclutati da altri paesi, secondo il sistema delle liturgie (prestazioni obbligatorie), anche se nessuna cronaca musulmana parla di trasferimenti in massa di a. e muratori, come avveniva invece per i vasai e per altri artigiani. Talvolta erano gli stessi a. a mettersi volontariamente al servizio di qualche potente signore, come il costruttore persiano della madrasa di Maḥmūd Gawān a Bidar (India meridionale) o Mīrak Mīrzā Ghiyāth, ingaggiato dalla vedova di Humāyūn per costruire il mausoleo del marito, o ancora Yūsuf e 'Īsā Muḥammad Efendi, allievi del grande Sinan, che lavorarono in India, rispettivamente per i sovrani Moghul Akbar e Shāhjahān. Le leggende secondo le quali ai costruttori di opere particolarmente riuscite venivano fatte amputare le mani o cavare gli occhi, per impedire loro di eseguirne copie per altri, sono comuni a molte civiltà; è vero invece che gli a. islamici edificavano con grande rapidità, abilità di cui andavano molto fieri: infatti, diversamente da quanto accadeva in Europa, un monumento poteva essere progettato, costruito e portato a termine da un medesimo costruttore. Si conoscono grafici e disegni eseguiti in scala su carta quadrettata, che servivano per stendere le piante, e modellini in legno, progettati per gli edifici della Baghdad abbaside e per il Tāj Maḥall di Agra.
Bibl.: L.A. Mayer, Islamic Architects and their Works, Genève 1956; U. Monneret De Villard, Introduzione allo studio dell'archeologia islamica (Civiltà Veneziana. Studi, 20), Venezia 1966, pp. 299-310; D.N. Wilber, Builders and Craftsmen of Islamic Iran: the Earlier Periods, AARP 10, 1976, pp. 31-39; R. Lewcock, Architects, Craftsmen and Builders: Materials and Techniques, in Architecture of the Islamic World. Its History and Social Meaning, a cura di G. Michell, London 1978, pp. 112-143.B.M. Alfieri