Architettura e condizione femminile
Una reale innovazione?
In questo inizio di secolo, momento storico governato da trasformazioni continue e inquietanti, sia all’interno delle strutture sociali sia nella conformazione delle discipline scientifiche, tecniche, economiche e artistiche, si fatica molto a individuare una prospettiva di crescita qualitativa e di progresso riguardante la complessa ‘disciplina’ architettonica. Il prodotto architettonico manca spesso, oggi, di riconoscibilità perché disorienta più che aiutare a comprendere e a usare gli spazi abitati. Ciò accade per vari motivi legati, in primis, al bisogno di omologazione che un prodotto di questo tipo deve avere a livello globale, in quanto deve necessariamente essere ‘accettabile’ da ogni cultura e in ogni luogo. Il motivo dominante si ritrova all’interno di una continua e sostanziale mutazione che, insieme alla vita civile, ogni struttura disciplinare sta subendo: l’architettura più di ogni altra, a causa delle contaminazioni e delle derive di questa professione. Contaminazioni che risultano di fatto necessarie, vista la mobilità delle varie culture a livello internazionale e il loro continuo migrare nei territori dove è ritenuto più conveniente lo stanziamento; derive, invece, recentemente assai distruttive per il fatto che tendono a far naufragare l’identità della professione in un limbo pseudoartistico.
È, per es., facilmente constatabile che da quando è stato costruito a Bilbao il nuovo Guggenheim Museum (1997) di Frank O. Gehry è esploso in tutto il mondo un decostruttivismo (movimento teorizzato da Jacques Derrida e iniziato nel 1988 a New York con una mostra organizzata da Philip Johnson dove sono stati esposti progetti di Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e dello studio Coop Himmelb(l)au) che si può tranquillamente definire selvaggio. È un decostruttivismo destabilizzante oltre che selvaggio, perché esibisce un bisogno esagerato di supremazia legato quasi unicamente all’enfasi formale e dimensionale, alla capacità di stupire e inquietare, più che a quella di realizzare un prodotto per un determinato luogo che ha sempre caratteristiche di unicità da tenere in considerazione, anche nel caso in cui si volesse totalmente ‘modificarlo’; tratto, questo, appartenuto a gran parte della produzione architettonica dei secoli passati e della prima metà del 20° secolo. I risultati sono stati spesso inquietanti e, quel che più conta, hanno creato disagio, perché provocano improvvise lacerazioni senza proporre una continuità costruttiva, pur nell’ambito di necessarie nuove proposte. Il nuovo, cioè, è quasi sempre un oggetto dichiarato e autoreferenziale, più installazione che opera di architettura, che è tale anche per il suo cercare sempre analogie e corrispondenze nello scomporre e ricomporre la realtà. Lo Zeitgeist, lo spirito dell’epoca di hegeliana memoria, che in questo momento storico assume il volto della complessità, non può essere identificato e confuso con la tendenza artistica egemone dell’epoca che stiamo vivendo. Le città, sempre più dilatate a causa del processo di globalizzazione che si è sviluppato a partire dalla seconda metà dello scorso secolo, mancano di identità e di riconoscibilità, investite come sono dal fiume in piena della mobilità di uomini e merci del mercato globale e dalle infinite possibilità abitative.
Paradossalmente, però, la circolazione continua non produce reale innovazione, ma provoca e propone parziali e spesso nefasti – perché troppo casuali e provvisori – cambiamenti di forma, oppure costruisce ingenti parti di città senza basarsi sulla sperimentazione e sulla ricerca, necessarie per la produzione del nuovo in architettura; si tratta di città senza architetti, anche quando progettate da architetti superstar, interessati spesso unicamente all’enfatizzazione mediatica del loro nome e dei loro (talora) bizzarri prodotti. Sono città senza architetti perché questa categoria di professionisti è oggi sempre più al servizio di un mercato senza scrupoli, che non intende organizzare progettazioni e costruzioni all’insegna della conoscenza e del rispetto dei luoghi, in dialogo con le preesistenze e in risposta a domande fatte da coloro che li devono poi abitare. Al contrario, ha come bisogno prioritario il rendimento economico. Ciò che crea maggiore disagio è, in questo contesto, l’impossibilità di arginare, di porre un limite alla progressiva, e sempre più veloce, devastazione del territorio abitato, sia attraverso una preoccupante e sempre più diffusa mancanza di qualità dei prodotti edificati, sia a causa della dissoluzione progressiva del collante culturale in grado di precisare e definire l’identità delle varie nazioni e popolazioni (si veda, per es., come si equivalgono le parti periferiche di tutte le metropoli e megalopoli sparse nell’intero pianeta, contraddistinte da edificazioni diffuse e ormai incontrollabili).
In realtà, ciò che viene edificato deve rispondere essenzialmente a richieste di comunicazione e di consumo immediate, legate alle logiche correnti del mercato; quindi gran parte del costruito risponde in maniera sempre più sofisticata a bisogni indotti da un mercato che, per produrre lavoro e profitto, deve far circolare un quantitativo di merci tale da soddisfare richieste di qualsivoglia natura. La situazione italiana mostra comunque, nei confronti dell’Europa e del resto del mondo, notevoli diversità, dovute in parte a sistemi di urbanizzazione distruttivi in auge dagli anni Sessanta del secolo scorso, ma anche a una sostanziale assenza di committenza pubblica e privata di qualità, oltre che a una serie di veti incrociati per la tutela dei centri antichi. Si è concretizzato, dunque, solo da pochi anni il desiderio di uscire da una sorta di provincializzazione deleteria, sia perché carente di proposte di qualità al passo almeno con quelle europee, sia perché legata a una produzione basata sulle progettazioni di una cultura locale priva di ambizione e, quel che è più grave, di preparazione. Se, da un certo punto di vista, si può dire stiano crescendo proprio preparazione e consapevolezza, mancano però ancora un quadro normativo e una sensibilità collettiva per le necessarie trasformazioni cosicché, in alcuni casi, s’impongono violente e superficiali installazioni più che nuove architetture.
Milano, per es., ormai indirizzata verso le sperimentazioni più azzardate, al passo con le più importanti megalopoli internazionali, sta ridefinendo la sua grande e indistinta periferia con l’inserimento di strutture decostruite e contorte che alterano totalmente lo skyline della città. E ciò a partire dal progetto d’iniziativa privata – molto criticato – CityLife dove, oltre ai tre grattacieli già previsti (di cui uno di Hadid), sorgerà un nuovo Museo d’arte contemporanea di Libeskind (già autore di uno dei grattacieli) esteso su 18.000 m2, con una dichiarata (ma solo parzialmente applicata) volontà di dialogo con il territorio. Per finire con le ultime proposte riguardanti tutte le altre aree destinate all’Expo 2015. Il prodotto ‘architettura’ – il cui valore d’uso è necessariamente associato a valenze di piacevolezza estetica – deve però rispondere, a differenza di ogni altra merce, a precisi requisiti di abitabilità e consenso collettivo, e deve adeguarsi a normative di piano che spesso risultano assai discutibili perché complicano le infinite procedure burocratico-amministrative invece di semplificarle. Quindi, se da un lato si tende a ricompattare l’edificato per arginarne la dispersione ormai ‘fisiologica’, dall’altro vengono a mancare la stabilità e il radicamento al luogo di queste nuove merci architettoniche, che si alternano come veri impianti scenici, con la loro intercambiabilità, nel teatro delle città diffuse appartenenti a una società ugualmente diffusa e globale nella quale organizziamo il nostro esistere.
Tutta questa instabilità edificatoria, questo procedere per tentativi di installazioni di varia natura e forma provocano però anche degrado, precarietà e, molto spesso, incapacità negli abitanti di riconoscersi all’interno delle nuove strutture che dovrebbero rappresentarli; è una crisi di appartenenza che causa grande disagio e confusione e che, purtroppo, degenera in devianze. L’inquietudine creativa, che ha contraddistinto la crescita delle attuali città, è connessa con un’inquietudine degenerativa che rischia di prendere il sopravvento proprio perché il progetto che sottende è ormai lasciato in preda a una pseudolibertà decisionale, la quale, privata di regole nuove e pensate ad hoc, adattate cioè al nuovo e intricato, perché complesso, vivere civile, si trasforma in arbitrio; e ciò non ha nulla a che fare con la tolleranza e nemmeno con la democrazia, ma solamente con l’incoscienza e, soprattutto, con la mancanza di responsabilità.
Le tensioni di trasformazione totale (che hanno investito le città in quest’ultimo cinquantennio fino a farle scoppiare) sembrano essere imputabili sia alla produzione architettonica in senso stretto, sia a ogni altra produzione che deve imparare a misurarsi con la crisi attuale, progettando, anzi, riprogettando continuamente le modalità con cui poter arginare, regolamentandola, la crisi stessa.
Le derive dell’architettura
«Complice una precisa innovazione tecnologica, un gruppo umano sostanzialmente allineato al modello culturale imperiale, accede ad un gesto che gli era precluso, lo riporta istintivamente ad una spettacolarità più immediata e a un universo linguistico più moderno, e ottiene così di dargli un successo commerciale stupefacente» (A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, 2006, p. 43).
Si assiste, in questi primi anni del nuovo secolo, a una deriva di sostanza dell’architettura nei confronti delle ragioni tecnico-economiche del mercato, e di forma nei confronti dell’arte. Derive che sconcertano perché difficilmente arginabili, anche se in grande misura previste e prevedibili. La tecnica da mezzo diventa fine e questo processo, in corso ormai da più di un secolo «non è semplicemente un fatto che esiste ma che sarebbe potuto non esistere, che si estende ma che potrebbe essere frenato e arrestato. È un destino» (Severino 2003, p. 114).
La civiltà della tecnica produce per sé l’architettura ‘adeguata’ che, come l’arte e insieme a essa, diventa distruttrice di una continuità secolare impostata su ‘modelli imitabili e immutabili’, secondo i quali è possibile giungere a comprendere e ‘costruire’ la bellezza. In questo tempo di crisi profonda e di passaggio, la critica, in architettura, ha un ruolo fondamentale: «Se ricorriamo all’etimologia, ci rendiamo conto che critica e crisi sono parole che hanno la stessa radice: entrambe alludono a quei momenti che si verificano nel corso di ogni processo in cui si produce uno scarto e succede qualcosa di decisivo» (Martí Arís 2005; trad. it. 2007, p. 16). È dunque oltremodo necessaria la presenza femminile in quest’ambito per l’innata capacità di mediazione che caratterizza questo genere di professioniste e, in genere, per l’innata tendenza delle donne ad arginare il prometeico bisogno di conquista spaziale da parte del professionismo maschile, anche perché «il compito del critico deve essere inseparabile dall’azione poetica […] il vero critico si pone gli stessi problemi dell’autore; entrambi formulano le stesse domande, condividono gli stessi interessi e parlano lo stesso linguaggio» (p. 17). La vera critica, infatti, deve basarsi sulla conoscenza approfondita dell’opera, e ciò è possibile solo padroneggiando la disciplina.
Differenze di genere
Esiste una sostanziale differenza tra la produzione di un architetto di genere maschile e quella di un architetto di genere femminile? Si può dire sia la stessa che esiste tra la produzione di un chimico, di un fisico, di un pittore, di uno scultore, di un musicista, di un regista o di infiniti altri professionisti uomini o donne: cioè nessuna, se legata unicamente al genere, oppure moltissime, se connesse, invece, alla preparazione, alla responsabilità, all’inventiva delle singole ‘persone’. Di persone, quindi, si deve parlare; persone che, indipendentemente dal fatto di appartenere al genere maschile o a quello femminile, possono progettare e costruire con preparazione e rigore. È pur vero, però, che la professione di architetto, nel corso dei secoli, è stata di dominio quasi esclusivamente maschile, a differenza delle altre professioni, artistiche e scientifiche, che annoverano maggiori presenze femminili.
È comunque determinante, da parte degli addetti ai lavori, sia tecnici sia intellettuali della disciplina, constatare l’aumento considerevole della presenza femminile in questo settore, verificabile innanzitutto all’interno dei corsi universitari dove, nell’ultimo decennio, è andata esponenzialmente crescendo, fino a superare quella maschile. Tuttavia, se a livello formativo e sul piano del merito si può dire si sia quasi raggiunto l’equilibrio, il numero di donne che esercitano la libera professione resta ancora al di sotto della metà rispetto al numero degli uomini, perché molte vengono assorbite nella pubblica amministrazione o nelle industrie di arredamento. Questo dato dimostra che la professionalità femminile non è ancora completamente accettata dal sistema sociale e normativo (che porta al conferimento degli incarichi attraverso i concorsi), ma anche dalle stesse donne poiché molte di esse tendono a esercitare la professione all’interno di studi dove esiste già una figura maschile riconosciuta, dominante e contemporaneamente ‘protettiva’. Tra le professioniste maggiormente rappresentative di questa situazione si possono citare, nel Novecento, Natalie de Blois (n. 1921), che dal 1944 rimase per trent’anni nello studio americano SOM (Skidmore, Owings & Merrill) dall’impronta decisamente maschile, e Charlotte Perriand (1903-1999), subordinata al suo illustre collega Le Corbusier e messa in ombra dalla sua grande fama, nonostante gran parte dei meriti di quest’ultimo si debbano proprio a questa donna che seppe abilmente tessere un fruttuoso dialogo tra Occidente e Oriente dall’interno dei CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), di cui fu membro molto attivo. Nel primo decennio del 21° sec., analoga situazione è vissuta da Christine Bins-wanger (n. 1964), partner di Jacques Herzog e Pierre de Meuron, anche se con modalità diverse e che poco dipendono dalla responsabilità dei colleghi, ma sono maggiormente imputabili ai media e all’opinione pubblica che, posti di fronte a gruppi con presenze miste, preferiscono far emergere le figure maschili.
Una coppia di progettisti che invece esce da questi schemi perché la visibilità è per entrambi alternativamente assicurata, visto che lavorano in modo complementare e solidale, è quella formata da Franco Purini e Laura Thermes (n. 1943); progettisti e studiosi della disciplina, si completano attraverso l’esercizio della professione e uno scambio continuo e proficuo sul piano anche culturale. Lo stesso si può dire per Valeriano Pastor e Michelina Michelotto, tutt’ora operanti a Venezia, Livio Vacchini e Silvia Gmür (n. 1939), architetti svizzeri che hanno attivamente collaborato fino al 2007, anno della prematura scomparsa di Vacchini che, insieme a Gae Aulenti, Cini Boeri, Giancarlo De Carlo, Vittorio Gregotti, Renzo Piano e ai citati Pastor, Purini e Thermes, possono essere considerati tra i maestri indiscussi dell’architettura italiana contemporanea.
Tra le coppie giovani sta emergendo la francese Cécile Brisac (n. 1969) che con il marito, l’architetto Edgar Gonzalez, ha realizzato nel 2001 il Världskulturmuseet (Museo delle culture del mondo) a Göteborg, in Svezia. È significativo il fatto che la coppia firmi i progetti anteponendo il nome della donna che, in rarissime occasioni, come in questo caso, non chiede la tutela maschile. Ciò significa che la tendenza a ristabilire l’equilibrio tra i generi è particolarmente viva tra i giovani architetti (che puntano sempre più a formare gruppi misti riconoscibili attraverso una sigla), anche se esistono ancora effettive difficoltà che i complessi cantieri di costruzione fanno emergere sul piano tanto della sicurezza quanto del rapporto con le maestranze, ancora oggi pressoché esclusivamente maschili.
La ‘vita dedicata’, soprattutto nei confronti dei figli, per la donna è comunque una necessità, quindi il suo atteggiamento difficilmente potrà cambiare. Sarà possibile, comunque, raggiungere una dimensione di sempre maggior equilibrio (come si è già verificato) grazie anche all’introduzione, nella vita civile, di sostanziali mutamenti di comportamento e all’interscambiabilità dei ruoli tradizionalmente maschili e femminili all’interno di tutte le professioni e di tutte le attività, comprese quelle domestiche. Sono state varate, a questo proposito, per una maggiore consapevolezza acquisita dalle strutture politico-amministrative, a livello internazionale, consistenti iniziative di carattere legislativo a tutela e rispetto della professionalità e del ruolo portante della donna nella società, anche se, purtroppo, alcuni Paesi ancora non dimostrano tale sensibilità. Esemplare è la Carta europea delle donne nella città, redatta dal 1994 al 1995 e sovvenzionata dall’Unità per le pari opportunità della Commissione europea, che pone tra i suoi obiettivi «pensare e rimodellare la città attraverso lo sguardo delle donne al fine di apportare un’altra dimensione e nuovi equilibri, [...] perché le donne sono assenti o particolarmente invisibili a tutti i livelli decisionali soprattutto nelle scelte che creano e generano la città, l’abitare e la pianificazione territoriale [...] perché le città devono ora affrontare delle sfide maggiori e senza precedenti al fine di raggiungere i seguenti obiettivi: preservare il territorio e assicurare uno sviluppo duraturo, promuovere una maggiore qualità della vita per tutti e tutte con maggiore equità, porre rimedio al disfunzionamento urbano e lottare contro l’intolleranza, costruire una democrazia più attiva, più equilibrata in una società diventata plurale nella quale le donne siano ovunque al centro del dibattito».
A pochi anni dall’inizio del nuovo secolo si può sicuramente considerare un eccellente risultato vedere elencati i diritti delle donne all’interno di un documento di piattaforma comune di riflessione sul piano europeo, anche se sarebbe importante poterne anche verificare la condivisione e l’applicabilità.
Professionalità e autorevolezza
È necessario ribadire che la figura dell’architetto è neutra, ovvero immune da condizionamenti di genere. Ciò che la caratterizza è l’assunzione di responsabilità nei confronti di un compito tra i più importanti e onerosi: la costruzione della casa dell’uomo nel mondo. Questa professione richiede sicuramente, a differenza di altre che si risolvono all’interno del loro intrinseco statuto disciplinare, una preparazione allargata, che si spinga al di fuori del linguaggio e delle regole che appartengono alla disciplina stessa. È importante cioè che la professionalità dell’architetto si costruisca su approfondite conoscenze tecniche e storiche inerenti lo specifico percorso disciplinare, coadiuvate però da una preparazione consistente anche in campo artistico, scientifico e umanistico, in quanto l’architettura si deve porre in modo trasversale rispetto a tutte le discipline dalle quali continuamente attinge.
Come sosteneva un illustre esponente dell’architettura europea, Adolf Loos (1870-1933), l’architetto è un muratore che conosce il latino, intendendo attribuire a questa figura un ruolo che va oltre i confini della sua professione, in quanto chiamato sia a dare una risposta al bisogno più ancestrale dell’uomo, ossia abitare i luoghi per costruirsi la propria identità, sia ad aiutarlo a cercare e a riconoscere la ‘bellezza’ attraverso la cosa costruita. L’autorevolezza dell’architetto si misura attraverso la capacità di essere saldamente ancorato al proprio tempo riconoscendone potenzialità e contraddizioni, ma anche rappresentandolo attraverso opere che devono andare incontro ai bisogni di tutti coloro che, insieme a lui, questo tempo lo abitano. Chi si accinge a diventare architetto, soprattutto in questo momento storico dominato dal movimento globale di uomini e merci, deve essere consapevole di intraprendere una missione, più che una professione, perché sicuramente, oggi più che mai, una buona architettura contribuisce a costruire una società equilibrata.
Secondo Furio Colombo «L’architetto ha il compito più gravoso: si espone in modo drammatico, ha un interesse enorme al nuovo e trascina il peso gravoso della società circostante (committente e utente), che desidera quasi solo ciò che ha già visto, e che è poco tollerante per ogni accenno di strada diversa» (2003, p. 190). La figura a-sessuata dell’architetto, dunque, solo se responsabile, determinata, sensibile e molto colta, oltre che specialisticamente e tecnicamente preparata a livello professionale, ha un ruolo decisivo volto alla salvaguardia dell’equilibrato sviluppo delle città, del loro funzionamento e in grado di arginare le ormai permanenti contraddizioni entro cui sta naufragando la vita di tutti coloro che le abitano nel corso del nuovo secolo, perché, come scrive Loos «l’artista deve essere al servizio solo di sé stesso, l’architetto della società» (Ins Leere gesprochen, 1897-1900, 1921; trad. it. Parole nel vuoto, 1972, p. 254).
Durante un convegno tenutosi nel 1961, Mies van der Rohe (1886-1969) disse che soltanto le questioni riguardanti l’essenza delle cose hanno senso e le risposte che una generazione trova a tali questioni costituiscono il suo contributo all’architettura. Con queste parole egli ricercava la verità dell’architettura nella sua essenza, dicendo chiaramente che per lui verità è ciò che intendeva Tommaso d’Aquino, e cioè adaequatio rei et intellectus (coincidenza del pensiero con la realtà); in questa relazione si collocano il destino e il compito della civiltà e dell’architettura che, costruendo, dà forma alla realtà, e «nelle sue opere migliori, può essere l’espressione dell’intima struttura della sua epoca» (Petranzan 2000, pp. 38-39).
Presenze femminili nella progettazione architettonica
L’architettura internazionale annovera tra le figure di progettisti emergenti e riconosciuti per l’effettiva qualità dei loro prodotti e del loro operare uomini e donne in misura abbastanza equilibrata rispetto allo scorso secolo, sia negli Stati Uniti sia in Europa; in alcuni Paesi, come per es. l’Italia, c’è però ancora un importante divario numerico a favore dei professionisti di sesso maschile. Esiste comunque, anche se non ancora riconosciuto ufficialmente, un reale aumento quantitativo e qualitativo della professionalità femminile, che però lavora ancora nell’ombra e al di sotto del cosiddetto tetto di vetro della notorietà, secondo l’ormai nota espressione utilizzata per indicare l’invisibile barriera che impedisce l’affermazione delle donne ai vertici di determinate professioni. Un esercito di donne architetto si impegna con responsabilità e determinazione negli studi professionali comandati e gestiti da uomini, contribuendo in modo determinante alla buona riuscita della costruzione della nuova architettura. Il lavoro di poche donne, che si possono definire pioniere in questo campo e possono anche essere annoverate tra le ‘madri’ dell’architettura europea, è esemplare e magistrale per tutti i professionisti di questa straordinaria e complessa disciplina. Si intende focalizzare l’attenzione sul lavoro e le caratteristiche umane di due italiane: Gae Aulenti e Cini Boeri.
Per Aulenti (n. 1927) «il quotidiano vivere nel progetto e di progetto ha lentamente, quasi naturalmente organizzato il suo ‘progetto di vita’ in totale simbiosi con il suo fare. Per lei si può sicuramente dire che il progetto è la vita e che, rovesciando, la vita diventa progetto» (Petranzan 2002, p. 11). Coraggio e determinazione l’hanno portata a superare il famoso ‘tetto di vetro’, svincolandosi totalmente da qualsiasi egemonia maschile e cavalcando l’avanguardia e la sperimentazione a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo fino ai giorni nostri. Ciò che la distingue è la sua alta professionalità, che si dispiega nell’ambito dei vari linguaggi artistici, a rafforzamento e completamento del linguaggio architettonico: «La sua architettura si riconosce in una sorta di continuo esercizio autoriflessivo che abbisogna di una rigorosa composizione e di ricerca di nuove tecnologie che prendono lentamente le distanze da movimenti alla moda. Lo stile internazionale che la contraddistingue […] consiste nel rovesciamento dei principi di rigida simmetria in nuovi sistemi di organizzazione, sia di spazi sia di forme, uniti alla condanna di ogni decorazione arbitraria» (p. 12). A una conferenza dell’Ordine degli architetti di Milano (17 maggio 2006) nel presentare il restauro e le nuove costruzioni aggiunte ai suoi due ultimi edifici museali (Asian Art Museum, 2003, a San Francisco; Museu nacional d’art de Catalunya, 2004, a Barcellona) citando Vitruvio definiva i quattro livelli necessari del sapere architettonico: il saper fare, il sapere critico, il sapere creativo e il sapere della cittadinanza, che ritiene importantissimo, perché, ribadiva, saper essere cittadino, attento alla ragione degli altri, è primario compito dell’architetto. Tra le sue ultime opere emergono la ristrutturazione del Palavela (2004) di Torino e la realizzazione del Palazzo del ghiaccio (2005) per le gare di pattinaggio artistico e short track dei Giochi olimpici invernali del 2006, oggetto di grande interesse sul piano compositivo e tecnico-distributivo vista la difficoltà del tema proposto. La sua attività è comunque ancora molteplice e continua, supportata da uno studio di giovani architetti associati, costituito in maggioranza da donne. Si segnalano inoltre importanti lavori in corso tra cui i progetti per la nuova pinacoteca a Monza, per gli ampliamenti degli aeroporti di Perugia e di Aosta e per nuove residenze a Perugia e in Romagna.
Un’altra interessante figura femminile è quella di Boeri (n. 1924), architetto dal 1951, formatasi presso lo studio di Giò Ponti e di Marco Zanuso, con cui ha lungamente collaborato. Nel 1963 iniziò la propria autonoma attività professionale, occupandosi di architettura civile e disegno industriale. Particolarmente degno di rilievo e ammirevole il suo percorso professionale e umano, visto che, dovendo educare tre figli maschi da sola, è riuscita a conciliare la vita dedicata con la crescita professionale, ponendo sempre grande attenzione al rapporto uomo-ambiente nel progettare e, contemporaneamente, sperimentando forme e idee, soprattutto nel campo del design, assolutamente nuove e originali, grazie alle quali ha ricevuto numerosi premi a livello internazionale. Al progetto dei divani letto Strips per Arflex, che ha totalmente rivoluzionato l’idea del letto, è stato assegnato, nel 1979, il Compasso d’oro. Continua a ‘costruire’ idee con passione ed entusiasmo; la casa Sechi (2004) nell’isola della Maddalena, per es., mostra la sua volontà di ripartire ogni volta da zero, come ha recentemente dichiarato, «come se progettassi per la prima volta», e continua la sperimentazione coraggiosa messa in atto in ogni progetto di casa come nei primi della sua carriera. Si ricordano, in tal senso, la villa Rotonda (1967) e la villa Bunker (1968) alla Maddalena, di cui Ernesto Rogers ha scritto: «Affermiamo […] che queste opere dell’architetto Cini Boeri sono valide sia sul piano logico che su quello su cui ci sospinge la sua poetica» (Cini Boeri, 2004, p. 50). Lo stesso si può dire per la casa nel bosco (1969) a Osmate di cui Bruno Zevi ha scritto: «la casa si distende nel suo muro perimetrale di cemento a vista, nel quale si riassume non solo l’involucro, ma l’organismo, poiché pochissime sono le partizioni interne, quasi sempre realizzandosi la schermatura a mezzo di grandi scorrevoli e della differenziazione delle quote di pavimento» (Cini Boeri, 2004, p. 51); in questo lavoro la particolare attenzione della progettista per il luogo ha reso onore sicuramente alla sua preparazione e alla sua inventiva, ma anche al fatto che la sensibilità femminile nei confronti di tutto ciò che rappresenta altro da sé, nei confronti cioè sia dell’ambiente naturale e/o costruito sia delle situazioni umane in genere, è molto viva, attiva, complessa: di una complessità, però, assai diversa da quella maschile, per sostanziali differenze di genere, legate ai ruoli che uomini e donne sono da sempre chiamati a svolgere nell’ambito sociale.
Per completare il quadro delle pioniere dell’architettura italiana, è necessario ricordare l’opera di Lina Bo Bardi (1914-1992) che ha coniugato abilmente l’impegno professionale e politico con un’intensa attività editoriale a Milano dove, negli anni Quaranta, fondò il Movimento di studi per l’architettura (MSA). In Brasile, dove si trasferì nel 1946 insieme con il marito, l’architetto Pietro M. Bardi, progettò e costruì le sue opere più importanti, tra cui il MASP (Museo de Arte de São Paulo, 1968). È significativo il fatto che soltanto di recente questa complessa e completa figura di professionista architetto dello scorso secolo sia stata realmente valorizzata.
In ambito europeo, invece, in questo primo decennio del nuovo secolo, numerose progettiste sono riuscite a ottenere importanti riconoscimenti sia per la qualità dei prodotti realizzati sia per il livello di sperimentazione dimostrato, al punto che, nel 2004, a una di esse, Z. Hadid, è stato assegnato uno dei premi più ambiti: il Pritzker, il massimo riconoscimento nel campo dell’architettura.
Hadid (n. 1950), architetto iracheno naturalizzata britannica, formatasi presso la prestigiosa Architectural association school, dove si è laureata con Koolhaas, ha il suo studio a Londra. Grazie al padre industriale e alla madre principessa, ha presto conosciuto e frequentato il miglior ambiente culturale internazionale, emergendo e imponendosi per le sue peculiari qualità di progettista, vista la sua spiccata propensione per il disegno e la capacità di essere sempre coraggiosamente produttiva. È una donna molto combattiva che difende strenuamente in ogni occasione i suoi progetti come in un’eroica battaglia (così è stata definita dai giurati del premio Pritzker). Lavora ormai in ogni parte del mondo, vincendo sistematicamente importanti concorsi internazionali, anche se ha iniziato a lavorare solo nel 1993, cioè vent’anni dopo la laurea. L’opera italiana che più la rappresenta, e che rappresenta anche la cultura architettonica del nuovo secolo, è il MAXXI (Museo nazionale delle Arti del XXI secolo) per il quale ha vinto il concorso nel 2000. Il ‘fenomeno’ Hadid sembra essere analogo a quello dei suoi corrispettivi maschili, Gehry ed Eisenman che, per primi, hanno coraggiosamente proposto una mutazione totale all’interno del linguaggio della disciplina architettonica; mutazione che ha generato, in brevissimo tempo, emulazioni consistenti e diffuse, spesso, però, riferite unicamente a una liberazione, sul piano compositivo, dai sistemi ortogonali con conseguente e sconcertante eliminazione di regole e punti di riferimento relativi alla progettazione.
Tra le altre professioniste europee da segnalare per essersi ormai imposte nel panorama internazionale, sia per l’effettiva qualità delle loro proposte progettuali sia per la carica di innovazione e di sperimentazione dimostrate, vi sono le spagnole Carmen Pinós e Benedetta Tagliabue (quest’ultima italiana per nascita e formazione), l’austriaca Elsa Prochazka e le francesi Manuelle Gautrand e Odile Decq.
In particolare, quest’ultima (n. 1955) è impegnata nella costruzione a Roma, nel complesso della ex fabbrica Peroni, del Nuovo MACRO (Museo d’Arte Contemporanea di Roma, progetto del 2001), e dell’edificio per alloggi H26 (progetto del 2005) a Firenze, situato al bordo di un parco e inserito tra due edifici esistenti. Il volume a ‘C’ è aperto sul parco verso il quale sono orientate le zone giorno di tutti gli appartamenti, mai situati al piano terreno dove invece sono collocati i locali commerciali. L’indubbia qualità della progettazione renderà questo edificio un modello per i futuri insediamenti abitativi, soprattutto per la ricerca evidente di miglioramento della qualità della vita all’interno dei nuclei residenziali urbani.
In Italia la visibilità delle donne architetto rimane ancora limitata, nonostante l’opera di tante valide professioniste come Carmen Andriani (n. 1953). Tra le giovani progettiste emerge Antonella Mari (n. 1966), che nel progetto (concorso del 2002) della scuola media Anna De Renzio di Bitonto ha inserito tra gli alberi esistenti, salvandone il maggior numero possibile, le strutture edificate, collegate da una grande pergola di legno, dimostrando così profonda sensibilità per il luogo e per la funzione che l’architettura è chiamata a svolgere; si ricorda inoltre la sua partecipazione come progettista di un interessante comparto ospedaliero per la città ideale di VEMA (collocata in una zona posta tra Verona e Mantova) al padiglione italiano della 10a Mostra internazionale di architettura di Venezia (2006) curato da F. Purini. Stanno inoltre emergendo molte altre giovani progettiste inserite in gruppi di lavoro che, proiettati in direzione di una sperimentazione architettonica viva e, al tempo stesso, equilibrata, perché tesa al rispetto delle necessarie relazioni con le dinamiche e la complessa struttura della vita di questo inizio secolo, rappresenteranno sicuramente le nuove avanguardie (Architettura quotidiana-Ellelab, che ha collaborato con Stalker; Officina 5, che ha collaborato con Enric Miralles; Selldorf architects di New York; Studio EU; Studio 19+Plug-in/arch).
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