Architettura e nomadismo
La capanna di Vitruvio nel 21° secolo
A livello inconscio, per la maggior parte di noi l’architettura è associata all’idea di sedentarietà (cfr. su questo quanto scrive J. Derrida, Faxitexture, «Noise», 1994, 18-19, pp. 5-13). Di fatto, però, la sedentarietà sembra essere un epifenomeno in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità.
È idea comunemente condivisa che quando i primi uomini abbandonarono la fase della caccia e della raccolta, cominciarono anche a costruire le prime abitazioni, dunque a padroneggiare l’arte del costruire. Secondo Vitruvio la capanna rappresenta l’origine dell’abitazione. Il passaggio, pur obbligato, dal nomadismo alla sedentarietà induce forse a una visione restrittiva e semplificata dell’architettura che, etimologicamente, rimanda invece al principio di costruzione. Una struttura, qualunque essa sia, deve seguire le regole della disciplina; limitare l’architettura all’ambito del sedentario è riduttivo rispetto a una complessità originata dai due bisogni umani fondamentali, abitare e spostarsi. Non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste tradizionalmente un’architettura nomade per eccellenza, quella navale. I due concetti, se osservati da questa prospettiva, non appaiono quindi così antitetici.
Il breve periodo della sedentarietà giunge a termine: infatti, sotto il duplice shock della mondializzazione e della globalizzazione lo scenario si va modificando inesorabilmente. I primi anni del 21° sec. hanno segnato un affascinante sviluppo del nomadismo in architettura sotto vari aspetti. La globalizzazione, che investe il nostro mondo e il complesso delle società esistenti sul pianeta, genera infatti la moltiplicazione di luoghi identici, dove l’uomo nomade (Attali 2003) ritrova un universo familiare; questo processo porta con sé considerevoli movimenti di popolazione. Gli esseri umani sradicati e senza risorse ricostruiscono le loro vite in abitazioni precarie, che possono essere spostate a seconda degli eventi politici ed economici. Infine, i problemi ambientali e la domanda di spazio attraverso le ricerche architettoniche alternative fanno riscoprire le qualità delle costruzioni prive di fondamenta, spostabili velocemente.
Il nomadismo si declina in molteplici versioni e presenta una varietà di approcci architettonici, sia originali sia derivati dalle correnti dominanti, spesso criticabili. I primi anni del nuovo secolo hanno conosciuto uno sviluppo edilizio senza precedenti. L’affacciarsi sul mercato mondiale di Paesi emergenti con popolazioni in crescita (come la Cina, con quasi il 40% del consumo mondiale dei materiali da costruzione) e l’apertura al capitalismo selvaggio di molti altri Paesi appena usciti dal comunismo sono alcune tra le ragioni che spiegano la frenesia costruttiva. All’interno di questo ampio sviluppo, le creazioni architettoniche ‘differenti’ sono forse marginali, ma annunciano il futuro. La questione fondamentale è sapere se nel 21° sec. dovranno essere inventati nuovi tipi di spazi architettonici: il processo di urbanizzazione intensiva che conosciamo, e i cambiamenti introdotti dalla società della conoscenza e della virtualità, richiedono forse altre forme abitative per ospitare le nostre esistenze?
Costruzioni per popoli in movimento
Dai tempi delle tende ancestrali, la tipologia delle costruzioni facilmente smontabili e trasportabili si è notevolmente ampliata (Boulay 2003). La gamma dei materiali utilizzati si estende ormai all’infinito, grazie alle ricerche scientifiche più avanzate ma anche a un uso dei materiali diverso da quello abituale. Le costruzioni nomadi non hanno sempre dimensioni ridotte, anche se queste sono quelle preferite per gli edifici destinati ad alloggi, d’emergenza o meno: infatti, per le infrastrutture da spettacolo, che presentano spesso i caratteri delle costruzioni nomadi, le dimensioni possono anche essere notevoli.
Durante il Novecento, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza. Catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi. La Dymaxion deployment unit (1940) dell’inventore, architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) fu monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale. L’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 negli Stati Uniti due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components). Il francese Jean Prouvé (1901-1984) propose nel 1944 per i rifugiati della Lorena il padiglione 6x6, montabile in una giornata grazie a un rigoroso processo di assemblaggio. L’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita fino ai nostri giorni. Il padiglione di Prouvé ha dimostrato la sua modernità in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000. Sono soprattutto le questioni teoriche ed esistenziali poste dagli innovatori di allora a essere ancora oggi al centro delle riflessioni: la piccola dimensione, i limiti dello spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà, sono tutti elementi condivisi dagli artisti-architetti di oggi.
Tra le principali figure contemporanee che si sono dedicate all’architettura d’emergenza vi è il giapponese Shigeru Ban (n. 1957). Durante la preparazione della scenografia per un’esposizione, è rimasto colpito dai mandrini cilindrici in cartone sui quali erano avvolti i pezzi di tessuto che aveva richiesto. Dopo una visita all’azienda produttrice dei tubi in cartone, l’architetto ha esplorato via via tutte le possibilità offerte da questo materiale a buon mercato. Con la Paper tube structure, esito delle sue ricerche e omologata dal Ministero della costruzione, per la prima volta la carta è diventata un materiale da costruzione, ben al di là dei semplici fogli usati come pareti divisorie nelle abitazioni tradizionali giapponesi. Nel 1995, per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, l’architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima di 16 m2, la cui struttura portante, costituita da tubi in carta spessi 4 mm e larghi 10,8 cm, poggia su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela. Si è trattato di una risposta al bisogno essenziale di abitare, con un comfort ridotto al minimo. Le Paper loghouses, che hanno conosciuto una notevole fortuna critica, sono state installate nel parco Minamikomae a Kobe, poi in Ruanda, e in Turchia per il terremoto di Ankara (1999-2000). Queste strutture hanno assunto anche un valore sociale, rappresentato simbolicamente dall’associazione temporanea, nel montaggio veloce della struttura, dell’architetto, dei costruttori e dei futuri abitanti.
La Paper tube structure ha permesso a Ban di edificare un centro comunitario, la Paper church (1995), e lo spettacolare padiglione giapponese per l’esposizione universale di Hannover del 2000. L’architetto ha utilizzato la carta anche per le Case study houses, il cui nome attesta la parentela con le case sperimentali californiane degli anni Cinquanta. La flessibilità del materiale, unita alla sua leggerezza, permette di disegnare linee sinusoidali, pareti multiple che separano interno ed esterno; inoltre l’economicità dei mezzi e dei materiali non sminuisce la bellezza di queste realizzazioni. L’architetto ha trovato una risposta immediata all’esigenza imprescindibile dell’uomo di avere un tetto sulla testa, cioè una piccola struttura che trae la sua forza da ciò che crediamo debole e troppo fragile, la carta. Com’è accaduto ai suoi predecessori, le costruzioni di soccorso di Ban conoscono un destino museale: capovolgimento paradossale della situazione o riconoscimento della qualità intrinseca dell’oggetto architettonico.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionalmente usato in Giappone per le pareti divisorie e per l’origami, l’iraniano Nader Khalili (1936-2008) ha sperimentato come materiale da costruzione la terra. Sensibile ai problemi abitativi delle persone sfollate a causa di guerre e di catastrofi naturali, egli ha condotto ricerche approfondite sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra. La sua conoscenza dei principi costruttivi degli archi, delle cupole e, in generale, delle coperture gli ha permesso di reinterpretarli grazie ai materiali scelti. Le strutture da lui progettate (con l’assistenza dell’ingegnere Phill J. Vittore) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale, prevalentemente reperito sul posto. Khalili ha intelligentemente mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter. Alcuni tubi fatti con tela di sacco e riempiti di terra sono sovrapposti gli uni sugli altri, come per costruire un igloo. Per dare coesione ai muri, le file dei sacchi sono tenute insieme da filo spinato; le porte e le finestre sono ricavate mediante aperture. Il processo costruttivo è semplice, rapido e necessita solo di tre o quattro persone. Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità; la terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale. Il progetto può prevedere la presenza di più cupole, in modo da offrire superfici variabili, rispondenti ai bisogni di famiglie di dimensioni diverse. I riferimenti a forme organiche, come gli alveari delle api o le conchiglie, sono perfettamente evidenti in queste strutture provvisorie, che sembrano nate in modo naturale dalla terra dopo una calamità. Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti: tali costruzioni presentano infatti il vantaggio, nel lungo periodo, di essere biodegradabili. Gli edifici effimeri hanno rappresentato un notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005. L’uso gratuito del sistema per gli autocostruttori, poiché solo lo sfruttamento commerciale era protetto da licenza, testimonia l’altruismo di Khalili.
Come quella di Ban, anche la struttura di Khalili è diventata un oggetto museale, ricostruito nelle esposizioni e itinerante per le grandi città industrializzate del mondo occidentale (Khalili 2006; Neri, in Casa per tutti, 2008). A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi: condividono con il nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Numerosi altri esempi di edifici nomadi d’emergenza sono stati esposti anche nella recente mostra Crossing. Dialogues for emergency architecture, curata da Zhou Shou e Pan Qing, che si è tenuta al National Art Museum of China di Pechino nel maggio 2009.
I problemi legati alla concentrazione urbana, uniti all’impoverimento di alcune classi sociali e alle migrazioni, determinano il sorgere anche alle nostre latitudini, al di fuori dei musei, di costruzioni precarie imposte da catastrofi sociali. Poche in realtà sono quelle realizzate da architetti, perché per la maggior parte sono dovute ad autocostruttori. Possono essere spostate con tutti i loro materiali (per lo più di recupero) a seconda dei mutamenti politici ed economici; la loro collocazione può variare in funzione degli spazi residui disponibili, definiti interstiziali quando si trovano in un ambiente urbano densamente costruito. Molti accampamenti stabili occupano terreni incolti ai margini delle città: considerati luoghi pericolosi dai cittadini benestanti, perché spesso territori senza legge, sono il riflesso degli immensi squilibri provocati dalla globalizzazione; si possono definire habitat di emergenza o di sopravvivenza. Si è qui ben lontani dal mito della capanna della nostra infanzia, ma i procedimenti costruttivi si ispirano, come regola generale, a quella tipologia costruttiva. Roma, come molte altre metropoli occidentali, ha visto la nascita di numerose aree occupate provvisoriamente da baracche indecorose, sorte per l’assenza di adeguati alloggi d’accoglienza: le megalopoli dei Paesi in via di sviluppo non sono quindi più le sole a ospitare bidonvilles più o meno estese (Magni, in Casa per tutti, 2008).
Gli architetti svizzeri Frédéric Jörg (n. 1976) e Daniele Stendardo (n. 1975) hanno elaborato nel 2000 una proposta abitativa che tenesse conto sia degli spazi vuoti della città, compresi gli interni degli edifici abbandonati, sia del bisogno di comfort minimo e di intimità, indispensabile per un’esistenza umana dignitosa. Come in altri progetti, il principio del modulo li ha guidati verso la progettazione di due unità, una comprendente la cucina, l’altra i sanitari; i materiali da costruzione sono leggeri, resistenti e durevoli; il processo di fabbricazione è simile a quello delle costruzioni navali, campo di sperimentazione del nomadismo. I moduli sono standardizzati e possono essere fabbricati in serie; le due unità sono installate e raccordate alle diverse reti di acqua e di elettricità esistenti. Si possono inoltre prevedere più configurazioni a seconda delle situazioni preesistenti. Senza bisogno di costosi interventi sul costruito, ogni superficie può essere temporaneamente equipaggiata con questi moduli che, terminata la necessità, possono essere ricollocati altrove. Di fronte agli spazi inutilizzati degli uffici e ai progetti che ne prevedono un riuso abitativo, una simile tipologia di modulo itinerante potrebbe offrire soluzioni immediate e su larga scala. I moduli assomigliano a funghi parassiti abbarbicati a vecchi alberi-edifici: parassiti buoni, che vorrebbero ridonare vita agli ospiti umani.
In un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a città tentacolari con edifici che faticano a riqualificarsi, l’architettura nomade si manifesta non più all’aria aperta, in aree vergini, ma negli spaziosi edifici in abbandono. Esplora i meandri della nostra civilizzazione urbana, in perfetta simbiosi con la tendenza alla scomparsa progressiva delle popolazioni rurali. Gli architetti si adattano, riproducono o ricreano il nuovo utilizzando il vecchio.
I traffici marittimi hanno ispirato, d’altra parte, architetti come l’inglese Simon Allford (n. 1961). Donare una seconda vita ai container da trasporto, immagini simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci, è l’obiettivo della sua ricerca. Secondo Allford, la modularità è ancora allo stadio iniziale: riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi. L’abitante assimila il senso della precarietà della casa e si comporta in modo diverso; vive in un’abitazione standardizzata e fabbricata interamente con procedimenti industriali, considerandola potenzialmente un’estensione di un hotel universale. Nel 2003 Allford ha concretizzato le sue idee con il progetto MoMo (Mobile Modular apartments).
Il container residenziale conosce oggi un’ampia diffusione, come dimostra il successo di altri progetti (Berselli, in Casa per tutti, 2008): la Container city (2001) dell’inglese Nicholas Lacey (n. 1963), con lo studio d’ingegneria Buro Happold; il PRO/CON (PROgram CONtainer system, 2000) dello statunitense Wes Jones (n. 1958); la Boxhome del finlandese Sami Rintala (n. 1969), un cui prototipo è stato realizzato a Oslo nel 2007.
Paradossalmente, le abitazioni realizzate in container prefabbricati accolgono già abitanti temporanei, immigrati illegali in soggiorno forzato. Gli esclusi della nomadizzazione, in attesa di essere espulsi dai ‘paradisi’ europei, vengono così alloggiati in un ‘centro di accoglienza aperto’, realizzato in container: in tal modo l’utopia delle case mobili si trasforma per loro, purtroppo, in triste realtà.
L’architetto francese Edward Grinberg (n. 1928) ha invece preferito affrontare il problema dell’alloggio prendendo in considerazione gli spostamenti terrestri, dominati nelle società occidentali dall’automobile. Volendo risolvere il conflitto permanente tra automobile e città, ha progettato, con il sociologo urbano Hénia Suchar, la Domobile, che rappresenta una sintesi tra autovettura ed edificio, nata da una diversa concezione dell’automobile (Grinberg 2000). La premessa è che il mezzo di locomozione individuale sia necessario alla vitalità della città: il veicolo-edificio permette allora di ampliare e valorizzare lo spazio pubblico, che nell’ottica precedente veniva inesorabilmente ridotto, a vantaggio della proprietà privata. La Domobile, trasformando la carrozzeria a geometria variabile, a seconda delle situazioni diventa vettura-balcone, vettura-panchina, vettura-bovindo. Le vetture possono sovrapporsi a piacere, assumendo configurazioni inattese. Alcuni tipi di Domobiles diventano vere strutture architettoniche mobili, che si integrano bene sia all’interno sia all’esterno degli edifici: in tal modo si è superato il concetto dell’abituale abitazione-roulotte come sostituto della casa.
Lo spettacolo: una sfida nomade
Nell’immaginario collettivo, il nomadismo è facilmente associato al circo, arte da fiera per eccellenza. Tuttavia va constatato che dalla fine del 18° sec. il circo fu spesso ospitato in costruzioni stabili, prima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa. Alcuni esempi significativi abbelliscono ancora le nostre città, fra cui il Cirque d’hiver (1852) a Parigi, progettato da Jacques-Ignace Hittorf (Jacob, Pourtois 2002). Lo chapiteau (il grande tendone da circo) è stato utilizzato negli Stati Uniti dalla fine del 19° sec.; i giganteschi chapiteaux americani sono poi arrivati nella nostra vecchia Europa, e hanno trovato imitatori. A poco a poco le costruzioni ostentative della borghesia sono state sostituite dai villaggi di tela.
Il circo è un’arte che in quest’inizio di 21° sec. si è radicalmente trasformata e che ha basato la sua modernità sul superamento dei confini tra le discipline artistiche. Confrontandosi con una nuova realtà, in particolare con il cambiamento fondamentale dei meccanismi di trasmissione dell’arte circense – alle dinastie familiari si stanno sovrapponendo e progressivamente sostituendo giovani formati nelle scuole e motivati dalla passione –, il circo è in piena effervescenza costruttiva. I nuovi edifici circensi comprendono tutte le antiche tipologie, dallo stabile all’effimero, da strutture che sembrano imprese high-tech, come alcune costruzioni per il Cirque du soleil a Montréal, alle realizzazioni dell’architetto francese Patrick Bouchain (n. 1945), impossibili da classificare, in cui le caratteristiche del nomadismo sono al centro del meccanismo architettonico.
Parigi ha ospitato numerosi circhi stabili fino a tutta la prima metà del 20° sec., ma la speculazione immobiliare ha poi sancito la condanna a morte per la maggior parte di essi. Trasformandosi, l’arte circense ha conquistato nuovi terreni e riconquistato peso politico. Il circo è infatti uno straordinario strumento di integrazione sociale e culturale nelle società frammentate, in via di smembramento, o che si trovano a dover affrontare il multiculturalismo. Le nuove costruzioni (soprattutto i progetti di Bouchain) sono differenti per la loro natura dagli edifici tradizionali: ai confini tra permanente ed effimero, smontabili e trasportabili, sfuggono alle classificazioni, sia per la concezione sia per i materiali impiegati.
L’Académie nationale contemporaine des arts du cirque Annie Fratellini, realizzata tra il 2001 e il 2004 a La Plaine Saint-Denis, nella banlieue di Parigi, illustra il lavoro di Bouchain e del suo associato Loïc Julienne. La Plaine – un’area industriale abbandonata tra la Porte de la Chapelle e il Grand stade de France, ai confini con le linee ferroviarie ad alta velocità a nord di Parigi – è oggetto di un programma di sviluppo urbano di circa 180.000 m2, che prevede uffici, alloggi e spazi pubblici. In passato gli ambulanti, come gli artisti del circo, erano relegati in aree degradate, fuori dai centri delle città. Con l’espansione urbana, le zone a essi destinate sono diventate aree di sviluppo: il loro lavoro, prima considerato marginale, ora favorisce infatti una serie di attività sociali nei quartieri che sono in via di trasformazione. La candidatura (poi decaduta) di Parigi a ospitare i giochi olimpici del 2012, ha portato Bouchain e Julienne a concepire a La Plaine un’installazione semifissa smontabile, cioè un edificio che, qualora sopraggiungessero misure amministrative diverse, permetterebbe rapidamente e senza clamori di lasciare libera l’area per essere ricostruito in un luogo più accogliente. Le strutture, senza fondamenta, sono posate su un parcheggio asfaltato di cui è stata mantenuta la pavimentazione: si tratta di un’autentica ‘prodezza tecnica’, tenendo conto che alcuni edifici si elevano a più di 30 m di altezza.
Il complesso degli edifici segue un criterio fondamentale, quello dell’architettura da fiera, cioè di un’architettura in piano. Ogni edificio è ‘specializzato’ – sala per spettacoli, sala prove, spazio per allenamenti, spazio per la formazione, luogo di relax – e risponde a regole diverse a seconda della sua destinazione d’uso. Il complesso copre una superficie di due ettari. Per Bouchain «la seconda idea che fa sì che un edificio appaia come costruzione da fiera ed effimera è di non raggruppare le cose, e di lasciare un vuoto tra le funzioni. Ammettiamo che si realizzino la sala e il palcoscenico in un edificio, e che gli alloggi e i sanitari non siano a essi integrati ma si trovino in una diversa costruzione; al momento del deposito dei permessi di costruzione, la regolamentazione che si applicherà a ogni edificio sarà autonoma e in rapporto alla sua destinazione d’uso specifica. Il fatto di distribuire in questo modo gli oggetti con le loro funzioni nello spazio pubblico e di collegarli con la città è proprio del sistema di fiera» (Jacob, Pourtois 2002, p. 152).
L’apparenza formale degli edifici manifesta in modo evidente le loro funzioni. Una grande hall, in parte trasparente e in parte opaca, ospita le aule per le lezioni, gli uffici amministrativi, un anfiteatro di un centinaio di posti, un foyer-galleria e un centro di documentazione. È foderata con un rivestimento a doppio strato e coperta da un’imponente struttura di recupero; vi sono inseriti i diversi ambienti, indipendenti gli uni dagli altri. Nulla maschera i materiali e le materie (il legno, il metallo, la lamiera, la tela), che si compongono in un’equilibrata scenografia. Il rivestimento esterno è completamente chiuso e dotato di estrattori d’aria per la ventilazione; questa disposizione comporta l’accumulo di uno stock d’aria che avvolge le pareti degli edifici interni, essi stessi dotati di pompe di calore aria-aria. Dietro la hall è stato collocato un centro sperimentale di preparazione fisica di tipo fisioterapico, che comprende una palestra e un’unità completa di balneoterapia. Il terzo edificio, all’ombra della ferrovia, è il centro vitale dell’Académie: tre volumi a forma di scatola costituiscono le sale prova per gli esercizi, di 14 m per 24, e 13 m di altezza. L’illuminazione naturale è assicurata da sheds (lucernai) orientati alla luce del Nord, quella degli studi dei pittori; gli spazi sono dotati di attrezzature circensi. Prima di scoprire l’ambiente principale del complesso, la sala per gli spettacoli, si intravedono i laboratori per la costruzione, quelli per la falegnameria e i depositi. Nella parte anteriore, la sala per gli spettacoli, la cui sommità supera i 28 m, ha la forma di una stella a otto punte, da cui partono le strutture portanti, in lamine incollate non piallate. La copertura, di tavole e tela, è cosparsa di catrame. Il rosso abbagliante di parte della copertura trasforma l’edificio in punto di riferimento per chi entra a Parigi, un nuovo monumento che occupa il paesaggio. La sala è un autentico inno al triangolo, figura geometrica ossessivamente presente all’infinito. L’edificio è un felice compromesso tra il tradizionale chapiteau circolare e una costruzione dalle escrescenze multiple, senza un orientamento privilegiato. Una fossa profonda 3 m è stata scavata sotto la pista. Dispositivi scenografici e visivi completano l’insieme.
La scelta dei materiali è stata dettata essenzialmente da una strategia di recupero. Le tele, più di 5500 m2, sono nuove ma leggermente difettose, motivo per cui erano state rifiutate dal committente originario prima di trovare un’utilizzazione in situ; la travatura in legno proviene in parte da una travatura canadese dimenticata dalla Prima guerra mondiale, vestigia del patrimonio industriale per la sua struttura a rondelli, precompressa da un sistema di barre interne filettate. Nonostante le imponenti dimensioni, il complesso è pronto in ogni momento a ‘levare l’ancora’.
Bouchain ha realizzato anche altre opere, tutte profondamente originali, che, non cadendo mai nella standardizzazione dei materiali o nell’omologazione delle forme, sviluppano un linguaggio dell’effimero e del nomade che trascende la fragilità, e adottano forme che nascono da una necessità artistica ispirata dal progetto del committente. L’impronta dello zoccolo di un cavallo diventa uno chapiteau per il Théatre du centaure (2001) a Marsiglia, l’albero fa nascere una voliera dalla copertura diafana per il circo Volière Dromesko (1991) a Losanna. Trovatosi a lavorare in un luogo storico tutelato come la Grande écurie du roy a Versailles, l’architetto ha creato per l’Académie du spectacle équestre (2003) una struttura nomade che non solo può scomparire in qualsiasi momento, ma abita lo spazio monumentale come se fosse un’espressione intrinseca e pura dell’architettura classica: l’architettura diventa in questo modo itinerante, e produce all’infinito nuove forme, in un repertorio che a torto si credeva limitato.
Il ‘gigantismo’ degli chapiteaux ha conosciuto un nuovo balzo in avanti con lo chapiteau del circo Phénix, creato dagli ingegneri di una ditta di Bordeaux (Voilerie du Sud-Ouest) e installato nel 2000 a Parigi. Una straordinaria ossatura di acciaio ghermisce la tela per liberare lo spazio interno, privo di sostegno verticale, in cui possono trovare posto tra le 5000 e le 6000 persone, a seconda delle configurazioni. Nonostante l’ampiezza dello spazio, grazie all’assenza di ostacoli tutti gli spettatori hanno una visibilità perfetta.
Per gli chapiteaux possono essere scelti anche altri volumi. Una ‘bolla’, per es., può mettere in rapporto diretto spettatori e acrobati: questo è il caso del circo francese Les arts sauts, dove una semisfera di plastica gonfiabile bianca larga 41 m e alta 20, creata nel 1993 dall’architetto tedesco Hans-Walter Müller (n. 1935), è ancorata a terra da alcuni cilindri riempiti d’acqua, e occupa temporaneamente il paesaggio senza violarlo, ma segnandolo con la sua forte presenza.
Ricorrere ad architetti e a ingegneri per produrre una parte del sogno diventa inoltre un atto militante da parte delle compagnie del circo contemporaneo; insieme reinventano un contesto nomade che fa un tutt’uno con gli spettacoli e con lo spirito delle compagnie.
L’oggetto museale
Gli ‘storici’ edifici smontabili, che siano o no firmati dai grandi nomi del 20° sec., sono esposti regolarmente nei musei o nelle Biennali, come il citato 6x6 di Prouvé. Diverse rispetto agli edifici abitativi trasformati in oggetto museale, le strutture nomadi declinano l’architettura come una delle arti plastiche, tentando di liberarne l’essenza. Esse permettono di fare entrare un edificio intero nel museo facilitando un approccio didattico; inoltre impongono domande sugli elementi fondanti dell’architettura, sulla morfogenesi, sull’esperienza sensoriale dovuta alla combinazione fra materiali e sulla costituzione di uno spazio nomade mis en abyme in una sala stabile.
In Francia, gli architetti Olivier Delarozière (n. 1960) e Ursula Gleeson (n. 1965) hanno formulato una proposta architettonica ispirata ai giochi con le costruzioni. Woodstacker è nato dalla scoperta di un materiale di scarto: i resti di legno di una segheria (de Maison Rouge 2006). Per associazione di idee con la tecnica di costruzione per sovrapposizione della pietra a secco, il modulo, finora inutilizzato nella carpenteria tradizionale, diviene una cupola a forma di bottiglia attraverso la messa a punto di un gioco matematico di aggetti regolato da una rigorosa formula algoritmica. Queste cupole autoportanti sono realizzate per sovrapposizioni successive di assicelle, senza chiodi né collanti. In funzione delle diverse esigenze e modificando le curve logaritmiche, si possono ottenere strutture di varie dimensioni che, malgrado l’apparente semplicità, sono frutto di precisi calcoli matematici. Il contrasto tra il materiale tradizionale e le sottili pareti a giorno rafforza l’illusione sensoriale di uno spazio che può trasformarsi, a seconda dell’immaginazione e dei progetti, in casa, scultura da abitare o sala da concerti dall’acustica particolare. I primi modelli ridotti di woodstacks sono stati esposti nel 2003 a Parigi, mentre quelli a grandezza naturale sono stati presentati per la prima volta nel 2005, durante l’esposizione Alter-architecture a Bruxelles. I woodstacks possono essere facilmente spostati, e tutti i materiali possono essere impiegati per creare un nuovo woodstack in altri luoghi, all’interno o all’esterno.
Le esposizioni universali, effimere per definizione, a volte più che favorire le sperimentazioni le legittimano. Per l’Expo 2000 di Hannover l’architetto svizzero Kurt Hofmann (n. 1944) ha progettato moduli di alloggio temporaneo costituiti da parallelepipedi prefabbricati in abete: perfettamente identici, impilabili, giustapponibili su tre livelli, i moduli sono un’ode a un materiale nomade, il legno. Estetico, leggero, trasportabile, modificabile, stagionale e riciclabile, il legno rievoca i ricordi della capanna della nostra infanzia.
Il legno, così come gli oggetti riciclati, ha affascinato anche l’artista canadese Richard Greaves (n. 1952), che ha creato le sue anarchitetture in America, trasferendosi poi in Europa (Richard Greaves, 2005). Ripercorrendo il mito della capanna e dell’autocostruzione di un luogo destinato a soddisfare i nostri bisogni primari, Greaves tesse pazientemente la sua tela fatta di nodi di corda per non ‘ferire’ il legno e per permettere alla costruzione un movimento permanente. A partire dagli anni Novanta, dopo l’incontro con il poeta e artista Berthier Guay, ha iniziato a collezionare parti di costruzioni di legno abbandonate, ‘digerendole’ metaforicamente. Asimmetria e assenza di angoli retti sono la regola; le capanne si tengono in piedi per non si sa quale incantesimo, lanciando una sfida all’imponderabilità. Nei musei dove è stato invitato a realizzare un intervento, Greaves destruttura le convenzioni spaziali e crea una costruzione onirica con nodi e cavi tesi, adornati di innumerevoli oggetti del quotidiano. Il visitatore è spinto verso l’universo di un’infanzia dove l’architettura corrisponde davvero a quella dei suoi sogni: transitoria, ma legata a un’idea di eternità, dove gli oggetti riacquistano un senso nel loro accatastarsi. Se le formule matematiche non sono percepibili, nulla in Greaves è conseguenza solo del caso, e le sue capanne e installazioni, rivendicando l’anarchitettura, nascono da una riflessione matura. Non si può affermare che l’artista lavori d’impulso, poiché le sue capanne emanano il senso dell’opera studiata. Le sue opere rimettono in discussione i bisogni, fanno intravedere che anche negli accampamenti nomadi alle porte delle nostre città, l’architettura, il sogno del proprio luogo di vita, è possibile, sicuramente non assente. Si possono guardare in modo completamente diverso le architetture che, come quelle di Greaves, sono naturalmente in osmosi con il luogo in cui si trovano; il carattere effimero e trasportabile dei materiali serviti a edificarle le rende forse più rispettose dell’ambiente, meno aggressive, più adatte alla decostruzione per le contingenze climatiche e temporali.
Come rileva Boris Eizykman, l’anarchitettura fa proliferare forme e spazi; è plurale e non può essere oggetto di una riduzione teorica: si possono solo percepire impressioni istintive all’interno o all’esterno di queste case-desiderio, impressioni che non sono mai generalizzabili, ma al contrario tutte molto particolari; ci si trova qui fuori sistema, all’interno di singolarità (Mosaïques 5, «Fiction», 1976, 271, pp. 205-20). L’alternativa artistica si trasforma in alternativa sociale, muta l’opposizione tra nomade e sedentario, tra costruzione perenne e costruzione chiaramente denunciata come distruttibile. Le costruzioni non sono altro che temporanee ma, come dichiara Greaves, «volevo sfidare la morte sul mio terreno. Lo faccio perché voglio trionfare sulla morte» (Richard Greaves, 2005, p. 58).
Lontane invece sia dall’anarchitettura di Greaves sia dall’autocostruzione con materiali di recupero, le cupole geodesiche hanno esercitato, a partire da Fuller in poi, una sorta di fascinazione nei riguardi di artisti e architetti. Il tipo di procedimento costruttivo può conferire loro un carattere nomade.
Gli architetti Finn Geipel (n. 1958) e Giulia Andi (n. 1972), titolari dello studio franco-tedesco LIN, nel 2007 hanno impiegato un radome (una cupola geodesica ideata per ospitare i radar) per il loro progetto Alvéole 14 a Saint-Nazaire, sulla costa atlantica della Francia (Pourtois 2008). La cupola ha avuto una prima vita (2004) all’aeroporto Tempelhof di Berlino, dove ospitava il radar della NATO destinato a sorvegliare i cieli dell’Europa orientale; avrebbe terminato lì la sua carriera se i due architetti non l’avessero trovata sul loro cammino. Alla ricerca di una soluzione conforme alle linee guida del loro progetto per la ex base per sottomarini di Saint-Nazaire, una colossale massa di cemento da trasformare in centro d’arte (LIFE, Lieu International des Formes Emergentes), Geipel e Andi hanno ottenuto in regalo dal Ministero della difesa tedesco la cupola, che è stata trasportata da Berlino alla nuova destinazione. Struttura fragile e complessa, si è trasformata in un segno, in un faro sul mostro di cemento, simbolo della profonda conflittualità tra il nomade e il più che sedentario cemento armato, reputato fino a oggi indistruttibile. Gli architetti hanno forato la robusta copertura del tetto e collocato nell’apertura così ricavata una scala piranesiana che dà accesso alla cupola; questa sembra fare corpo unico con l’edificio che la ospita.
Geipel e Andi avevano già esplorato altre costruzioni nomadi con il progetto BSY (Berlin Syn chron, 2005) per la Neue Nationalgalerie di Berlino. Il musicista tedesco Carsten Nicolai desiderava per la sua opera Syn chron (2004) un ambiente ‘sensibile’, in cui immagine e suono reagissero in rapporto all’involucro intermediario. Gli architetti hanno ideato una struttura smontabile e trasportabile: un ‘cristallo’ vuoto e asimmetrico di 3 m×5 m×7 m, in cui il visitatore-spettatore, entrando, vede muoversi sulle superfici fasci di luce colorata generati elettronicamente dalle modulazioni delle note musicali che sta ascoltando.
L’artista francese Loris Gréaud (n. 1979) nel 2008 ha ‘investito’ con un’opera mutante e interdisciplinare l’intero Palais de Tokyo a Parigi. Questo era stato rinnovato e ripensato (2001) dagli architetti Anne Lacaton (n. 1955) e Jean Philippe Vassal (n. 1954). Appassionato di architettura e di meccanica quantistica, Gréaud elabora macchine empiriche; con gli architetti Marc Dölger (n. 1967) e Damien Ziakovic (n. 1969) ha fondato nel 2004 lo studio di produzione multidisciplinare, DGZ Research, nella prospettiva di occuparsi della progettazione, dell’architettura e della messa in opera dell’esposizione Cellar door, espressione di un’architettura neuronale totale. Il centro dell’esposizione è riservato a una strana costruzione, il Merzball, campo da gioco dall’architettura ‘sfaccettata’ e a grata. Si tratta, come in un gioco di specchi, di un’architettura nell’architettura dell’esposizione, racchiusa a sua volta nell’architettura del Palais: per il visitatore-attore il gioco di costruzioni e di accostamenti può riprodursi all’infinito. Il nome si riferisce a un illustre predecessore nomade, il Merzbau creato dall’artista tedesco Kurt Schwitters, negli anni 1920-1936, nel suo appartamento di Hannover. Il Merzball è destinato a diventare terreno di confronto per quattro giocatori professionisti, che potranno ritmare l’esposizione con palle da paintball riempite con il colore IKB (International Klein Blue, inventato dall’artista francese Yves Klein nel 1958) o con l’M46, inventato da Gréaud con riferimento all’omonimo ammasso stellare.
Il Palais de Tokyo, dalla facciata esterna maestosa e arrogante, è diventato un luogo privilegiato del nomadismo, poiché la sua copertura ha accolto nel 2007-08 una sorta di escrescenza, una scatola panoramica mobile: l’Hôtel Everland. Si tratta di un’opera d’arte-architettura che immette lo spettatore in una situazione reale. Il visitatore occupa l’unica stanza e la splendida lounge come se passasse una notte in un hotel dove le regole di utilizzazione siano state decise dagli artisti. Il modulo architettonico riesce a far sognare la realtà, vivendola per un istante unico. Nulla è stato lasciato al caso in questo condensato di hotel, che realizza pienamente i suoi obiettivi solo grazie al suo ospite. Gli artisti sono arrivati fino al punto di prevedere la cleptomania alberghiera dell’ospite, provocata dagli asciugamani finemente ricamati. L’Hôtel Everland è stato ideato dagli artisti svizzeri Sabina Lang (n. 1972) e Daniel Baumann (n. 1967), e costruito da una équipe di artigiani di Burgdorf, in Germania. In origine era stato concepito e progettato per Swiss Expo (2002, a Yverdon sul lago di Neuchâtel); prima di arrivare a Parigi era stato installato anche sulla sommità della Galerie für Zeitgenössische Kunst di Lipsia (2006-07).
L’Hôtel Everland appartiene alla categoria in continuo sviluppo degli edifici parassiti, escrescenze destinate a far mutare impercettibilmente gli edifici ospiti; altri esempi sono il Clip on (1997) dello studio nederlandese Atelier van Lieshout, la Rucksuck house (2005) dell’artista tedesco Stefan Eberstadt, o la casa sugli alberi Treehouse Plendelhof della ditta tedesca Baum Raum (Berselli in Casa per tutti, 2008) o a Pechino la Hutong bubble 32 (2009) dell’architetto cinese Ma Yansong (n. 1974) e del suo studio MAD (Heart-made, 2009).
I padiglioni rappresentano una sfida costante per molti artisti contemporanei. Trovano posto nelle sale interne o in prossimità dei musei; essendo costruzioni itineranti, spesso devono conciliare esigenze contraddittorie. Molto lontani dai giochi formali gratuiti, diventano per l’artista uno strumento espressivo, limitato dall’edificio, uno spazio definito, al cui interno si deve produrre un rituale artistico. Per l’installazione Blue red and yellow, presentata prima a Berlino alla Neue Nationalgalerie (2002) e in seguito a Bruxelles al CIVA (Centre International pour la Ville, l’Architecture et le paysage), l’artista belga Ann Veronica Janssens (n. 1956) ha ideato una scatola sensoriale che rivela un’altra dimensione al visitatore, invitato a entrare in un mondo dove i colori prendono consistenza e diventano architettura. In un’astrazione trasformata in realtà tangibile, il visitatore acquista una diversa coscienza della propria corporeità. L’opera sollecita l’immaginario con la sua volumetria, semplice ma misteriosa: ci si potrebbe chiedere quale sia la rivelazione che nasconde in sé. La scatola è un parallelepipedo dalle pareti traslucide, coperte da proiezioni filmiche colorate (blu, gialle e rosse): le propor-zioni armoniose (9 m×4,5 m×3,5 m) le conferiscono un carattere ambiguo, tra scultura e costruzione, tra dipendenza e indipendenza rispetto al volume dell’edificio principale della Neue Nationalgalerie, progettato da Mies van Der Rohe (1962-1968). Il titolo dell’opera di Janssens fa riferimento, non senza ironia, al monumentale quadro Who’s afraid of red, yellow and blue? (1966) del pittore statunitense Barnett Newman, esposto al pianterreno della galleria. Questo riferimento originale perde forza quando l’opera di Janssens è trasportata in altri luoghi di esposizione.
Contrariamente al padiglione ideato da Janssens, il volume progettato dall’artista Richard Venlet (n. 1964; benché australiano, lavora in Belgio) per il centro culturale De Singel ad Anversa è il contenitore ideale: volutamente limitato a 35 m3, si presenta come un monolite, nero all’esterno e bianco all’interno, e ha dato il nome 35 m3 alle successive esposizioni che vi si sono svolte, sui lavori eseguiti da studi di giovani architetti selezionati dal Vlaams Architektuur Instituut. Venlet aveva progettato nel 2002 un primo contenitore destinato alla Biennale di San Paolo in Brasile, intitolato Curating the library: il volume, coperto di specchi, con un interno neutro, diventava un auditorium in miniatura per accogliere oratori invitati a comprare e a discutere di libri. Il progetto ha trovato nel 2003 un punto di approdo nell’immensa hall del centro De Singel, dove fa da pendant all’altra struttura progettata dallo stesso artista.
Architettura nell’architettura, che ospita architettura: il gioco di rimandi alle identità reciproche è senza fine. Visto che l’elenco dei progetti di tale natura è lungo, come spiegare questa frenesia costruttiva di edifici negli edifici, di contenitori nei contenitori? La condizione dell’architettura, specie quella museale, è rimessa in discussione dai progetti di artisti che non sono soddisfatti della collocazione delle loro opere e aspirano a un altro ordine dell’universo, a uno spazio che non sia limitato fisicamente e spiritualmente.
Nel 1958 le conseguenze della Seconda guerra mondiale cominciavano ad attenuarsi, gli indicatori economici segnavano la ripresa, iniziava un’era di consumi. L’esposizione universale di Bruxelles consacrava una rappresentazione felice del mondo, prima dei soprassalti e delle inquietudini dei decenni successivi: l’Atomium è l’ultimo rappresentante di un’epoca passata. Cinquant’anni dopo (2008), le celebrazioni commemorative hanno offerto una tribuna effimera agli architetti dello studio belga V+ (Vers plus de bien-être). Essi hanno scelto come materiale preferito la cassetta di birra: unendo 33.000 di questi contenitori all’interno di un gigantesco gioco di costruzioni, hanno riscoperto un sogno collettivo. Il provvisorio Pavillon du bonheur rivela pienamente la sua natura temporanea e riciclabile: l’altezza interna, degna di una cattedrale, annichilisce il visitatore con la sua intensa fonte di luce, data dall’abile disposizione e dalla perforazione delle cassette. La povertà del materiale passa in secondo piano sotto le volte di un nuovo ordine, se ne dimentica la trivialità: le cassette di birra, oggetti nomadi, ironici vicini del simbolo della civiltà atomica, si sono viste concedere un inaspettato prestigio.
Prendendo in considerazione i materiali da costruzione più rudimentali e più arcaici dell’architettura nomade, Lucy Orta (n. 1966) – artista inglese che collabora regolarmente con Geipel e Andi – lavora allo stesso tempo sulle fibre tessili e sulle relazioni tra gli esseri umani. Orta agisce nel campo della sopravvivenza, dove la funzione artistica è parte non del superfluo ma dell’indispensabile. Le sue ricerche sulle fibre sperimentali l’hanno gradualmente portata a ideare una sorta di armatura, un’architettura corporale in cui l’abito diventa architettura ridotta alla più semplice espressione spaziale: protezione e legame con la collettività, serve da ultimo rifugio, da unica abitazione per quelli che non possono accedere ad alcun altro tipo di alloggio. Queste persone sono il segno precursore della recente trasformazione indotta nelle nostre società: secondo l’urbanista Paul Virilio, attraverso i suoi abiti collettivi, questa artista indica il ritorno degli uomini alla muta. Proprio quando ci viene detto che gli uomini sono liberi, emancipati, iperautonomi, lei al contrario afferma che c’è una minaccia e che di nuovo ci si raggruppa in gangs, tribù, commandos (Ph. Piguet, J. Sans, P. Virilio, J.-M. Ribettes, Lucy Orta: refuge wear, 1996). I suoi cosiddetti abiti-rifugio (refuge wears), profondamente nomadi, creano una rete di sopravvivenza in un ambiente ostile. Ci si ricorderà delle guaine e delle fodere delle case francesi nel Secondo impero, metonimia dell’appartamento, ‘involucro dell’individuo’ per Walter Benjamin, che denunciava questa mania. I flâneurs di un’altra epoca scoprono i nuovi ‘gusci’ di Orta.
L’economia del risparmio risulta totale nei vestiti-habitat di questa artista, che sono adatti a ogni tipo di attività urbana e nello stesso tempo isolano dai fenomeni meteorologici, assicurando a ognuno il proprio clima interno. Arriverà il giorno in cui potremo fare a meno dei materiali da costruzione, profetizzava nel 1962 Frei Otto (Imagination et architecture. Essai d’une vision d’avenir, «L’architecture d’aujourd’hui», 102, pp. 89-93): Orta ci aiuta a intravedere quel giorno.
L’opzione più radicale del nomadismo architettonico ci arriva grazie alle nanotecnologie. L’ultimo stadio del corpo trasformato in architettura può realizzarsi con le pelli abitabili, i ‘nanodermi’, futuro paradigma dell’abitazione umana creatrice: l’inserimento nel paesaggio di una pelle nomade, abitabile e cambiabile, corrisponde a un mito che può diventare realtà. Non si tenta più di vincere il clima, di lottare contro le forze della natura, ma di creare un clima interno che deve tutto a una tecnologia visivamente discreta e che viaggia senza limiti territoriali. In tal modo spariranno tutte le megastrutture, gli involucri, le bolle, le costruzioni. La visione dell’assenza di qualsiasi traccia architettonica corrisponde all’Eden ritrovato, dove l’uomo sarà necessariamente nomade.
L’acqua è inafferrabile; e cosa esiste di più nomade dell’‘architettura liquida’? Quest’ultima comporta la nozione di cyberspazio, e offre all’architettura lo spazio del sogno, che la libererà dai suoi legami con il suolo, come (ironizzava Fuller) gli impianti idraulici. L’architettura liquida giunge fino alla smaterializzazione, poiché è basata su relazioni tra elementi astratti, e l’effimero è il suo destino. L’architetto non concepisce più un singolo edificio, ma definisce i principi che daranno origine a una serie infinita. Agli antipodi della sedentarietà, l’architettura liquida si muove con la velocità del pensiero immateriale. Al di fuori del principio di continuità tradizionale, il cyberspazio permette a ogni schema di diventare opera architettonica: è architettura che contiene architettura. L’architettura non è nomade solo per il cambiamento di luogo a cui può essere sottoposta: è nomade nella sua forma, spazialmente e temporalmente (M. Novak, Liquid architectures in cyberspace, in Cyberspace. First steps, ed. M. Benedikt, 1991, pp. 225-54).
Un’architettura per l’ipernomade
Per Attali, l’ipernomade è il nuovo individuo che progressivamente dominerà il mondo policentrico del futuro. Il nomade portava il peso di un’immagine carica di pregiudizi in società che attribuivano importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali, compresi gli stili architettonici propri di ogni Paese d’origine. Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite per la quale il mondo è un villaggio dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze. Queste esigenze si riducono prevalentemente al modello dominante, cioè alle molteplici variazioni dell’architettura occidentale, dal postmodernismo alle creazioni high-tech più minimaliste. I modelli che gli ‘architetti-star’ e i ‘designer-star’ diffondono ai quattro punti cardinali sono il riflesso dell’appartenenza identitaria della società dell’informazione globalizzata. Gli esempi sono così pregnanti che a New York, a Las Vegas, in un villaggio svizzero o in un emirato arabo non ci si stupirà di trovare gli stessi autori, che rispondono, da soli o in gruppo, a una domanda omologata. L’immagine prevale sul messaggio, l’apparenza domina il contenuto che le rappresentazioni standardizzate veicolano, confondendo con disinvoltura prossimità e globalità all’interno di un repertorio di pratiche architettoniche più o meno valide. Repertorio, in quanto troppo spesso i progetti si riducono a un’indigesta ripetizione.
Non si evocheranno qui gli innumerevoli complessi edilizi che da Kiev al Bahrein, in una folle speculazione immobiliare, incarnano un ’gigantismo’ di cattiva maniera, nel quale si confondono lusso dei materiali, sovrabbondanza formale e qualità architettonica. Per fortuna non si tratta di mettere tutti i protagonisti dell’architettura mondiale sullo stesso piano, e tutti i progetti edilizi globalizzati nella stessa categoria di povertà architettonica. Al contrario, appartenere a un modello dominante non significa necessariamente assenza di qualità oppure mediocrità estetica. L’uomo il cui nomadismo è legalmente autorizzato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla tremenda condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo che comincia a diventare troppo piccolo per lui. Nonostante questo, è comunque ancora lontano dal vivere in un’architettura immateriale.
L’avvenire dell’architettura
La sedentarietà sembra essere, come accennato, una parentesi nell’arco temporale dell’esistenza umana: poco a poco l’uomo ridiventa nomade. L’urbanizzazione crescente testimonia il cambiamento fondamentale vissuto all’alba di questo nuovo secolo. La globalizzazione è la reinvenzione del nomadismo: un nomadismo di altro genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Il mondo deve affrontare un dilemma fondamentale: la Terra, che è in stato di osservazione permanente attraverso i satelliti, e sulla cui superficie la minima costruzione è individuata in tempo reale, è lacerata tra la chiusura delle frontiere dei territori ambiti e l’idea di poter, se non addirittura di dover, viaggiare senza sosta e senza limiti. Viviamo in quell’autentica mitologia della mobilità, soprattutto geografica, che accompagna inevitabilmente la nozione di globalizzazione. Le migrazioni riguardano tutti i gruppi umani, sia coloro che sono alla ricerca della sopravvivenza sia i rappresentanti delle multinazionali: il nomadismo non ha mai avuto tanto successo.
L’uomo nomade deve pur sempre proteggersi dai rigori del clima o da un ambiente ostile, deve preservare la sua intimità all’interno del gruppo. L’individuo che abita uno spazio determina tuttavia le relazioni all’interno di questo stesso spazio, come ricorda Gottfried Semper (C. Asman, Ornement et mouvement, la science et les arts dans la théorie de l’ornement de Gottfried Semper, in Herzog & de Meuron. Histoire naturelle, éd. Ph. Ursprung, 2002, p. 402). Egli crea dunque oggetti architettonici in città ‘generiche’ (S, M, L, XL: O.M.A., Rem Koolhaas and Bruce Mau, ed. J. Sigler, H. Werlemann 1995) che non presentano un’identità particolare, città colpite da amnesia, che si espandono inesorabilmente. Se, come fa Andrea Branzi (2006), si considera l’architettura al pari di una categoria intermedia di organizzazione, forse siamo arrivati a uno stadio che ha superato l’architettura, in una città senza fine fondata su uno schema ripetitivo, dai centri multipli. Il territorio nomade non ci offre più una gerarchizzazione degli oggetti: essi sono accatastati, accumulati su una superficie i cui confini rimangono fluidi. La struttura aperta auspicata da Branzi e il momento ultimo in cui l’uomo arriva a liberarsi dall’architettura come struttura formale, sono inseparabili dal concetto contemporaneo di nomadismo; questo è un elemento che permette di avanzare oltre «i limiti della modernità e della sua paura di andare verso l’impensato e l’inabitabile, categorie ancora definite sulla base di un’idea del tutto tradizionale del rapporto organico tra le differenti parti del progetto: programmare, costruire, arredare» (p. 155). Le espressioni e le apparenze del nomadismo in architettura sono proteiformi, complesse e a volte antagoniste.
Il nomadismo si definisce come una modalità di popolamento. All’origine era associato alla ricerca di pascoli, allo spostamento degli animali; nel nostro mondo globale questi bisogni sono spariti, ma l’uomo li ha riscoperti sotto la spinta della necessità. A mano a mano che nella nostra società segmentata riappare un’organizzazione di tipo tribale, i valori tradizionali dell’architettura si frammentano. Il popolamento, sia negli spazi interstiziali delle città sia negli orizzonti infiniti del cyberspazio, si distribuisce secondo una ripartizione che tenta di sfuggire a ogni ‘territorializzazione’ dello Stato, a ogni definizione spaziale. L’architettura è soggetta a un errare senza meta: abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura istantanea.
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