Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La città sovietica, fenomeno straordinariamente aperto e poco studiato, è il frutto di diverse congiunture politiche ed economiche quanto di idee e teorie urbanistiche e sociali: dalla straordinaria ricchezza del dibattito degli anni Venti al laboratorio di Mosca come grande modello urbanistico e strutturale di città, sino alla standardizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta.
Un fenomeno da studiare
Vi sono pochi capitoli della storia dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea ancora così incerti e “aperti” come quello che riguarda la genesi e lo sviluppo della costruzione della cosiddetta “città sovietica”. Se da una parte è possibile sintetizzare in maniera molto netta le sue fasi di sviluppo, i suoi principali capitoli e i suoi confini temporali, sembra dall’altra sempre più complesso delineare le nette correlazioni tra le strategie dello stato sovietico, le trasformazioni sociali ed economiche che hanno caratterizzato l’intera storia dell’Unione Sovietica e le caratteristiche della sua cultura architettonica, artistica e urbanistica. La recente apertura e accessibilità degli archivi e l’allargamento degli interessi da parte degli studiosi verso nuove tematiche hanno permesso negli ultimi 15 anni di indirizzare lo sguardo verso nuovi protagonisti di questa tutt’altro che lineare vicenda e di ribaltare, in alcuni casi, le letture svolte nel passato. La ricerca storiografica sta iniziando a descrivere l’effettiva portata storica dei singoli avvenimenti e rivelare le complessità e le sfaccettature delle solo in parte “evidenti” vicende architettoniche e urbanistiche, alcune delle quali frettolosamente interpretate e classificate, altre sopravvalutate, altre ancora praticamente ignorate.
Ciò che emerge in particolare dagli studi è la discontinuità delle politiche sovietiche nella gestione e nell’organizzazione dell’economia e della società che si manifestano, tra gli anni del “comunismo di guerra”, in seguito alla rivoluzione d’ottobre e la svolta chrusceviana nei tardi anni Cinquanta, con il susseguirsi di piani economici e con le pjatiletke (“piani quinquennali”), strumenti esclusivi dell’intervento statale sull’assetto territoriale e urbano. I piani si caratterizzano per una costante ridefinizione di strategie e per contraddizioni nel passaggio tra una fase e l’altra. Dal disomogeneo quadro politico nel corso dei vari decenni emerge una periodizzazione delle differenti valenze politiche e strategiche che il regime conferisce al territorio e alle città.
Condizionati da differenti politiche di industrializzazione, da ondate migratorie e da una disastrata condizione sociale, i piani si caratterizzano per una risposta non sempre globale e predefinita ai crescenti problemi demografici delle città. Tutto ciò tende a smontare definitivamente la visione unitaria e totalizzante che la storiografia classica ha visto nelle iniziative edilizie e propagandistiche del regime nel corso dello stalinismo e pone interessanti quesiti sulla gigantesca – e probabilmente unica nel panorama internazionale – operazione di riassetto urbano che il regime opera sulle città, e in particolare sulla capitale, in quanto modello e manifesto del nuovo ordine politico e sociale.
Bisogna sottolineare che l’osservazione delle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato Mosca risulta fondamentale, seppure non esaustiva, per comprendere la dimensione e la centralità del discorso urbanistico sulla autorappresentazione dello Stato.
Gli anni Venti
Gli anni Venti corrispondono al fiorire delle avanguardie artistiche e architettoniche e a un vivacissimo dibattito in tutti i campi della produzione intellettuale, da quello musicale, letterario, teatrale a quello architettonico e artistico. Queste esperienze hanno in realtà origine nel fervidissimo ambiente culturale che precede la rivoluzione, sostenuto dal singolare mecenatismo del tardo capitalismo di epoca zarista, e attento e sensibile ai principali sviluppi delle ricerche europee in tutte le discipline. È questa vivacità a confermare quella centralità culturale, già emersa agli inizi del secolo, di Mosca e Pietroburgo. L’intero decennio è caratterizzato da una straordinaria produzione di ricerche teoriche e formali, pluralità di indirizzi e campi di ricerca, con divisioni spesso estreme tra i vari filoni (costruttivisti, razionalisti, produttivisti…). Allo stesso tempo l’Unione Sovietica subisce imponenti trasformazioni sociali che provocano una crescente urbanizzazione a partire dai primi anni dopo la guerra, e attraversa problemi abitativi e igienici, sullo sfondo di una pressocché totale concentrazione delle energie statali sull’industrializzazione del Paese. La presenza decisionale dello stato sulla pianificazione urbana è, confrontata con la svolta del decennio successivo, ancora del tutto frammentata. Il potere, non ancora completamente centralizzato, è diviso tra municipalità, istituzioni regionali, sindacati, stabilimenti industriali nascenti, e affronta problemi emergenti di riorganizzazione dell’economia. I principali interventi sulla città sono promossi e gestiti dalle singole istituzioni e non hanno alcuna ambizione pianificatoria a scala urbana. La maggior parte dei capolavori dell’architettura moderna sovietica, considerati tra i più importanti nel panorama internazionale, sono da ascrivere a tali isolate politiche e corrispondono principalmente ad attrezzature collettive che vengono collocate all’interno dei nascenti quartieri operai: tra questi spiccano i celebri club operai, tra i quali ricordiamo il club Zuev dell’architetto Il’ja Golosov, i club Ruzakov (1927-1929), Kavčuk (1927-1929), Burevestnik (1929-1930) di Konstantin Mel’nikov; le case “comuni” – Dom Narkomfina (1928-1930) di Mojsej Ginzburg e la Casa comune per studenti (1929-1930) di Ivan Nikolajev; le sedi di istituzioni – quella del quotidiano “Izvestija” (1925-1927) dell’architetto Grigorij B. Barchin, del Centrosojuz (1929-1936), organo centrale delle cooperative, affidato dopo un’esperienza concorsuale a Le Corbusier.
Centralizzare: il piano di ricostruzione di Mosca
Negli anni del primo e del secondo piano quinquennale (1928-1936), nei quali si promuove su scale gigantesche e con modalità inusitate il processo di collettivizzazione e industrializzazione, la popolazione delle città aumenta complessivamente di 30 milioni di abitanti (Mosca passa da uno a due milioni). Sullo sfondo di un dibattito politico disomogeneo, con idee di riorganizzazione dell’assetto economico e produttivo spesso del tutto opposte, tra volontà di centralizzazione, disurbanizzazione o zonizzazione e gerarchizzazione delle parti di città, si sviluppano numerosi studi sull’assetto urbano da parte dei più importanti architetti-urbanisti, non solo sovietici (si ricordano principalmente i piani per l’area moscovita di Ohitovic e Ginzburg, Ladovskij, gli studi di Le Corbusier, Hannes Meyer o Ernst May, o il celebre concorso per la pianificazione di Magnitogorsk, la nuova città collettiva per 80 mila abitanti). Nonostante la ricchezza e lo spessore del dibattito, nessuno di questi piani verrà promosso a livello istituzionale. La loro “inconsistenza” storica non va tuttavia ascritta esclusivamente a illusioni o visioni “radicali” e ideologiche dell’organizzazione territoriale, ma anche a una grande incertezza circa le effettive conseguenze degli sviluppi delle pjatiletke, come a un progressivo mutamento delle politiche di controllo della società da parte del regime, passato dalla generale proletarizzazione (cosiddetto livellamento sociale, uravnilovka) a una drastica differenziazione della popolazione, passando da intenti distributivi egalitari a forme di classismo sociale.
Il momento cruciale per il riassetto urbano della capitale corrisponde all’ascesa politica ai vertici del partito di Lazar Kaganovic nel 1931. Kaganovic – il quale vanta tra i suoi più stretti collaboratori Nikolaj Chruscev – opera una progressiva centralizzazione della gestione e del controllo sul territorio metropolitano e delinea, attraverso il suo celebre documento Sull’economia urbana di Mosca, un programma politico per la riqualificazione della città che deve far fronte al crescente stato di degrado urbano e sociale, ormai di dimensioni catastrofiche. Oltre a stabilire la centralità delle competenze del partito sulle questioni urbane, il merito di Kaganovic è quello di definire l’esclusività programmatica e simbolica che la capitale deve assumere sia nel panorama nazionale che internazionale e, soprattutto, predisporre una struttura tecnica e gestionale in grado di realizzare gli obiettivi stilati dalle direttive del regime entro i tempi scanditi dalle pjatiletke, in stretto contatto con i vertici del partito. Il Piano di ricostruzione della città di Mosca redatto tra il 1932 e il 1935 da un gruppo di illustri progettisti sotto la direzione di Vladimir Semenov è non solo il primo imponente risultato del nuovo corso politico ma diventa anche il modello-laboratorio di intervento estensibile all’intera scala nazionale, una sorta di definitiva concretizzazione dell’“utopia” socialista in forma di spazio urbano. Il piano di Semenov, frutto di un ricchissimo dibattito disciplinare svoltosi sulle basi di un’attenta rielaborazione delle grandi esperienze di pianificazione occidentale e di un notevole coinvolgimento intellettuale dell’intera cultura architettonica nazionale, assume proporzioni e intenti inusitati nella storia dell’urbanistica.
Le principali direttive del piano sono: la conferma della struttura storica anulare-concentrica di Mosca (e il suo rafforzamento attraverso demolizioni e smembramenti) e la costruzione di nuovi ampi assi viari; la zonizzazione delle aree produttive e residenziali, le ultime in particolare nelle zone considerate più salubri della città e con una precisa gerarchizzazione delle aree abitative conferite ai diversi strati sociali; la realizzazione di un anello di collegamento tra i principali parchi urbani; la pianificazione dell’espansione sud-occidentale con la collocazione del complesso universitario come elemento generativo sulle aree delle colline di Lenin; e soprattutto la predisposizione di un sistema di interventi puntuali emblematici (nel centro storico, sugli incroci tra le principali direttrici), da realizzarsi all’interno di scadenze temporali coincidenti con i piani quinquennali e con precisi volumi e modalità, con l’obiettivo di conformare una continuità spaziale-architettonica lungo l’intera trama metropolitana. All’interno di un quadro politico che rinuncia definitivamente alla pretesa di affrontare globalmente il problema demografico e i processi sociali, il nuovo piano promuove interventi di “abbellimento” puntuali e lineari lungo i principali assi, nascondendo e senza intaccare il territorio degli insediamenti di baracche e costruzioni abusive occupate dalla maggioranza della popolazione.
È proprio all’interno di tali ipotesi di sviluppo urbano che si svolgono i principali fenomeni concorsuali nella capitale, come il concorso per il Palazzo dei Soviet (1934, vinto da Boris Iofan) sull’area dell’appena demolita chiesa del Cristo Salvatore di Konstantin Thon, e il concorso per la sede del ministero dell’Industria pesante (1935), pensato per essere realizzato sul lotto occupato dai celebri magazzini ottocenteschi Gum sulla Piazza Rossa, prospiciente le mura del Cremlino e il mausoleo di Lenin. Un quadro architettonico-urbanistico che definisce, insieme ai grandi interventi di smembramento dell’area del centro storico e i complessi delle preesistenze storiche, un vero e proprio foro urbano socialista di dimensioni imponenti che, seppur rimasto in parte su carta, rappresenta in maniera emblematica ciò che il piano ha promosso e realizzato a scala urbana.
Ancora più sorprendenti sono le contemporanee vicende legate alla costruzione della metropolitana di Mosca (la prima linea viene inaugurata nel 1935) che investono, sia dal punto di vista economico che umano, risorse talmente ingenti (anche se ancora incalcolabili) da essere difficilmente comparabili con altri cantieri della capitale. La rete metropolitana diventa il vero modello sotterraneo della grande trasformazione della città socialista: funge da collegamento tra i nascenti nodi urbani sottoposti alla rigenerazione architettonica e simbolica. Con la forte caratterizzazione architettonica dei suoi spazi, affidati ai principali studi di progettazione dell’epoca, la metropolitana diventa un eterogeneo paesaggio che prefigura al suo interno, insieme all’iconografia pittorica e scultorea del socialismo realizzato, un’immagine urbana, e rende concettualmente continuo il passaggio dal sottosuolo alla città. Inoltre, gli edifici che segnalano gli ingressi alla metropolitana (che non sono solo di transito ma veri dispositivi per una vita sotterranea) partecipano al disegno dei nuovi spazi urbani e in alcuni casi rappresentano l’esclusiva emergenza di caratterizzazione urbana.
La ricostruzione e l’omologazione
Le devastanti distruzioni che la seconda guerra mondiale infligge alle città dell’URSS condizionano interamente il dibattito professionale sul tema delle modalità della ricostruzione. Il nuovo piano di Mosca, redatto tra il 1949 e il 1951 dal gruppo coordinato da Dmitrij Čečulin, conferma sostanzialmente il piano del 1935, e ne rafforza gli intenti spaziali e simbolici, in particolar modo sugli assi di accesso al centro storico. Alla trasformazione morfologica operata dal piano di Semenov viene imposta anche la trasformazione paesaggistica dello skyline della metropoli: vengono individuate otto aree sulle quali costruire altrettanti grattacieli-complessi urbani (ne verranno realizzati sette) che sormontino il sistema delle storiche emergenze ecclesiastiche e conventuali. Il più imponente di questi è certamente il complesso dell’università statale Lemonosov progettato dal gruppo di architetti sotto la direzione di Rudnev tra il 1949 e il 1953. Altri importanti complessi urbani verranno costruiti nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta; alcuni di questi, come il parco dell’Esposizione pansovietica dell’agricoltura (VDNKh), celebrano fino agli estremi la retorica figurativa del regime.
La morte di Stalin e la svolta operata da Nikita Chruscev a livello politico avrà decisive ripercussioni anche sulle vicende architettoniche e urbanistiche dell’Unione Sovietica. Dall’iniziale denuncia degli sprechi delle risorse statali e degli eccessi monumentali nel disegno dei complessi urbani si passa alla drastica e rinnovata valutazione delle energie e delle priorità statali sulle città. La centralità degli interventi si sposta verso la creazione di uno standard abitativo di massa, trasformando il processo progettuale da un sistema qualitativo, artigianale e sostanzialmente esclusivo (caratteristico del ventennio precedente) alla tipizzazione edilizia e all’industrializzazione dell’intero processo produttivo e costruttivo. Si passa così alla semplificazione formale dei nuovi quartieri e all’eliminazione di qualsiasi sistema decorativo (il primo, emblematico, è il quartiere Novij Ceremuski, 1956-1957) con la creazione dei quartieri delle khruscevki – così comunemente chiamate dalla popolazione –, edifici prefabbricati a più piani, coperti da tetti a doppia falda, che da lì a poco si moltiplicheranno modificando e dominando le periferie sovietiche. Questa ridefinizione delle forme organizzative della progettazione architettonica modificherà drasticamente anche il rapporto storico tra architettura e ingegneria cancellando completamente i diversi decenni di fertile dibattito disciplinare.