Architettura
di Leonardo Benevolo
Architettura
sommario: 1. Le origini della nuova architettura. 2. La formazione di un movimento unitario. 3. Le esperienze dal primo dopoguerra ad oggi. a) I vent'anni fra le due guerre mondiali. b) I primi vent'anni dopo la seconda guerra mondiale. c) Il nuovo corso degli avvenimenti nell'ultimo decennio. □ Bibliografia.
1. Le origini della nuova architettura
L'architettura è uno dei campi in cui avviene, fra il sec. XIX e il XX, un cambiamento più radicale, e dove l'originalità della nostra condizione storica, rispetto a quella dei secoli precedenti, viene in luce più chiaramente.
Quel che cambia non è il genere di architettura, ma la definizione dell'architettura, quindi anche i rapporti e i confini dell'architettura con gli altri campi del lavoro umano. Perciò il cambiamento si ripercuote fuori dai confini dell'architettura - i confini vecchi e i confini nuovi - e diventa il segno di una trasformazione più generale del modo di pensare e di operare: una componente di un nuovo equilibrio di valori, che si realizza sotto i nostri occhi e che non ha ancora finito di produrre tutte le sue conseguenze.
Il movimento per la nuova architettura comincia con una definizione in piena regola: quella famosa enunciata da William Morris in una conferenza alla London Institution del 10 marzo 1881: ‟Il mio concetto di architettura è nell'unione e nella collaborazione delle arti, in modo che ogni cosa sia subordinata alle altre e con esse in armonia, e quando stasera userò tale parola, questo sarà il significato, non uno più ristretto. È una concezione ampia, perché abbraccia l'intero ambiente della vita umana; non possiamo sottrarci all'architettura, finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l'insieme delle modifiche e alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto. Né possiamo confidare i nostri interessi a una élite di uomini preparati, chiedendo loro di sondare, scoprire e creare l'ambiente destinato a ospitarci, meravigliandoci poi dinanzi all'opera compiuta, e apprendendola come una cosa bell'e fatta. Questo spetta invece a noi stessi; ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto orientamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri" (W. Morris, Prospects of architecture in civilization, in On art and socialism, London 1947; tr. it.: Architettura e socialismo, Bari 1963, p. 3).
Notiamo, per prima cosa, la tempestività storica di questa formula, che tira le somme di molti decisivi sviluppi produttivi e culturali, maturati fino a quel momento.
1. I cambiamenti materiali prodotti dalla civilizzazione industriale formano ormai un cumulo imponente, e possono essere valutati come un sistema unitario; l'entità e la velocità di questi cambiamenti sono assolutamente nuovi, e fanno nascere nuovi problemi di coordinazione e di controllo. Infatti, finché erano più piccoli e più lenti, si depositavano senza difficoltà nel quadro naturale, tanto più cospicuo e apparentemente inamovibile: ogni intervento poteva essere considerato per suo conto, perché il coordinamento era procurato dalla struttura territoriale in cui doveva iscriversi; la somma totale degli interventi sembrava sempre insignificante rispetto alla vastità del paesaggio e delle risorse naturali. Ora invece gli interventi umani, sempre più grandi e più fitti, si toccano direttamente fra loro, e devono essere disciplinati da un coordinamento artificiale, progettato; la somma di questi interventi non è più irrilevante, ma minaccia di sconvolgere il quadro naturale su intere porzioni del territorio (oggi su tutta la superficie terrestre, come sappiamo) e rende necessario un controllo cosciente dell'equilibrio fra i due sistemi ormai paragonabili: quello delle cose naturali e quello dei manufatti umani.
2. L'approccio scientifico, oggettivo, che ha messo in moto gli sviluppi materiali dell'età industriale, è assunto anche, spontaneamente, come l'unico possibile per ragionare sulle conseguenze culturali di questi sviluppi, e per controllarli a lunga scadenza. Le speranze di un controllo immediato, definitivo, ottenuto in una sola volta mediante un rivolgimento politico e organizzativo, sono state coltivate dalla generazione precedente, e sono state bruciate entro la prima metà del sec. XIX, quando le utopie politiche e urbanistiche - la repubblica degli uguali di Buonarroti e di Cabet, il cartismo di O'Connor, il socialismo produttivistico dei sansimoniani e quello umanitario di Bianqui, le comunità-modello di Owen, di Fourier e dei suoi seguaci europei e americani - si sono dimostrate ugualmente irrealizzabili. L'ideale da loro indicato resta un traguardo da raggiungere, ma con un'azione diversa, più paziente e più lenta, a cui non si conviene il tono agitato e semplificatore del manifesto che vuole suscitare un'azione di massa imminente, ma quello freddo e circospetto che vuole preparare un'azione lontana e che affronta scrupolosamente ogni difficoltà del tema, sapendo che ogni omissione sarà scontata immancabilmente all'atto pratico.
È il tono che accomuna tutti i grandi analisti della seconda metà del secolo: gli scienziati innovatori come Darwin, i filosofi teorici della nuova sinistra politica come Marx (e anche, per certi aspetti, i maestri del realismo letterario come Flaubert). Nessuno di loro punta verso una sintesi definitiva o verso un programma d'azione già perfetto e dettagliato; ma ciascuno - e anche Morris - ha imboccato una strada nuova e ha messo in moto una lunga catena di conseguenze, che molto più tardi produrrà un risultato decisivo; l'importanza della loro opera deve esser misurata a distanza di tempo, considerandone gli sviluppi successivi piuttosto che il successo immediato.
Sebbene tempestiva per il tono, la definizione di Morris sembra invece ovvia e deludente per il contenuto: somiglia a una constatazione di fatto, puramente empirica e priva d'indicazioni ideologiche. Senza dubbio in tutte le epoche l'uomo ha operato una serie di modifiche sulla superficie terrestre, e queste modifiche - considerate tutte insieme - sono l'opera complessiva della comunità umana, piuttosto che l'opera isolata di alcune persone. Morris non distingue queste modifiche fra loro e non indica il modo di valutarle; valeva la pena di annunciare solennemente una definizione di questo tipo? E come ha potuto questo enunciato diventare il punto di partenza per un rinnovamento della teoria e della pratica architettonica?
Il mordente di questo discorso viene in luce solo considerando un quadro storico più ampio; la definizione di Morris, volutamente empirica, diventa invece rivoluzionaria perché da quattro secoli vige senza contrasti una definizione ideologica dell'architettura che distingue appunto nella massa dei prodotti umani alcuni prodotti speciali: essi hanno diritto di chiamarsi ‛opere d'arte', sono fabbricati per loro conto da persone specializzate (gli ‛artisti'), sono usati per un fine diverso da quello utilitario comune, sono giudicati e discussi in una sfera intellettuale specifica. La distinzione fra gli oggetti d'arte e gli altri oggetti vale in tutti i settori produttivi.
L'architettura comprende quella parte dei manufatti edilizi a cui si riconosce la dignità artistica; non si aspira a estendere la definizione dagli oggetti edilizi a quelli più piccoli (sculture, pitture, arredi) e a quelli più grandi (manufatti come argini, dighe, sistemazioni del terreno), perché interessa invece distinguere, in ogni categoria di oggetti, quelli artistici e quelli utilitari; la tradizionale ‛unità delle arti' è diversissima da quella che Morris considera; perché contiene la distinzione preliminare fra ‛arti belle' e ‛arti utili'. L'architettura è una delle arti belle, l'edilizia è una delle arti utili.
Per valutare l'importanza di questa virata intellettuale - ancora abbozzata e confusa per Morris medesimo, che intanto loda la bellezza e detesta l'utilità - è necessario considerare brevemente l'arco storico di validità della definizione tradizionale, nata a sua volta fra il sec. XIV e il XV in contrasto con una definizione precedente divenuta insostenibile.
L'ars medioevale non contiene la distinzione fra bellezza e utilità; i prodotti dell'arte sono giudicati migliori o peggiori secondo un criterio oggettivo di rifinitura, che precede e giustifica unitariamente i criteri soggettivi di contemplazione o di uso dell'opera; la nozione teorica a cui si ricorre è la perfezione (perfectio, da perficere). La stessa parola ricorre nell'analisi delle nozioni trascendentali, l'ens, il verum, il bonum e il pulchrum; il buono si distingue dall'ente e il bello dal vero mediante la ratio perfecti, cioè fanno riferimento a un grado elevato di realizzazione ontologica, mentre il buono si distingue dal vero e dal bello perché il primo fa riferimento alla vis appetitiva, gli altri due alla vis intellectiva. Le varie nozioni trascendentali, tuttavia, in subjecto sunt idem, e sono poi distinte dalla ragione umana, sebbene con riferimento alla struttura metafisica della realtà.
Questo discorso riconosce così due tipi di differenze: quelle primarie, assolute, fra le cose realizzate; e quelle secondarie, relative, fra i contributi umani che sono serviti a realizzarle.
Sulle prime differenze la società medioevale ha costruito le divisioni istituzionali del lavoro: le corporazioni, che fanno capo ai prodotti materiali o ai servizi prestati. Sulle seconde differenze la società non impianta un'analoga classifica di posizioni professionali nelle corporazioni; così permette uno scontro diretto fra i gruppi sociali, e lascia emergere i contrasti irriducibili fra ricchi e poveri, padroni e subalterni.
L'organizzazione corporativa funziona infatti vantaggiosamente nella fase espansiva dell'economia medioevale, quando lo sviluppo produttivo procura uno scopo comune per tutti i gruppi impegnati nella corporazione, e quando le corporazioni combattono insieme per strappare il potere politico alle gerarchie feudali; ma la stessa organizzazione entra in crisi nella fase recessiva, dalla metà del XIV secolo in poi, quando diventano preminenti i contrasti interni fra le classi e i gruppi.
Allora appare necessaria una mediazione razionale di questi contrasti, sia come strumento per evitare che diventino conflitti aperti, sia come espediente per legittimare, dopo avvenuti i conflitti, il predominio dei gruppi vincitori. Il realismo filosofico tradizionale non offre spunti per questa mediazione; il nominalismo successivo coltiva lo studio delle differenze di ragione, delle forme, delle relazioni, ma non è in grado di farle uscire dalla sfera astratta e di presentarle come base per una nuova classificazione dei compiti reali.
A questo punto la nuova cultura umanistica svaluta la disputa sulle nozioni universali, e vi contrappone l'analisi delle concrete operazioni umane, da cui procede ogni discussione e ogni intervento. Questa analisi è già in partenza un'ipotesi di divisione del lavoro, perché separa come un campo specifico di attività ogni momento razionalmente isolabile dalla riflessione dell'uomo su se stesso. Nel nostro campo la nuova cultura isola il momento dell'ideazione e lo contrappone all'esecuzione: questa esigenza intellettuale diventa una proposta organizzativa, cioè contrappone anche gli ideatori agli esecutori e giustifica razionalmente le gerarchie fra gli uni e gli altri. Protagonisti di questo ribaltamento non sono gli architetti medioevali - cioè i progettisti e gli organizzatori dei lavori pubblici - ma i produttori di pezzi eccezionali, cioè pittori e scultori. Gli architetti, che lavorano collettivamente, restano inquadrati coi loro compagni nella corporazione edile (a Firenze quella dei maestri di pietra e di legname); invece i pittori (che in origine sono aggregati all'arte dei medici, perché comprano i loro colori dagli speziali) e gli scultori (che appartengono, secondo la materia lavorata, all'arte degli orafi o dei lapicidi) possono diventare famosi per la loro maestria individuale, e presentarsi come esperti nell'ideazione di forme visibili d'ogni genere: dalle immagini dipinte o scolpite alle opere edilizie e ai piani di città. Così si svincolano dalla gerarchia corporativa ed entrano in rapporto diretto coi grandi committenti, come consulenti e giudici dei lavori pubblici più importanti: è il caso di Arnolfo, di Giotto, di Orcagna, di Talenti.
L'ideazione, infatti, una volta separata dall'esecuzione, non ha motivo di esser limitata a una sola categoria di oggetti, ma si estende virtualmente a tutti. Lo scultore (capace di realizzare forme tridimensionali) e il pittore (capace di realizzare forme a due dimensioni, ma in possesso di un procedimento esatto per far corrispondere le immagini dipinte a quelle in rilievo) diventano l'artista universale, che sceglie nel campo delle forme visibili, rese equivalenti dalla prospettiva, quelle a cui preferisce dedicarsi. L'architetto rinascimentale non è l'erede dell'architetto medioevale, ma corrisponde a una delle specializzazioni del nuovo personaggio, l'artista (erede del pittore e dello scultore, ormai al di sopra dell'organizzazione corporativa tradizionale).
La nuova divisione del lavoro non è parallela a quella tradizionale, ma la traversa perpendicolarmente; libera così le energie individuali compresse dall'organizzazione vigente e rende possibile un nuovo approccio, unitario e razionale, al mondo delle forme visibili, ricco di conseguenze storiche diverse e importanti: l'esplorazione sistematica dell'ambiente geografico, la progettazione geometrica dell'ambiente urbano, la riflessione geometrica e matematica sull'universo fisico, premessa indispensabile allo sviluppo della scienza moderna.
Nel sec. XV questa rosa di conseguenze è ancora potenziale, e può essere abbracciata come un programma individuale, reso unitario appunto dal magistero dell'artista; è il tentativo di Leonardo da Vinci. Ma subito dopo vince l'esigenza della specializzazione, cioè la scienza e le tecniche sono praticate con profitto come ricerche indipendenti. L'antica matrice comune, l'arte, si irrigidisce allora per conservare la sua autonomia: valorizza l'intuizione per contrapporsi alla deduzione scientifica, la spontaneità per contrapporsi alla meccanica della tecnica.
Una volta stabilito questo dualismo, la ricerca artistica può nuovamente esser messa in rapporto con la ricerca scientifica, perché compendia i valori finalistici e qualitativi espulsi dalla ricerca scientifica, e compensa i risultati specifici, meccanici e qualitativi, di quest'ultima. Infine, se i risultati della ricerca scientifica sono giudicati inopportuni, il compenso dell'arte può essere adoperato come un vero e proprio contrasto: svaluta alcuni sviluppi e rivaluta alcuni altri, cioè si presenta come un sistema culturale alternativo a quello scientifico. L'architettura, presa in questa vicenda, cambia anch'essa più volte il suo significato. In un primo tempo è considerata una dottrina generale dei manufatti costruiti: di tutte le cose che la pittura e la scultura sono in grado di rappresentare, esclusi appunto i manufatti dipinti e scolpiti in cui si concreta la rappresentazione; comprende invece una vasta gamma di oggetti' utilitari o ornamentali: edifici, suppellettili, navi, armi, macchine; l'ideazione geometrica è comune a tutti, ed è il fondamento da cui procedono sia le qualità estetiche sia quelle funzionali. Ma questa identità resiste solo a un grado abbastanza semplice di sviluppo tecnologico; poi la fabbricazione di quasi tutte le categorie di oggetti si organizza per proprio conto, in teoria e in pratica; restano nell'ambito dell'architettura solo i manufatti edilizi propriamente detti (e gli oggetti di arredamento, considerati accessori ai precedenti e inquadrati nelle ‛arti minori'), che sono soggetti a cambiamenti tecnologici meno rilevanti, ma conservano una decisiva importanza sociale perché stabiliscono la distribuzione sul territorio di tutti gli artefatti umani e vincolano, attraverso i rapporti spaziali, molti aspetti della vita associata. Gli edifici si distinguono dagli altri oggetti perché sono - o possono diventare - manufatti artistici, cioè devono corrispondere simultaneamente a requisiti funzionali e a requisiti formali; con l'andar del tempo i due tipi di controllo diventano sempre più estranei fra loro, e dal tardo Settecento in poi sono esercitati spesso da persone diverse: il tecnico costruttore e l'architetto. Intanto la rivoluzione industriale modifica rapidamente la quantità dei manufatti edili, e un po' meno rapidamente anche i sistemi costruttivi; allora l'esigenza artistica, considerata come una variabile indipendente, diventa soprattutto un mezzo di controllo politico, che limita, ritarda, esclude le nuove possibilità offerte dal progresso tecnico, pericolose per gli interessi costituiti e per la gerarchia sociale vigente.
Al tempo di Morris questo controllo è esercitato mediante l'imitazione degli stili storici. Anche questo fenomeno ha dietro di sé una storia complicata, perché fin dal sec. XV, quando compare la distinzione fra l'arte e il resto del lavoro umano, il repertorio dell'architettura è ancorato ai modelli dell'antichità classica; essi sono considerati gli elementi naturali e permanenti della costruzione, e assicurano all'arte del costruire un suo autonomo contenuto figurativo, codificato e riconoscibile, ma capace di infinite modificazioni parziali, che si apprezzano in ogni dettaglio perché restano sempre omogenee e commisurabili fra loro. Gli sviluppi del classicismo moderno, dal sec. XV al XVIII, hanno quasi esaurito l'enorme varietà di queste modificazioni, ma hanno lasciato incerta la definizione delle fonti; la cultura storica del tardo Settecento vuole invece accertare esattamente questa definizione e trova, al posto dei modelli ideali, una serie di monumenti reali, soggetti ai cambiamenti di uno sviluppo storico non meno complesso e ramificato.
Uno stile, cioè una porzione arbitraria di questo sviluppo passato, può ancora servire come modello da imitare, ma deve essere scelto con una decisione particolare, controversa e revocabile. Negli ultimi decenni del Settecento e nella prima metà dell'Ottocento si confrontano le varie scelte possibili, e si contrappongono gli stili il neoclassicismo greco o romano, il neogotico, ecc. - come proposte esclusive, ciascuna motivata con vari argomenti politici, religiosi, culturali. Tuttavia la loro pluralità ha già ristretto di fatto i confini della progettazione architettonica; infatti la tecnologia edilizia si evolve per proprio conto secondo norme oggettive e universali, che valgono per tutti gli stili. Il margine di variazione da uno stile all'altro sta nelle rifiniture; produce un rivestimento - esterno o interno - che si applica su una struttura neutrale e vale, entro certi limiti, come una composizione autonoma.
Intorno alla metà del secolo la discussione sugli stili si stabilizza non con la prevalenza di una delle proposte alternative, ma con la coesistenza di tutte le proposte, come parti di un repertorio più vasto che fa riferimento a tutta la storia passata: nasce l'eclettismo.
Ai motivi ideologici che stavano dietro le proposte precedenti - e giustificavano la loro esclusività - si è sostituito infatti un motivo politico che le declassa tutte insieme e le rende strumentali: nella restaurazione autoritaria dopo le lotte del 1848 emerge infatti la prima ipotesi organica di gestione della città industriale - che è stata chiamata ‛neoconservatrice' o ‛postliberale' - con la prima spartizione di compiti fra amministrazione pubblica e proprietà fondiaria. Questa conserva il possesso della maggior parte del suolo della città, trattenendo per sé integralmente o quasi gli aumenti di valore delle aree che derivano dai lavori pubblici e dallo sviluppo generale; cede invece all'amministrazione il possesso di una parte minore del suolo - dove far passare una rete di strade e di impianti al servizio delle aree private - e accetta una serie di norme regolamentari (limiti di altezza, di cubatura, ecc.) per evitare le strozzature dello sviluppo causate da una caotica sovrapposizione degli interessi particolari. Questa divisione dei compiti - che supera e mette fuori gioco le ipotesi precedenti di un predominio assoluto delle libertà individuali (Spencer) o dell'autorità collettiva (Owen, Fourier) - concede una posizione privilegiata agli interessi della speculazione immobiliare, interessi parassitari e contrastanti con quelli del capitale produttivo. Ma l'essenza del compromesso è di natura politica più che economica; tutto il capitale ha convenienza a concedere un privilegio a un suo settore arretrato, per ottenere in cambio un apparato urbano che difende gli interessi generali delle classi dominanti, perché ostacola e comprime la vita quotidiana delle varie classi, in misura inversamente proporzionale alle loro risorse economiche.
Data l'importanza di questo compromesso, le decisioni principali sulla conformazione e distribuzione dei manufatti edilizi nel territorio si prendono a livello politico fra i due poteri concorrenti, e non possono esser lasciate alla competenza degli specialisti, che pure sono necessari per progettarle ed eseguirle. È utile dunque che la competenza concreta e unitaria del progettista sia spezzata in due competenze astratte: quella del progettista-tecnico per i caratteri statici, economici e funzionali dell'edificio, che si considerano deducibili da regole oggettive; e quella del progettista-artista per i caratteri formali, che si considerano variabili secondo le esigenze della sensibilità e del decoro. La responsabilità reale - parzialmente vincolata e parzialmente libera - è scomposta in due responsabilità fittizie, una considerata del tutto vincolata e una del tutto libera.
In questo periodo infatti si codificano i programmi scolastici, che servono a produrre le due deformazioni complementari: quelli dei politecnici per gli ingegneri (che imparano nei primi anni dosi massicce di scienze generali, non perché se ne servano nelle applicazioni successive più ristrette, ma perché si abituino a risolvere anche i problemi delle applicazioni con lo stesso spirito deduttivo, cioè solo nei dettagli, senza accorgersi di subire le scelte principali già scontate); quelli delle accademie d'arte per gli architetti, che imparano a esercitare una libertà incondizionata in un campo ‛superiore', cioè marginale e praticamente innocuo. La scelta fra gli stili realizza perfettamente questa libertà illusoria: sembra fondata su tutta la storia passata, ma non si stabilizza in una decisione duratura e oscilla nel campo incontrollabile del gusto.
Morris e i suoi coetanei hanno esordito nel momento in cui questi due ruoli erano nettamente contrapposti, e hanno accettato, nell'età formativa, la seduzione specifica di uno dei due ruoli: quella della disciplina scientifica o quella della libertà artistica. Il loro modo di reagire non poteva venire che dall'interno di ognuna delle due condizioni settoriali; o spingendo l'analisi scientifica fino a scoprire il carattere arbitrario delle premesse, o affinando la sensibilità fino a percepire l'artificio del decoro artistico convenzionale. Da un certo punto in poi le due ricerche coincidono; infatti l'ostacolo che rende inautentici gli oggetti artistici e volgari quelli d'uso comune è lo stesso che interviene come falso postulato nel calcolo scientifico e tecnico: appunto la previa distinzione dei due livelli operativi, quello tecnico e quello artistico, messi a coprire l'unico livello di decisioni importanti, quello d'ordine politico.
Questo itinerario, che diventa chiaro alla fine, è invece confuso passo per passo, perché resistono a lungo le abitudini e le nomenclature che appartengono al doppio condizionamento tradizionale. Morris passa dal puro estetismo giovanile all'impegno sociale e politico della maturità, perché è spinto in questa via risalendo la catena delle cause che guastano la bellezza nel mondo civilizzato. Così stabilisce una relazione imprevista fra due campi tenuti separati dalla cultura e dalle istituzioni tradizionali; tuttavia in ognuno di essi accetta gran parte delle regole di comportamento tradizionali, e così oscilla continuamente fra i due generi d'interesse senza scoprire una sintesi definitiva, che si trova fuori dalle definizioni vigenti.
Infatti nel concreto l'azione di Morris denuncia il fastidio degli oggetti d'uso comune e dell'ambiente urbano creati dalla civiltà industriale del tardo Ottocento, ma non indica un altro modo convincente di progettare gli oggetti e di gestire le città; Morris fa le sue scelte formali nel quadro dell'eclettismo - usa i modelli medioevali e rifiuta quelli classici - e raccomanda una fabbricazione manuale obiettivamente incompatibile con lo sviluppo tecnologico moderno, che si risolve in una riesumazione eclettica di procedimenti preindustriali. Così la richiesta per la spontaneità resta giusta ma vaga, e produce una serie interminabile di discorsi che lamentano la bruttezza della città presente, ma non vi contrappongono un'altra città: solo il verde della campagna e l'immagine un po' artefatta della città antica, già spazzata via e non ricuperabile.
Egli racconta con l'abituale sincerità la sua vicenda: ‟Mi sono accorto che le cause degli aspetti volgari della civiltà presente erano più profonde di quel che pensassi, e a poco a poco fui tratto alla conclusione che tutti questi mali sono solo l'espressione esterna di una intima mancanza di basi morali in cui siamo spinti a forza dalla presente organizzazione sociale, ed è futile tentare di porvi rimedio dall'esterno" (W. Morris, op. cit., p. 7).
La sua cautela gli impedisce di perder contatto da un lato col mondo degli artisti, dall'altro con quello dei politici di professione; egli tenta continuamente di mediare l'azione unilaterale degli uni e degli altri, scontentando sia gli artisti di punta come J. A. Whistler, sia i militanti politici di punta come i marxisti: così lascia in eredità ai suoi discepoli, in Inghilterra e sul continente, l'inquietante dualismo che è posto come titolo a una raccolta dei suoi scritti - arte e socialismo - e che appare ad alcuni un miscuglio insopportabile, ad altri la promessa di una sintesi culturale lungamente desiderata.
I teorici e i progettisti della generazione successiva - da W. Crane che disegna in stile liberty i manifesti del partito laburista a F. Lloyd Wright che intitola un suo libro The architecture of democracy - non vanno oltre questa impostazione. Screditano l'imitazione ancora vigente degli stili storici e impongono uno stile originale, che è qualificato con gli aggettivi di ‛nuovo' e ‛moderno': ma rivendicano, per fare questa scelta, appunto la libertà insindacabile che la cultura tradizionale riconosce agli artisti; così ogni tentativo di collegare le scelte artistiche a quelle sociali e politiche resta poco convincente e può essere agevolmente rovesciato dai loro avversari: perché ‛architettura e democrazia' piuttosto che ‛architettura e aristocrazia'? Di fatto il loro tentativo trova spazio in un momento di prosperità economica e di tregua dei conflitti sociali - dall'ultimo decennio dell'Ottocento al 1914 - che facilita un'eccezionale diversificazione delle esperienze individuali e di gruppo; infatti non intacca le basi istituzionali della produzione degli oggetti d'uso né della gestione urbana postuberale.
Fra le tante esperienze mescolate nel dibattito del primo decennio del Novecento, maturano però anche quelle che imprimeranno alla ricerca architettonica la svolta decisiva; vengono dalla convergenza di varie ricerche eterogenee, non impegnate nelle mediazioni e nei compromessi dell'architettura d'avanguardia del tempo: provengono cioè dai laboratori degli scienziati e dagli studi degli artisti che, a un dato punto del loro lavoro, hanno di fatto oltrepassato i confini tradizionali assegnati alla loro specializzazione.
Consideriamo prima il contributo degli ‛artisti'. Whistler, che respinge la critica moraleggiante di J. Ruskin e prende in giro il rapporto fra arte e politica stabilito da Morris (‟sarebbe come se io dipingessi un quadro per persuadere gli ubriachi a essere astemi"; cit. in Benevolo, v., 19735, p. 226), ha torto sul piano del ragionamento, perché il lavoro controcorrente di Ruskin e di Morris prepara l'architettura integrata del futuro, ma non sbaglia sul piano della sensibilità, perché si accorge dell'insufficienza di una proposta prematura; se dovrà nascere una città futura, dovrà possedere tutta la bellezza squisita espressa nelle tele dei suoi quadri, non solo il riflesso attenuato che egli - e anche noi - troviamo nelle opere dei preraffaelliti; la sintesi fra l'arte e qualcos'altro dovrà somigliare a un'unità, non al rapporto didattico e dimostrativo istituito da Morris. Anch'egli dunque dà il suo contributo all'architettura del futuro, esprimendo l'insoddisfazione per quel che si fa nel presente, compresi i tentativi nuovi ma insufficienti.
Infatti la gestione postliberale della città pone agli artisti e ai letterati un dilemma ben preciso: la loro abilità rappresentativa deve servire a presentare e a difendere l'immagine del nuovo ambiente urbano in via di formazione, oppure non trova un inquadramento sociale ed economico; gli scontenti possono scegliere a loro volta: correggere dimostrativamente una parte di questo ambiente (come fanno Morris e i suoi amici, sconfinando dall'arte all'impegno sociale), o restare ai margini della società organizzata e criticare con la pura rappresentazione - senza immediate conseguenze operative, ma con l'intransigenza di un rifiuto globale - la nuova città che si sta formando.
Gli artisti e gli scrittori chè sostengono questo rifiuto - per motivi diversi e particolari - si trovano impegnati in un destino comune: fanno un lavoro che torna su se stesso e non incontra resistenze esterne, dunque si sbilancia in avanti e porta all'estremo le sue contraddizioni interne.
Paragoniamo, nella Francia del Secondo Impero, l'esperienza di Baudelaire e l'esordio dei pittori impressionisti. Il poeta che commenta con distacco i rivolgimenti politici del 1848 (‟follia della borghesia e follia del proletariato": C. Baudelaire, Mon coeur mis à nu, cit. in C. Pichois, Baudelaire à Paris, Paris 1967, p. 43) mette in evidenza la volgarità, la noia, lo spleen della città trasformata dopo quegli avvenimenti, e ne immagina un'alternativa lontanissima nello spazio e nel tempo: nell'esotico e nel futuro. I pittori registrano impassibilmente la combinazione di forme e di colori che risulta dalle trasformazioni in corso, ritirando solo la volontà di mediazione, la complicità richiesta agli artisti ufficiali.
Nella generazione successiva il distacco fra rappresentazione e realtà sollecita reazioni più impazienti: Rimbaud si propone di ‟cambiare la vita" e salta dalla letteratura all'avventura individuale; Gauguin va a cercare un nuovo ambiente da dipingere all'altro capo del mondo, mentre Cézanne e van Gogh scompongono pazientemente o febbrilmente le apparenze del mondo usuale, e scoprono il nuovo nella struttura nascosta del vecchio.
La società costituita alla fine del sec. XIX e all'inizio del XX è in grado di assorbire e neutralizzare la polemica parziale di Morris, di Crane, di van de Velde e dei maestri dell'art nouveau; invece tiene a distanza la polemica totale degli artisti e degli scrittori, e questi spingono a fondo la loro ricerca fino a mettere in crisi - nel primo decennio del nuovo secolo - il valore rappresentativo dell'immagine dipinta o della parola scritta.
Nello stesso periodo il progresso della scienza e della tecnica produce una serie di innovazioni che indeboliscono sempre più i metodi tradizionali di progettazione e di gestione dell'ambiente. Gli scienziati lavorano in modo diversissimo dagli artisti: si basano su dati oggettivi, mettono in comune le loro esperienze, sono condotti dalla logica interna della ricerca scientifica a rivedere e ad ampliare i risultati acquisiti; nello stesso tempo sono isolati nei rispettivi campi di specializzazione, e non sono in grado di affrontare i problemi d'insieme. Tuttavia il loro lavoro converge alla lunga con quello individuale, fortunoso e totalizzante dei letterati e degli artisti d'avanguardia, perché modifica, in modo sempre più rapido e profondo, il quadro materiale della vita quotidiana: sono tagliati fuori dal controllo delle applicazioni della loro ricerca, ma rendono questo controllo sempre più difficile.
Il procedimento Bessemer, inventato nel 1856, facilita la produzione dell'acciaio, che sostituisce gradualmente la ghisa in quasi tutte le applicazioni meccaniche ed edili; diventa possibile costruire coperture di gran luce senza sostegni intermedi (la rotonda dell'esposizione universale di Vienna del 1873, col diametro di 102 metri, la halle des machines all'esposizione universale di Parigi del 1889, di 115 x 420 metri), ponti sospesi più lunghi (il ponte di Brooklyn del 1873, con 488 metri di luce), torri di altezza mai vista (la torre Eiffel del 1889, che arriva a 300 metri). L'invenzione della dinamo (1869) permette di sfruttare l'elettricità come forza motrice, e rende possibili numerose applicazioni: il telefono (1876), la lampada elettrica (1879), l'ascensore (1887). L'invenzione del motore a scoppio (1885) consente di utilizzare il petrolio per far muovere le navi, i veicoli terrestri, e più tardi gli aerei. Coi nuovi mezzi tecnici diventano fattibili le grandi opere pubbliche della seconda metà dell'Ottocento, come il canale di Suez (aperto nel 1869), la prima galleria ferroviaria sotto le Alpi (aperta nel 1884), la ferrovia dall'Atlantico al Pacifico negli Stati Uniti (completata nel 1869). Il miglioramento dei trasporti consente la rapida espansione del commercio mondiale (che triplica il suo volume dal 1880 al 1914) e fa cambiare le condizioni di vita delle grandi masse, creando la domanda di altre invenzioni e di altri cambiamenti sempre più rapidi.
I nuovi sistemi costruttivi rendono difficili e artificiose le manipolazioni stilistiche - quelle tradizionali ispirate agli stili storici e quelle ‛nuove' dei movimenti d'avanguardia - negli edifici e negli oggetti d'uso. Il traffico sempre più intenso e i nuovi impianti urbani - il gas, l'elettricità, il telefono, i trasporti pubblici su rotaia, in superficie e sotterranei - devono esser compressi nello spazio rigido che la combinazione postliberale riserva all'amministrazione pubblica, facendo aumentare i costi della gestione urbana. Le città crescono oltre ogni misura - Londra supera i quattro milioni di abitanti verso la fine del sec. XIX - e invadono la campagna lungo i percorsi dei trasporti pubblici, poi in ogni senso quando si diffonde l'automobile come mezzo di trasporto individuale. I cambiamenti effettivi della vita premono sulla cornice istituzionale e screditano le forme tradizionali del decoro urbano, cioè gli strumenti stabili e accettati del controllo politico. L'accordo convenzionale fra arte e scienza diventa sempre meno credibile, e i progressi della scienza introducono evidentemente molte nuove opportunità potenziali, che l'arte s'incarica di negare. Nasce così anche dal basso l'esigenza di una nuova sintesi, che superi il dualismo tradizionale.
2. La formazione di un movimento unitario
È decisiva per il nostro racconto la svolta della ricerca pittorica fra il 1905 (prima esposizione collettiva dei fauves a Parigi) e il 1910 (prime opere astratte di W. Kandinskij, poi di A. Gleizes, di R. Delaunay e di K. Malevič). In un primo tempo i pittori lavorano chiusi nei loro studi, scartando ogni contatto esterno e ogni diversivo; ‟non parlare al manovratore", diceva Picasso in quegli anni. Poi diventa chiaro che si è distrutto non un modo di dipingere, ma la pittura come attività indipendente e significativa per suo conto. Nel decennio successivo altri artisti tirano le somme di questa esperienza, e definiscono il suo logico sbocco: una nuova progettazione di tutto l'ambiente costruito, finalmente indipendente dalla sopravvivenza dei modelli passati e pronta a entrare in rapporto con le ricerche oggettive, specializzate dei tecnici e degli scienziati.
I promotori del movimento neoplastico, Théo van Doesburg, Georges Vantongerloo e Piet Mondrian, hanno definito chiaramente - per quanto è possibile farlo coi mezzi pittorici e plastici tradizionali, e con le spiegazioni scritte - questo nuovo compito aperto per il futuro. Mondrian, il più penetrante e il più lucido, scrive nel 1922: ‟L'ambiente come la vita sembrano inferiori nel loro stato imperfetto e nella loro arida necessità. In tal modo l'arte diviene un rifugio. Si cerca in essa la bellezza, l'armonia, che non si inseguono o si cercano invano nella vita e nell'ambiente. Così bellezza e armonia sono divenute l'ideale irrealizzabile: in quanto arte, sono state estromesse dalla vita e dall'ambiente" (cit. in O. Morisani, L'astrattismo di Piet Mondrian, Venezia 1956, p. 73).
La pittura moderna, dal cubismo in poi, ha affrontato questo stato di segregazione, e spingendolo all'estremo ha toccato i suoi limiti costituzionali: ‟Se si spinge all'estremo la plastica cubista, ecco che la neoplastica si trova sull'orlo del precipizio [...] È vero, perché ogni plastica ha potuto finora esser sviluppata e continuata verso la plastica pura. Ma, una volta nata questa, non si può andare oltre in arte. Sarà poi sempre necessaria l'arte? Non è forse un povero artifizio, utile fin tanto che nella vita stessa manca la bellezza? La bellezza realizzata nella vita, questo dev'essere più o meno possibile in avvenire [...]E allora sarà naturale che sia la vita stessa a gettare l'arte nel precipizio, sull'orlo del quale avanza già ai nostri giorni. Ci vorrà però molto tempo prima che l'arte sia alla sua fine, e continuerà ancora per molto tempo a riconciliarci con questa vita imperfetta che conosciamo [...] Una volta gettata l'arte nel precipizio, rimarrà il suo vero contenuto: l'arte si trasformerà, si realizzerà dapprima nel nostro ambiente palpabile, poi nella società [...] in tutta la nostra vita, la quale allora diverrà veramente umana" (ibid., p. 131).
E nel 1942 ribadisce ancora, con tranquilla coerenza: ‟Nel futuro, la realizzazione dell'espressione puramente plastica nella realtà afferrabile del nostro ambiente sostituirà l'opera d'arte. Allora non avremo più bisogno di pitture e sculture, perché vivremo nell'arte realizzata. Se concepiamo la vera vita umana come la continua gioia di scoprire e creare un equilibrio concreto, allora questo equilibrio diventa necessario. Tutte le espressioni astratte nella vita, come la scienza, la filosofia, e tutte le creazioni astratte come l'arte, possono essere considerate soltanto come tanti mezzi per raggiungere l'equilibrio. L'arte è soltanto un sostituto fin tanto che la bellezza della vita è insufficiente. Scomparirà a misura che la vita guadagnerà in equilibrio" (ibid., p. 179).
Qual è il significato della parola ‛equilibrio', che Mondrian adopera per indicare la realizzazione dell'arte nella vita? E quale la metodologia per passare dalla rappresentazione emblematica (nell'arte) alla realizzazione (nella vita e nell' ‛ambiente totale')?
Sulla prima questione il discorso di Mondrian si allarga in tal modo da diventare assolutamente utopistico nel suo tempo, mentre oggi ne cominciamo a vedere l'aspetto operativo e urgente. In uno straordinario scritto del 1931, intitolato Arte nuova, vita nuova, il pittore scrive: ‟Così come l'arte nuova si manifesta al giorno d'oggi in mezzo all'arte del passato - che si prolunga sino al nostro tempo - possiamo vedere come in mezzo alla civiltà del passato la vita nuova giunge all'esistenza. L'arte è capace di farci vedere il modo in cui questa nuova vita nascerà". Bisogna superare ‟ogni oppressione determinata dalla particolarità limitante della forma. Proprio così facendo la vita riuscirà nello stesso modo in cui l'arte è riuscita: raggiungendo così, mediante pure relazioni fra gli individui, la loro libertà graduale, il vero stato di equilibrio" (cit. in H. L. C. Jaffé, De Stijl 1917-1931, Amsterdam 1956; tr. it.: De Stijl 1917- 1931, Milano 1964, pp. 350-351).
L'arte annuncia e definisce in anticipo una nuova ‛civiltà aperta': una ‟organizzazione completamente nuova che abolisce, creando relazioni equivalenti, tutti quegli interessi particolari che sono nocivi ad altre organizzazioni". Dal suo osservatorio solitario il pittore descrive la realtà dello sfruttamento, dell'indottrinamento collettivo che crea il consenso a questo sfruttamento e impedisce una reazione organizzata. Ad essa contrappone non l'esigenza astratta di una libertà illimitata (raggiungibile solo nella sfera individuale), ma il progetto concreto di una trama di relazioni reciproche ed equilibrate: un ritmo costante e cadenzato, coerente con quello biologico ma cosciente e continuamente minacciato, da confermare con una serie di decisioni responsabili. Dieci anni dopo, quando l'oppressione organizzata diventa un sistema diffuso, egli riafferma la funzione contraria dell'arte senza per questo ripiegare sull'antica illusione d'immunità: ‟L'arte plastica è un dominio astratto e libero della vita: le cause e le conseguenze della sua espressione sono puramente per studio. Non tollera l'oppressione e può tenerle testa, perché non è legata a condizioni materiali e fisiche. Scrittori e pensatori hanno esplorato profondamente i fatti e le cause delle tragiche realtà create dall'oppressione. L'arte è stata adoperata per ragioni immediate e personali: descrive avvenimenti, personaggi, campi di battaglia; è servita per camuffare guerra e propaganda. Ma la funzione dell'arte plastica non è descrittiva né cinematica. Non è mero mezzo di divertimento in una vita incompleta o una semplice espressione di quella vita anche nel suo aspetto più bello. Tutto ciò è incidentale. L'arte è creazione estetica di una vita completa - unità ed equilibrio - libera da ogni oppressione. Per questa ragione può rivelare il male dell'oppressione e mostrare il modo di combatterla" (cit. in O. Morisani, op. cit., pp. 157-158).
Così, nella sua proiezione più lontana, il discorso di Mondrian anticipa quelli odierni sulla ‛pratica della libertà' contro le istituzioni vincolanti: le teorie e le esperienze comparse nel 1966 in Cina, nel 1968 in Francia, intorno al 1970 in America, a Berkeley, a Cuernavaca, nel Nordeste brasiliano, ancora utopistiche rispetto all'insieme della nostra società, ma divenute pressanti per contrastare la spinta crescente dei meccanismi di manipolazione collettiva.
La seconda questione sui mezzi - quella d'immediata attualità nel periodo fra le due guerre - è connessa appunto alla nascita di un movimento organizzato per la realizzazione del nuovo ambiente di vita.
La nuova architettura di cui parla Mondrian non può essere una nuova regola sovrapposta alle tecniche costruttive, ma deve identificarsi rigorosamente con queste, rifiutando solo la loro dispersione analitica, imposta appunto dalla regia dell'arte tradizionale. Infatti ‟l'arte e la tecnica sono indivisibili" e ‟la pura e logica concezione plastica va sempre d'accordo con le esigenze pratiche, non essendo per entrambe che questioni di equilibrio. Il nostro tempo (l'Avvenire!) esige un equilibrio puro e non può trovarlo che per una sola via" (ibid., pp. 114-115). Sparisce, in questa prospettiva, il conflitto fra la supposta oggettività della ricerca scientifica e la supposta soggettività della ricerca artistica. ‟Nel parlare d'arte non è lecito dire: ‛così io lo vedo', oppure: ‛questa è la mia idea'. L'arte vera, come la vita, prende un'unica via" (ibid., p. 143).
Gli artisti neoplastici parlano di leggi del loro lavoro, fisse e collegate a quelle già individuate in altri campi.
Mondrian: ‟Vi sono leggi fisse che governano e mirano all'uso degli elementi costruttivi, della composizione e delle inerenti scambievoli relazioni fra essi", le quali ‟possono esser considerate come leggi sussidiarie della legge fondamentale dell'equilibrio" (ibid., p. 141).
Van Doesburg: ‛'Esigiamo la costruzione del nostro ambiente secondo leggi creative, derivanti da un principio fisso. Queste leggi, aderenti a quelle economiche, matematiche, tecniche, igieniche, conducono a una nuova unità plastica [...] Non è possibile immaginarsele, esse esistono e si constatano solo lavorando collettivamente e sperimentalmente" (cit. in B. Zevi, Poetica dell'architettura neoplastica, Milano 1953, p. 35).
Vantongerloo: ‟Scienza e arte hanno le stesse leggi" e ‟non è lontano il momento in cui arte e scienza formeranno un'unità omogenea" (cit. in H. L. C. Jaffé, op. cit., p. 224).
Mondrian, come i suoi amici, dipingeva quadri nel suo studio: le condizioni storiche non gli hanno permesso di far altro che lavorare nel modo degli artisti tradizionali. Il suo discorso teorico, in cui propone un altro tipo di lavoro, è interpretato abitualmente come una costruzione utopistica o simbolica, e si continua a valutare la sua opera pittorica come un prodotto tradizionale e autosufficiente. È invece una descrizione reale del lavoro già cominciato dagli architetti dal terzo decennio del Novecento in poi, la quale, venendo da un osservatore esterno, mette in evidenza l'indirizzo generale e gli obiettivi lontani anziché le tendenze particolari e i risultati immediati. Abbiamo preferito seguire il filo unitario del suo ragionamento, anziché i molti fili delle dichiarazioni degli architetti, per dimostrare l'assoluta novità della ricerca che comincia ora, messa in moto contemporaneamente dalle acquisizioni tecniche e dagli indirizzi culturali maturati di pari passo nei primi due decenni del Novecento.
Per i suoi caratteri metodologici - oggettività, trasmissibilità, controllo sperimentale, collaborazione collettiva nello spazio e nel tempo - essa è analoga alla ricerca scientifica e può considerarsi il risultato dell'estensione dello spirito scientifico in un campo tradizionalmente a esso estraneo. Per le sue ambizioni di indipendenza da ogni previo condizionamento istituzionale si distingue dalla scienza e dalla tecnica già costituite e riconosciute; accetta invece l'eredità liberatrice della cultura artistica emarginata nel periodo precedente, ed è già in guardia contro la strumentalizzazione della scienza e della tecnica agli scopi del potere, che sarà imposta tragicamente nei due decenni successivi.
La nuova architettura, che si usa chiamare moderna, ma che ci limiteremo a chiamare ‛architettura del Novecento' (del suo destino a lunga scadenza non sappiamo nulla), comincia solo da questo punto. Rinunciamo a descrivere i collegamenti con l'architettura precedente - che esistono naturalmente, ma che trattati in primo piano dissimulerebbero i nuovi caratteri più importanti - e tentiamo invece di mettere in evidenza il suo impatto sulle istituzioni e sulle abitudini vigenti, che ha condizionato i primi cinquant'anni del suo sviluppo.
La difficoltà iniziale è il contrasto fra la portata della ricerca - che riguarda tutto l'ambiente costruito - e il campo ristretto in cui trova momentaneamente libertà di esercitarsi. I quadri, i plastici e i disegni fatti negli studi individuali degli artisti sono esperienze ripetibili e correggibili fin che si vuole, ma dimostrative e prive di collaudo sperimentale. Gli edifici commissionati agli architetti da pochi clienti eccezionali - a Rietveld dagli Schroeder, a Le Corbusier da Ozenfant, dagli Stein, dai Savoye, a Mies van der Rohe dai Lange, ecc. - sono occasioni concrete, ma ristrette, isolate e non collegabili fra loro.
Una scuola, dove artisti e tecnici lavorino insieme e trasformino la loro esperienza individuale in una didattica trasmissibile a tutti, sarebbe sempre un terreno artificiale e dimostrativo, ma darebbe una dimostrazione più estesa e penetrante, capace di influire assai meglio sulla produzione dei manufatti, degli edifici e dell'ambiente urbano.
Mondrian nel citato saggio del 1922 scrive: ‟È necessario fondare una scuola di ricerche, in cui tutte le esigenze [per far crescere il nuovo indirizzo] siano predisposte", e ripubblicandolo a distanza di tempo annota: ‟Quando componevo questo scritto non sapevo ancora che il Bauhaus statale di Weimar (poi trasferito a Dessau) cercava già di lavorare in questo senso" (cit. in O. Morisani, op cit., p. 78).
Infatti Walter Gropius fonda nel 1919 lo Staatliches Bauhaus con questo preciso intento: riunire un gruppo di esperti nelle varie tecnologie e di artisti indipendenti - pittori, scultori, scenografi, ecc. - per inventare, col contributo di tutti, un'educazione globale per una nuova categoria di progettisti di tutto l'ambiente fisico, dagli oggetti d'uso alla città e al territorio. Fra gli artisti figurano personalità di primo piano come J. Itten, L. Feininger, P. Klee, O. Schlemmer, W. Kandinskij, che sono lasciati liberi di continuare a piacimento le loro ricerche individuali; ma Gropius ha ben chiara la provvisorietà del dualismo di competenze iniziale; più tardi, nel 1935, scrive: ‟Quest'idea di partire con due differenti gruppi di insegnanti fu una necessità, perché non era possibile trovare né artisti in possesso di sufficienti cognizioni tecniche, né artigiani dotati di sufficiente immaginazione per i problemi artistici, da mettere a capo dei laboratori. Una nuova generazione capace di combinare questi due attributi doveva prima esser addestrata, e negli ultimi anni il Bauhaus è riuscito a collocare alla direzione dei laboratori, ex studenti dotati di un'esperienza tecnica e artistica integrata, cosicché la separazione del corpo insegnante in maestri di forma e di tecnica si rivelò superflua" (Scope of total architecture, New York 1955, p. 14).
Nello stesso tempo Gropius vuole evitare che nella scuola un programma artistico già formato prenda il sopravvento e imprima all'educazione un'impronta unilaterale, prima che sia avvenuto - il più liberamente possibile - il confronto fra arte e applicazioni tecniche. Respinge nel 1922 il tentativo di van Doesburg per imporre l'egemonia del programma neoplastico, ma dà spazio a van Doesburg stesso e ai leaders degli altri movimenti artistici d'avanguardia - Oud, Mondrian, Malevič - nella collana editoriale della scuola, i Bauhausücher.
Così esercita un richiamo discreto ma irresistibile sui principali architetti della nuova generazione: Le Corbusier in Francia, V. Bourgeois in Belgio, J. J. P. Oud e Mart Stam in Olanda, L. Mies van der Rohe, L. Hilberheimer ed E. May in Germania, El Lissitzky, M. Ginzburg e i costruttivisti russi. Ognuno è sollecitato a uscire dal suo giro ristretto, a confrontare il suo lavoro con quello degli altri.
Il risultato storico di questo lavoro è stato d'invertire la tendenza secolare alla dispersione delle esperienze d'avanguardia; dal terzo decennio del Novecento esse si muovono in senso convergente, i loro risultati si controllano e si sommano fra loro, come nel lavoro scientifico dai primi anni del Seicento in poi. È avvenuto il passaggio dall'alchimia alla ricerca scientifica. Anche gli errori e le deviazioni non sono esperienze perdute, perché esiste un metodo per correggerli progressivamente.
Il potenziale teorico e dimostrativo accumulato nella scuola tende immediatamente a uscire all'esterno, a confrontarsi con la realtà della produzione e dell'ambiente costruito. Gropius ha programmato questi contatti già nel training scolastico, sia stringendo contatti con le industrie che mettono in lavorazione gli oggetti d'uso studiati nel Bauhaus (quindi consentono un collaudo sperimentale immediato dei modelli disegnati, e contribuiscono al finanziamento della scuola), sia cercando di ottenere incarichi edilizi; a Weimar, mentre dura la crisi economica e l'inflazione del marco, riesce a realizzare solo una casa sperimentale (l'Haus am Horn, primo elemento di un quartiere rimasto sulla carta), arredata coi mobili del Bauhaus; a Dessau costruisce invece, dopo il 1925, una serie di edifici importanti, fra cui la nuova sede della scuola, che subito diventa nota in tutto il mondo.
L'attività del Bauhaus, che tende a portar dentro la scuola quel che si fa fuori e a portar fuori quel che si produce dentro, rende così inevitabile l'incontro e lo scontro con l'apparato esterno. La scuola non funziona come un terreno protetto, ma diventa il banco di prova della sfida che il nuovo movimento porta alla società costituita, alle sue istituzioni e alle sue abitudini.
Le circostanze politiche comprimono questo tentativo in un tempo brevissimo: press'a poco dalla ripresa economica della Germania (1924) all'arrivo al potere di Hitler (1933). Gropius lascia la direzione del Bauhaus nel 1928, e il suo posto è preso da H. Meyer, poi da Mies van der Rohe che trasporta la scuola a Berlino e deve chiuderla per ordine dei nazisti. Intanto nel 1928 gli architetti impegnati nella stessa ricerca fondano un'organizzazione, stabile, il CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna); lavorano come liberi professionisti (Le Corbusier a Parigi col cugino P. Jeanneret, Gropius a Berlino) oppure negli enti pubblici di intervento edilizio e urbanistico (Oud al comune di Rotterdam,' May al comune di Francoforte, Mies come vicepresidente del Werkbund tedesco) e si incontrano ogni anno (nel 1929 a Francoforte, nel 1930 a Bruxelles, poi più di rado nel 1933 ad Atene, nel 1937 a Parigi) per confrontare e discutere le loro realizzazioni.
La carica utopistica del discorso di Mondrian non si ritrova nei discorsi degli architetti militanti, che non parlano del lontano futuro ma dei risultati ottenibili nel presente, e definiscono il loro compito in modo sempre più cauto e riduttivo. L'indirizzo resta il medesimo, il riequilibrio della vita, ma si articola in fasi successive: alla fine l'instaurazione di un equilibrio globale (per il quale l'architettura può fornire solo un contributo parziale, oppure una prefigurazione simbolica), al principio la correzione degli squilibri particolari dovuti alla pressione dell'ambiente fisico sulla vita quotidiana. Gropius lo dice chiaramente a proposito dell'alloggio: ‟Il problema dell'alloggio minimo è quello di stabilire il minimo elementare di spazio, aria, luce e calore necessari all'uomo per essere in grado di sviluppare completamente le sue funzioni vitali, senza le restrizioni dovute al modo di abitare, cioè un modus vivendi minimo anziché un modus non moriendi" (W. Gropius, Die soziologischen Grundiagen der Minimalwohnung, in AA. VV., Die Wohnung für das Existenzminimum, Stuttgart 1933, p. 13). Le Corbusier parla invece al positivo: la casa e la città devono offrire agli uomini le ‟gioie essenziali".
D'altra parte questi squilibri sono consolidati nella gestione delle città - appena intaccata dai correttivi introdotti a cavallo dei due secoli - e servono come supporto a tutta una serie di interessi economici e sociali; di qui la violenta reazione della società costituita fin dalle prime fasi della nuova ricerca.
È stata osservata la disponibilità dei maestri dell'architettura moderna a lavorare per i più vari committenti - gli industriali a cui è rivolto l'appello di Le Corbusier del 1925, le amministrazioni socialdemocratiche tedesche, le Nazioni Unite, i Soviet, l'Esercito della Salvezza - e la singolare cautela nel respingere una compromissione stabile con qualcuna delle forze politiche del tempo (Gropius voleva tenere la politica fuori dal Bauhaus, e la politica è poi entrata per forza, facendo chiudere la scuola). Questo atteggiamento è stato interpretato come una persistenza del pregiudizio borghese sull'indipendenza della cultura; oppure, sopravvalutando il rapporto che ha funzionato meglio - quello con la socialdemocrazia nella Germania di Weimar, poi in Olanda, in Scandinavia, in Inghilterra - l'architettura moderna è stata qualificata senz'altro ‛socialdemocratica' o ‛radicale'. In realtà Gropius e i suoi coetanei erano già consapevoli di portare una proposta nuova, irriducibile ai termini del dibattito politico del tempo.
L'alternativa individuata dalla ricerca architettonica moderna non deriva da un'analisi politica della gestione urbana, ma da un'analisi scientifica, di per sé neutrale alle possibili utilizzazioni da parte delle forze politiche che agiscono nei cinquant'anni successivi. Ma siccome la gestione scelta dagli interessi dominanti esclude l'approccio scientifico alle decisioni globali (consente lo studio scientifico solo dei quesiti particolari già definiti dalle scelte a monte, e nasconde la natura politica di queste scelte con l'appello a una fittizia libertà artistica), l'analisi scientifica globale cominciata dall'architettura moderna diventa uno strumento politico di rottura, temibile e anche prematuro; è offerto infatti a una pluralità di forze politiche - alla socialdemocrazia, al comunismo russo, al capitalismo americano, persino (per un breve periodo) al fascismo italiano - nessuna delle quali si è sentita finora di portare fino in fondo i suoi risultati, perché non ha rinunciato (o non ha rinunciato completamente) all'apparato costrittivo della gestione urbana postuberale.
3. Le esperienze dal primo dopoguerra ad oggi
Non è possibile qui raccontare analiticamente le fasi successive dell'architettura del Novecento, che coprono un arco di cinquant'anni. Consideriamo tre tempi di questa vicenda, in cui cambiano sia i caratteri della ricerca, sia le reazioni del sistema sociale e culturale.
a) I vent'anni fra le due guerre mondiali
I movimenti artistici comparsi dopo il cubismo arrivano a interessarsi dell'architettura negli anni della prima guerra mondiale. Nel 1914 A. Sant'Elia pubblica il Manifesto futurista per l'architettura (in occasione della prima esposizione del gruppo Nuove tendenze alla Famiglia Artistica di Milano, il 20 maggio). Dal 1915 al 1917 A. Ozenfant elabora i principi del purismo sulla rivista ‟Elan", poi incontra Charles-Édouard Jeanneret (il futuro Le Corbusier) e pubblica con lui nel 1918 il manifesto intitolato Après le cubisme; nel 1915 Malevič pubblica il manifesto del suprematismo. Nel 1917 un gruppo di artisti olandesi - i pittori T. van Doesburg, P. Mondrian, B. van der Leck e V. Huszar, gli architetti J. J. P. Oud, J. Wils e R. van't Hoff, lo scultore G. Vantongerloo e il poeta A. Kok - fondano il neoplasticismo e cominciano a pubblicare la rivista ‟De Stijl"; ad essi si aggiunge Rietveld, che nel 1924 realizza a Utrecht il primo edificio corrispondente alle regole neoplastiche, l'ampliamento della casa Schroeder.
Tutti questi contributi trovano un punto di riferimento e una prima sistemazione nella scuola del Bauhaus, aperta da Gropius nel 1919, come si è detto. Il Bauhaus funziona a Weimar fino al 1924, poi a Dessau fino al 1932 e poi ancora a Berlino, dove è chiuso dai nazisti nel 1933. A Dessau, Gropius e i suoi collaboratori costruiscono dal 1926 al 1930 l'edificio della scuola, l'ufficio municipale del lavoro, il sobborgo di Törten e una serie di case isolate o accoppiate per gli insegnanti; M. Breuer realizza dopo il 1926 i primi mobili in tubo metallico; A. Albers e M. Brandt inventano una serie di lampade notissime e di stoffe per arredamento ottenute con la combinazione di vari materiali. Gropius nel 1927 vince il concorso per il quartiere di case popolari Dammerstock a Karlsruhe, e nel 1928 lascia la direzione del Bauhaus, per stabilirsi a Berlino come libero professionista. Qui realizza nel 1930 un altro quartiere operaio, il Siemensstadt (in collaborazione con O. Bartning, F. Forbat, H. Häring e H. Scharoun) e studia un complesso non realizzato di case alte in linea a undici piani a Spandau (1929); il primo edificio di tal genere, con ascensore e disimpegni a ballatoio, è il Bergpolder costruito a Rotterdam nel 1934 da Brinckmann, van der Vlug't e van Tijen.
Le Corbusier apre nel 1922 il famoso studio di rue de Sèvres a Parigi, ma negli anni venti riesce a costruire solo una serie di case individuali per committenti d'avanguardia: la villa a Vaucresson (1922), la casa-studio per Ozenfant a Parigi (1922), le case La Roche e Jeanneret del 1923, la villa sul lago Lemano per la madre nel 1925, poi la villa Stein a Garches del 1927 e la villa Savoye a Poissy del 1929. Solo nel 1925 ha l'occasione di costruire per un industriale di Bordeaux un piccolo gruppo di case standardizzate a Pessac, ma nel 1922 presenta al Salon d'Automne un progetto per una città di tre milioni d'abitanti (il modello di un tipo edilizio è esposto alla mostra delle arti decorative del 1925 a Parigi), e nel 1930 al CIAM di Bruxelles presenta in diciassette tavole ai suoi colleghi la sua città teorica, la ville radieuse, pubblicata poi in un volume del 1935. Egli non trascura nessuna occasione per applicare questa teoria ai piani delle città di tutto il mondo: a Parigi nel 1925 (il Plain Voisin), a Rio de Janeiro, San Paolo e Buenos Aires nel 1929, ad Algeri nel 1930, ad Anversa nel 1933. Solo fra il 1930 e il 1933 - dopo il tirocinio come artista d'avanguardia e prima della crisi economica - realizza tre edifici importanti: il padiglione svizzero alla città universitaria di Parigi, la sede dell'Esercito della Salvezza a Parigi, e una grande casa ad appartamenti, la Maison Clarté, a Ginevra; poi solo una piccola casa per vacanze a Les Mathes e la casa Jaoul alla periferia di Parigi, del 1935.
Mies van der Rohe presenta nel primo dopoguerra, alle esposizioni del Novembergruppe a Berlino, i primi sensazionali progetti teorici: due grattacieli in ferro e vetro nel 1919 e nel 1922, un palazzo per uffici in cemento armato nel 1922, due case basse in cemento e in mattoni nel 1923. Costruisce poi un gruppo di case popolari nell'Afrikanische Strasse a Berlino (1925), il monumento funebre a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (1926), due ville nel 1926 e nel 1928, il celebre padiglione tedesco all'esposizione del 1929 a Barcellona, e la villa Tugendhat a Brno nel 1930.
In Olanda Oud è architetto capo del comune di Rotterdam dal 1918, e realizza dal 1924 al 1925 due esemplari quartieri di case a schiera a Hoek van Holland e nella periferia meridionale della città. Anche altri architetti educati in modo più tradizionale sono attratti dalla disciplina del movimento moderno, e costruiscono in questo periodo le loro opere migliori: il tedesco E. Mendelsohn una serie di grandi magazzini per la ditta Schocken a Stoccarda nel 1926 e a Chemnitz nel 1928, e il famoso palazzo per uffici Columbus Haus a Berlino nel 1930; l'olandese W. M. Dudok, che è architetto capo del comune di Hilversum, una serie di splendide scuole e il municipio della sua città (1924). Nella Germania di Weimar Ernest May a Francoforte e Martin Wagner a Berlino realizzano vasti programmi di edilizia popolare, in cui utilizzano i risultati delle ricerche moderne. In Russia il gruppo di progettisti dell'OSA - M. Ginzburg, I. Milinis, i fratelli Vesnin - tentano per un breve periodo, intorno al 1930, di influenzare la pianificazione edilizia e urbanistica dello Stato attraverso il centro studi dello Stroikom: ma a una gran quantità di proposte teoriche corrispondono solo poche e controverse realizzazioni: la più importante è la casa collettiva del Commissariato per le Finanze a Mosca, di Ginzburg e Milinis (1928-1930).
Dal 1925 in poi gli architetti del movimento moderno tentano di presentarsi come un gruppo omogeneo, e di farsi conoscere al grande pubblico in una serie di manifestazioni ufficiali. Mies van der Rohe, come vicepresidente del Werkbund tedesco, organizza l'esposizione di Stoccarda del 1927, dove si realizza un piccolo quartiere - il Weissenhof - col contributo di tutti i principali architetti moderni: Mies stesso, Le Corbusier, Oud, Stam, Scharoun, Hilbersheimer, Bruno e Max Taut, Bourgeois, oltre agli anziani P. Behrens e H. Poelzig.
Dal 1928 in poi, come s'è detto, cominciano le riunioni del CIAM. Nel 1930 una grande esposizione del Werkbund tedesco a Parigi fa conoscere in Francia l'architettura e il disegno industriale tedesco. Alcuni architetti moderni partecipano ai concorsi per il palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra nel 1927 (Le Corbusier), e per il palazzo dei Soviet a Mosca del 1931 (Le Corbusier, Gropius, Mendelsohn, Poelzig). In Italia G. Pagano e G. Michelucci partecipano alla costruzione della città universitaria di Roma sotto la direzione di M. Piacentini; Michelucci con un gruppo di giovani allievi vince nel 1933 il concorso per la stazione ferroviaria di Firenze; G. Terragni costruisce nel 1934 la Casa del Fascio di Como.
Ma dopo il 1933 il nazismo al potere tronca il movimento tedesco: Gropius, Breuer, Bayer, Albers, Mendelsohn e poi anche Mies van der Rohe sono costretti a emigrare in America, Hilbersheimer, Bruno Taut e May in Russia. Poco dopo anche il regime stalinista in Russia e il fascismo in Italia scelgono l'indirizzo neoclassico, e tolgono a poco a poco agli architetti moderni le occasioni di lavoro. Da questa data in poi i contributi migliori vengono dai piccoli paesi che sfuggono gli effetti della reazione politica: esordiscono in Olanda J. A. Brinkmann e L. C. van der Vlugt (autori della fabbrica Van Nelle a Rotterdam e del citato Bergpolder); in Finlandia A. Aalto (che realizza nel 1930 il sanatorio di Paimio e nel 1932 la biblioteca di Vupuri); in Danimarca A. Jacobsen (le case a schiera Bellavista sono del 1934, il municipio di Aarhus del 1939); in Svizzera lavora a Zurigo il gruppo degli allievi di Karl Moser, il figlio Werner, Emil e Alfred Roth, M. E. Haefeli, C. Hubacher, R. Steiger, che costruiscono dopo il 1930 l'esemplare quartiere di case operaie Neubtihl per il Werkbund svizzero; in Italia cominciano la loro attività, lontani dalle occasioni ufficiali, i giovani M. Ridolfi, F. Albini, I. Gardella, L. C. Daneri e P. L. Nervi, oltre a G. Pagano che nel 1938 realizza insieme a G. Predaval l'Università Bocconi a Milano.
L'infaticabile Le Corbusier tenta inutilmente di inserire la sua opera e quella dei CIAM nell'esposizione universale di Parigi del 1937, dove l'avanguardia europea, sconfitta e perseguitata, è presente soprattutto nel padiglione spagnolo, con le pitture di J. Mirò, la fontana di A. Calder e Guernica di Picasso.
In questi due decenni la ricerca si svolge partendo dagli elementi: i mobili, gli oggetti d'uso, le cellule più piccole degli organismi edilizi (l'alloggio singolo, l'aula scolastica); e passando gradualmente dagli elementi agli insiemi: gli edifici, i quartieri, le città. Questo itinerario dipende da due cause, che hanno agito contemporaneamente, ma di cui non è stata ancora misurata l'importanza reciproca. Da un lato il procedimento dal particolare al generale fa parte della tradizione scientifica, ed è stato accettato nella ricerca architettonica come garanzia di correttezza e di controllo graduale dei risultati. Il frutto più importante di questa prima fase di lavoro è la definizione dei minimi elementi per ogni funzione urbana: in particolare l'alloggio (cioè il minimo elemento della funzione residenziale), che è stato sottratto all'infinita variabilità tradizionale e ricondotto a un numero limitato di tipi. Il concetto di ‛tipo edilizio' (in questa scala limitata) è d'ora in poi una conquista definitiva della teoria architettonica.
Dall'altro lato la società reagisce alla ricerca architettonica accettando, fra le sue proposte, quelle meno pericolose alle istituzioni e agli interessi costituiti; e siccome la gestione urbana postuberale si basa soprattutto sulle strutture d'insieme, si ammette una variazione degli elementi, ma non delle loro aggregazioni. Gli oggetti d'uso e i mobili progettati dagli architetti moderni - per es. i lumi a sfera o a calotta metallica ideati nel Bauhaus, i mobili in tubo metallico - si diffondono e influenzano in breve tempo la produzione di serie. La nozione del ‛tipo edilizio' è accettata correntemente, ma mentre nella teoria è definita in relazione alle modalità di aggregazione, nella pratica è ristretta alla conformazione dell'elemento, e il montaggio complessivo resta indeterminato: può produrre le Siediungen razionali tedesche degli anni venti, oppure i blocchi edilizi tradizionali, isolati o a filo strada. L'insieme dei precetti quantitativi ricavati dallo studio tipologico delle funzioni urbane forma ora una dottrina indipendente, l'‛urbanistica' contrapposta all'‛architettura', e in questa forma, scientifica ma limitata, è accolta nei manuali, negli uffici tecnici, nelle scuole. Il piano regolatore diventa uno strumento eterogeneo al progetto edilizio, cioè prescrive i rapporti quantitativi fra terreni e costruzioni, ma non la loro effettiva distribuzione, e non mette in questione la proprietà e la disponibilità dei suoli privati (fa eccezione l'Olanda, dove Cor van Eesteren, antico collaboratore di van Doesburg, entra nel 1928 nell'ufficio urbanistico di Amsterdam e vara nel 1934 il nuovo piano della città, basato sul controllo pubblico delle zone d'espansione e sulla progettazione d'insieme dei quartieri; l'esecuzione comincia già prima della guerra).
Poiché l'accento della ricerca rimane sugli elementi, il lavoro degli architetti resta strettamente legato a quello degli artisti tradizionali, pittori e scultori. Molti dei maestri moderni, a cominciare da Le Corbusier, alternano i due generi di attività. Così la ricerca architettonica si presenta all'esterno ancora incorporata nella ricerca artistica: è giudicata uno stile d'avanguardia, e come tale è perseguitata dai nuovi regimi totalitari degli anni trenta - il fascismo italiano, il nazismo tedesco, lo stalinismo russo - che aspirano ugualmente a controllare le forme esteriori della vita sociale e finiscono per adottare il codice formale meno compromettente: il vecchio classicismo logorato da una serie infinita di ripetizioni.
b) I primi vent'anni dopo la seconda guerra mondiale
Nel secondo dopoguerra conta in primo luogo l'esempio dei paesi che sono rimasti lontani dalla catastrofe, e hanno potuto continuare a costruire: gli Stati Uniti e l'America Latina.
Negli Stati Uniti sono al lavoro molti dei maestri del Bauhaus: Albers dal 1933, Feininger dal 1936, Gropius, Breuer e Moholy-Nagy dal 1937, Mies van der Rohe e Hilbersheimer dal 1938. Essi non sono più personaggi d'avanguardia - come R. Neutra, arrivato nel 1923, e l'americano Wright che prosegue l'esperienza dei pionieri di Chicago fra i due secoli - ma insegnano nelle università e si inseriscono nei programmi edilizi e urbanistici del New Deal di Roosevelt. Gropius studia nel 1942, insieme a K. Wachsmann, un sistema di prefabbricazione per la General Panel Corp., e nel 1946, lasciato l'insegnamento, forma un gruppo di lavoro con alcuni ex allievi di Harvard, il TAC (The Architect's Collaborative), che da allora progetta un gran numero di edifici negli Stati Uniti e altrove. Mies van der Rohe costruisce a Chicago dal 1939 il campus dell'Illinois Institute of Technology, e dal dopoguerra in poi una serie di edifici alti in cemento armato o in acciaio, che danno forma compiuta e razionale al ‛grattacielo' americano: i Promontory Apartments nel 1946, i Lake Shore Drive Apartments nel 1951, i Commonwealth Promenade Apartments nel 1957, il Seagram Building a New York nel 1959, il Federal Center ancora a Chicago nel 1964, il Dominion Center a Toronto. Queste opere - e il grattacielo dell'ONU a New York realizzato da W. K. Harrison nel 1950 seguendo uno schema di Le Corbusier del 1946 - sono i modelli dell'edilizia in curtain wall che si diffonde nei centri delle città americane e poi in tutto il mondo: basta citare la Lever House a New York (Skidmore, Owings e Merrill, 1952), gli edifici della General Motors a Detroit (E. Saarinen, 1951), il Chase Manhattan Bank Building a New York (Skidmore, Owings e Merrill, 1965).
In Brasile L. Costa, O. Niemeyer, A. E. Reidy e E. M. Vasconcellos progettano con Le Corbusier nel 1936 l'edificio del Ministero dell'Educazione e Sanità, e lo costruiscono dal 1937 al 1943: è il primo grande palazzo per uffici dove sono applicate due invenzioni del maestro francese, i pilotis e il brise-soleil. Niemeyer realizza nel 1942 gli edifici di Pampuhla, e l'architettura brasiliana acquista notorietà internazionale dopo l'esposizione al Museum of Modern Art di New York del 1943. Più tardi, nel 1957, Costa vince il concorso per il piano urbanistico della nuova capitale, Brasilia, e Niemeyer realizza i principali edifici pubblici della città; ma Niemeyer e molti altri sono costretti a lasciare il Brasile dopo il colpo di stato militare del 1964. In Venezuela C. R. Villanueva costruisce durante la guerra i grandi blocchi di case operaie alla periferia di Caracas, e dal 1947 al 1957 la città universitaria di Caracas. In Messico si realizza dal 1951 la città universitaria della capitale - dove gli architetti M. Pani e J. O'Gorman collaborano con i pittori come D. Rivera e J. C. Orozco, autori delle grandi decorazioni murali - e si sviluppa un vasto programma di costruzioni scolastiche, sanitarie e ricreative a cura dello Stato.
In Europa il problema dominante è la ricostruzione, dopo i disastri della guerra, e l'indirizzo della ricerca dipende in primo luogo da come i governi dei vari paesi impostano i programmi d'intervento pubblico.
In Inghilterra le conseguenze della crisi economica degli anni trenta sugli insediamenti produttivi e residenziali sono studiate in una serie di rapporti ufficiali, dal 1935 in poi. Durante la guerra si prepara il piano di Londra: il gruppo MARS, che fa capo ai CIAM, presenta un suo progetto nel 1942, ma il County Council adotta nel 1944 il piano di P. Abercrombie, che liniita lo sviluppo della grande città nei confini raggiunti nel 1939, istituisce una cintura verde tutt'intorno e decide di concentrare i nuovi insediamenti in una serie di nuove città ancora più esterne. Dopo il 1945 il nuovo governo laburista vara la legge per la costruzione delle nuove città (nel 1946) e una legge urbanistica generale (nel 1947); la nuova città di Harlow, progettata da F. Gibbert, è condotta avanti per prima come modello sperimentale. Intanto l'Education act del 1944 ha prolungato l'obbligo scolastico fino ai sedici anni, e le autorità locali cominciano un vasto programma di costruzioni scolastiche: si distingue fra tutti l'ufficio tecnico dello Hertfordshire County Council, diretto da C. H. Aslin. L'inizio tempestivo della pianificazione inglese permette di collaudare i progetti iniziali, di correggerli e di migliorarli ripetutamente. Sulle nuove città cominciate negli anni quaranta si apre una vasta discussione, da cui muovono i progetti successivi per Stevenage (H. Wilson, 1955), per Hook (London County Council, 1960), per Runcorn (L. Martin, 1965). I problemi del traffico nelle città sono affrontati per la prima volta in modo radicale nel rapporto Buchanan del 1963. Il London County Council realizza una serie di quartieri urbani esemplari (Loughborough, 1955, e Roehampton, 1956).
In Francia nel primo dopoguerra il ministro C. Petit commissiona alcune grandi realizzazioni dimostrative a Le Corbusier (la prima unité d'habitation a Marsiglia) e a Perret (la ricostruzione del centro di Le Havre). Ma le proposte di Le Corbusier per i piani regolatori delle città (i progetti per Saint-Dié, Saint-Gaudens e La Rochelle sono del 1945 e del 1946) non hanno successo, e la ricostruzione francese avviene in modo episodico, senza un moderno inquadramento urbanistico; solo negli anni cinquanta i grands ensembles di case popolari - fra cui spicca quello di Tolosa progettato da O. Candilis, A. Josic e S. Woods - diventano così grandi da riproporre il problema degli organismi urbani. Intanto Le Corbusier, estromesso dai lavori pubblici, costruisce in Francia i suoi ultimi capolavori isolati: le repliche dell'unité d'habitation a Nantes, a Briey-en-Foret, a Firminy (e a Berlino), la chiesa di Ronchamp (1954) e il convento della Tourette (1961).
In Italia la pianificazione urbanistica resta inoperante, mentre l'intervento edilizio pubblico diventa consistente nei due piani settennali dell'INA-Casa (1949-1963), a cui partecipano i migliori architetti italiani. Ma l'incertezza degli indirizzi produce un'enorme dispersione di esperienze non confrontabili: i migliori quartieri realizzati sono i due di L. C. Daneri a Genova, Villa Bernabò Brea e Forte Quezzi, e l'unità di abitazione orizzontale di A. Libera a Roma. Le capacità degli architetti italiani sono deviate verso la realizzazione di opere eccezionali e isolate: i musei di Albini, la Cassa di Risparmio a Firenze (1959) e le chiese di Michelucci, le grandi strutture di Nervi per le Olimpiadi di Roma (1960) e per l'esposizione di Torino (1961).
In Germania devono essere ricostruiti i centri di quasi tutte le maggiori città: si restaurano con perfezione filologica i monumenti del passato e si realizzano impeccabili edifici nuovi come gli uffici della Mannesmann a Dùsseldorf (P. Schneider-Esleben, 1960); per la ricostruzione del quartiere Hansa a Berlino (1957) si chiamano alcuni importanti architetti stranieri fra cui A. Aalto, J. Bakema e J. van den Broek, il TAC, l'americano H. Stubbins. Dal 1950 al 1969 funziona a Ulm una scuola di progettazione, diretta da M. Bill e poi da T. Maldonado, che influenza largamente il disegno industriale tedesco.
Nei paesi scandinavi - nella Svezia che è stata risparmiata dalla guerra, ma anche in Danimarca, in Finlandia e in Norvegia - un'efficiente pianificazione urbanistica inquadra l'attività edilizia pubblica e privata. Gli architetti già divenuti famosi prima della guerra - S. Markelius in Svezia, Jacobsen in Danimarca, Aalto in Finlandia - realizzano fra il 1950 e il 1960 le loro opere migliori: la sistemazione del centro degli affari a Stoccolma e la città satellite di Vàllingby (Markelius e vari collaboratori); la scuola di Gentofte, il municipio di Rodovre e il grattacielo della SAS a Copenhagen (Jacobsen); il municipio di Säynätsalo, l'istituto delle pensioni e la casa della cultura a Copenhagen (Aalto).
In Olanda il piano regolatore di Amsterdam, definito negli anni trenta da van Eesteren e dai suoi collaboratori, è puntualmente realizzato nei vent'anni successivi: il gruppo dei quartieri occidentali raccolti intorno al lago Sloterplas e il bosco artificiale di 900 ettari sono i due episodi più significativi di una città ormai completamente controllata con criteri moderni. Il centro di Rotterdam, distrutto da un bombardamento del 1940, è ricostruito secondo un nuovo piano d'insieme: qui Bakema e van den Broek (che dirigono lo studio fondato da Brinkmann e van der Vlugt nell'anteguerra) realizzano il centro commerciale Lijnbahn (1955), con la passeggiata centrale riservata ai pedoni e le strade carrabili periferiche. Bakema e van den Broek sviluppano un modello di unità d'abitazione mista, composta di case alte, medie e basse, e lo applicano in molti progetti teorici (per l'Alexanderpolder nel 1956, per Leeuwarden e il Noord Kennemeerland nel 1959), ma riescono a realizzarlo concretamente solo in un piccolo quartiere a Hengelo (1956-1958).
Il movimento dell'architettura moderna si espande ora dall'Europa e dall'America nel mondo intero. Nehru in India offre a Le Corbusier l'unica occasione di progettare una nuova città: Chandigarh, che si realizza dal 1951 in poi. Le Corbusier definisce di sua mano lo splendido gruppo degli edifici governativi: la Corte di giustizia, il Parlamento, il Segretariato e il palazzo del Governatore; per la prima volta un complesso unitario di grandi dimensioni, arricchito con sistemazioni a terra e sculture. In Giappone - dove sono già attivi tra le due guerre K. Maekawa e J. Sakakura, che hanno lavorato allo studio di Le Corbusier - Kenzo Tange esordisce nel 1951 con il memorial di Hiroshima, e diventa in pochi anni uno dei più famosi architetti del mondo: le sue opere principali sono grandi edifici pubblici che spiccano nel paesaggio tumultuoso delle città giapponesi del dopoguerra: la prefettura di Kagawa (1954), il palazzo comunale di Tōkyō (1956), le piscine coperte per le Olimpiadi di Tōkyō del 1964. I suoi progetti urbanistici - quello elaborato al M.I.T. di Boston nel 1959 e quello per Tōkyō del 1960 - restano dimostrazioni teoriche, che affrontano decisamente la scala della grande città contemporanea, ma non trovano rispondenza nella pratica del suo paese. Nel mondo socialista - dove i governi hanno la libera disponibilità dei suoli urbani - la progettazione edilizia e urbanistica resta a lungo condizionata dai modelli accademici stabiliti nel periodo stalinista; solo in alcuni paesi periferici - in Polonia, in Iugoslavia - si svolge una ricerca aggiornata, almeno nella scala urbanistica: i polacchi J. Malisz e W. Ostrowski e lo iugoslavo E. Ravnikar figurano fra i maggiori esperti internazionali della pianificazione territoriale.
Le esperienze di questo primo ventennio dopo la guerra, sebbene disperse e incomplete, convergono verso un obiettivo comune: spostano la ricerca analitica del periodo precedente dagli elementi agli insiemi, cioè affrontano in teoria - e influenzano largamente in pratica - la progettazione urbanistica. Le Corbusier, poi Bakema e van den Broek e Candilis formulano il concetto dell' ‛unità di abitazione',. cioè estendono lo studio tipologico della residenza dall'alloggio singolo all'aggregazione degli alloggi coi relativi servizi comuni. L'unità d'abitazione è l'aggregazione minima, che comprende il numero di alloggi corrispondenti ai servizi più semplici (l'asilo, i negozi di prima necessità, i locali di riunione), ma si pone come elemento di ulteriori aggregazioni, caratterizzate da altri servizi più complessi: la scuola elementare, l'ambulatorio, le sale di spettacolo, i centri commerciali. Nella sua formulazione più rigorosa, l'idea dell'unità d'abitazione sconvolge la gestione urbana tradizionale: si pone come il nuovo minimo elemento costruibile della città, abbastanza articolato da risolvere nel suo interno il rapporto fra vita individuale e collettiva, e abbastanza grande per escludere la frammentazione tradizionale dei lotti edificabili e delle iniziative edilizie; invalida la distinzione precedente fra urbanistica e architettura perché estende la progettazione, e il controllo qualitativo, a una scala riservata per tradizione alle norme quantitative dei piani, e tendenzialmente, mediante l'aggregazione delle unità, a tutto il tessuto urbano. Di qui le difficoltà di realizzazione. Le Corbusier riesce a costruire l'unité de grandeur conforme (formulata come elemento minimo da ripetere) solo in cinque occasioni isolate, e mai ad associare varie unità per formare un nuovo tessuto urbano. Bakema e van den Broek, pur lavorando nel progredito ambiente olandese, sviluppano la loro proposta di unità di abitazione aggregabile, in varie scale, in una serie di progetti teorici.
Ma intanto l'idea più generica della progettazione integrale di vasti quartieri o di città nuove si fa strada nella pratica urbanistica di molti paesi: è alla base della ricostruzione sovietica (e nei paesi dell'est europeo) durante il quarto piano quinquennale (1946-1950), è accettata in forme diverse nei paesi occidentali - l'Olanda, gli Stati scandinavi, l'Inghilterra, la Francia, la Germania - e dopo il 1960 anche in America. Per far questo le amministrazioni locali devono avere la libera disponibilità dei terreni: assicurata per legge nei paesi socialisti, già ottenuta di fatto in Olanda e in Scandinavia perché le municipalità possiedono gran parte delle aree suburbane, procurata in Inghilterra con una riforma legislativa che riserva all'ente di pianificazione il diritto di espropriare, sistemare e poi cedere le aree comprese nei piani. Questa condizione giuridica - affermata teoricamente dai CIAM già nel loro primo documento del 1928, la dichiarazione della Sarraz - è ora sperimentata su larga scala e si rivela necessaria, ma non sufficiente: la spartizione dei terreni fra i privati e l'amministrazione serve a rendere automatica la gestione della città postliberale, tuttavia la sua eliminazione non basta a far sparire i meccanismi costrittivi consolidati dall'uso: occorre la volontà di rimuovere o di allentare questo tipo di controllo, sperimentando liberamente i modelli alternativi proposti dalla ricerca scientifica.
Il paese dove il distacco dal passato è complessivamente più netto, e quindi i nuovi modelli possono essere applicati in misura maggiore, è certamente l'Inghilterra. Qui la riforma del territorio è preparata teoricamente già durante la guerra, e da allora gli enti di pianificazione delle varie contee - primo fra tutti il London County Council - e le development corporations delle nuove città lavorano senza soste e traducono in pratica progetti sempre più perfezionati. In Francia alcuni dei grands ensembles, in Germania la nuova città di Wulfen e la Nordweststadt presso Francoforte, in Svezia i nuovi quartieri d'espansione di Stoccolma sono esempi consistenti di un nuovo ambiente di vita, diverso per molti aspetti da quello tradizionale. I centri di molte città europee e americane si stanno trasformando, non solo per l'inserimento di nuovi edifici isolati, ma anche per la sistemazione d'insieme di vaste aree, dove la circolazione pedonale è disimpegnata da quella dei veicoli, su uno o su più livelli (Rotterdam, Stoccolma, le downtowns americane). All'opposto, la pratica tradizionale di demolire e ricostruire i quartieri storici si sta abbandonando, e buona parte degli organismi antichi sono tutelati nel loro insieme come elementi preziosi e insostituibili della città moderna.
Questo passaggio delle tesi e dei modelli teorici nella pratica corrente non avviene senza compromessi e riduzioni: la gestione tradizionale, che regge ancora come regola diffusa, è in grado di selezionare e di correggere gran parte delle proposte alternative. Tuttavia nei primi due decenni del dopoguerra il confronto s'impone; la nuova ricerca architettonica non può più essere valutata in blocco come uno stile fra tanti altri, in base a una scelta di gusto o di convenienza: deve essere giudicata oggettivamente per l'evidenza e l'efficacia dei suoi risultati. Il riconoscimento del valore scientifico di questa ricerca non impedisce che possa essere usata in vari modi, per conto di interessi diversi, generali o particolari (è quel che succede per la fisica, la chimica, la medicina moderna); ma invalida, come s'è detto, il meccanismo storico scelto dagli' interessi dominanti per controllare l'ambiente fisico (e, attraverso questo, molti altri aspetti della vita individuale e associata), basato appunto sull'artisticità delle scelte formali, incontrollabili e riservate a una minoranza specializzata. Dunque l'apparato istituzionale reagisce rivalutando il lavoro artistico puro, che a suo tempo ha messo in moto l'architettura del Novecento, ma che, continuando per la sua strada, è diventato innocuo e può essere immesso senza pericolo nel circuito dell'intrattenimento, del tempo libero, dei loisirs; il lavoro degli artisti diventa adesso l'alternativa al lavoro degli architetti, il mezzo per negare l'oggettività e il fondamento scientifico della ricerca architettonica, ed è coltivato a questo scopo finanziando sempre più pesantemente i suoi meccanismi settoriali: il mercato delle opere originali o riprodotte in serie limitate, le esposizioni, i premi, i musei. I pittori d'avanguardia, che fino al terzo decennio del Novecento erano poveri e tenuti al margine, diventano personaggi rispettati, famosi e ricchissimi: basta pensare a Picasso e a tanti altri, mentre Le Corbusier resta discusso e mal pagato fino alla fine della sua carriera, Gropius e Mies van der Rohe fanno la vita normale dei professori d'università o dei medi professionisti.
Alcuni artisti e alcuni critici d'arte avvertono il disagio di questo boom commerciale dell'arte moderna, sentono di esser tagliati fuori dal lavoro produttivo e isolati in un mondo artificioso; imparano a contestare la società dei consumi che li finanzia, a deriderla o a insultarla coi mezzi specifici della loro arte, ma imparano anche che la conte- stazione non interrompe l'afflusso dei consensi e del denaro. Quel che rassicura la società non è il contenuto, bensì l'isolamento settoriale del lavoro artistico.
c) Il nuovo corso degli avvenimenti nell'ultimo decennio
Negli ultimi anni la ricerca dell'architettura moderna è arrivata a un punto critico, che tenteremo di spiegare, anche se la mancanza di prospettiva rende difficile questo genere di giudizi.
Per prima cosa sono usciti di scena i maestri che l'hanno messa in moto: Le Corbusier è scomparso in mare nell'estate del 1965, Gropius e Mies van der Rohe sono morti nell'estate del 1969. La fine della loro carriera non è un avvenimento anagrafico da commemorare con solennità, ma un vero cambiamento nel corso della ricerca, perché la loro presenza è stata fino all'ultimo importante e decisiva. Le Corbusier e Mies - ora lo vediamo bene - hanno fatto le esperienze più rilevanti nel campo della progettazione: restano i più grandi architetti di questo secolo, e fino al momento della morte (Le Corbusier a settantotto anni, Mies a ottantatre) erano letteralmente i più bravi di tutti: non solo i più famosi e i più rispettati, ma i più capaci di inventare forme nuove. La Galleria d'Arte Moderna di Mies a Berlino, inaugurata appunto nel 1969, e l'ospedale di Le Corbusier a Venezia - progettato negli ultimi mesi, ma purtroppo non ancora eseguito - hanno meravigliato tutto il mondo per la maestria dell'ideazione e dello sviluppo: per molto tempo non potremo aspettarci altre opere di uguale qualità.
Gropius è rimasto più in ombra negli ultimi anni; ha rinunciato forse a coltivare il suo talento individuale come progettista, ma non ha smesso di insegnare a tutti la necessità di unire i vari sforzi in un movimento comune; così il suo apporto è stato ugualmente decisivo nel campo didattico. Uno dei suoi ultimi scritti, del 1964, resta il bilancio più equilibrato e penetrante delle ultime difficoltà dell'architettura moderna: ‟Applaudiamo l'effetto sorpresa di nuove meraviglie architettoniche e trascuriamo la ricerca paziente e costante di soluzioni fondamentali passibili di sviluppo, crescita e ripetizione. Ci disperdiamo in contributi personali di natura più o meno brillante, che non riescono poi a trovare un armonico inserimento in un'architettura ambientale civile e moderata, che possa esplicarsi in forme meno personali e più rispondenti alle esigenze della collettività" (Town planning and environment, in ‟Civiltà delle macchine", 1965, XII, n. 4, p. 17).
Gropius vedeva la causa di questa dispersione nella mancata corrispondenza fra la ricerca professionale e l'educazione di base, quindi nella scarsa intesa fra progettisti e utenti: ‟solo attraverso l'educazione - che rappresenta ancor oggi la più avventurosa frontiera della vita - è possibile coltivare la sensibilità dei cittadini e far sorgere una nuova coscienza comune. Potremo così ripristinare la comunicazione e la collaborazione fra ‛produttore' e ‛consumatore', perché le paure e i miti che paralizzano i profani cedano il passo a una partecipazione attiva e costruttiva: premessa fondamentale per la costruzione di un ambiente urbano unificato che esprima pienamente il nostro tempo" (ibid.).
Gli avvenimenti degli ultimi dieci anni danno ragione a questa diagnosi: la ricerca teorica è decisamente sfasata rispetto all'esperienza pratica. Gli ultimi progetti di Bakema e van den Broek - e soprattutto la proposta per lo sviluppo di Amsterdam Est, pubblicata nel 1965 - sono forse gli esempi più persuasivi: Amsterdam va considerata nel suo insieme la città più moderna del mondo, quella dove l'architettura del Novecento ha influenzato più largamente la prassi urbanistica ed edilizia, in un arco di quasi quarant'anni; il piano di van Eesteren, studiato dal 1928 al 1934, è ora una realtà costruita, con le sue composizioni planovolumetriche e il suo sistema capillare di zone verdi e di servizi. Eppure anche lì la prassi tradizionale è divenuta insufficiente, e sembra impossibile correggerla dall'interno: una proposta alternativa - uno sviluppo per unità di abitazione di 10.000 abitanti ciascuna, preventivamente definite nella struttura architettonica fondamentale (sebbene variabili nei dettagli) e associate in una composizione lineare, nella scala adeguata a una grande città - ha dovuto essere presentata da uno studio privato, in un numero speciale di una rivista, come agli inizi del movimento, negli anni venti.
Le ‛utopie' urbane, pubblicate in gran numero dal 1960 in poi, - abbiamo ricordato il piano di Tange per Tokyo, ma da allora sono comparsi molti altri progetti, realistici, avveniristici o decisamente provocatori, come quelli del gruppo inglese Archigram - indicano appunto lo scarto fra immaginazione e realtà: fissano sui disegni e nelle pagine dei libri e delle riviste quel che si sa impossibile da realizzare nel territorio.
L'Inghilterra è la parziale eccezione a questo quadro generale: esiste una trafila ufficiale - anche se incerta e rischiosa - per trasformare le ‛utopie' in esperimenti reali, quindi per controllare sperimentalmente i loro vantaggi e svantaggi. Cumbernauld, progettata da C. Wilson alla fine degli anni cinquanta, è quasi tutta eseguita: ha una rete stradale carrabile e una rete pedonale completamente separate, come a Venezia, e un centro commerciale compatto, organizzato a più livelli. Runcorn, progettata da A. Ling intorno al 1965, avrà anche una stretta integrazione fra zone residenziali e industriali, e una terza rete stradale indipendente per i trasporti pubblici. ‟Le nuove città - scriveva Wilson nel Rapporto sul centro di Cumbernauld - devono considerarsi laboratori di urbanistica in cui le idee per la ristrutturazione delle città esistenti potranno esser elaborate. Sono grandi occasioni per trarre validi insegnamenti per la soluzione dei problemi urbanistici delle città vecchie e nuove. Il governo deve trarre pieno vantaggio dagli enormi investimenti fatti nelle nuove città, affinché i loro abitanti, come pure gli abitanti delle vecchie città che devono essere rivitalizzate, ne possano godere al massimo". Il Greater London Council - che ha sostituito nel 1965 il London County Council - sta costruendo alcuni grandi quartieri di nuova progettazione, come Thamesmead.
In altri paesi si studiano e si realizzano nuove città, anche più grandi di quelle inglesi; spesso le agenzie europee e americane (il Joint Center for Urban Studies è stato istituito nel 1959 dal M.I.T. e dall'Università di Harvard) fanno i progetti per i paesi del Terzo Mondo, ma calano dall'alto modelli schematici e convenzionali, di cui si ignorano completamente gli effetti concreti: il circuito stabilito parzialmente in Inghilterra fra progettazione ed esperienza è ancora irrealizzabile altrove, e il ritardo si ripercuote sulla ricerca; gran parte delle nuove proposte sono superate prima di esser tradotte in realtà, prima cioè di sapere se avrebbero funzionato o no. Questo corto circuito, per cui le teorie si paragonano fra loro, e la realtà va per il suo verso, rischia di interrompere la continuità della ricerca svolta negli ultimi cinquant'anni.
La situazione attuale va giudicata nei suoi termini politici: l'architettura del Novecento ha fatto le sue esperienze, ha giocato le sue carte e ha avuto successo fino al punto critico che metterebbe in discussione le istituzioni fondamentali per l'uso del territorio. Tutto sommato le nuove sistemazioni restano episodi eccezionali, mentre la gestione urbana postliberale - cioè l'accordo fra gli interessi costituiti per usare l'ambiente fisico come sistema frenante delle trasformazioni e dei conflitti sociali - regge come regola generale, anzi si diffonde dall'Europa e dagli Stati Uniti nel Terzo Mondo, dove la crescita tumultuosa delle grandi città (Teheran, Saigon, Il Cairo, Città di Messico, Rio de Janeiro, ecc.) riproduce e accentua i meccanismi già sperimentati a Londra, a Parigi, a New York: la speculazione fondiaria, la segregazione e la discriminazione fra le classi, la mancanza dei servizi pubblici. L'equilibrio delle opportunità di vita e la libertà dall'oppressione, postulati da Mondrian come scopo ideale della ricerca, sono più che mai lontani in un mondo dove i grandi sistemi politici ed economici coltivano invece gli squilibri e la costrizione di massa. Basta considerare che negli ultimi dieci anni la popolazione urbana mondiale è quasi raddoppiata, ma solo una minoranza dei nuovi arrivati abita nelle case e nei quartieri ‛regolari': la maggior parte si affolla negli accampamenti marginali (bidonvilles, ranchos, favelas), oppure dorme nelle strade della città fatta per gli altri. Si calcola che ormai due terzi della popolazione mondiale vive in queste condizioni; se la ricerca architettonica trascura questo problema centrale, rischia di diventare una tecnica di lusso per il terzo dei privilegiati.
Nello stesso tempo si fa strada la consapevolezza e il rifiuto dei meccanismi costrittivi, nella vita politica, nella scuola, nell'esercito, nei consumi di massa. Dal 1965 in poi alcuni movimenti di protesta - in Francia, negli Stati Uniti, in Cina, in Cecoslovacchia, nei paesi poveri del Terzo Mondo - hanno minacciato da vicino la gestione tradizionale del potere, e sono stati respinti più o meno prontamente. Questi insuccessi non devono far dimenticare il loro valore complessivo come ‛segni dei tempi': mettono in evidenza il limite di guardia delle istituzioni attaccate, anche se queste reggono alla prova con successo.
L'architettura del Novecento è impegnata dal principio in questo tentativo, che oggi acquista un carattere generalizzato. L'obiettivo fissato fin dal terzo decennio del Novecento può essere descritto con le parole di Illich: trasformare l'ambiente costruito da ‟istituzione manipolatrice" in ‟istituzione conviviale", organizzare il territorio come una rete di servizi che aumenti, invece di restringere, le opportunità di scelta e di organizzazione autonoma degli individui e dei gruppi. L'esperienza fatta in cinquant'anni dimostra che questa trasformazione non può venire per conseguenza da un cambiamento dei rapporti di produzione, anzi - come la riforma della scuola proposta da Illich - è probabilmente una premessa indispensabile a ogni reale mutamento economico e politico, perché è una della strutture che perpetua i rapporti di potere attuale.
Per la stessa ragione il lavoro settoriale nel campo dell'architettura - o della scuola, o della sanità - si blocca se non si estende da un settòre all'altro. La riforma dell'ambiente costruito ha raggiunto precocemente i limiti oltre i quali non può reggere come riforma isolata; infatti sono evidenti i segni di riflusso, e l'apparato istituzionale fa ora uno sforzo deciso per deviare tutta la ricerca architettonica nel campo dell'intrattenimento, dei mass media: si fanno mostre di progetti architettonici come prima si facevano di opere d'arte, si tenta d'interpretare teoricamente l'architettura come una struttura di comunicazione. Alcuni architetti rispondono a questo appello moltiplicando i progetti utopistici, che non possono essere applicati ai problemi concreti ma hanno un mercato promettente nei libri, nelle riviste, nei corsi universitari. Altri tentano di stabilire, in diversi modi, un rapporto diretto con gli utenti dell'architettura e della città per sviluppare tecnicamente - con un minimo di interpretazione personale - le loro esigenze immediate; sono esperienze ancora incerte e isolate, come l'advocacy planning americano; si aspetta che siano confermate da nuove strutture istituzionali, nei paesi dove le istituzioni si formano adesso, come Cuba e la Cina, ma finora, nel nostro campo, senza risultati significativi.
Il progresso tecnico rende sempre più irragionevole e costoso conservare l'apparato della gestione urbana tradizionale: i suoi difetti sono sotto gli occhi di tutti, e le opportunità di vita e di rapporti che nascono dai nuovi mezzi di produzione e di comunicazione devono esser continuamente sprecate. Le due città - quella regolata ufficialmente e quella emarginata - stanno diventando ugualmente intollerabili. D'altra parte gli interessi privilegiati in questa gestione escono allo scoperto e si preparano a resistere con violenza palese; infatti, la conservazione del sistema urbano attuale diventa sempre più preziosa, per difendere un sistema sociale minacciato per tanti altri aspetti. Questo contrasto è aperto a molte soluzioni, che non si possono misurare in anticipo.
Cinquant'anni di storia sono pochi per giudicare un movimento, e soprattutto per definire le tendenze più recenti. Se la svolta di cinquant'anni fa è un vero cambiamento di impostazione, come abbiamo tentato di dimostrare, i suoi sviluppi in mezzo secolo sono appena cominciati: potrebbero esser dispersi in qualsiasi momento, ma non più come un'anomalia settoriale, bensì come parte di un movimento per cambiare la natura delle istituzioni dominanti, ingaggiato contemporaneamente in vari settori e indipendente dalla contrapposizione dei blocchi politici, ereditata dal periodo precedente. Da cinquant'anni l'architettura del Novecento lavora secondo una stessa prospettiva d'azione e negli ultimi dieci anni si è dimostrato che tale prospettiva non è isolata, ma fa parte di un indirizzo culturale più vasto. In questo quadro ampliato può fallire o aver successo. Brecht nel 1930 ha definito così i requisiti necessari a ‟cambiare il mondo", in tutto o in parte: ‟sdegno e tenacia, conoscenza e ribellione" (B. Brecht, Die Massnahme, Berlin 1930).
Oggi possiamo dire qualcosa di più sulla distribuzione dello sdegno e della tenacia, valevole per l'architettura e per altri lavori. Occorre la continuità di una ricerca tenace (la recherche patiente di Le Corbusier) messa al servizio di un'azione impaziente, che cominci ora a operare i cambiamenti possibili; proprio il contrario della ricerca impaziente suscitata e accelerata dalle comunicazioni di massa, che varia continuamente i suoi obiettivi e serve da supporto per un'azione pazientissima, cioè per sopportare e stabilizzare la città e la società com'è adesso.
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