Architettura
A voler identificare, di primo acchito e in una parola, qualcosa in grado di rappresentare la scena architettonica contemporanea non si può che pensare al divenire. Un divenire che, genericamente, può essere inteso come sinonimo di mutamento, come l’evolversi graduale di una situazione; ma anche, meno genericamente, un divenire come svolgimento nel tempo (opposto all’essere come sostanza ideale) che, come scrive Georg Wilhelm Friedrich Hegel, «è la vera espressione del risultato di essere e niente come l’unità di essi: non è soltanto l’unità dell’essere e del niente, ma è l’irrequietezza in sé» (Encyklopädie der philosophischen Wissenshaften im Grundrisse, 18272, § 88; trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche, 1° vol., 1980, p. 107). Una condizione dunque non solo segnata dal cambiamento, ma su cui aleggiano dialettiche non esenti da rischi. Potrebbe forse, nel nostro caso, trattarsi di un divenire senza essere, come – non senza pessimismo – è stato ipotizzato da Vittorio Gregotti (2014, p. 33), un divenire che accetta cioè, passivamente, il disordine come distruzione o radicale rinnovamento in assenza, purtroppo, di un progetto? Da una parte è facile immaginare che tale percezione, legata a una condizione appunto in divenire, derivi, in una certa misura, dalla mancanza di prospettiva storica, condizione che caratterizza ogni disamina critica cronologicamente prossima (nel nostro caso, in particolare, guardiamo al primo quindicennio del 21° sec.). Ma, dall’altra, non può non affacciarsi l’ipotesi, resa abbastanza evidente da una serie di fattori di cui parleremo, in base alla quale l’a. contemporanea, con la sua inesausta ricerca, più che del nuovo, della novità gratuita e fine a sé stessa, sembri aver smarrito il proprio essere o, forse meglio, il proprio esser-ci come fondamento di ogni ontologia, come essere nel mondo – senza tuttavia dimenticare che pure esso «ha, fra le altre possibilità di essere, quella del cercare» (M. Heidegger,Sein und Zeit, 1927; trad. it. Essere e tempo, 1953). Un esserci dunque che, non avendo nulla in sé di statico che si contrapponga pertanto al divenire, contiene piuttosto una fortissima potenzialità di ricerca che ha sempre storicamente costituito e continua nel presente a costituire una componente essenziale del progetto. Un cercare coincidente con la principale attività di ogni progettista: il progettare è stato ed è ancora attività essenzialmente euristica, come il disegnare è (o dovrebbe essere) prima di tutto riflessione progettuale (e solo secondariamente comunicazione).
Ma in che cosa, nel concreto, si differenzia la condizione contemporanea rispetto al passato, anche a un passato molto recente? Il primo elemento di differenza ci sembra l’orizzonte antropogeografico, ormai molto diverso da quello tradizionale di riferimento che è stato valido fino a, più o meno, tutto il secolo scorso. La globalizzazione sembra aver bruscamente spostato il baricentro della scena architettonica, almeno relativamente alla sua produzione se non alla sua progettazione, dall’Occidente (sostanzialmente Europa e America Settentrionale, includendo anche altre aree geografiche occidentalizzate, come, per es., il Giappone) ai continenti, o alle parti di continenti, maggiormente in via di sviluppo: il Medio Oriente, l’Asia centrale ed estremo-orientale, l’Australasia, le Americhe Centrale e Meridionale, l’Africa. Ne emerge un’immagine che sembra costituire una vera e propria «ontologia del declino, sino a riproporre le teorie spengleriane di un tramonto definitivo dell’idea di modernità dell’Occidente, forse in attesa di una modernità globale autentica che si spera diversa da quella oggi praticata, ma per ora invisibile» (Gregotti 2014, p. 18). Così non è, o almeno non del tutto o non ancora: in primo luogo va rilevato che la gran parte della progettualità più qualificata continua a essere sviluppata proprio in Occidente; inoltre nello stesso Occidente si continua, oltre che a esportare, anche a realizzare la migliore a. al mondo, ancorché non necessariamente la più spettacolare. Va tuttavia riconosciuto che certamente in termini quantitativi, e probabilmente anche in termini di proiezione verso il nuovo, soprattutto per quanto riguarda il segmento più vistoso e mediatico di esso, i Paesi in via di sviluppo offrono oggi un panorama architettonico eccezionalmente ricco e, almeno all’apparenza, molto articolato e sperimentale, con implicazioni complesse, diverse e non tutte positive, che vanno dal problematico rapporto con il postcolonialismo a una ridefinizione identitaria che passa in alcuni casi per un dannoso autocolonialismo, da forme più o meno velate di esibizionismo edilizio a gratuite dimostrazioni di potere economico. Tale ampliamento o spostamento degli orizzonti geografici è inoltre accompagnato dall’inedito protagonismo delle grandi società di progettazione che, con le loro sedi diffuse in ogni parte del mondo, hanno attuato una effettiva globalizzazione della pratica architettonica; ma anche da una sensibile accelerazione dei tempi di progettazione e realizzazione, sotto la pressante richiesta di un mercato che non aiuta la riflessione critica né, tanto meno, la sedimentazione di appropriate tecniche costruttive.
Il secondo elemento di differenza ci sembra il rallentamento – se non, ormai, l’assenza – delle spinte avanguardiste. Il declino delle battaglie stilistiche appare un fatto compiuto a fronte di una generica koinè neomodernista che è sostanzialmente espressione del gusto, sempre più omologato, dei grandi investitori internazionali. Ciò porta come diretta conseguenza una diffusa sensazione di generale declino della centralità delle star, cioè dei progettisti più in vista e premiati, protagonisti assoluti nei decenni precedenti, in favore di un livellamento (talvolta verso il basso) che sembra trovare nelle anonime, quanto sempre più competitive, società di consulting i suoi principali e più apprezzati interpreti (dell’anonimato di molta progettualità contemporanea torneremo a parlare). A tale fenomeno si accompagna invariabilmente, forse con un ruolo più o meno dichiarato di alibi, il tema della sostenibilità: un generalizzato greenwashing – per lo più esibito, ancorché raramente esperito nei fatti – forse utile a nascondere, o almeno a mitigare, la sostanziale mancanza di idee. Ma, a riguardare la questione in termini più positivi, si tratta anche di una generalizzata maturazione della progettualità più avvertita, sempre meno appassionata a questioni formali e sempre più concretamente impegnata sui temi del risparmio energetico da una parte e, per anticipare un argomento di cui si parlerà più avanti (v. oltre La seconda rivoluzione digitale), della messa a punto di una nuova idea di progettazione. Come ha scritto Carlo Ratti (2014, p. 48), la scienza ha preso il posto dello stile, intendendo per scienza «un corpo di nozioni sul processo di progettazione che (sono) intellettualmente ardue, analitiche, parzialmente formalizzabili, parzialmente empiriche e tali da poter venire insegnate» (H. Simon, The sciences of the artificial, 1969; trad. it. 1988, p. 145).
Il terzo elemento sembra costituito dall’effimera e spesso superficiale affermazione dei linguaggi locali, dei regionalismi, nonché dalla rinnovata attenzione al tema dell’heritage, ovvero del patrimonio architettonico e urbano storico nelle sue diverse connotazioni: una facciata talvolta esile, soprattutto nelle aree geografiche più velocemente in via di sviluppo, dietro la quale si nasconde un fenomeno importante: quello che lega l’architettura alla ricerca dell’identità (v. identità architettonica e urbana) nazionale (se n’è accennato a proposito del primo punto). La questione appare centrale nei Paesi emergenti, paradossalmente sia in assenza di una solida riconoscibilità in campo architettonico sia, come pure accade da varie parti, in presenza di notevoli tradizioni storiche. Paesi in cui la memoria solo raramente svolge un ruolo di ermeneusi critica del passato, limitandosi più spesso a folcloristica nostalgia, quando non alla superficiale inclusione di repertori decorativi che servono a mala pena a mascherare l’indifferenza del progettista nei confronti dei luoghi e della cultura dei luoghi.
Il quarto e ultimo elemento di una lista che potrebbe ancora allungarsi, ci sembra la complessità: l’attività professionale ne prevede oggi livelli impensabili fino a solo qualche decennio fa e, peraltro, difficilmente simulabili all’interno delle scuole di architettura. Il progetto contemporaneo è, nei fatti, frutto di un lavoro interdisciplinare estremamente articolato, portato avanti da gruppi molto numerosi dalle competenze tecnico-manageriali, spesso asserviti alla burocrazia e alla politica, che includono esperti di marketing, cost controllers, esperti di real estate, strutturisti e impiantisti, produttori di materiali edili e così via. All’interno di una scena molto affollata, gli architetti oscillano fra un ruolo (piuttosto raro) di coordinamento o regia, un compito estremamente impegnativo in cui appaiono spesso inadegua ti, ma che tuttavia garantisce un certo livello di centralità, e un ruolo invece assolutamente marginale ed esornativo (purtroppo più frequente), ridotto cioè alla produzione di immagini funzionali solo alla promozione commerciale dell’edificio, con la complice presenza, come si è anticipato, di qualche superficiale forma di greenwashing o di più o meno ingenuamente esibite preoccupazioni ambientaliste.
Per ciò che riguarda tali preoccupazioni è necessario ricordare che si tratta di un tema fondamentale sul quale è necessario impegnarsi a tutti i livelli con la massima serietà; ma purtroppo anche di un ambito di cui si è parlato e scritto moltissimo, ma che nei fatti, con la possibile eccezione di alcuni Paesi particolarmente sensibili per lo più del Nord dell’Europa, non ha avuto gli esiti concreti che si speravano. Il prefisso eco, abusatissimo, appare dunque soprattutto utilizzato con finalità di comunicazione commerciale. Va anche ricordato che una larga parte del discorso sulla sostenibilità e l’efficienza energetica degli edifici assume connotazioni prevalentemente impiantistiche e che, se è vero che è in qualche modo possibile parlare di una estetica della sostenibilità, si tratta di un aspetto che incide in maniera tutto sommato relativamente marginale sulle forme dell’architettura. Maggiore importanza ha invece la questione dal punto di vista delle politiche d’intervento alla scala urbana: la rigenerazione urbana sostenibile (v.), che non prevede ulteriore consumo di suolo, ma punta al cosiddetto retrofitting dell’esistente, cioè al suo adeguamento dal punto di vista dell’efficienza energetica, dell’accessibilità, della sicurezza (anche sismica), sullo sfondo di un più ampio orizzonte socioculturale, è il tema progettuale che più di ogni altro appare ragionevole portare avanti, soprattutto nei Paesi in cui la crescita demografica è limitata e le condizioni di sviluppo sono sufficientemente buone, segnatamente in Europa. Interessante è anche il rapporto tra tecniche avanzate e tecniche appropriate: un punto particolarmente sensibile in Paesi dove, per motivi culturali ed economici, non è facile garantire una efficiente manutenzione: l’‘avanzamento’ andrebbe, prima di tutto, misurato sul concetto di appropriatezza.
All’interno di un tale, sia pur necessariamente incompleto e frammentario, quadro generale si colloca la XIV Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia del 2014, che, affidata a Rem Koolhaas (v.), personaggio fra i più autorevoli sulla scena architettonica contemporanea, ha celebrato il ritorno a una visione dell’a. essenzialmente legata ai suoi elementi costitutivi fondamentali: di qui il titolo Fundamentals. Spostando l’attenzione dai progettisti alle opere, per la prima volta all’interno di tale rassegna è stato ignorato lo star system internazionale in favore della riscoperta degli edifici e dei loro elementi costruttivi: pavimenti, soffitti, tetti, scale, rampe, ascensori, infissi, facciate, muri e così via. La selezione operata dal curatore è, fra l’altro, chiaramente indifferente alle connotazioni sia cronologiche sia stilistiche, forse più o meno consapevolmente in linea con quanto pare abbia dichiarato Hannes Meyer (in un momento storico particolarmente difficile, se non emergenziale) della storia del Novecento: «parlare di stile creativo moderno è assurdo; se un edificio risponde adeguatamente e senza compromessi al suo fine è un buon edificio, senza guardare al suo aspetto» (cit. in Gregotti 2014, p. 123).
Per la prima volta, a molti è sembrato di cogliere un segnale di chiaro distacco dalla oltremodo spettacolarizzata produzione di tale privilegiato gruppo di progettisti: una inversione della recente quanto evidente tendenza in base alla quale l’architetto e non l’opera era il principale oggetto dell’attenzione della critica (passaggio peraltro chiaramente delineato da Giorgio Agamben in L’uomo senza contenuto, 1970). Che a ideare la mostra sia poi stato proprio uno dei membri più in vista e stimati di tale gruppo è argomento che richiederebbe specifici approfondimenti. Sarebbe tuttavia sbagliato sovrastimare un simile, sia pur chiaro, approccio critico: le star continuano a essere molto richieste, se non altro per il plusvalore mediatico che sono in grado di garantire attraverso ogni loro nuova opera. Esemplificando, prendiamo uno dei personaggi più connotati in tal senso: Zaha Hadid. Il suo studio, validamente coordinato dal partner Patrick Schumacher, continua a ricevere un numero incredibilmente alto e diversificato di incarichi in ogni parte del mondo. Hadid è senza dubbio assurta a un ruolo mediatico che non ha eguali (è apparsa sulle copertine di moltissime riviste specializzate e non, compresa «Time») e sembra riassumere in sé una serie di tratti non comuni che costituiscono, nel loro insieme, una sintesi straordinariamente emblematica dei nostri tempi: donna, irachena per nascita quindi araba, britannica di adozione; internazionale per formazione e orizzonti professionali, ma con base a Londra (città globale par excellence); in grado di spaziare con successo dalla progettazione alla scala urbana di grandi edifici (una bigness, grandezza, spesso solo quantitativa, che non ha precedenti storici) sino agli interni e ai prodotti di industrial design (una indiretta conferma della riduzione dell’architettura a oggetto di design ingrandito); considerata fra le donne più influenti del mondo e, fra queste, una delle pochissime di origine e cultura islamica – fra l’altro, con Kazuyo Sejima, l’unica a essere stata insignita del Pritzker prize. Una emblematicità che vale anche nei risvolti negativi, come nei rapporti fra marketing dell’architettura e grandi poteri finanziari globali e rispetto ad alcuni aspetti ancor più specifici – si pensi, per es., alle polemiche suscitate dalle condizioni degli operai (alcuni dei quali rimasti purtroppo vittime di incidenti mortali) nel cantiere del nuovo stadio in corso di realizzazione per i mondiali di calcio del 2020 in Qaṭar – un problema per il quale appare peraltro difficile immaginare una responsabilità diretta del progettista.
Considerazioni analoghe potrebbero essere sviluppate per molti altri personaggi della scena architettonica internazionale: statunitensi come Frank Gehry (v.), Peter Eisenman, Richard Meier, Thom Mayne (Morphosis, v.), Steven Holl o Eric Owen Moss; inglesi come Norman Foster, Richard Rogers, Nicholas Grimshaw o David Chipperfield; olandesi come il citato Koolhaas, UN Studio o MVRDV; francesi come Jean Nouvel (v.), Christian de Portzamparc o Dominique Perrault; norvegesi come Snøhetta (v.); spagnoli come Rafael Moneo (v.) o Juan Navarro Baldeweg (v.); portoghesi come Alvaro Siza (v.) o Eduardo Souto de Moura (v.); svizzeri come Jacques Herzog e Pierre de Meuron o Peter Zumthor; italiani come Renzo Piano (v.) o Massimiliano Fuksas (v.); giapponesi come Tadao Ando (v.), Fumihiko Maki, Toyo Ito (v.), Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa o Kengo Kuma (v.) o Shigeru Ban (v.).
Anche nel nostro Paese non manca una lunga serie di significativi esempi di buona architettura (v. italia: Architettura). È il quadro apparentemente positivo emerso, fra l’altro, nel corso della Biennale di Venezia del 2014, il cui padiglione italiano, curato da Cino Zucchi (v.) e considerato da molti fra i migliori della rassegna veneziana, ha offerto un panorama delle realizzazioni recenti particolarmente vario e caratterizzato da una qualità media molto elevata. A titolo esemplificativo e non certo esaustivo, non c’è dubbio che da Gregotti, Adolfo Natalini, Piano, Fuksas, Franco Purini e Laura Thermes, Piero Lissoni fino a Boeri Studio, Piuarch, Park Associati, Paolo Zermani, Renato Rizzi, Mario Cucinella, Camillo Botticini, Mauro Galantino, ABDR, Archea, 5+1AA, Labics, Nemesi Studio, Liverani/Molteni, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, oltre al già citato Zucchi, molti siano gli studi in grado di svolgere bene il proprio lavoro, raccogliendo significativi consensi sia in Italia sia all’estero. Ma al di là della possibile, lunga serie di architetture eccellenti, nell’insieme, le zone d’ombra sull’articolata sfera del costruito non sono certamente poche.
Dal convegno EU Cities reloading. Strategies and policiesfor urban regeneration (Triennale di Milano, 7-8 nov. 2014) promosso dal CNAPPC (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori), è emerso un quadro preoccupante: 24 milioni di persone vivono in zone ad alto rischio sismico in oltre 6 milioni di edifici; oltre il 70% del totale degli edifici è stato realizzato prima della definizione delle norme antisismiche. Tra questi oltre il 50% è formato da scuole, che dovrebbero invece essere i luoghi più sicuri; 5 milioni e mezzo di persone vivono in 1,2 milioni di edifici in zone a grave rischio idrogeologico; il 55% degli edifici italiani ha oltre 40 anni di vita, il 75% di essi sorge nelle città; oltre un quarto degli 11 milioni di edifici è in stato di conservazione mediocre o pessimo. Dal 1948 al 2009 si contano 4,6 milioni di abusi edilizi, 450.000 edifici e 1,7 milioni di alloggi illegali. Solo un quarto degli iter autorizzativi rispetta i tempi prescritti dalle norme: siamo all’ultimo posto fra i Paesi dell’Unione Europea per quanto riguarda i tempi d’attesa per le approvazioni dei progetti da parte delle pubbliche amministrazioni (la World bank ci pone al 153° posto su 180 Stati rispetto all’efficienza dei tempi per la burocrazia in edilizia). Il 35% dell’energia consumata in Italia – pari a 48 Mtep, milioni di tonnellate equivalenti in petrolio – è infine usato per gli edifici, con uno spreco di denaro stimato in circa 22 miliardi l’anno.
Negativo è anche il quadro che emerge da situazioni di grave emergenza quale, per es., la ricostruzione dell’Aquila in particolare e dell’Abruzzo in generale dopo il terremoto del 2009: molte e comprensibili sono state le critiche dovute alle carenze gestionali e, di conseguenza, ai gravi ritardi registrati oltre che ad alcuni episodi di corruzione. L’abbandono, ormai prolungato, del centro storico da parte dei suoi abitanti, tutti per lo più trasferitisi fuori da esso, ha determinato, nei fatti, un ulteriore consumo del territorio comunale (fra i più estesi e paesaggisticamente qualificati d’Italia), accelerando il fenomeno, peraltro in atto da tempo, della dispersione dell’edificato, con l’inconsapevole adesione a un modello abitativo che è più o meno il contrario di quanto auspicato da tutte le recenti teorie sulla sostenibilità e la rigenerazione urbana. Ma anche gli impegnativi restauri dello straordinario patrimonio architettonico monumentale aquilano, per lo più settecentesco, sono stati segnati da una lunga serie di problemi dovuti, fra l’altro, a incapacità, mancanza di coordinamento e a diversi conflitti di competenze. Purtroppo i problemi non sono limitati alle situazioni eccezionali: è anche il panorama professionale a vivere una grave condizione di crisi. Gli studi italiani, nonostante la buona fama di cui continua a godere la nostra creatività all’estero, si sono rivelati per lo più inadeguati a reggere la concorrenza globale: ciò è dovuto, in particolare, al loro generale sottodimensionamento rispetto agli standard internazionali e alla crescente complessità e interdisciplinarietà delle prestazioni richieste. In Italia gli architetti sono troppi, molto più numerosi che in ogni altro Paese d’Europa e del mondo (gli iscritti agli albi professionali sono oltre 150.000, più o meno un terzo del totale europeo); i fatturati medi molto bassi; l’industria delle costruzioni e il mercato immobiliare fortemente rallentati; gli ostacoli burocratici, nonostante i reiterati tentativi di semplificazione, sempre difficili da superare, anche a causa dei frequenti conflitti di competenze fra i diversi rami delle pubbliche amministrazioni. Si aggiunga che l’edilizia è sempre stata, per sua stessa natura, strettamente legata ai poteri politici, economici e mediatici: non di rado dunque, in questi ultimi anni, si sono verificate collusioni poco trasparenti quanto facilmente tracciabili fra alcuni anche noti progettisti e tali poteri. Se poi si aggiungono i tanti concorsi non portati regolarmente a termine, i numerosi cantieri sospesi, i molti piani falliti e così via, si comprende come, oltre al grave spreco di risorse pubbliche, si delinei un quadro complessivo non certo confortante. Va anche detto che l’indiscriminato aumento dell’abusivismo, con l’altrettanto indiscriminato consumo di territorio, si è perpetrato in assenza, o in dispregio, di ogni ragionevole forma di pianificazione e, soprattutto, in assenza di un disegno di sviluppo delle città (v.). Ciò ha avuto come reazione forme di difesa oltranzistiche da parte delle istituzioni preposte alla conservazione e al restauro del patrimonio storico (v. conservazione), nonché dell’ala più radicalmente ambientalista dell’opinione pubblica, impedendo talvolta la realizzazione di progetti anche di buona qualità. Una sorta di diffusa rinuncia alla progettualità: posizione paradossalmente condivisa anche all’interno di alcune nostre scuole di architettura, che sembrano aver dimenticato come sia «evidente che l’obiettivo del nostro agire progettuale non è la conoscenza bensì la mutazione volontaria e responsabile della realtà, con l’introduzione di un fatto nuovo, anch’esso costituito con materiali la cui scelta e organizzazione passa attraverso la conoscenza, oltre che alla volontà di senso, dell’intero pianeta» (Gregotti 2014, p. 163). Dobbiamo dunque non rinunciare alla progettualità che è la sola garanzia di qualità, ma piuttosto comprendere che essa non può continuare a essere quella di un tempo (palesemente inadeguata a rispondere alla complessità della scena contemporanea), ma va sottoposta a un radicale, rivoluzionario processo di cambiamento.
Il divenire da cui siamo partiti non può evidentemente non investire la sfera digitale, che da almeno tre decenni ha significativamente modificato la progettualità e la prassi costruttiva architettonica da vari punti di vista. Anche qui, dunque, i cambiamenti appaiono sostanziali. Proviamo quindi a esemplificare analizzando brevemente almeno tre ambiti molto diversi fra loro: quello formale, legato cioè alla nuova estetica derivante dalla progettazione parametrica; quello che potremmo definire smart, ovvero l’evoluzione della domotica (neologismo coniato, com’è noto, negli anni Ottanta fondendo la parola latina domus con informatica); e quello infine più propriamente progettuale, legato al BIM (v.).
Il primo esempio – la progettazione parametrica, ampiamente utilizzata da molti degli architetti di cui si è parlato nel paragrafo precedente – si segnala, se non altro, per la forte componente innovativa dal punto di vista formale. Si tratta, in generale, del ricorso a superfici geometriche non elementari rese possibili progettualmente dal ricorso ad algoritmi facilmente gestibili attraverso alcuni software grafici ed esecutivamente dal ricorso a macchine a controllo numerico. A tale famiglia è riconducibile gran parte della produzione più spettacolare e recente, in particolare quella afferente alle superfici rigate (usate peraltro con successo già da alcuni maestri della modernità) e alle forme ameboidi, spesso arditamente quanto impropriamente aerodinamiche, tese a suggerire fluidità, dinamismo e sinuosità, frequentemente presenti nei prodotti di design. Collegato a tale ambito è il ricorso alle stampanti tridimensionali (v. stampa tridimensionale) applicate all’edilizia (3D printingto build), che, sia pur limitatamente a volumetrie molto semplici, si sta diffondendo soprattutto nei casi in cui è prioritario ridurre i costi di realizzazione.
Il secondo esempio è costituito dagli edifici smart o intelligenti. In questo caso l’apporto del digitale non incide sulle forme architettoniche quanto piuttosto sul funzionamento della fabbrica. Una casa smart è, per es., in grado di dare il benvenuto a chi vi abita aprendo le tapparelle o accendendo le luci, gli impianti di riscaldamento, condizionamento o ventilazione; tenendo sotto controllo il livello di umidità dell’aria oppure attivando una serie di elettrodomestici; ma anche di sostituirsi al buonsenso dei suoi abitanti aprendo o chiudendo le finestre a seconda delle temperature esterne e interne o della presenza di vento o pioggia; di allertare il proprietario nel caso di visite sgradite; di adattarsi ai diversi membri della famiglia e alle loro personali abitudini, di innaffiare le piante o dare da mangiare agli animali domestici; di rispondere a esigenze specifiche, anche emergenziali, per es., a situazioni di carenza idrica, a condizioni meteorologiche avverse o a calamità naturali; di consentire livelli di comfort dignitosi all’interno di spazi minimi; di permettere mobilità e autonomia a disabili anche molto gravi; di proteggere gli anziani soli controllandone i comportamenti e chiedendo aiuto in caso di necessità e così via. Collegata a tale ambito è la sperimentazione di nuovi materiali intelligenti: si pensi ai cementi trasparenti o autopulenti che sono entrati a far parte con successo della migliore progettualità contemporanea.
Il terzo e ultimo esempio legato alla sfera della progettazione digitale è infine costituito dal BIM (Building Information Modeling, ma anche Building Information Management ovvero Behavioural Information Modeling, acronimo coniato nel 1992 e declinabile anche come Infrastracture information modeling o Landscape information modeling, se riferito alle infrastrutture o al paesaggio piuttosto che agli edifici, in francese Bâtiments et informations modélisés): un insieme di tecnologie digitali che, coniugando dati geometrici e alfanumerici, sovrapponendo cioè immagini e informazioni, sta assumendo importanza crescente all’interno dei processi di ideazione, rilevamento dell’esistente, progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione dell’edificio per il ciclo completo della sua esistenza, dando vita a una nuova progettazione integrata che non è che una vera e propria simulazione dell’attività costruttiva in tutte le sue diverse fasi: un metodo di lavoro che consente ad architetti, strutturisti, impiantisti, paesaggisti, costruttori, produttori, committenti, investitori, gestori, manutentori di condividere l’intero processo in maniera informatizzata e dialogare facilmente, evitando o almeno minimizzando errori e interferenze.
In molti Paesi – dagli Stati Uniti a Singapore, dalla Norvegia al Regno Unito, da Dubai a Hong Kong – il BIM è visto come indispensabile premessa a ogni seria politica industriale nel settore edile e infrastrutturale. Ha già raggiunto grande diffusione e viene – ma il processo è in atto da alcuni anni – reso gradualmente obbligatorio a seconda del tipo di committenza e dell’impegno economico richiesto. Si tratta di una rivoluzione per il mondo delle costruzioni: i software BIM sono infatti in grado di gestire, simultaneamente e in maniera coerente, diversi livelli di iconicità con una perfetta integrazione fra i primi concepts ideativi, i rilievi elaborati mediante laser scanner, le rappresentazioni progettuali bidimensionali e tridimensionali, la relativa quantificazione di superfici e volumi, le specifiche tecniche esecutive, i cronoprogrammi nonché i cosiddetti as built, i grafici che registrano l’effettiva configurazione finale dell’edificio e le sue eventuali, successive modificazioni, integrando dunque le tre dimensioni (3D) dello spazio architettonico tradizionale con le variabili legate ai tempi e ai costi di realizzazione e gestione del manufatto (per cui si parla di 4D, 5D e anche 6D BIM). Il fatto indubbiamente più interessante però è che da una parte tali tecnologie impediscono le perdite di tempo e di danaro purtroppo così frequenti nelle grandi opere pubbliche italiane, coordinando ogni fase della vita di un edificio dalla sua prima ideazione fino, teoricamente, alla sua demolizione, dall’altra stanno sostanzialmente alterando i tradizionali rapporti fra i diversi attori sulla scena edilizia (inclusi quelli con stakeholders e stockholders, cioè con committenti, proprietari, finanziatori e tutti coloro che, a titolo diverso, esercitano poteri decisionali sull’opera da realizzare). Il ruolo stesso dell’architetto rischia dunque di allontanarsi da quello storicamente istituito dal Rinascimento in poi, che per circa sei secoli ha retto la progettualità occidentale prima e globale poi, e di avvicinarsi piuttosto a qualcosa di simile a quanto collegialmente esperito dai maestri costruttori medievali (fatto salvo un livello infinitamente maggiore di complessità). La posta in gioco è alta: è la stessa autorialità come proprietà intellettuale dell’opera ad andare palesemente in crisi, approssimandosi alle nuove, diverse forme di condivisione proprie della contemporaneità più recente (non a caso, in contrapposizione al concetto di copyright, si è parlato di copyleft). Parlando in generale di progettazione, Ratti ha osservato che «ripartire da zero ogni volta che si vuole progettare qualcosa è semplicemente poco pratico, ed effettuare individualmente tutte le verifiche, la ricerca e lo sviluppo che la ‘massa’ è in grado di offrire, costa molto di più» (Ratti 2014, p. 71).
Forse l’a. del nostro futuro sarà frutto di uno sforzo intellettuale e creativo collettivo aperto, come lo è già un’opera enciclopedica quale Wikipedia? D’altra parte i concorsi di progettazione, cui pure si continua a guardare come al modo migliore per assegnare incarichi di rilievo, stanno diventando un enorme spreco di risorse intellettuali e creative. Il ruolo ricoperto dagli investimenti pubblici e privati, almeno in alcuni casi, potrebbe cedere il passo a nuove strategie di crowdfunding sociale. E la didattica dell’a. – ricordiamolo: arte del fare – va radicalmente rimessa in discussione alla luce del concetto di costruzione come educazione, dell’insegnare costruendo, dell’imparare facendo, superando cioè il divario tra la sfera digitale e quella fisica, come pure già avviene nei Fab Lab (Fabrication Laboratory) del MIT (Massachusetts Institute of Technology) e di moltissime altre sperimentali scuole del mondo. Siamo forse agli esordi di un nuovo paradigma progettuale che sostituisce quello albertiano, in cui l’a. diventa open source (secondo una logica ampiamente sperimentata e condivisa fra i creatori di software), frutto composito di innesti, ibridazioni e feedback diversi, aperta a una estetica hack (che significa «violazione» ma anche «improvvisazione»). In cui la professione, oggi duramente colpita dalla crisi, riuscirà a ridefinire i propri obiettivi, rendendosi più matura e consapevole del proprio ruolo sociale, dei propri limiti e dei limiti delle risorse. Di una rinnovata stagione dell’a. della partecipazione in cui agli utenti e a tutti gli attori sulla scena progettuale sia consentito di interagire creativamente come già avviene nel campo dell’industrial design. Siamo forse agli albori di una nuova era (o, meno enfaticamente, di una nuova stagione) per l’industria dell’edilizia. E quest’ultima sarà forse in grado di produrre sempre più velocemente, a costi inferiori e con minori emissioni, un ambiente costruito e infrastrutturato digitalizzato, condiviso, sostenibile, efficiente e intelligente in vista della gigantesca crescita (+70%) del mercato globale delle costruzioni prevista per il 2025. In molte parti del mondo d’altra parte sembrerebbe che sia già così.
P. Gregory, Teorie di architettura contempo ranea. Percorsi del postmodernismo, Roma 2010; C. Davies, Thinking about architecture. An introduction to architectural theory, London 2011 (trad. it. Il primo libro di architettura, Torino 2011); P. Schumacher, The autopoiesis of architecture. A new frameworkfor architecture, 2 voll., Chichester 2011; Millennium. Incontri con l’architettura, a cura di S. Casciani, Cenate di Sotto 2012; M. Biraghi, S. Micheli, Storia dell’architettura italiana 1985-2015, Torino 2013; C. Ratti, Smart city, smart citizen, a cura di M.G. Mattei, Milano 2013; V. Gregotti, Il possibile necessario, Milano 2014; C. Ratti, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Torino 2014; D.R. Scheer, The death of drawing. Architecture in the age of simulation, London-New York 2014; Fundamentals, catalogo della 14ª Mostra internazionale di architettura, Venezia 2014; Innesti - Grafting, a cura di C. Zucchi, 3 voll., Venezia 2014.
Per ulteriori approfondimenti sulle architetture dei diversi Paesi, si veda la sezione Architettura nelle voci degli Stati.