Architettura
L'inizio del 21° sec. è stato segnato da un evento drammatico che ha avuto risvolti significativi anche in a.: l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001, che ha provocato, com'è noto, la distruzione delle torri del World Trade Center e di altri edifici nel centro finanziario di New York. La scelta di colpire un complesso fortemente connotato sul piano dell'immagine, con valenze che travalicano la dimensione urbana per estendersi a quella globale, ha da una parte reso evidente il ruolo simbolico dell'a., e non soltanto di quella storica; dall'altra ha costretto a un ampio dibattito sui problemi posti dalla ricostruzione, portando molti a interrogarsi sulla opportunità di continuare a realizzare simili edifici. I dubbi hanno investito specificamente la tipologia delle torri: frutto del capitalismo statunitense sviluppatosi a Chicago e a New York dalla fine del 19° sec., essa viene oggi spesso percepita come il prodotto dell'arroganza economica e culturale americana, pur trattandosi di una forma largamente presente dovunque il capitalismo stesso sia diffuso, nelle Americhe come in Europa o in Asia e, in particolare, nei Paesi islamici ricchi, dagli Emirati Arabi alla Malesia. Di tali colossali fabbriche è stata messa in discussione la sicurezza, la sostenibilità, l'economia di gestione, la funzionalità e, soprattutto, il loro ruolo simbolico, con le ricadute sui valori (o disvalori), anche etici, da esse rappresentati. Ma sono emersi altri, inquietanti fantasmi: con l'11 settembre era stata forse anche punita la babelica insolenza di edifici intollerabilmente alti usque ad coelum?
Le torri inaugurate nel 1973 e realizzate da M. Yamasaki (1912-1986) con lo studio Emery Roth & Sons e gli ingegneri J. Skilling e L. Robertson, all'epoca le più alte del mondo, costituirono comunque, nel breve arco dei loro ventotto anni di vita, un modello strutturale al quale si guardò con sistematicità. I due colossi che si ergevano sullo sfondo dello skyline metropolitano, oltre a rappresentare un forte orientamento visivo per l'intera parte meridionale di Manhattan, costituivano un segno potente nella loro reiterata duplicità: due gigantesche, monolitiche colonne d'Ercole; un grande pezzo di scultura minimal. Il clima culturale postmoderno ne mise a nudo il fallito rapporto con il tessuto urbano e con la vita dell'uomo alla quota stradale e la loro stessa, eccessiva altezza.
Così, alla fine del secolo scorso, il World Trade Center appariva ai più come il relitto di un passato scomodo e ingombrante, che poco aveva dell'epica grandiosità dei primi grattacieli (per intenderci, di quella fortunata stagione newyorkese che, partendo dal Woolworth e passando per il Chrysler e l'Empire State Building, giunge al Rockefeller Center per culminare con la Lever House e il Seagram).
Il processo di riprogettazione dell'intera zona e quello di ricostruzione, attualmente in corso, hanno posto all'attenzione pubblica quanto sia difficile gestire correttamente e consensualmente un complesso architettonico che, per sua natura, deve interagire a livelli diversi e rispondere a esigenze spesso in contrasto fra loro. Da una parte era infatti necessario mostrare e rappresentare il dovuto, e comunque da tutti sentito, rispetto per le quasi tremila vittime dell'attentato, tenendo conto della volontà dei comitati dei parenti, per lo più orientati alla realizzazione di un grande memorial e comprensibilmente poco propensi alla normalizzazione dell'area; dall'altra tutelare i diritti della proprietà, la Port Authority of New York and New Jersey, potente società pubblica interstatale, oltre a quelli dell'imprenditore privato titolare del leasing, L. Silverstein (un contratto di 99 anni, stipulato sei settimane prima dell'attacco) e delle compagnie di assicurazione, tutti propensi alla ricostruzione della maggiore cubatura possibile; ma anche tenere conto delle necessità pratiche degli abitanti del quartiere, interessati a una normalizzazione che, risanando - e sostanzialmente cancellando - i danni, migliorasse la qualità funzionale ed estetica della zona; e, infine, non dimenticare le valenze simboliche, percepite non solo a livello urbano o nazionale, ma anche mondiale, valenze che il luogo e il complesso architettonico avevano e, con ogni probabilità, avranno in misura ancora maggiore dopo la ricostruzione. Una vicenda, questa, estremamente complessa e articolata, che ha visto e continua a vedere vere e proprie battaglie politiche fra i diversi attori che vi sono più o meno attivamente coinvolti, che ha generato un dibattito inevitabilmente molto acceso e visto susseguirsi una lunga serie di proposte diverse. Ha anche evidenziato le grosse difficoltà che si è destinati a incontrare quando si voglia garantire qualità a complessi di tali dimensioni, dietro i quali si muovono interessi economici di così eccezionale portata: in una parola ha reso chiaro quanto l'a. sia, prima di tutto e soprattutto, l'arte del compromesso.
Una prima consultazione venne autonomamente promossa da un gallerista di New York, M. Protetch. Questi invitò sessanta progettisti, per lo più di grande rilievo internazionale, ad avanzare proposte, per poi esporle e pubblicarle. Due diversi incarichi esplorativi vennero ufficialmente conferiti allo studio Beyer Blinder Belle e a S. Peterson e B. Littenberg; sebbene alcune delle conclusioni cui giunsero le due analisi sarebbero state ampiamente condivise da tutti i successivi progetti, gli esiti formali raggiunti furono subito considerati insufficienti. Nel frattempo Silverstein aveva conferito un incarico a D. Childs (n. 1941) di SOM (Skidmore, Owings & Merrill) uno dei maggiori studi di progettazione americani, che ha una delle sue sedi proprio in Wall Street, a pochi metri dal World Trade Center. Nel luglio del 2002, all'interno del colossale Javits Convention Center di New York, si tenne un dibattito pubblico senza precedenti, al quale parteciparono circa cinquemila persone, con la possibilità di esercitare un voto elettronico: ne emerse con chiarezza la generale aspettativa per un nuovo complesso architettonico di grande qualità iconica. La stampa e le reti televisive iniziarono a prendere posizione, ponendo la questione in tutta la sua eccezionalità. Un ruolo leader avrebbe avuto H. Muschamp, il critico del New York Times: le proposte da lui raccolte furono esposte alla Biennale di Venezia del 2002, in un'ala del padiglione degli Stati Uniti, mentre nell'altra erano in mostra quelle selezionate da Protetch.
Seguì un concorso di idee bandito dalla LMDC (Lower Manhattan Development Corporation) agenzia pubblica incaricata dal governatore dello Stato di New York di gestire la ricostruzione. Il concorso, che inizialmente doveva servire solo come strumento di orientamento, si è poi trasformato, strada facendo e in maniera un po' anomala, in un vero e proprio concorso di progettazione. Fra gli invitati, spesso consorziati in raggruppamenti provvisori, erano: il gruppo newyorkese composto da R. Meier (n. 1934), P. Eisenman (n. 1932), C. Gwathmey (n. 1938) e S. Holl (n. 1947); quello denominato United Architects (B. van Berkel e C. Bos, G. Lynn, Foreign Office, K. Kennon, Reiser +Umemoto), fra i più giovani, all'interno di un ambito in cui, prevedibilmente, i giovani sono poco presenti; il già citato studio Peterson Littenberg (consulenti della LMDC) e quello inglese di N. Foster; SOM; il gruppo THINK; e D. Libeskind (n. 1946). La proposta di Foster è la più prossima all'originario schema del vecchio World Trade Center: si tratta infatti di due altissimi edifici a geometria variabile, che, toccandosi in alcuni punti, collaborano reciprocamente alla propria stabilità e sicurezza. Quella di United Architects è invece simile a un affollato groviglio di torri (in realtà cinque, fuse in alcune parti): ma l'immagine funziona bene nello skyline urbano ed è vertiginosamente inquietante dal basso, come testimonia l'enorme modello realizzato nello studio di Lynn (n. 1964).
Qualche riflessione supplementare richiederebbe invece la proposta del supergruppo newyorkese: goffa e sgraziata a prima vista, e come tale liquidata da molti critici, la soluzione elaborata presso lo studio Meier, ancorché poco approfondita, si è rivelata nel tempo, con le sue due griglie verticali ortogonali fra loro, quasi un'astratta matrice di pieni e vuoti, una delle più interessanti e innovative. Fra gli invitati era anche R. Duffy di SOM, con una proposta piuttosto modesta, nonostante la collaborazione di una giovane creativa di grande talento quale la giapponese K. Sejima (v.). Molto prossimo alla vittoria è andato il progetto del gruppo THINK, formato da R. Viñoly, F. Schwartz e S. Ban. Ma alla fine, fra le polemiche agitate dalla stampa e dai maggiori talk show televisivi e non senza una serie di teatrali colpi di scena fra gli architetti e le diverse agenzie di pubbliche relazioni che li rappresentavano, in un'atmosfera da circo mediatico senza precedenti in a., lo schema vincitore del concorso è risultato, com'è noto, quello elaborato da Libeskind. Il progetto è sostanzialmente formato da cinque torri di altezza progressivamente ascendente; la principale, subito chiamata Freedom Tower, ha una sagoma che ricorda, alla lontana, quella della Statua della Libertà e un'altezza, in piedi, coincidente con l'anno in cui gli Stati Uniti conquistarono l'indipendenza, ossia 1776 (541 m).
Il memorial previsto lascia in parte scoperta la cosiddetta fossa di Ground Zero, che, dopo la demolizione di ciò che restava delle torri e delle loro fondazioni, tocca il suolo granitico di Manhattan. Il nuovo complesso appare trasparente e svettante, sovraccarico di significati simbolici; le sue pur elevate cubature - tutte quelle rivendicate da Silverstein - non inficiano l'immagine di un nuovo, esaltante skyline, dominato dalla Freedom Tower, il cui profilo è forse memore del profetico progetto di F.L. Wright per il Mile High Skyscraper, il 'grattacielo alto un miglio' (1956). Ma l'aggiudicazione del concorso non ha chiuso i giochi. Un lungo braccio di ferro ha continuato a vedere impegnati, su fronti e a livelli diversi, oltre alla già citata Port Authority e a Silverstein, il governatore G.E. Pataki, il sindaco M.R. Bloomberg, altri politici come l'ex sindaco R. Giuliani, la LMDC, i rappresentanti delle vittime riuniti come si è detto in diverse associazioni, vari comitati di pressione fra i quali si segnala New York New Visions, la stampa e l'opinione pubblica. Alla fine, con una decisione discutibile ma non priva di risvolti pratici, l'effettivo incarico della ricostruzione è andato a una società a capo della quale è stato posto Childs - uno dei partner anziani di SOM, lo studio che ha sempre goduto della fiducia di Silverstein e che aveva nel frattempo ritirato la propria partecipazione al concorso - e formata al 51% dallo stesso SOM, e, per il restante 49%, dallo Studio Daniel Libeskind. Childs, pur tenendo sostanzialmente conto della proposta Libeskind (non senza duri scontri con quest'ultimo), ha comunque rapidamente avviato il processo di progettazione esecutiva e l'effettiva ricostruzione. Una serie di progettisti di fama internazionale sono poi stati coinvolti per la definizione dei singoli edifici, come lo spagnolo S. Calatrava (n. 1951), incaricato dalla Port Authority della progettazione del nodo di scambio ferroviario che, con i suoi 300.000 passeggeri al giorno, è uno dei più trafficati al mondo; o M. Arad (n. 1969) e P. Walzer (n. 1932), progettisti del memorial park in onore delle vittime.
Arbitrarietà e iconicità
La ricostruzione del World Trade Center, ancora in corso, non consente di tracciare bilanci. Ma dallo svolgersi della sua complessa vicenda è tuttavia possibile trarre alcune considerazioni più generali sullo stato odierno dell'a: disciplina sempre più al centro dell'interesse dei media, rivoluzionata dalla digitalizzazione dei processi progettuali, preoccupata dalla questione della sostenibilità, e molto influenzata da quell'esteso processo di globalizzazione che costituisce uno degli aspetti più discussi e facilmente identificabili del clima culturale contemporaneo.
Principale responsabile di quest'ultima condizione è proprio l'amplificazione della sfera comunicativa, dovuta alla ipertrofica crescita dei media tradizionali, specializzati e non, dall'editoria alla radio alla televisione, e, soprattutto, di Internet, che, con web sites, newsgroups, riviste on-line, newsletters ecc., consente un'informazione immediata (ancorché, talvolta, superficiale) su quanto accade in ogni parte del mondo. Ciò implica che, in Paesi diversi, si guarda con lo stesso interesse alle stesse realizzazioni e agli stessi architetti, discutendo problemi progettuali sostanzialmente simili. Ma, soprattutto, l'a. appare segnata da un appariscente pluralismo linguistico, che, nelle mani degli architetti più famosi, si configura come vera e propria ricerca del valore iconico all'interno di processi di formalizzazione fondati sostanzialmente sull'arbitrio. Collegato a tale processo è il ruolo mediatico dei progettisti più in vista sul piano internazionale, quelli considerati parte del cosiddetto star system, un gruppo relativamente ristretto di architetti per lo più europei, statunitensi e giapponesi, quasi tutti beneficiati dal prestigioso Pritzker Architecture Prize, che, personalizzando, talvolta oltre misura, il proprio repertorio formale, sempre più autoreferenziale e spesso indifferente ai diversi contesti in cui si colloca, sembrano monopolizzare gli incarichi di maggior prestigio, oltre che l'interesse del pubblico e della critica, delle scuole, delle riviste e delle grandi esposizioni.
La sopra ricordata 'rivoluzione' progettuale innescata e favorita, sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, dalla massiccia introduzione delle tecnologie informatiche all'interno degli studi di progettazione, assieme alle possibilità offerte da nuove, sofisticate tecniche costruttive, ha prodotto una serie di edifici che si connotano, più che dal punto di vista dell'appropriatezza, della rispondenza ai dettami funzionali, del rapporto con il contesto territoriale o urbano o della sostenibilità, soprattutto per l'arbitraria innovazione morfologica, in aperta sfida alla tradizione, ai fondamenti euclidei della geometria, al concetto di ordine, alla stessa forza di gravità. Le innegabili valenze spettacolari di tali fabbriche hanno profondamente rinnovato il panorama architettonico più recente, ma anche prodotto alcune conseguenze secondarie. Fra quelle positive, oltre alla crescita d'interesse per l'a. da parte del pubblico non specializzato, sono la nascita di un turismo architettonico legato alla produzione contemporanea e l'elezione dell'a. a strumento privilegiato nella competizione fra istituzioni, città e Paesi diversi. A tale proposito, si ricorda che tale competizione è sempre più sensibile all'interno di sistemi politico-sociali omogenei come gli Stati Uniti d'America, ma sta diventando tale anche all'interno dell'Unione Europea. La crescente mobilità e i sempre maggiori interessi di carattere politico, sociale, economico, commerciale, turistico e culturale hanno riscoperto ciò che è sempre stato storicamente valido, e cioè la centralità del ruolo svolto dall'a. nella promozione del potere. Fra le conseguenze negative sono invece da menzionare la meccanica riproposizione, da parte degli stessi architetti, talvolta, come si è detto, a sproposito e in situazioni ambientali completamente diverse, di analoghe soluzioni formali; o, peggio, l'innescarsi di ingenui quanto superficiali fenomeni imitativi all'interno delle scuole di a. o da parte di progettisti minori. Il senso delle fabbriche prodotte dallo star system contemporaneo sta infatti proprio e soltanto nella loro eccezionalità, all'interno di un tessuto urbano che dovrebbe essere invece caratterizzato da una sobria qualità diffusa.
Questa rinnovata proposizione del concetto di arbitrarietà della forma architettonica appare dunque il carattere invariante nella gran parte della produzione degli architetti maggiormente in vista sulla scena internazionale. Si tratta di un concetto, peraltro presente sin dalle origini della storia dell'a., i cui risvolti nei confronti della modernità non sono esenti da contraddizioni. Se infatti l'arbitrarietà della forma è più o meno dichiaratamente legata alla ricerca fine a sé stessa del nuovo e l'assunzione del nuovo come valore estetico non è che un tipico tratto delle avanguardie storiche poi riversatosi all'interno delle principali linee creative del Novecento, è certamente corretto mettere in relazione tale arbitrarietà morfologica con l'idea stessa di modernità quale si è andata configurando nel corso del secolo scorso. Dall'altra parte, non è chi non veda come essa vada contro la sistematica precettistica della modernità, i cui maestri, da Le Corbusier a L. Mies van der Rohe a W. Gropius, hanno pazientemente lavorato alla definizione di codici semplici, giustificabili, e reiterabili da parte di chiunque. Anche se proprio Le Corbusier, in un momento della sua vita creativa non esente da contraddizioni, disegnò una delle più potenti e straordinarie icone architettoniche del Novecento: la cappella di Notre Dame du Haut a Ronchamp (1950-1955).
Non tutti gli architetti sono ovviamente su tali posizioni; non pochi infatti continuano a operare, in maniera più o meno ortodossa, proprio sull'eredità del movimento moderno e sul suo estremo, talvolta manieristico, consumo. Ciò si verifica anche per la migliore produzione edilizia media: in generale, la parte più qualificata di essa si muove, fisiologicamente, all'interno delle molte possibilità di declinazione dei linguaggi della tarda modernità, nelle sue diverse accezioni più o meno connotate verso l'esibizione tecnologica, le varie forme di neorazionalismo, un più o meno radicale minimalismo o altro. Ma è indubitabile che alcuni fra i personaggi più in vista della scena internazionale sembrano invece aver imboccato con audacia la strada dell'arbitrarietà, spesso con connotazioni neoespressioniste, esplorando instancabilmente nuove, personalissime forme architettoniche, più o meno occultate dietro ragionamenti quasi sempre eteronomi rispetto alle classiche ragioni dell'architettura.
La gran parte delle fabbriche realizzate di recente da tali creativi progettisti è così, prima di tutto, accomunata dall'essere immediatamente ascrivibile, a colpo d'occhio, al proprio autore. Ciò vale per il grande centro culturale di P. Eisenman a Santiago de Compostela, gigantesco complesso che si presenta come una corrugazione geologica ispirata alle geometrie della conchiglia di San Giacomo, simbolo della città, e a quelle dei tracciati urbani del suo centro storico (1999-2006). Vale per tutte le ultime opere di F.O. Gehry (n. 1929), dall'Experience Music Project a Seattle (2000) al Walt Disney Concert Hall a Los Angeles (1988-2003), per le quali il principio conformativo sembra soprattutto originato da scelte intuitive di tipo dichiaratamente estetico (spesso ispirate alla scultura moderna e contemporanea). Vale per il Rosenthal Center for Contemporary Arts di Cincinnati (2003) come per il Phaeno Science Center a Wolfsburg (1999-2005) di Z. Hadid (n. 1950), entrambi segnati da vigorosa conflittualità fra linee, superfici e volumi: un abaco formale che tende tuttavia progressivamente verso una maggiore morbidezza e sinuosità, come avviene per il MAXXI (Museo nazionale delle arti del xxi secolo) di Roma, o nel progetto vincitore del concorso per la nuova stazione ferroviaria per l'alta velocità ad Afragola, in provincia di Napoli, entrambi in corso di realizzazione. Vale per la nuova biblioteca costruita da R. Koolhaas (n. 1944) nel centro di Seattle (2004): inquietante, colossale mutante in acciaio racchiuso da inafferrabili superfici vetrate. Vale per tutte le opere di Libeskind, a cominciare dallo Jüdisches Museum di Berlino (1998), le cui spigolose geometrie sono fondate su un complesso sistema di rinvii simbolici desunti dalla drammatica storia dei personaggi e dei luoghi; ma anche per l'Imperial War Museum a Manchester (1997-2002), la cui forma deriva invece, per esplicita ammissione del suo autore, dai cocci rimasti a terra dopo la casuale rottura di un globo terrestre (metafora di un mondo a pezzi a causa delle guerre), o per quelle attualmente in costruzione come l'addizione al Denver Museum of Art (realizzato da G. Ponti nel 1971), che parte da una libera interpretazione della struttura cristallina delle rocce del Colorado, ma che finisce con l'assomigliare molto a ciò che lo stesso Libeskind aveva proposto per l'addizione al Victoria and Albert Museum di Londra (1996) o ha proposto per quella del Royal Ontario Museum (2002-2006).
Il grado di connotazione formale raggiunto è, in alcuni casi, così forte e definito, da scoraggiare persino gli imitatori più ingenui e da rendere il percorso di alcuni impraticabile anche alla semplice disamina didattica all'interno delle scuole: è il caso di Gehry. Va anche detto che, fra gli architetti dell'arbitrarietà, ve ne sono alcuni i quali, forti di lunga pratica costruttiva e solida fondazione tipologica, producono edifici eccellenti e perfettamente funzionanti (è il caso dello stesso Gehry, le cui fabbriche 'crescono dal di dentro' e sono pur sempre legate a un programma funzionale, e anche al contesto); altri che si limitano a utilizzare immagini appariscenti cui non necessariamente corrisponde efficienza o qualità degli spazi.
Simili considerazioni è possibile svolgere a riguardo di altri progettisti, anch'essi parte del suddetto star system, i quali, pur segnati da altrettanto forte riconoscibilità, sembrano tuttavia un po' più timidi nel disancorare la forma dell'a. dalle sue logiche interne: è il caso, per es., di S. Holl, J. Herzog e P. de Meuron, T. Mayne, J. Nouvel, A. Isozaki, B. Tschumi. Pure, quando il tema lo consente, si torna all'arbitrio: si pensi al per molti aspetti straordinario Prada Store realizzato a Tokyo nel 2004 dagli svizzeri Herzog & de Meuron. Decisamente più fedeli alle differenti declinazioni neomoderniste, ancorché molto diversi fra loro e al tempo stesso abbastanza chiaramente riconoscibili, sono invece progettisti quali T. Ando, M. Botta, N. Foster, T. Ito, R. Meier, R. Moneo, R. Piano, R. Rogers, À. Siza Vieira, E. Souto de Moura, O.M. Ungers, P. Zumthor (v.) e comunque gran parte del relativamente rigoroso panorama giapponese, svizzero, austriaco, tedesco, spagnolo e portoghese. Ma, anche fra i protagonisti di questo ultimo gruppo, la tentazione dell'arbitrarietà è talvolta forte: si pensi alla Serpentine Gallery, il padiglione temporaneo che è stato realizzato a Londra nel 2002, assieme allo studio Arup, dal pur solitamente rigoroso Ito. La struttura e l'immagine complessiva di una semplice scatola parallelepipeda viene qui virtuosisticamente desunta e regolata da un oscuro algoritmo ideato da C. Balmond (n. 1943), direttore di Arup, e fondato sull'intersezione di rette complanari diverse: quasi un'anticipazione di quanto lo stesso Ito ha poi proposto nel 2004 a Tokyo per la nuova sede Tod's. In quest'ultima le ramificazioni presenti in facciata sono prese a prestito dagli alberi del viale di Omotesando su cui si affaccia l'edificio.
Quanto si è detto appare valido anche per altri architetti - talvolta appartenenti a una generazione più giovane, in altri casi semplicemente un po' meno noti e riconoscibili - che negli ultimi anni si sono comunque posti con successo all'attenzione della critica con realizzazioni segnate, in modi diversi, da indubbia qualità. Anche all'interno di tale fascia sembra riprodursi quanto si è detto per i più affermati: decisamente sbilanciati verso l'arbitrarietà della forma e la ricerca dell'iconicità sono, per es., gli olandesi B. van Berkel/UN Studio - la Möbius House a Het Gooi (1993-1998) interpreta architettonicamente l'omonimo nastro, caratterizzato, com'è noto, da una superficie le cui facce interna ed esterna si fondono con continuità l'una nell'altra -, E. Van Egeraat e L. Spuybroek/NOX; gli inglesi Future Systems - i grandi magazzini Selfridges a Birmingham (2003) - e Foreign Office - l'International Port Terminal a Yokohama (2002) -; gli americani G. Lynn/Form e H. Rashid/Asymptote; il giapponese S. Endo. Più cauti nel liberarsi della precettistica modernista appaiono l'olandese W. Arets (v.) o i tedeschi Bolles + Wilson, questi ultimi, in particolare, forse ancora interessati alle instabili geometrie del decostruzionismo degli anni Ottanta e Novanta del swecolo scorso. Abbastanza legati a estreme, talvolta estremamente sofisticate declinazioni dell'eredità del movimento moderno, sono infine lo studio SANAA della già citata Sejima e di R. Nishizawa (n. 1966), interpreti di diafane trasparenze minimaliste, S. Okada (n. 1962) e S. Ban (n. 1957). In quest'ultimo, in particolare, il disinteresse per ogni arbitraria proposizione formale si accompagna a una originale sperimentazione sui materiali e a una speciale attenzione verso la reversibilità degli interventi, la provvisorietà, la sostenibilità.
La digitalizzazione
Si è anticipato il ruolo svolto dalla cosiddetta rivoluzione digitale negli ultimi anni del Novecento, parte del più ampio fenomeno della digitalizzazione di ogni forma della vita culturale. A distanza di tempo, i suoi sempre meno numerosi detrattori da una parte e sempre più numerosi fautori dall'altra, hanno smesso di misurarsi da schieramenti contrapposti in quella che era diventata una sorta di rinnovata querelle des anciens et des modernes. La vittoria è andata evidentemente ai secondi: non esiste oggi studio professionale o scuola di progettazione che possa fare a meno delle tecnologie digitali, e ciò si è dimostrato vero sia dal punto di vista propriamente ideativo, sia da quello più semplicemente rappresentativo. Sul primo punto basti ricordare che sempre più numerosi sono i software che mirano alla gestione della modellazione conformativa dello spazio architettonico, in un'accezione evidentemente creativa; sempre di più gli architetti che dichiarano esplicitamente che i propri progetti o edifici non sarebbero stati pensabili né realizzabili in assenza di tali ausili informatici. Sempre più forte è inoltre, grazie al digitale, l'interazione fra le fasi preliminari del processo progettuale, quelle successive esecutive e quelle infine costruttive e gestionali.
Tuttavia, al di là degli innegabili successi e della effettivamente straordinaria apertura di nuovi orizzonti progettuali e costruttivi, non tutto è andato secondo le aspettative dei più ottimisti propugnatori del nuovo. Da una parte infatti sembra che la stessa arbitraria ed eteronoma sperimentazione morfologica di cui s'è detto dia qualche segno di stanchezza e che la strada della continua innovazione sia, per certi aspetti, in salita. Dall'altra, la prevista sparizione di una lunga serie di tipologie edilizie, date per spazzate via dall'avvento dell'era digitale, non è nei fatti avvenuta: basti pensare all'emblematico esempio delle biblioteche, che continuano a essere costruite con successo in ogni parte del mondo (come, simmetricamente, i libri, anch'essi dati per spacciati, continuano a proliferare con altrettanta vitalità). Insomma, le seducenti possibilità di operare on-line nella dimensione virtuale, pur esperite da molti (ma si tratta di una percentuale relativamente esigua e limitata al mondo occidentalizzato), non sembrano aver eliminato la legittima voglia di leggere giornali e libri, fare compere per strada, assistere di persona a eventi spettacolari, riunirsi ecc., nella dimensione reale. Di qui la rinnovata attenzione verso le molte, classiche tipologie di edifici di cui ha bisogno la vita dell'uomo e verso la stessa, effettiva costruzione dell'a., dopo anni di sconfinamento dei limiti disciplinari verso la virtualità.
La sostenibilità
Gli obiettivi della sostenibilità (v.) - far sì che il soddisfacimento dei bisogni dell'attuale generazione non comprometta un'analoga capacità di quelle future - sono ovviamente ampi e, attraversando ambiti disciplinari molto diversi, investono pure, e in misura determinante, l'a., la città e il territorio. L'esplosione demografica in atto in alcune parti - spesso le più povere - del nostro pianeta, i movimenti migratori e le conseguenze che tali fenomeni hanno sulle città, la continua crescita degli ambienti artificiali e la conseguente sottrazione di spazi alla natura, fa sì che da molte parti la questione sia considerata la vera sfida progettuale del 21° secolo. Si stima che circa il 50% dei consumi energetici mondiali venga assorbito dall'edificato. Quest'ultimo dovrà essere sempre meglio isolato (in ossequio, peraltro, alle normative progressivamente più esigenti); favorire, nei limiti del possibile, l'impiego di materiali locali (prestando quindi attenzione alle linee progettuali regionaliste o vernacolari); funzionare come un vero e proprio generatore di energia, con la possibilità di vendere o scambiare l'energia prodotta; dimostrare la massima flessibilità rispetto ai cambiamenti imposti dalle mutevoli necessità dell'utenza (qualità peraltro rivelatasi spesso elevata nell'edilizia storica). Flessibilità che deve essere intesa in maniera duplice: rispetto alla talvolta desiderabile lunga durata di un edificio o, viceversa, rispetto a una previsione di vita relativamente breve che si accompagna alla facilità con cui la stessa fabbrica possa essere demolita e i suoi materiali opportunamente riciclati.
Facciate a strati multipli, atri, corti o cavedi meccanicamente o naturalmente ventilati, soluzioni ad alta o bassa tecnologia, cellule fotovoltaiche, schermi solari, vetrate interattive, muri polivalenti, mulini a vento, serre o tetti giardino, sistemi di recupero del calore prodotto all'interno dell'edificio o dell'acqua piovana sono solo alcuni dei molti temi con i quali è costretta a misurarsi una progettualità sostenibile. Tale è la distanza dell'uomo contemporaneo, soprattutto nei Paesi avanzati, dal comune buon senso, che in alcuni casi viene seriamente considerata una conquista il semplice tener d'occhio la precettistica tradizionale - quella sviluppatasi da Vitruvio in poi - in termini di esposizione dell'immobile al sole o ai venti dominanti, oppure il garantire la banale possibilità di aprire le finestre, operazione abbastanza scontata nei climi temperati ma spesso irrealizzabile negli ambienti di lavoro dei Paesi più freddi o più caldi. È peraltro opinione diffusa che una svolta decisiva nella progettazione e gestione di edifici 'intelligenti' si verificherà, più che con la massiccia adozione dell'elettronica, con l'introduzione delle bio- e nanotecnologie nei processi di produzione dei materiali da costruzione, in maniera da modificarne le caratteristiche intrinseche (per fare un esempio, vetrate che reagiscono al passaggio della luce e che, in combinazione con cellule solari, sono in grado di trattenere energia).
Quanto alle normative, in alcuni Paesi come l'Olanda - dove la sensibilità politica, culturale e sociale sul tema è molto elevata - va anche facendosi strada l'opinione in base alla quale un effettivo miglioramento della sostenibilità non si otterrà tanto imbrigliando in un reticolo di veti la creatività progettuale, quanto piuttosto liberandola e puntando a rendere i prodotti edilizi sostenibili prima di tutto belli e piacevoli da usare. Le norme insomma cominciano a essere viste come un indebito surrogato di un autenticamente consapevole pensiero architettonico; e la nozione di sostenibilità è sempre più percepita come una logica da integrare, come preziosa opportunità aggiuntiva, all'interno del processo progettuale.
Negli ultimi anni si è parlato anche di green architecture, un'a. che, non limitandosi al semplice utilizzo di soluzioni tecnologiche sensibili nei confronti dell'ambiente e del risparmio energetico, sia soprattutto in grado di relazionarsi creativamente e organicamente con il contesto naturale nel suo insieme. Fra i progettisti più attenti in tal senso vi sono tedeschi come T. Herzog o Webler + Geissler; inglesi come i già citati Future Systems; olandesi come Neutelings Riedijk Architecten o MVRDV; australiani come G. Murcutt; giapponesi come i giovani componenti dello studio Ushida Findlay; americani quali J. Wines, E. Ambasz, Olson/Sundberg e A. Predock (poetico interprete del paesaggio dell'Arizona e del New Mexico). Tuttavia anche alcuni grossi studi come quelli di Foster, N. Grimshaw, Piano, I. Ritchie, Rogers e K. Yeang. Legato a tale clima culturale è pure il crescente interesse per l'a. del paesaggio: in alcuni Paesi europei, segnatamente la Francia e la Germania (notevole, per es., l'esperienza dell'IBA/Emscherpark a Essen), ma anche in Giappone e negli Stati Uniti (v. paesaggio).
Va detto inoltre che il tema sconfina, ovviamente, dalla scala dell'a. a quella della città e del territorio: interessanti, in tale ambito, i tentativi di ridurre 'l'impronta ecologica', cioè la quantità di suolo necessaria alla sopravvivenza di un'area urbanizzata (l'intera Olanda avrebbe, per es., bisogno di un'area 14 volte più grande; Londra 125 volte). Si segnalano infine alcuni casi particolarmente interessanti: il progetto residenziale voluto dalla Commissione europea e coordinato da K. Tham a Malmö, in Svezia, nell'area industriale dismessa di Ribersborg, un modello ecologico destinato a essere gradualmente esteso all'intera città; ma anche esempi provenienti da aree solitamente non molto attente alla sostenibilità come Curitiba in Brasile, la cui mobilità urbana è, con successo, garantita da un efficiente sistema di trasporti pubblici integrati.
I panorami nazionali
Nonostante la globalizzazione degli scenari architettonici, di cui si è parlato, non è possibile esaurire il nostro excursus sullo stato contemporaneo dell'a. senza tracciare, almeno a grandi linee, una panoramica su ciò che avviene sui diversi scenari nazionali (per una disamina tipologica, v. edilizia: Tipologie edilizie). Fra i Paesi più interessanti continuano a essere gli Stati Uniti. Vi si registra la scomparsa di un maestro, Ph. Johnson (1906-2005), grande testimone del Novecento, fra i principali artefici della maturazione della cultura architettonica americana. Molti poi i progettisti, in buona parte già citati, che hanno di recente prodotto fabbriche significative: ci riferiamo a Gehry, Mayne/Morphosis, E.O. Moss (v.) e Roto Architects in California; a Meier, Eisenman, Holl, Diller + Scofidio, T. Williams e B. Tsien, Ch. Gwathmey o al franco-svizzero Tschumi (n. 1944) a New York. Quest'ultimo, molto attivo in Europa, ha anche lasciato una forte impronta didattica essendo stato a lungo a capo della Graduate School della Columbia University di New York. Diverso il discorso per quanto riguarda il Canada, Paese che, pur con mezzi minori di quelli statunitensi, è apparso in grado di operare con notevole maturità. Fra i progettisti degni di nota, ci limitiamo a segnalare i Patkau Architects, interpreti della cultura regionalista della costa del Pacifico.
Più articolata, ma meno competitiva appare l'America Centrale e Meridionale. In Messico, in particolare, si segnala il lavoro del gruppo Ten Arquitectos. Interessante si presenta la scena in Brasile, Paese storicamente noto per i successi del movimento moderno e degli allievi di Le Corbusier. Un protagonista di tale vicenda, O. Niemeyer (n. 1907), ha, in particolare, lasciato un'impronta forte e significativa nel corso della sua lunga carriera. Anche in Argentina ha continuato a operare un anziano maestro di origine italiana, C. Testa (n. 1923); ma si segnala anche il lavoro di M.A. Roca (n. 1940). Esemplari pure alcuni giovani progettisti cileni, quali, per es., M. Klotz (n. 1965).
Molto complesso è il discorso per l'Asia. Prevedibilmente intensa è l'attività edilizia nei Paesi produttori di petrolio, dall'Arabia Saudita agli Emirati. A Dubai, in particolare, sono stati realizzati e sono in corso di realizzazione una serie di ambiziosi quanto, talvolta, discutibili progetti, per lo più opera di studi americani ed europei.
Altrettanto vivace l'attività nel Sud-Est del continente come a Kuala Lumpur, principale città della Malesia, che ha per alcuni anni detenuto il record legato all'edificio più alto del mondo, le gemelle Petronas Towers (1998) progettate dall'americano C. Pelli (n. 1926); record oggi conquistato dalla torre Taipei 101, realizzata da C.Y. Lee (n. 1938) nel 2004 a Taiwan. Lo stesso può dirsi di Singapore, piccola e ricchissima città-stato dove molti sono gli architetti occidentali chiamati a realizzare importanti opere, o della Corea del Sud, colonizzata dai grossi studi europei e americani. Notevoli, in tale Paese, gli stadi costruiti in occasione dei mondiali di calcio del 2001.
Incredibilmente dinamica è la condizione contemporanea in Cina, soprattutto nelle sue tre principali aree metropolitane. La prima è Hong Kong, tradizionalmente aperta all'a. (e al capitalismo) occidentale. La sua espansione è legata a quella delle città del Pearl River Delta, una delle più vaste regioni urbanizzate dell'Asia. La seconda è Shanghai, esplosa dal punto di vista economico e demografico con un balzo in avanti che non ha precedenti. L'area di Pudong, in particolare, si è sviluppata in maniera molto rapida con la realizzazione di un gran numero di altissime torri che l'hanno trasformata in una delle concentrazioni più spettacolari e arditamente verticali del mondo. Difficile tuttavia ritrovare qualità architettonica, se non limitatamente ad alcuni esempi d'importazione: moltissimi, peraltro, gli incarichi conquistati da studi americani quali SOM e KPF. La terza è Beijing, la capitale che, nonostante le deplorevoli demolizioni delle sue parti più antiche, è segnata da un intenso programma costruttivo in vista dei Giochi Olimpici del 2008.
Un discorso approfondito meriterebbe il Giappone, che è stato e rimane protagonista indiscusso sulla scena asiatica. Si tratta anche dell'unico Paese che, assieme a Europa e Stati Uniti, esporta all'estero il lavoro dei propri architetti. A K. Tange, maestro recentemente scomparso (1913-2005) e protagonista della occidentalizzazione architettonica del Paese nel corso della seconda metà del Novecento, sono succeduti Ando (n. 1941), Isozaki (n. 1931), F. Maki (n. 1928), Ito, Y. Taniguchi (n. 1937), K. Kuma (n. 1954), M.S. Watanabe (n. 1952), Sejima, Ban e tanti altri: tutti internazionalmente noti. Caratteristica non secondaria della condizione architettonica giapponese - non dissimile da quella statunitense - è poi la presenza di grosse società di progettazione, spesso legate ai giganti dell'edilizia: basti ricordare Nikken Sekkei, studio che, con i suoi circa mille architetti impiegati, è considerato il più grande del mondo.
Dinamico e interessante è ancora il panorama determinatosi negli ultimi anni in Australia. Da una parte numerose sono state le realizzazioni caratterizzate da considerevole impegno economico, soprattutto a Sidney: dagli impianti sportivi progettati in occasioni dei Giochi Olimpici del 2000 alle tante nuove torri. Dall'altra, nel più sperimentale ambito delle residenze unifamiliari e grazie alla feconda presenza di un progettista di grande sensibilità quale G. Murcutt (n. 1936), sono stati invece prodotti non pochi esempi di a. sostenibile, in grado di coniugare le tradizioni costruttive autoctone con le immagini e le tecnologie contemporanee: si pensi alle opere di Troppo Architects, D. Heath, R. Addison, A. O'Gorman, S. Godsell (n. 1960).
Ricchissimo e fra i più articolati e qualificati è infine lo scenario europeo. La progressiva unificazione culturale, che pure potrebbe portare a svolgere alcune considerazioni valide su scala continentale - quale, per es., la generalizzata consapevolezza storica - non è tuttavia tale da mettere in ombra i singoli scenari nazionali, ancora abbastanza chiaramente delineati.
Interessante è, per cominciare, la scena scandinava. In Islanda spicca il lavoro dello Studio Granda, che negli ultimi anni si è aggiudicato, spesso attraverso concorsi, una serie di importanti incarichi. In Norvegia, a una qualità diffusa elevata e alla presenza di un anziano maestro quale S. Fehn (v.), fa riscontro l'emergere del gruppo Snøhetta e di altri studi quali, per es., Lund & Slaatto. In Svezia, dopo la scomparsa di R. Erskine (1914-2005), interessanti edifici continuano a essere realizzati dallo studio Gulichsen Vormala e da J. Celsing (n. 1955). In Finlandia, Paese di grande tradizione, si segnala il lavoro di J. Pallasmaa (n. 1936); del gruppo SARC, tecnologicamente orientato; e di M. Heikkinen (n. 1949) e M. Komonen (n. 1945). In Danimarca emergono infine gli studi C.F. Møller, H. Larsen (n. 1925) e i più giovani 3×N.
Il Regno Unito ospita uno degli architetti più autorevoli a livello internazionale: Foster (n. 1935); tuttavia molto noti sono anche Rogers (n. 1933), Grimshaw (n. 1939), W. Alsop (n. 1947) e M. Hopkins (n. 1935), tutti più o meno connotati dall'uso delle tecnologie avanzate. Diversamente orientato è invece, come s'è visto, il lavoro dell'anglo-irachena Hadid. Interessanti anche gli edifici di un progettista di raffinata formazione come D. Chipperfield (v.). Molto sperimentali sono infine i citati gruppi Foreign Office e Future Systems.
I Paesi di lingua tedesca si segnalano per l'elevata qualità edilizia e, come si è detto, per l'attenzione verso la sostenibilità architettonica e il paesaggio. Berlino ha continuato a portare avanti l'imponente programma edilizio innescato sin dagli anni Ottanta dall'IBA (Internationale Bauausstellung), a capo della quale è stato a lungo J.P. Kleihues (v.), scomparso nel 2004. A tale intensa attività hanno fatto seguito i lavori promossi dopo l'unificazione del Paese con il rinnovato ruolo di capitale. La città appare così un'antologia dell'a. contemporanea e al suo interno è possibile trovare opere dei maggiori architetti del mondo. Fra i molti altri importanti progettisti tedeschi ci limitiamo a segnalare un anziano maestro, Ungers (n. 1926); ma anche lo studio Behnish, Behnisch & Partner; Z. Hecker (n. 1931), H. Kollhoff (n. 1946) e Sauerbruch & Hutton.
Intensa, raffinata e di grande qualità è l'attività in Austria e in Svizzera. In Austria sono attivi maestri quali H. Hollein (n. 1934) e G. Domenig (n. 1934). In Svizzera si segnalano Botta (n. 1943), ticinese molto legato per formazione alla scena italiana, P. Zumthor (n. 1943), Diener & Diener (vincitori, nel 1999, del concorso per l'addizione alla Galleria nazionale d'arte moderna a Roma), Gigon/Guyer e, soprattutto, i già citati Herzog (n. 1950) e de Meuron (n. 1950), nei primi anni del 21° sec. fra i progettisti più interessanti, stimati e richiesti al mondo.
L'Olanda è stata, ed è ancora, fra i Paesi che detengono una consolidata leadership in campo architettonico, merito certo di maestri quali H. Hertzberger (n. 1932), ma soprattutto per la presenza di un personaggio come Koolhaas che assieme al suo studio, OMA (Office for Metropolitan Architecture) e alla nuova struttura denominata AMO, interamente dedicata alla ricerca mediale, è fra i talenti creativi e intellettuali più noti a livello internazionale. Una posizione di rilievo è stata tuttavia raggiunta da una lunga serie di più giovani architetti, molti dei quali già incontrati: ci riferiamo ai gruppi Mecanoo, MVRDV, UN Studio, diretto da B. van Berkel e C. Bos (n. 1959), NOX.
Molto ricca appare anche la scena francese, dove spicca la figura di J. Nouvel (n. 1945), assieme a quella di O. Decq (n. 1955) - vincitrice del concorso per il nuovo MACRO, Museo d'Arte Contemporanea Roma, 1999-2002 -, D. Perrault (n. 1953), Ch. de Portzamparc (n. 1944), Lacaton & Vassal.
Ma ancor più interessante è forse la situazione nei Paesi della penisola iberica che, negli ultimi decenni, sono riusciti a coniugare le proprie specificità culturali, in termini di rapporti con i luoghi e le tradizioni costruttive, con una forte spinta all'innovazione. La scena spagnola resta segnata da due personaggi di grande rilevanza internazionale: R. Moneo (n. 1937) da una parte, architetto e teorico dell'a., molto noto negli Stati Uniti dov'è stato a capo della Graduate School of Design della Harvard University (Cambridge, Mass.), e Calatrava dall'altra, l'ingegnere probabilmente oggi più famoso al mondo, autore di una serie di scultorei ponti e di ardite fabbriche che sembrano sfidare i limiti estremi del virtuosismo strutturale. Tuttavia, si segnalano anche altri progettisti di talento quali J. Navarro Baldeweg (n. 1939), A. Campo Baeza (n. 1946), C. Ferrater (n. 1944), Martinez Lapeña-Torres, Habalos & Herreros. Notevole è pure il lavoro svolto dall'italiana B. Tagliabue (n. 1963), rimasta a capo dello studio EMBT dopo la prematura scomparsa di E. Miralles (1955-2000). Fra i portoghesi si ricorda la figura di Á. Siza Vieira (n. 1933), che ha di recente portato a termine la ristrutturazione del nuovo MADRE (Museo d'Arte Donna Regina, 2005) a Napoli.
Meno dinamica appare infine la scena italiana, dove l'ingombrante eredità storica nonché la sfiducia per il nuovo in generale, soprattutto quando esso si configura con caratteri di stabilità e di permanenza come in a., sembra continuare a impedire quel fisiologico processo di sperimentazione costruttiva che, peraltro, è il solo in grado di garantire la crescita e la maturazione di una preparata classe professionale. E relativamente scarso è ancora l'interesse istituzionale per l'a. contemporanea, in un Paese in cui gran parte delle risorse viene monopolizzata dalla conservazione degli edifici del passato, e nonostante la recente istituzione, all'interno del Ministero per i Beni e le Attività culturali, della DARC (Direzione Generale per l'Architettura e l'Arte Contemporanea).
Molto dibattuta è stata la questione della qualità architettonica: decenni di opere sciatte e poco significative, se non addirittura realizzate con intenti chiaramente speculativi nell'accezione peggiore del termine, unitamente al dilagante abusivismo e a estesi fenomeni di degrado, soprattutto nelle regioni meridionali, hanno progressivamente allontanato il pubblico dall'a. contemporanea, innescando in tal modo un generico processo di nostalgia per il passato. Ciò ha indotto a una riflessione sugli errori commessi e aperto il dibattito sui possibili strumenti atti a garantire qualità alle nuove realizzazioni (nonché sull'opportunità di ricorrere eventualmente alla demolizione nei casi peggiori). I concorsi di progettazione, apparsi fra i modi più efficaci per garantire tale auspicata qualità, nonostante alcuni esempi positivi, non si sono rivelati sempre tali, provocando in molti casi ulteriore sfiducia nella effettiva capacità di gestione dei processi di ideazione e realizzazione del nuovo da parte dell'imprenditoria privata come delle pubbliche amministrazioni.
Nonostante queste considerazioni, che non indulgono all'ottimismo, e la scomparsa di maestri quali R. Gabetti (1925-2000), G. Valle (1923-2003), G. De Carlo (1919-2005) e del già da tempo defilato V. De Feo (1928-2002), va tuttavia riconosciuto che l'Italia, negli ultimi anni, ha comunque prodotto molto, sia dentro sia fuori i confini nazionali, ed è anche, spesso, riuscita a realizzare opere di grande prestigio, soprattutto quando si è trattato di trovare un equilibrato dialogo con le preesistenze e i contesti urbani.
Fra gli architetti di maggiore visibilità sono agli inizi del 21° sec. Piano (n. 1937) e M. Fuksas (n. 1944). Entrambi apprezzati prima all'estero che in Italia, hanno continuato a produrre, all'interno dei loro personali e diversi percorsi di ricerca, una serie di fabbriche di grande interesse. Piano, nel corso della sua ormai lunga carriera, è riuscito a rinnovarsi costantemente pur all'interno di una sua indubitabile riconoscibilità, legata soprattutto alla paziente ricerca tecnologica e alla puntuale coincidenza fra struttura e forma: è fra i progettisti più richiesti e affidabili della scena internazionale. Senz'altro più esposto alle oscillazioni della moda, all'interno in particolare del suddetto principio della ricerca dell'iconicità della forma architettonica, si colloca invece l'intuitivo lavoro di Fuksas, del quale si ricorda la nuova, colossale sede della Fiera di Milano a Rho-Pero (2005).
Ma vi è anche una realtà più ampia e articolata che ha visto operare con successo numerosi progettisti nella loro maturità espressiva quali A. Anselmi (municipio di Fiumicino del 2002), G. Aulenti, C. Aymonino, M. Bellini, G. Canali (calzaturificio Prada a Montegranaro del 2000), F. Cellini, A. Citterio (sede Edel Music AG ad Amburgo-Neumuhlen del 2001), M. De Lucchi, G. Grassi, Vittorio Gregotti (teatro degli Arcimboldi a Milano del 2001), A. Monestiroli, M. Nicoletti, M. Pica Ciamarra, P. Portoghesi, F. Purini e L. Thermes, (centro parrocchiale a Lecce, 2001-06), P. Sartogo e N. Grenon (cancelleria dell'Ambasciata d'Italia a Washington del 2000), E. Sottsass, T. Valle, F. Venezia, F. Zagari; oltre a una promettente, più giovane generazione: da S. Boeri a M. Cucinella, da P. Desideri a M. Galantino, da C. Silvestrin a C. Zucchi.
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