Archivi e biblioteche
La guida alla città di Venezia, appositamente predisposta quale accoglienza ai convenuti nella città in occasione del IX congresso degli scienziati italiani nel 1847, si distingueva da analoghe opere allestite per precedenti consessi non solo per la sua mole — due ponderosi volumi con annesse piante e immagini — ma pure per la varietà dei temi che gli organizzatori veneziani del congresso avevano ritenuto dovessero concorrere ad illustrare la pubblicazione. Nei volumi di Venezia e le sue lagune, oltre a saggi sulla flora e la fauna lagunari, sull’economia e la salute pubblica, sul commercio e sulle industrie, sulle comunità religiose, spiccava infatti «lo spazio amplissimo dedicato alla storia e all’arte: a quanto cioè attestava la grandezza del passato, alla gloria che da essa riverberava sull’Italia»(1). E in questo quadro due saggi in particolare, di non poca ampiezza, erano stati dedicati al patrimonio archivistico della città e alle sue istituzioni bibliotecarie, queste ultime descritte assieme alle accademie, alle tipografie e ai giornali, alle raccolte scientifiche e numismatiche(2). Una generazione di veneziani dunque, quella che appare aver progettato la realizzazione di Venezia e le sue lagune alle soglie della rivoluzione del 1848, che si volgeva al proprio passato non come sterile e nostalgico rimpianto, bensì nella volontà «di rialzare la testa, di ritrovare una propria strada […]», di rifondare la propria cultura e la propria passione civile(3).
La prima organica presentazione a stampa dei fondi archivistici veneziani compare in un simile contesto, all’incirca a metà del secolo: precocemente fornita dunque di evidente valenza e spessore di testimonianza storiografica e civile, all’insegna di quella «organizzazione della memoria» in forma di «ricapitolazione archivistica» che avrebbe costituito una cifra non secondaria dell’Ottocento veneziano(4).
A descrivere gli archivi veneziani, a delineare questa prima bussola nel territorio vastissimo e altrimenti disorientante delle fonti, era stato designato lo stesso studioso che nell’opera avrebbe firmato il saggio sulle magistrature della Repubblica, l’abate Giuseppe Cadorin, la cui pluriennale, intensa frequentazione delle fonti veneziane per i propri studi storico-artistici aveva evidentemente sedimentato ampie e sistematiche conoscenze sulla fisionomia, sulla consistenza e sulla disponibilità delle stesse(5). Solo un anno prima d’altra parte lo stesso Cadorin in una sua lettura all’Ateneo Veneto aveva rievocato gli archivi veneziani quali luoghi ove si poteva cogliere «quasi in lucido specchio» l’afflato eroico dell’antica Dominante:
[…] dov’è poi quello spirito dell’ex repubblica, che era fonte di tanta ricchezza e sapienza, che dava impulso e moto a tante imprese, che generava gli eroi della Patria? Dove? […] Nei codici, o signori, che si custodiscono da chi ha cura di noi e delle cose nostre, nelle sale dei pubblici archivii. Penetrando in queste sale in mezzo al più profondo silenzio, ci correrà un brivido per le vene, immaginandosi che in questo luogo, fra que’ chiostri, fra que’ atri, in quelle stanze non è ancora tutta morta la regina dell’Adriatico, ma dorme a fianco del suo Leone, che nel quieto sonno sembra che ancora palpiti, ancora respiri. In quell’ammassamento di pergamene e di carte il suo spirito trovò asilo e pose in salvo come in isola fortificata il suo onore e la sua riputazione(6).
Una rassegna, quella che Cadorin offre degli archivi veneziani nel 1847 alla luce di tali premesse storiografiche, dagli orizzonti incredibilmente ampi: quanto a tenore delle carte, a natura degli enti e figure che li avevano in passato prodotti e di quelli che allora li conservavano. Si spazia infatti dagli archivi pubblici — in primis quelli conservati nel grande stabilimento dell’Archivio generale veneto ai Frari, del quale viene offerto un dettagliato riscontro preceduto da un’introduzione d’assieme ai fondi e dall’esposizione della loro «idea generale e divisione» secondo il piano sistematico del loro ordinatore Jacopo Chiodo, su cui si avrà modo di tornare più avanti — al notarile, ai fondi delle principali istituzioni ecclesiastiche e della procuratoria di S. Marco, a quelli conservati presso pii istituti, ospedali e presso la Scuola di S. Rocco. Né vengono trascurati, con una sensibilità a quel tempo non usuale nei confronti delle peculiarità della documentazione archivistica, i nuclei di fondi d’archivio conservati presso la biblioteca del Seminario patriarcale, o alla Marciana, o al Museo Correr. Un’amplissima sezione è poi dedicata agli archivi privati, sia di famiglie gentilizie che cittadinesche, di cui viene lodata la magnanimità nel mettere a disposizione della ricerca codici e documenti.
Se dunque dal saggio di Cadorin possiamo ricavare indicazioni preziose non solo sulla consistenza e l’ubicazione dei fondi archivistici veneziani alla metà del secolo XIX, ma pure sulla diffusa coscienza della loro valenza di identità civile, dall’impostazione dello stesso testo assumiamo — per farne infine avvio all’itinerario della nostra rievocazione di storia archivistica dell’Ottocento — pure la consapevolezza di un passaggio cruciale per la storia degli archivi veneziani, sia pubblici che ecclesiastici che privati: quello che, con la caduta della millenaria Repubblica, aveva reso improvvisamente obsoleto o comunque aveva radicalmente travolto, disperso o scompaginato l’imponente patrimonio documentario veneziano.
Differenti le vicende in cui incorsero le carte veneziane alla scadenza delle mutazioni istituzionali di fine Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento, collegate alla diversa fisionomia giuridica dei loro possessori: istituzioni e uffici pubblici, enti ecclesiastici monastici piuttosto che diocesani o parrocchiali, confraternite, associazioni o private famiglie. Comune tuttavia, quantomeno nelle chiavi di lettura degli eventi che si tenterà di suggerire, la coscienza del loro significato in termini di più ampia storia della cultura, così come del valore accentuatamente simbolico delle progettualità e delle scelte che sugli archivi veneziani furono lungo il secolo esercitate, fra concentrazioni e dispersioni, fra ordinamenti e riprese storiografiche(7).
Il binomio distruzione/creazione, rievocato dalla storiografia archivistica francese a proposito del rapporto fra archivi e rivoluzione, ben si applica, costituendone pertinente chiave di lettura, anche alla situazione veneziana dei concitati mesi della Municipalità giacobina, fra il maggio e il dicembre 1797(8). Il bagliore di un rogo, quello che assieme alle insegne ducali aveva bruciato ai piedi dell’albero della libertà eretto in piazza S. Marco anche un registro d’archivio — il Libro d’oro del patriziato —, caricava di esplicite intenzionalità ideologiche la liturgia della grande festa che il 4 giugno 1797 aveva solennemente sancito l’avvento del regime municipalista. A differenza di altri incendi fortuiti o frutto di colpose incurie, che nei secoli passati avevano distrutto parti anche rilevanti degli archivi della Serenissima, l’eliminazione intenzionale di quell’unico registro manifestava chiaramente — in forma non meno provocatoria rispetto ai grandiosi roghi di titoli feudali che avrebbero illuminato tanti altri alberi della libertà nelle piazze dell’Europa giacobina di quegli anni — un’allusività simbolica inequivocabile: analoga a quella emergente dall’improvviso saccheggio a cui fu sottoposto in Palazzo Ducale, nelle frenetiche giornate di maggio successive alla caduta della Repubblica, l’archivio degli inquisitori di Stato, l’odiato tribunale di polizia segreta.
Una volta di più dunque gli archivi, le carte prodotte da un regime nell’esercizio delle sue funzioni politiche, amministrative o giudiziarie, venivano assunti per esprimere di quel regime l’identità più intima, la sua capacità di vincolare con le proprie leggi e con i propri atti normativi l’intero assetto sociale. E come in altre situazioni storiche di fratture istituzionali violente anche a Venezia il primo gesto dei nuovi detentori del potere si appuntava contro quelle carte nelle quali si scorgeva immortalato l’antico legame di sudditanza.
Esaurita tuttavia la carica polemica e distruttiva di quegli episodi, tanto eclatanti quanto isolati, anche il regime democratico dovette inevitabilmente confrontarsi con il problema di una qualche validazione nell’emanazione dei propri atti e conseguentemente con la gestione dei propri archivi correnti, così come con le questioni attinenti il loro rapporto con quelli antecedenti ereditati dal passato governo, dei quali garantire in aggiunta conservazione e disponibilità. Fra incalzanti problemi di annona e di sicurezza, di usurpazioni e di confische, nel susseguirsi di petizioni e di rinvii; in quella singolare commistione di urgenze indilazionabili e utopiche proposte di riforma dell’intero assetto statuale che caratterizzò questa come le altre Repubbliche giacobine(9), la Municipalità veneziana trovò infatti occasione di esercitare la sua infaticabile tensione riformatrice pure sugli archivi.
Si trattò di linee e di scelte archivistiche appena accennate, quali l’istituzione dell’incarico di pubblico archivista con il compito di conservare «il geloso deposito di tutti gli atti della Municipalità»(10), o l’assegnazione dell’altisonante denominazione di «Archivio nazionale» ai propri archivi correnti, cui avrebbero tuttavia dovuto essere ricongiunti «con indicazioni distinte» pure gli «archivi degli ex magistrati»(11): denominazione rievocante, sulla scorta della legislazione archivistica d’Oltralpe, il carattere di appartenenza dell’istituto all’intera compagine sociale e non solo alla parte patrizia.
La subitanea conclusione dell’esperienza democratica avrebbe comunque privato tali decisioni di ogni attuazione concreta. Va tuttavia notato come nei mesi della Municipalità veneziana — in questa breve e concitata stagione, incuneata con il suo carico di progettualità e utopie fra l’assetto politico dell’antico regime e il realismo del nuovo secolo —, nel dibattito delle assemblee, entro gli uffici di comitati e dipartimenti, nei carteggi e nelle trattative con i rappresentanti degli Stati occupanti, andarono profilandosi problemi e soluzioni in materia di archivi che si sarebbero ripresentati più volte nella storia a venire, quali l’esigenza di un piano complessivo di organizzazione e conservazione degli archivi, attento pure alla subordinazione pratica dell’ordinamento dei fondi alle funzioni dell’amministrazione.
La richiesta di promuovere l’unificazione in un solo archivio «di tutte le carte dell’ex governo» non era emersa solo dal dibattito della Municipalità, ma pure dall’autorevole voce del «Commissaire François chargé des Archives de l’ancien gouvernement de Venise», il cittadino Bassal, precocemente inviato con altri due delegati a Venezia per un’ispezione apparentemente solo esplorativa degli archivi più recenti, per trarne in copia le informazioni politiche che potevano servire a Bonaparte(12). Ben presto tuttavia l’impegno della commissione si era manifestato per il suo vero intento: quello di organizzare, sotto gli occhi dei costernati commissari archivisti della Municipalità, Stefano Andrea Guerra e Giovanni Dolfin, l’invio a Parigi di intere serie di registri, filze e mappe. Quando, il 18 gennaio 1798, il primo corpo militare austriaco avrebbe preso possesso di piazza S. Marco, avevano già lasciato il Palazzo Ducale per Parigi nuclei documentari di primaria importanza quali i dispacci degli ambasciatori veneziani dalle corti straniere e quelli dei provveditori da terra e da mar, le deliberazioni del senato corti e mar per l’ultimo secolo, gran parte dell’archivio degli inquisitori di Stato e pregiata cartografia relativa alla Dalmazia e alle isole del Levante. Anche per i fondi archivistici veneziani dunque, come per i quadri, le opere d’arte e i manoscritti della Marciana, ebbe inizio nel 1797 quel funesto e tortuoso peregrinare verso le capitali delle alterne potenze dominanti che avrebbe caratterizzato, ad ogni cambio di regime, la storia del patrimonio artistico, bibliografico e archivistico veneziano.
«Ce que nous avions fait avec rapidité et non sans bruit sous l’ère démocratique, l’Autriche, devenue dominante, le fit avec lenteur et mystère»(13). Nelle espressioni non prive di suggestione e venate di autocritica dello studioso francese Armand Baschet, autore nel 1870 dell’opera Les Archives de Venise, ritroviamo nuovamente evidente, quale ‘cifra’ della politica austriaca nei confronti del patrimonio storico e artistico veneziano fra 1797 e 1805, il tema della spoliazione. E se la relativa brevità di quel regime non consentì l’attuazione di innovazioni di rilievo nell’organizzazione degli archivi veneziani, sui quali tuttavia non cessò di esercitarsi una molteplice progettualità cui faremo almeno qualche cenno fra breve, va sicuramente registrato, per l’entità dell’asporto e la sistematicità della ricerca che lo precedette, l’invio a Vienna di quarantacinque casse di documenti, scelti dall’archivista della casa imperiale Francesco Sebastiano Gassler dopo una ricognizione durata due anni negli archivi della cancelleria secreta e ducale(14).
Di diverso segno, ma nella sostanza non meno gravi, i depauperamenti del patrimonio archivistico che in quegli anni ebbero luogo a seguito di diffusi, sistematici e intenzionali scarti di documenti di cui non si ravvisava più utilità alcuna. Avviando una prassi che si sarebbe più volte ripetuta nei decenni a venire, in congiunzione con l’avvicendamento e la transitorietà dei successivi regimi, non pochi nuclei di documentazione pubblica vennero per ordine del governo ceduti dietro compenso a follatori di carta, complice lo zelo di taluni addetti agli archivi nell’adempiere alle superiori direttive onde sperarne più ampie remunerazioni: anche l’eliminazione degli antichi archivi costituiva per il regime austriaco, assecondato da improvvidi archivisti, una sia pur tenue occasione di entrate per l’erario.
Problemi di insediamento e di funzionamento dei nuovi uffici politici e amministrativi asburgici, ai cui «riparti» le antiche carte erano state assegnate sotto la responsabilità di singoli custodi, trapelano pure dal reiterato profilarsi di iniziative di concentrazione degli archivi antichi in un’unica sede. Per l’istituzione di un grande Archivio generale nei gotici granai di Terranova, in piena area marciana sul molo, il regio archivista Stefano Andrea Guerra — figura che ritorna con ruoli di rilievo nel raccogliere l’eredità della conservazione archivistica nel passaggio fra l’antico regime, la ‘democrazia’ e la prima dominazione austriaca — e l’ingegnere capo alle fabbriche Carlo Zola avevano infatti provveduto, fra il settembre e il dicembre 1804, a predisporre accurate misurazioni di tutti gli archivi e a verificare la capienza e la portata strutturale degli ambienti posti nel grande edificio dietro le Procuratie Nuove, allora utilizzati come magazzini camerali(15). Si trattò, come è noto, di una soluzione che rimase allo stadio di progetto, così come altre che continuarono a ricorrere nelle pratiche di quegli anni relative all’ipotesi di una sede unitaria nel ben più complesso e delicato Palazzo Ducale. Diverse, come avremo modo di vedere, sarebbero state le soluzioni di concentrazione archivistica che avrebbero preso piede di lì a un decennio. Va tuttavia rimarcato come questi piani archivistici del primo Ottocento — che anticiparono per tanti risvolti soluzioni ancor oggi allo studio —, se realizzati, avrebbero certamente concorso a intrecciare strettamente il destino del patrimonio archivistico veneziano con quello bibliografico, in un clamoroso polo di conservazione unitario in area marciana dalle imprevedibili conseguenze sul piano della ricerca e dell’elaborazione culturale.
Ad attuare la prima, ancorché imperfetta concentrazione archivistica avrebbe provveduto, al di là dei numerosi progetti irrealizzati(16), la napoleonica prefettura dell’Adriatico. Anche gli archivi pubblici — degli ecclesiastici e di altri ancora si farà cenno più oltre — rientrarono infatti nei piani di riorganizzazione dell’intero assetto amministrativo e urbano che la città visse con la sua annessione al Regno italico a partire dal 1806.
Già dai primi mesi del 1807, smontati gli antichi armadi in Palazzo Ducale e calati registri e filze lungo la parete marmorea sull’adiacente rio di Palazzo, gli archivi dei più prestigiosi organi della Serenissima avevano percorso, in un inusuale corteo acqueo, i rii della città fino a giungere — in una successione di convogli che si sarebbero ripetuti sia dallo stesso Palazzo Ducale che da altre sedi degli ex uffici della cessata Repubblica alle Procuratie, a Rialto e ancora altrove — nella nuova sede individuata per la costituzione dell’Archivio cosiddetto politico, l’ex Scuola grande di S. Teodoro in prossimità di Rialto. L’insufficienza spaziale di quell’edificio tuttavia, e taluni perduranti presupposti concettuali di separatezza fra le carte, alle quali si tendeva ad applicare i ‘moderni’ criteri di separazione dei poteri, portarono — come è noto — alla creazione di altre due sedi di conservazione di archivi antichi in città: i giudiziari nell’ex convento di S. Giovanni Laterano e gli archivi finanziari con i fondi demaniali — fra cui quelli dei soppressi monasteri, conventi, arti e confraternite su cui torneremo — a S. Provolo presso il palazzo del Demanio(17).
Una concentrazione imperfetta — si è detto — e non solo dal punto di vista logistico. Mancò a tale operazione infatti, a differenza di altre ristrutturazioni pure assai radicali promosse a Venezia in quegli anni dal regime napoleonico, quello spessore di innovativa progettualità che caratterizzò analoghi interventi nei settori della politica delle arti o dell’urbanistica. Opaca e manifestamente inadeguata la figura di Carlo Antonio Marin, il patrizio autore di una pur apprezzata Storia civile e politica del commercio dei veneziani in otto tomi(18), che in nome della pratica documentaria acquisita con le sue ricerche (o forse più propriamente grazie ai contatti milanesi della sua ex moglie Isabella Teotochi Albrizzi(19)) ebbe l’incarico di condurre la complessa operazione, e a cui fu successivamente affidata la direzione dell’Archivio politico di S. Teodoro. Un’impresa, quella del trasferimento degli archivi antichi della Serenissima, che Marin — sostenuto nelle delicate operazioni pure dal giovane amico, l’erudito Giovanni Rossi(20) — portò a termine con grandi difficoltà, come emerge dalle abborracciate relazioni al prefetto dell’Adriatico Marco Serbelloni e dai polemici carteggi con gli archivisti dei passati consigli e uffici della Repubblica, alcuni dei quali l’avrebbero seguito quali impiegati in subordine a S. Teodoro. L’impraticabilità degli archivi a S. Teodoro, troppo ammassati e confusi per potere essere consultati quasi nemmeno per i servizi dell’amministrazione, stava a testimoniare così dello scacco teorico e operativo patito dal regime napoleonico sul fronte della gestione del patrimonio archivistico, nonché del fallimento di una direzione, quella di Marin, nei cui confronti pure i contemporanei non lesinarono dissensi e astiose riprovazioni.
Al di là dei problemi di organizzazione e di funzionalità, tuttavia, resta da indagare — e il tema ritornerà nelle nostre considerazioni — quali fossero i modelli culturali della generazione di intellettuali cui il regime napoleonico affidò la gestione del patrimonio archivistico veneziano, e quali le ripercussioni di tali approcci sul destino e sulla fisionomia dei fondi. «Una direzione inesperta», avrebbe commentato qualche anno dopo con sobrie parole il successore Jacopo Chiodo a proposito dell’operato di Marin, «che non ha permesso di tenere ben unito l’archivio»(21); inquietanti indizi, ancora, quelli riportati a fianco di più aspre valutazioni da Agostino Carli Rubbi — controversa figura di erudito, dedito in quegli anni grazie ad incarichi personali allo scarto sistematico degli atti degli inquisitori di Stato(22) —, secondo il quale gli archivi erano stati «massimamente disordinati» dall’archivista generale Carlo Antonio Marin: costui «finché visse, radunò a capriccio tutt’i libri ch’ei vedeva ben legati, con altri anco stampati, e non gl’importava che disordinassero le serie delle carte de’ vari corpi pubblici della veneta sovranità»(23).
Agli anni napoleonici va infine assegnato, contestualmente con la creazione in Venezia di una autonoma Municipalità, pure il relativo avvio delle serie documentarie dell’Archivio Comunale, che nell’incremento dei successivi due secoli offrono a tutt’oggi un complesso di fonti imprescindibili per la storia sociale e urbana della città(24).
L’epoca napoleonica segnò una cesura di rilievo anche per il ricco patrimonio documentario ecclesiastico e degli enti assistenziali(25), così come per molti di quegli archivi dalle peculiari caratteristiche e dal riconosciuto valore storiografico che le famiglie gentilizie veneziane avevano incrementato nei secoli e accumulato, a fianco delle biblioteche e delle raccolte d’arte, nelle proprie dimore.
Quanto ai fondi ecclesiastici, meno vistose furono le innovazioni per gli archivi della curia e della mensa patriarcale, che accompagnarono la traslazione della sede vescovile, spostandosi con essa da S. Pietro di Castello a S. Marco, giusta i decreti napoleonici emanati fra il settembre 1806 e l’ottobre 1807(26), e subendo tuttavia, nelle more dell’edificazione del nuovo palazzo patriarcale che si sarebbe protratta fino alla metà del secolo, degrado e dispersioni(27). A seguito dell’inglobamento delle due diocesi lagunari di Caorle e Torcello, risalente al 1818, anche gli archivi delle due rispettive curie sarebbero confluiti presso quello della curia patriarcale, ove si trovano tuttora in posizioni distinte, ancorché non del tutto integri. Collegata al trasferimento della sede vescovile in area marciana era stata pure l’unificazione, non priva di annosi strascichi di conflittualità giurisdizionale, del capitolo patriarcale di S. Pietro con quello palatino di S. Marco(28). Frutto tardivo e specchio di tale difficoltosa integrazione, l’accorpamento dei due antichi archivi, realizzato nel 1866 dal canonico Alessandro Piegadi nella sua veste di cancelliere capitolare, avrebbe mescolato in una incongrua fusione — accompagnata pur essa da abbondanti scarti — pergamene, registri e fascicoli prodotti da istituzioni per secoli rigorosamente distinte, se non fra loro contrapposte(29).
Un quadro dunque, quello ottocentesco degli archivi ecclesiastici delle strutture centrali della diocesi, da cui trapelano difficoltà e scarsa attenzione nella gestione e nella conservazione degli atti, in un contesto di cultura documentaria e di valorizzazione dei fondi ampiamente decaduto rispetto alla fervida stagione dell’erudizione ecclesiastica tardosettecentesca, che anche negli ambienti della curia patriarcale aveva manifestato i suoi benefici effetti(30).
Fra le vicende storico-istituzionali che provocarono nel tormentato avvio del secolo ripercussioni archivistiche di un qualche peso va poi sicuramente segnalato quel complesso di disposizioni normative che nel giro di pochi anni, fra 1806 e 1810, ridussero progressivamente il numero delle parrocchie da settanta a quaranta e infine a trenta, secondo un piano di concentrazione che, in parallelo con la soppressione di monasteri e conventi, di confraternite e capitoli, ridisegnò i confini dell’intera topografia ecclesiastica cittadina e con essa pure quella degli archivi parrocchiali veneziani(31). Concentrati anch’essi con la titolarità parrocchiale, e riuniti in sorte di grappoli documentari attorno al fondo della parrocchia territorialmente superstite, gli archivi parrocchiali, recanti sovente al proprio interno le carte aggregate delle rispettive fabbricerie(32), di numerose scuole e sovvegni, acquisirono nella temperie di quegli anni quel carattere di complessi fortemente articolati in fondi e sottofondi, che ancor oggi lascia svelare imprevedibili giacimenti di carte.
Ancor più tormentata la sorte dei fondi archivistici dei numerosissimi monasteri e conventi caduti anch’essi sotto la scure delle soppressioni napoleoniche che, sempre fra il 1805 e il 1810, portarono a definitiva conclusione l’operazione di chiusura delle case monastiche avviata già durante la Repubblica negli anni Sessanta e Settanta del Settecento(33). E se gli archivi dei religiosi erano stati in quell’occasione ceduti in parte ai nuovi acquirenti dei beni e per il resto trattenuti presso la sede delle Procuratie Nuove in un «ammasso confuso e grandioso» di difficile gestione, i più numerosi archivi di monasteri e conventi indemaniati assieme a quelli di confraternite e corporazioni in età napoleonica, in una con gli edifici, il patrimonio librario e i beni artistici, vennero fatti confluire presso la direzione dipartimentale del demanio a S. Provolo, ove un «archivista delle corporazioni» ne curava custodia e consultazione d’ufficio. Di qui essi sarebbero passati, dopo poco più di un decennio e in modo non del tutto indolore, all’Archivio generale veneto ai Frari.
Se paragonate a quelle segnate dalla dispersione, dalla distruzione e dal degrado in cui incorsero opere d’arte e arredi sacri, inestimabili biblioteche monastiche e gli stessi antichi edifici, le vicende relative agli archivi dei religiosi, probabilmente in nome del loro permanente valore di attestazione giuridica e patrimoniale, conobbero dunque una sorte se non più tutelata quantomeno più lineare. Essi non uscirono tuttavia indenni da alcune operazioni di smembramento che la mole dei fondi non impedì si verificassero. Fra quelle che avrebbero maggiormente manifestato alcuni tratti peculiari della cultura collezionistico-museale del tempo, va segnalata l’estrazione dei più antichi documenti, specie quelli su pergamena, disposta da Milano con successive circolari a partire dal 1807 fino al 1813 al fine di far convergere tale documentazione nel costituendo Archivio diplomatico di S. Fedele, operazione di cui fu per qualche tempo incaricato a Venezia e a Treviso quell’Agostino Carli Rubbi che abbiamo più sopra rievocato per la sua polemica presenza all’Archivio di S. Teodoro. Nonostante non poche difficoltà concettuali e operative, che impedirono di portare a termine il lavoro di selezione, al momento del crollo del regime napoleonico molte pergamene erano già state estratte dai loro archivi. Non più partite per Milano, e tuttavia avulse dagli originari contesti documentari, andarono a costituire quei «Diplomatici» la cui presenza fu per tutto l’Ottocento — e in taluni istituti ancor oggi — un tratto tipico della fisionomia documentaria degli archivi delle corporazioni religiose(34).
Caratteristico degli anni napoleonici è pure l’avvio di un’altra vicenda di dispersione archivistica, conseguenza questa volta non dell’imperio dei decreti di soppressione, ma del generale rovesciamento politico e sociale provocato dalla caduta dell’antico regime della Serenissima. La crisi non solo economica ma pure di identità civile, sofferta in quei decenni primo-ottocenteschi da gran parte del patriziato veneziano privato del tradizionale ruolo di gestione della cosa pubblica e travolto nelle sue fortune, ebbe come conseguenza la frenetica immissione sul mercato, a fianco di beni immobili, opere d’arte, biblioteche private, pure di pregevoli e consistenti archivi familiari(35). Specchio nella loro articolata composizione delle strategie di politica matrimoniale e di alleanze politiche adottate dalle famiglie, essi documentavano le attività economiche, mercantili o di gestione dei patrimoni e delle aziende terriere delle casate. Ma conservavano pure tracce consistenti dell’attività dei patrizi veneziani al servizio dei pubblici uffici e consigli: sia nella fase della formazione dei giovani nobili, per la quale l’archivio di famiglia forniva documentazione tratta sovente dagli atti di Stato, sia nell’espletamento — testimoniato nelle commissioni o nel materiale preparatorio e personale — di numerosi incarichi pubblici, a conclusione dei quali talora la relativa documentazione non veniva versata alla Secreta ma era trattenuta fra le carte del casato(36). A fronte dell’entità della dispersione, cui concorsero antiquari e commercianti non meno che il disinteresse del successivo governo austriaco, spicca lo zelo di quegli eruditi e collezionisti veneziani, non necessariamente patrizi, talora ecclesiastici, che si impegnarono con le loro risorse personali affinché anche queste vestigia dell’antica grandezza venissero conservate alla patria. Al ruolo di tramite nella conservazione giocato a questo proposito nuovamente da Giovanni Rossi e dal grande bibliofilo Emmanuele Antonio Cicogna va ascritta, ad esempio, la presenza nelle raccolte del Museo Correr di non poche tracce del patrimonio archivistico delle famiglie patrizie veneziane.
È possibile individuare, al di là delle disposizioni normative e delle realizzazioni effettivamente promosse, qualche tratto comune in ordine alla gestione della memoria archivistica nell’età napoleonica? L’evenienza di un rischio pare innanzitutto profilarsi. Esso non fu tuttavia, se non per i casi or ora richiamati, quello della dispersione, che per la mole del grande complesso dei fondi pubblici ed ecclesiastici, e per il perdurante riconoscimento del loro valore amministrativo e contabile, fu come abbiamo visto in gran parte stornato. Si trattò piuttosto del prevalere, nei responsabili e nei protagonisti delle principali scelte conservative, di un approccio alla tutela della documentazione fortemente tributario ad interessi bibliografici ed eruditi, nostalgicamente attento al pregio di singoli settori o pezzi d’archivio e alla loro forza evocativa del passato e incapace, per la formazione e il profilo culturale delle figure che vi attesero, di rapportarsi con il respiro complessivo dei fondi, con la loro natura giuridico-istituzionale, con la loro struttura e la loro articolazione d’assieme.
Ci pare assecondino questa lettura gli stretti, mutui legami di Carlo Antonio Marin con Giovanni Rossi, e di questi con Emmanuele Antonio Cicogna, la loro produzione storiografica e letteraria, collegata alla frequentazione degli ambienti accademici dell’epoca quali la veneta accademia letteraria prima e l’Ateneo Veneto successivamente, e ancora l’infaticabile attività erudita e collezionistica specie dei due ultimi quali raccoglitori e copisti di memorie bibliografiche e documentarie: appassionata quanto disorganica registrazione della tradizione culturale veneziana per tramandarla alle future generazioni(37).
Se radicalmente diverso fu dunque il corso che presero lungo il seguito dell’Ottocento le vicende archivistiche veneziane, ciò fu dovuto al riemergere, quasi in un ritorno carsico di progettualità rimaste sopite e sconfitte negli anni napoleonici, di altre figure di tecnici ed esperti, dalla differente provenienza culturale e professionale, in sintonia con alcune determinanti scelte del governo austriaco, se non dello stesso imperatore in persona.
Alle origini della nuova fase di storia degli archivi veneziani sta, come è noto, il decreto del 13 dicembre 1815 per l’istituzione del nuovo Archivio generale veneto, che avrebbe trovato la sua sede fra il 1817 e il 1818 nell’ex convento indemaniato dei Frari(38). Sono i Diari di Emmanuele Antonio Cicogna a ragguagliarci con pettegola vivacità sugli episodi legati a quelle giornate del novembre 1815, quando l’imperatore d’Austria Francesco I, giunto a Venezia per assistere al ritorno dei cavalli sulla facciata di S. Marco dopo la cattività parigina, aveva colto l’occasione per visitare i più importanti istituti artistici e culturali della città portandosi pure il 25 novembre all’Archivio di S. Teodoro(39). Qui il neodirettore Jacopo Chiodo, da poco succeduto al defunto Carlo Antonio Marin, gli aveva messo nelle mani — e l’intero episodio si presta a rievocazioni dai toni di una vera e propria agiografia archivistica — assieme ad una ricerca genealogica sulla casa d’Asburgo compilata sui documenti veneziani pure quella accorata supplica per l’istituzione di un grande stabilimento di conservazione archivistica a Venezia, cui l’imperatore al suo ritorno a Vienna avrebbe, come abbiamo visto, sollecitamente corrisposto(40).
Protagonista indiscusso di tale fase della storia archivistica veneziana, in un ruolo che si sarebbe esteso fino a tutto il quarto decennio dell’Ottocento, fu dunque quello Jacopo Chiodo la cui biografia costituisce la chiave per cogliere la linea progettuale della grandiosa e definitiva operazione di concentrazione. Coadiutore fin da giovanissimo all’ufficio dei compilatori alle leggi, che avrebbe presieduto dal 1795, impegnato quindi in una rinnovata sistemazione dello Statuto veneto civile e criminale, archivista successivamente della stessa Compilazione leggi — l’ufficio incaricato della classificazione per epoche e per materie di tutta la complessa e farraginosa legislazione della Repubblica —, «coordinatore degli atti veneti e amministrativi» sotto la prima dominazione austriaca(41), Chiodo era stato trasferito a S. Teodoro assieme al ‘suo’ archivio della compilazione leggi, ed ivi aveva collaborato, non senza dissensi e mortificazioni personali, con il direttore Marin, cui era succeduto alla di lui morte nel 1815.
Una «straordinaria conoscenza del diritto veneto, nel suo spirito, in tutti i suoi meandri» era quella posseduta da Jacopo Chiodo, «risalente alla sua formazione e pratica giuridica esercitata presso l’ufficio veneziano della Compilazione leggi»(42). Nel ponderoso lavoro di censimento archivistico cui Chiodo si dedicò a partire dalla caduta della Repubblica, in quegli elenchi accuratissimi di magistrature e dei relativi archivi — fonte diretta, come abbiamo visto, dei rispettivi saggi di Cadorin in Venezia e le sue lagune — la cui ubicazione e consistenza egli continuò a inseguire e ad aggiornare con infiniti appunti e memorie a dispetto dei trasferimenti e delle dispersioni; nella stesura ripetuta e sempre perfezionata, talora ossessiva, dei ricorrenti elenchi ragionati, indici, repertori e «piani sistematici» per la concentrazione generale di tutti gli archivi antichi e per la loro distribuzione in distinte divisioni, in «riparti», classi e sottoclassi, appare chiara l’impostazione giuridico-sistematica di matrice illuministica dell’ex compilatore alle leggi, autore, sullo scorcio della caduta della Repubblica, della più organica proposta di riforma del diritto civile veneziano(43).
Una funzione in qualche modo sostitutiva, dunque, quella del grande Archivio generale veneto. Quanto non era riuscito a Jacopo Chiodo compilatore del nuovo codice — «il probo, diligente, sfortunatissimo protagonista dell’ultimo tentativo di revisione dello statuto civile veneto»(44) —, ossia il «riordino [...] e ridistribuzione di tutta la legislazione civile reperita e collezionata secondo un metodo fermo in ragione»(45), parrebbe dunque essere riuscito all’infaticabile Chiodo direttore del nuovo Archivio generale dei Frari. Molte delle indicazioni formulate da Gaetano Cozzi a proposito del progetto di Chiodo per un nuovo Codice civile, anch’esso articolato in un ramificatissimo «piano» più volte redatto, si traducono infatti in perspicue chiavi di comprensione del lavoro di progettazione e di ordinamento del Chiodo archivista, autore questa volta infine della compiuta sistemazione cui aveva da sempre anelato: non tanto dunque nella stesura di quel Codice che mai giunse ad essere approvato, quanto nella materialità di registri, buste e filze degli archivi antichi della Serenissima, finalmente affiancati in gerarchica disposizione — quasi impaginati in capitoli, paragrafi e capoversi di un sommario di Compilazione leggi — nel distendersi dei più di trecento fra corridoi, sale, stanze e celle dell’ex convento dei Frari.
Colpisce nell’attività di Jacopo Chiodo la vastità del respiro progettuale, la costanza nel richiamare ad esso i settori dispersi degli archivi antichi: «Da tutti luoghi dove sono e dove si potranno rinvenire le varie parti staccate nei tempi addietro di ciascun archivio», scriveva nel 1817, «abbiasi a ritrovare unità ed integrità nel nuovo locale»(46); e ancora auspicava «la riordinazione in un corpo regolare e sistematico delle membra fatalmente disperse di una macchina ch’era mirabilmente legata e connessa nella veneta singolare costituzione»(47). Dalle «sacre leggi» ai «veneti archivi», dunque. L’assetto costituzionale della Repubblica veneta, rivisitato attraverso l’impianto culturale sistematico-deduttivo dell’ex compilatore alle leggi, presiedette infatti a quell’originale operazione di ‘montaggio’ della memoria documentaria veneziana promossa da Jacopo Chiodo tramite la delineazione della struttura complessiva e delle relazioni tra i fondi all’interno del nuovo istituto: quell’Archivio generale veneto che nella supplica all’imperatore del novembre 1815 più sopra rievocata Chiodo aveva visto in prospettiva servire — con una non casuale sequenza gerarchica — «alle ricerche del Governo, alle occorrenze dei sudditi, alla istruzione de’ politici, alle meditazioni de’ filosofi, al lavoro degli storici». Con Jacopo Chiodo dunque «archivisticamente, la Repubblica si salvò»(48). Ma con lo stesso Chiodo, che non aveva trascurato nel suo piano di riservare il dovuto spazio agli archivi ‘moderni’ e a quelli correnti, si posero in aggiunta le premesse per una ‘continuazione’ dell’archivio come luogo ove incrementare indefinitamente, nella progressiva sedimentazione dei versamenti e delle acquisizioni, la conservazione della memoria documentaria della cosa pubblica.
Buon ultimo, dunque, «il lavoro degli storici» nella sequenza delle finalità del nuovo istituto delineate da Jacopo Chiodo: e così non poteva non essere, considerate le premesse culturali del grande direttore, e il più generale contesto politico. Quando nel 1840 all’età di ottant’anni, al termine di una lunga e operosissima vita, Jacopo Chiodo lasciò la direzione dell’Archivio dei Frari, le domande di consultazione pervenute e soddisfatte, a partire dal 1824, assommavano globalmente ad una trentina(49): fra di esse quella di Emmanuele Antonio Cicogna — la prima ad essere accolta nel 1825(50) —, e quella ancora di Leopold von Ranke, che dal 1829 aveva potuto consultare, pur con alcune restrizioni e solo grazie all’intervento di Metternich, le relazioni degli ambasciatori veneti, e a cui Chiodo era apparso soprattutto un geloso difensore, custos rerum secretarum, del suo tesoro(51).
La non facile eredità di Chiodo contribuì a rendere ancora più stridente il confronto con i suoi immediati successori, in ispecie con Antonio Ninfa Priuli, che resse i Frari dal 1840 al 1847, consegnato ad una non benevola memoria quale persona «di talenti limitati» e «di scarsa iniziativa»(52). Entrambi leali funzionari del governo asburgico, ma protagonisti a metà secolo di un’accesa polemica storiografica che li vide contrapposti sull’interpretazione delle cause della decadenza e della caduta della Repubblica di Venezia, Fabio Mutinelli e Girolamo Dandolo si avvicendarono alla direzione dell’Archivio dal 1847 al 1861 il primo, e quindi il secondo fino al 1866(53): assegnati dunque alla direzione dell’importante istituto prevalentemente in quanto studiosi di storia veneta(54), e sicuramente pure in nome di aspettative d’ordine e di allineamento politico, anche se a Dandolo, «pel quale la riverenza pel governo straniero non gl’impediva conoscerne i difetti e le colpe, e nettamente disapprovarle»(55), furono associate le prime avvisaglie di liberalità nella consultazione dei fondi, alcuni dei quali erano stati per il passato interdetti agli stessi impiegati dell’Archivio. «Domandare fu sufficiente per ottenere»: così commentava ottimisticamente l’avvio del nuovo corso lo studioso francese Armand Baschet(56). Ed ecco allora l’Archivio dei Frari divenire sempre più negli anni successivi «asse gravitazionale», assieme alla Marciana, di una generazione ben riconoscibile di protagonisti della storiografia veneziana e delle prime organiche edizioni di fonti: da Lorenzi a Tassini, da Sagredo a Romanin, da Baschet a Rawdon Brown a De Mas Latrie, da Fulin ad Alberi, a Niccolò Barozzi, a Guglielmo Berchet(57).
Era l’intero quadro politico, in ogni modo, ad essere radicalmente cambiato. Mentre l’eco dei cannoneggiamenti austriaci giungeva fin nel silenzio della sala di studio ai Frari(58) minacciando la sicurezza dei fondi(59), i sussulti rivoluzionari del 1848 veneziano avevano aggiornato anche sul fronte archivistico le aspettative di democrazia. Così un decreto del 28 maggio 1848 a firma di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo aveva proclamato l’apertura dei pubblici archivi «alle indagini d’ogni persona di probità notoria o bene attestata»(60). Un inedito accostamento fra studi archivistici e liberalesimo andava d’altra parte profilandosi nello spirito del tempo. La Scuola di paleografia, aperta nel 1854 sotto la guida di Cesare Foucard per istruire i giovani nella decifrazione delle antiche scritture, era apparsa al governo austriaco «un covo di massime libertine e di miasmi perniciosi», fino a dover subire nel 1860 la chiusura e l’allontanamento del titolare dell’insegnamento(61).
La cupezza della declinante dominazione austriaca, cui non pochi attribuivano la responsabilità di un decadimento dell’istituto archivistico veneziano, aveva giusto nei suoi ultimi anni lasciato il posto ad un più attento impegno nell’assegnazione di risorse e personale; il che non impedì il colpo di coda dell’estrema, pesante spoliazione di documenti, trasportati a Vienna nell’estate del 1866 a seguito della implacabile cernita operata fra gli archivi veneziani dall’emissario imperiale, il benedettino Beda Dudik, per contrastare il quale il giovane Bartolomeo Cecchetti, allora responsabile della sezione storico-diplomatica dell’Archivio, non esitò ad esporsi sino a patire arresto e carcere(62).
Primo direttore dell’era unitaria, lo studioso e patriota Tommaso Gar, già ambasciatore in Francia e a Firenze per il governo provvisorio di Manin, portava nella carica che ebbe a ricoprire dal 1867 la sua riconosciuta autorevolezza — che gli avrebbe fruttato pure nel biennio 1870-1871 la prestigiosa elezione a presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti — e la sua esperienza di recensore di manoscritti e di editore di fonti, di collaboratore delle iniziative del Vieusseux, di esperto traduttore e di mediatore fra la cultura italiana e quelle di lingua tedesca, di direttore di biblioteche quali quelle di Trento e di Napoli e di teorico di biblioteconomia: un itinerario variegato ed eclettico quanto a occasioni di formazione e a tenore di produzioni scientifiche, il cui sviluppo lungo strade non esclusivamente veneziane, bensì nazionali e addirittura internazionali, costituisce di per sé un segnale dei riflessi sugli archivi veneziani della rinnovata temperie culturale unitaria(63).
Quest’ultima avrebbe tuttavia trovato il suo più alto interprete e protagonista, per quanto attiene alle vicende archivistiche veneziane, nel già rievocato Bartolomeo Cecchetti. Docente dal 1860 alla scuola di paleografia, aveva seguito tutto il cursus delle mansioni interne alla carriera presso l’Archivio, collaborando non solo con Tommaso Gar ma pure con il suo successore alla direzione Teodoro Toderini(64), cui era subentrato a sua volta nel 1875(65). In questi anni aveva potuto maturare un complesso ingente di conoscenze archivistiche, documentato fra l’altro dagli innumerevoli contributi in forma di monografie, saggi e interventi sui periodici del settore(66), primo fra tutti l’«Archivio Veneto» la cui direzione, quale organo della Deputazione di Storia Patria per le Venezie sorta un decennio prima, avrebbe in aggiunta tenuto dal 1884(67).
Ma a caratterizzare la figura di Bartolomeo Cecchetti nella storia degli archivi veneziani e veneti non furono solo i tratti di una biografia particolarmente felice quanto a itinerari formativi e a occasioni di specializzazione, o la sua produzione storiografica o ancora le sue molteplici relazioni con i luoghi della elaborazione culturale cittadina quali la Deputazione, l’Ateneo Veneto, l’Istituto Veneto. Nel suo ribadito intento di segnalare itinerari di ricerca, di far percepire tutte le potenzialità informative delle fonti che si andavano via via predisponendo per la ricerca e gli studi, di porre al centro del rinnovamento storiografico lo studio e l’edizione dei documenti, prendeva forma infatti tutta l’euforia nei confronti degli orizzonti di conoscenza che gli archivi stavano aprendo in quegli anni sotto molti aspetti eccezionali; ma si manifestava pure la consapevolezza di un ruolo cruciale, dalla valenza squisitamente civile, che gli archivisti si riteneva potessero realmente svolgere tramite l’esercizio della loro attività. Costitutivo del profilo di Bartolomeo Cecchetti è infatti il suo convinto inserimento nel contesto di tensione etica, di progettualità culturale per la costituzione di una nuova identità nazionale proprio degli anni immediatamente precedenti e susseguenti la realizzazione dell’unità d’Italia. Anche il mondo degli archivi, alla pari di quello della conservazione museale, degli studi eruditi e delle scienze, ebbe parte attiva, come è noto, in questo fermento, che conobbe alcuni momenti di intenso dibattito in occasione della definizione delle forme statuali più consone a governarlo e in concomitanza con la creazione di una rete di istituzioni depositarie «della memoria storica locale, diventata memoria nazionale», prime fra le quali gli Archivi e le Deputazioni di Storia Patria(68). Su questo più ampio sfondo, che aveva contemplato l’assegnazione dal 1874 di tutti i preesistenti istituti archivistici statali al Ministero dell’Interno, non senza pareri discordi e nella prospettiva di «garantire uno stretto controllo burocratico tra centro e periferia»(69), e che aveva visto l’emanazione a livello nazionale fra 1874 e 1875 di un organico complesso di norme relativo al riordinamento degli archivi di Stato e alla conservazione della documentazione storica, è agevole non solo confrontare le realizzazioni dell’‘era’ di Cecchetti con quelle analoghe di altre realtà archivistiche regionali(70), ma pure cogliere tutto lo spessore delle attività che, dietro impulso o per diretta iniziativa dello stesso Cecchetti, furono intraprese sul fronte dell’incremento, della conoscenza e della valorizzazione del patrimonio archivistico veneziano. La nuova stagione avrebbe visto infatti gli archivi dei Frari, come molti altri di tutta Italia, al centro di iniziative didattiche e museali, di ripetute operazioni di censimento, di ordinamento ed inventariazione, di pubblicizzazione del contenuto degli archivi e delle nuove acquisizioni.
Si inseriscono in questi filoni di attività le intensificate attenzioni alla manutenzione e al restauro del compendio architettonico dei Frari, cui vennero aggiunte — per ospitare nuovi depositi e versamenti — le sedi dell’adiacente ex convento di S. Nicolò della Lattuga, gran parte del palazzo dei Dieci Savi e la scuola degli orefici a Rialto(71); la cura per la didattica e la formazione professionale degli archivisti assicurata attraverso piani di studio e un impegno di docenza di alta qualità per la scuola di paleografia(72), ma pure tramite migliorie alla biblioteca, cui fu aggiunto il settore specializzato della biblioteca legislativa(73), e la creazione — assai precoce rispetto a consimili iniziative — di un Museo paleografico della regione veneta cui si affiancava, in apposita monumentale sala dedicata alla regina Margherita, una raccolta di autografi, codici e carte preziose per antichità: offerti questa volta non allo studio degli esperti bensì al più generale pubblico dei cittadini(74).
Si accennava più sopra agli incrementi dei fondi. Si trattò, con Bartolomeo Cecchetti, di una vera e propria strategia annessionistica non priva di risvolti polemici e di controversie, messa in atto con il vigore ideale e la determinazione rivendicativa di chi è consapevole di rappresentare interessi pubblici e collettivi, e che fruttò tuttavia acquisizioni di grandissimo rilievo, destinate ad imprimere svolte innovative a tutta la storiografia veneziana(75).
Pure l’attività di censimento e descrizione dei fondi archivistici, cui Cecchetti si applicò in prima persona e cui orientò instancabilmente l’esigua schiera dei suoi collaboratori(76), ebbe notevole impulso, fornendo nel giro di pochi anni i fondi archivistici di strumenti di ricerca tuttora utilizzati. Di notevole interesse dal punto di vista della teoria archivistica la distinzione, formulata in quegli anni ma risalente già alla direzione di Tommaso Gar e sicuramente derivata da alcune problematiche catalografiche riscontrabili nelle Letture di bibliologia tenute da quest’ultimo all’Università di Napoli(77), fra ordinamento «materiale» — ossia reale, di fatto, come opportunamente interpreta Maria Francesca Tiepolo(78) — comprendente ordinamento fisico, condizionamento, descrizione inventariale più o meno diffusa, e ordinamento «scientifico», al quale veniva attribuita la compilazione, che di fatto fu avviata su largo raggio, di indici, schedari, rubriche, fino alla stesura di regesti, trascrizioni e decifrazioni. In epoche che altrove avevano conosciuto pesanti ridistribuzioni fisiche per materie di ingenti complessi documentari tale distinzione, salvando l’integrità della struttura dei fondi, puntò ad affiancare strumenti quali elenchi ed inventari con altri elaborati miranti in aggiunta a moltiplicare le chiavi di ricerca e gli strumenti di accesso ai fondi(79).
Dei lavori archivistici avviati o portati a termine, delle ricerche e delle iniziative scientifiche venivano prodotti — ed anche questo costituisce un ‘segno dei tempi’ di non poco rilievo — ricorrenti resoconti: affidati non solo allo strumento ordinario delle relazioni interne alle istanze gerarchicamente superiori dell’amministrazione, ma pure divulgati al vasto pubblico degli studiosi e ai cittadini tutti attraverso specifiche edizioni, grazie a frequenti aggiornamenti su «Archivio Veneto» e per il tramite di apposite pubblicazioni statistiche sui più svariati aspetti delle attività dell’istituto.
Frutto maturo di tale tensione al controllo intellettuale e alla tutela del patrimonio archivistico non solo veneziano ma dell’intero Veneto furono i tre volumi usciti fra 1880 e 1881 della Statistica degli archivii della Regione veneta, cui Bartolomeo Cecchetti attese nella sua concomitante funzione di soprintendente archivistico(80). Riprendendo un progetto e talune rilevazioni a suo tempo avviate da Jacopo Chiodo(81) e alcune anticipazioni elaborate negli ultimi due decenni, i tre volumi della Statistica forniscono un censimento documentario non solo degli archivi «governativi», ma pure di quelli dei Comuni, delle opere pie, delle università, delle curie diocesane e di altre pubbliche istituzioni dall’ampiezza ancor oggi ammirevole. Essi stanno ancora a testimoniare, nella loro genesi, nelle relazioni fra istituti, privati e realtà locali le più diverse che la loro compilazione comportò, e nei fittissimi carteggi che li precedettero e li accompagnarono, della partecipazione non convenzionale del soprintendente Bartolomeo Cecchetti agli obiettivi e alle strategie di presenza del nuovo Stato nei confronti della funzione di vigilanza sulla memoria storica nazionale(82).
A Cecchetti sarebbe succeduto nella direzione dei Frari dal 1889 il presidente in carica della Deputazione di Storia Patria Federico Stefani(83), alla cui morte nell’aprile 1897 avrebbe fatto seguito fino al ’98 la reggenza di Giuseppe Giomo, assieme a Riccardo Predelli, fedele continuatore fin entro il primo decennio del Novecento della lezione di Bartolomeo Cecchetti(84). La parabola di un secolo di storia archivistica veneziana e delle connesse progettualità si chiude pertanto su questi orizzonti di marcato impegno scientifico, di apertura nei confronti della cultura, della divulgazione, delle aspettative della società civile: tentando di tener conto degli orientamenti della storiografia nel programmare i piani di ordinamento e compilazione di inventari, mirando a formalizzare il rapporto con gli studiosi — saliti nel settimo decennio dell’Ottocento ad una presenza media di 140 all’anno(85) — tramite lo strumento imparziale di un regolamento(86), instaurando nei loro confronti un atteggiamento di attenta accoglienza, ricevendo nell’Archivio dei Frari visitatori più o meno illustri e puranche semplici curiosi(87).
Al condiviso afflato che accomunò la progettualità culturale delle istituzioni archivistiche italiane dei primi decenni postunitari, i veneziani parteciparono dunque con accenti personali e vigorosi la loro carica ideale facendo da tramite sicuro della loro storia e delle loro tradizioni nei nuovi orizzonti dell’Italia unita: una composizione, quella realizzata allora fra memorie nazionali e memorie locali, che il nuovo secolo avrebbe ripetutamente e invano ricercato.
Anche per le biblioteche, l’opera Venezia e le sue lagune presenta un’accurata rassegna delle realtà esistenti in Venezia alla data del 1847(88). L’estensore era un erudito professore appartenente alla colonia greca, Giovanni Veludo, che aspirava a divenire bibliotecario(89). Dopo un breve ricordo della ricchezza delle raccolte librarie pubbliche e private della Repubblica(90), depauperate per «il tracollo della fortuna di parecchie famiglie, il mutare delle cose politiche, l’abolizione di tutte le regolari comunità e, più ch’altro, l’avidità di cercatori oltramontani», Veludo illustrava quelle che erano per lui le biblioteche principali, che conservavano quanto si era salvato: accanto alla Marciana, gli istituti di origine o di rifondazione ottocentesca, e per prima la biblioteca del Seminario patriarcale, sviluppatasi attorno ad un nucleo costituito da fondi appartenenti agli enti religiosi soppressi ed arricchita per l’interessamento dei rettori del Seminario e del patriarca Milesi e dai doni preziosi, anche di argomento letterario e storico, di Gaspare Lippomano, Francesco Calbo-Crotta e soprattutto di Giannantonio Moschini(91). Segnala poi la biblioteca del liceo-convitto «S. Caterina», nata anch’essa dagli esiti delle soppressioni e quindi ampliata fino a raggiungere 18.000 volumi, soprattutto per la sua «collezione compiuta di quasi tutti i giornali scientifici più accreditati» e per le raccolte di patristica e di letteratura(92). Solo un cenno meritano la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti e quella del Collegio di Marina, né molto spazio è dato alla biblioteca del Museo Correr (che peraltro comprendeva allora solo i libri di Teodoro Correr), di cui si ricordano gli incunaboli, le raccolte di interesse veneziano e quella «curiosissima» delle opere drammatiche rappresentate in Venezia(93).
Più interessanti, e più ricche, gli paiono le rinate biblioteche dei Minori osservanti a S. Francesco della Vigna, dei Cappuccini al Redentore, dei padri Riformati a S. Michele di Murano, dei Domenicani e dei Minori conventuali, che donazioni di privati hanno riportato a dimensioni e qualità significative(94); accanto alle biblioteche degli ordini religiosi figurano quelle delle parrocchie (SS. Apostoli, S. Stefano, S. Silvestro, S. Pantalon), non toccate, come pure la ricca biblioteca dei padri Mechitaristi armeni di S. Lazzaro, dalle soppressioni napoleoniche(95).
Un breve cenno alla biblioteca dell’Ateneo, che «non iscarseggia di giornali e opuscoli moderni, e d’altri libri che gli vengono in dono da’ socii e da altri corpi letterari e scientifici», e l’attenzione si sposta, e si sofferma, sulle biblioteche private, prima di tutto su quelle che conservano le fonti e gli studi di storia veneziana, raccolti da appassionati cultori e studiosi: da Emmanuele Antonio Cicogna a Leonardo Manin, da Benedetto Valmarana ad Agostino Sagredo, dai fratelli Giovanni e Marco Barbaro all’abate Giuseppe Cadorin, a Domenico Zoppetti. Accanto a queste le biblioteche letterarie, costituite o incrementate da personalità quali Giovanni Querini Stampalia, Pietro Canal, Luigi Carrer, i fratelli Antonio e Spiridione Papadopoli, Emilio De Tipaldo e Veludo stesso; le biblioteche scientifiche del dottor Paolo Zannini, dell’ingegner Giovanni Casoni, del farmacista Antonio Ciotto; e le grandi «collezioni di libri in genere» di Giovanni Rossi(96), Antonio de Martiis, Ottavio Andrighetti, Giovanni Correr e Giovanni Gritti.
Biblioteche nuove, quasi tutte, private e pubbliche, nate con l’intento di raccogliere quanto più era possibile del patrimonio librario disperso; ad esse viene come contrapposta la Marciana, cui è dedicata oltre la metà dello spazio del saggio per narrarne la storia, dalle origini sino ai tempi correnti; un racconto che sfuma le dolorose vicende del periodo napoleonico alla luce della ritrovata serenità sotto il dominio austriaco.
Già la prima dominazione austriaca aveva riportato alla tranquillità la vita della biblioteca(97) e del bibliotecario, Jacopo Morelli(98), dopo il fervore di iniziative della Municipalità e le depredazioni francesi(99); la dotazione, sia pur modesta, era stata ripristinata, ed alla biblioteca, sempre bisognosa di spazi, era stato reso possibile utilizzare le sole due stanze ancora libere; tra il 1801 ed il 1803 erano stati trasportati in Libreria dal Tesoro di S. Marco il Breviario Grimani e cinque codici liturgici, in parte deteriorati dall’umidità, ma dotati di splendide legature veneto-bizantine. A Morelli, stimatissimo e nominato nel 1802 consigliere regio, venne però chiesto di ampliare l’orario di apertura al pubblico da tre a cinque ore; in cambio di libri, manoscritti e di un busto dell’imperatore Francesco I, eseguito da Canova, che non poté mai essere inaugurato a causa dei cambiamenti politici, Morelli dovette inviare a Vienna sei incunaboli di gran pregio, consegnare all’archivista imperiale Gassler dieci tra i più importanti manoscritti di cronache e storia veneta e infine, nel 1805, cedere i Diarii autografi di Sanudo(100).
Con il nuovo governo francese la Marciana, come tutte le biblioteche del Regno, dovette restare aperta tutti i giorni non festivi dalle nove all’una. Morelli rinnovò la richiesta di spazi per le raccolte librarie e artistiche, anche in vista delle possibili soppressioni di comunità religiose. Benché molte biblioteche fossero state impoverite dalle depredazioni francesi, dai furti e dalle alienazioni compiute dagli stessi religiosi, vi rimanevano ancora fondi importanti. Ma dalle soppressioni del 1806 ben poco vantaggio venne alla Marciana(101). Morelli, cui venne chiesto dal direttore del demanio di fornire l’elenco «di tutte le biblioteche e archivi più rimarcabili delle Comunità religiose di questa città e adiacenze», propose ed ottenne che la compilazione degli elenchi dei libri fosse affidata a Giovanni Rossi, Paolo Giaxich e don Sebastiano Ongin Polacco, che vennero nominati — come si è accennato più sopra — «Delegati alle biblioteche e agli archivi delle Corporazioni Religiose». Tra il novembre 1806 ed il marzo 1807 furono inviati a Padova 17.363 volumi, presi dalle biblioteche di S. Giobbe, S. Giorgio in Alga, S. Domenico di Castello, S. Nicoletto dei Frari, S. Francesco da Paola, S. Giorgio Maggiore, S. Elena, S. Secondo, Carmini, S. Giacomo della Giudecca e S. Pietro Martire di Murano. Altri 24.524 volumi, considerati di scarto, furono venduti insieme alle librerie lignee in cui erano conservati; si salvò solo quella di S. Giorgio, passata quasi integra al liceo-convitto «S. Caterina».
Di alcune corporazioni, fra le più importanti, non ancora soppresse, vennero requisite le sedi: i conventi dei Domenicani dei SS. Giovanni e Paolo, degli Agostiniani di S. Stefano, dei Canonici regolari di S. Salvador e dei Minori conventuali di S. Francesco della Vigna. I libri vennero tutti concentrati nell’ex monastero dell’Umiltà, alla Salute; chi, come i Domenicani, riuscì a trovare una nuova sede in tempi brevi, poté rientrare in possesso dei suoi libri.
L’anno successivo la requisizione colpì il monastero di S. Michele di Murano. Pur di salvare dalla dispersione i cimeli più famosi di quella biblioteca, Morelli chiese che venissero assegnati alla Marciana il mappamondo di Fra Mauro ed altri oggetti preziosi. Il demanio acconsentì, ma il trasferimento dei religiosi e dei loro beni a S. Nicoletto dei Frari vanificò il provvedimento. Né fu possibile ottenere per la Marciana i libri migliori della biblioteca dei Gesuati alle Zattere. I quasi 18.000 volumi inviati a Padova restarono nel monastero di S. Anna, senza destinazione, sino al 1865; solo 18 vennero dati all’Accademia nel 1813 e pochi altri al Seminario patriarcale; nessuno tornò a Venezia.
La seconda ondata di soppressioni, conseguenti al decreto di Compiègne(102), colpì e distrusse le biblioteche di 14 comunità, tra cui quelle, già ricchissime (il timore di nuove soppressioni aveva indotto molti religiosi a vendere i propri libri), dei Gesuati, del Redentore, della Salute e di S. Michele di Murano(103); la congregazione dei Mechitaristi armeni di S. Lazzaro si salvò in quanto suddita dell’Impero ottomano. Venezia venne questa volta maggiormente tutelata: il direttore della Pubblica istruzione riuscì a salvare dalla vendita i libri di maggior pregio e ad ottenere l’intera biblioteca dei Gesuati (che conservava tra l’altro la biblioteca di Apostolo Zeno) ad uso degli istituti culturali della città, e Morelli ebbe l’incarico di sovrintendere alla scelta ed alla distribuzione; non senza forti resistenze di Cicognara, che li voleva per l’Accademia di Belle Arti, ottenne per la Marciana 1.859 volumi e 477 manoscritti. Ancora a Morelli, ed al suo collaboratore Pietro Bettio(104), venne affidato l’incarico di compilare gli elenchi dei libri delle corporazioni destinati ad essere assegnati agli istituti di cultura, da tenere separati da quelli di cui il demanio avrebbe potuto subito disporre. Questi risultarono essere circa 73.000; 316 furono concessi a seminari del Veneto e gli altri furono messi in vendita. In molti casi i libri furono ricomprati dai religiosi, ed alle vendite all’asta, che continuarono fino al 1814, parteciparono librai e bibliofili.
Dalla dissoluzione del patrimonio librario delle comunità religiose alla Marciana vennero in tutto 4.407 volumi, di cui 630 manoscritti, che si sommarono alle non numerosissime accessioni ordinarie: se a partire dall’ottobre del 1806 la biblioteca godeva del diritto di stampa per tutte le opere che si stampavano nel Regno, con alcune eccezioni, la dotazione corrente ammontava solo a 2.538 lire, aumentate a 3.000 nel 1810; per mancanza di disponibilità finanziarie non fu possibile a Morelli l’acquisto della biblioteca Canonici(105), mentre molti acquisti si poterono poi fare grazie ad un «dono» di 23.000 franchi fatto da Napoleone(106).
I problemi di spazio lamentati dal bibliotecario sin dal suo insediamento trovarono una soluzione del tutto contraria ai suoi desideri, miranti ad occupare le stanze della Libreria già in uso agli uffici dei procuratori di S. Marco; il 29 agosto del 1811 era stato infatti deciso(107) il trasferimento della Marciana in Palazzo Ducale, e per prevenire ogni possibile obiezione di Morelli erano state assegnate alla biblioteca le grandi e salubri sale del Maggior Consiglio e dello Scrutinio. Il trasporto dei 49.285 volumi e 4.456 manoscritti fu eseguito in soli due mesi, e i libri furono sistemati negli scaffali, riadattati, provenienti dalla Libreria e dalla biblioteca dei Frari; nella sala del Maggior Consiglio trovarono posto anche le statue del museo; ultimati anche i lavori di riordino e di inventariazione dei libri provenienti dalle soppressioni, la biblioteca fu riaperta al pubblico, con l’assunzione come distributori dei due «straordinarii» impiegati per il trasloco, agli inizi del 1813. Benché grandiosa, la nuova sede era comunque insufficiente: già il 2 luglio dello stesso anno Morelli chiedeva al prefetto l’assegnazione di altri locali, tra cui quelli della Quarantia(108).
Gli ultimi anni di Morelli videro l’arrivo in Marciana dell’importante lascito di Gerolamo Ascanio Molin e delle donazioni di Zuanne Antonio Ruzzini e di Francesco Donà, ultimo storiografo pubblico della Repubblica, che aveva lasciato alla Marciana la copia dei Diarii del Sanudo, ma soprattutto il ritorno, con la seconda dominazione austriaca, dei cimeli portati a Parigi nel 1797(109). Il lungo governo del «principe de’ bibliotecari», che attraverso tanti sconvolgimenti politici mai aveva smesso di coltivare studi eruditi e soprattutto il commercio epistolare con studiosi e bibliotecari di tutta Europa, si concluse nel 1819, con il lascito alla Marciana dei più che 600 manoscritti della sua biblioteca, di proprie opere e studi inediti e di una preziosa raccolta di opuscoli(110).
Ne raccolse l’eredità il collaboratore ed amico Bettio, affiancato, dal 1820, dal vicebibliotecario Anton Giovanni Bonicelli e dal 1822 dal coadiutore Luigi Bosello; nel 1824 Bartolomeo Gamba, già noto come letterato, chiese di essere assunto gratuitamente in Marciana e nel 1830 sostituì Bonicelli. Gli impegni erano molti, tra biblioteca e museo(111); nel 1825 venne inviato a Bettio il nuovo regolamento austro-ungarico, Istruzioni intorno le RR. Biblioteche delle Università e dei Licei, che prevedeva l’emanazione di un nuovo regolamento per la sala di lettura(112), l’istituzione del prestito a domicilio(113) e del «catalogo numerale», un inventario nel quale andavano riportati i titoli di tutte le opere della biblioteca.
Nel 1840 le raccolte marciane erano già raddoppiate rispetto al 1811, grazie ad una serie di importanti acquisizioni, tra cui spiccava quella di buona parte della biblioteca zeniana, che Morelli aveva salvato dal trasporto a Padova, accanto a lasciti e donazioni di privati. Acquisti importanti non poterono invece essere fatti a causa della troppo parsimoniosa politica economica del governo: fu persa così l’ultima occasione di acquistare la biblioteca Canonici, già sfuggita a Morelli, né si trovarono i soldi per la biblioteca privata di Leopoldo Cicognara e la collezione di manoscritti e libri rari raccolta da Tommaso De Luca. Con le 5.200 lire destinate agli acquisti della dotazione corrente fu però possibile comprare una copia della pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari, manoscritti ed opere musicali di pregio; fra i fornitori si trova spesso il nome di Emmanuele Antonio Cicogna, sul quale si avrà occasione di ritornare ancora più oltre, assai legato a Bettio(114). L’unico acquisto con fondi straordinari, dovuto all’interessamento dell’arciduca Ranieri, fu quello delle Epistolae di Cicerone impresse da Giovanni da Spira nel 1469, il primo libro stampato a Venezia. Per il museo, gli accrescimenti erano dati solo dai doni.
Ma proprio nel suo ultimo anno di vita Bettio poté accogliere uno dei lasciti più importanti nella storia della Marciana, quello della biblioteca di Girolamo Contarini; tra i manoscritti di argomento veneto primeggiavano le Vite dei Dogi di Sanudo e le cronache di Rafain Caresini, Domenico Malipiero, Daniele Barbaro, Girolamo Priuli, Giovanni Jacopo Caroldo, relazioni di diplomatici, ducali, Consegi; vi si trovavano anche preziosi codici musicali già appartenuti a Marco Contarini. Tra gli stampati, incunaboli, aldine e altre edizioni di pregio: furono scelte per la Marciana 4.673 opere; le restanti furono destinate, secondo la volontà del donatore, al Seminario patriarcale ed ai Minori conventuali a S. Tomà(115).
Alla data in cui Veludo redige la sua rassegna, era da poco stato nominato bibliotecario della Marciana l’abate Giuseppe Valentinelli, entrato in biblioteca nel 1841(116). Studioso fecondissimo nella tradizione settecentesca, era, come Morelli e Bettio, legato alla Marciana in modo quasi geloso. Intimamente filoasburgico, e di amicizie culturali «di specie europea», non mostrò mai simpatie risorgimentali; certo non aderì in spirito agli eventi rivoluzionari del 1848, che toccarono necessariamente anche la quieta vita della biblioteca(117). Le disponibilità finanziarie non permisero al governo provvisorio di versare la consueta «dote», e fu necessario ridurre le spese, sospendere gli acquisti delle opere in continuazione, e vendere parte dei libri doppi(118). Giunsero però alla Marciana molti doni, soprattutto da parte di Tommaseo, e attraverso di lui da Kandler e dal boemo Anton Branislar Schindler. Un altro danno alle raccolte della biblioteca, che godeva del diritto di stampa per tutto il territorio del Lombardo-Veneto, derivò dalla soppressione (15 marzo 1848) dell’Ufficio di censura e quindi dalla decadenza delle norme che regolavano la consegna a quell’ufficio degli esemplari d’obbligo da parte dei tipografi. Il governo provvisorio ripristinò il 28 marzo il deposito obbligatorio presso la Marciana, con la motivazione, forse ispirata da Valentinelli, che «la libertà di stampa non toglie l’obbligo di presentare tre esemplari di ciascun scritto che si stampi, fosse anche in foglio volante, poiché un foglio volante può essere tanto notabile documento di storia, quanto un intero volume», e Valentinelli sollecitò la consegna con una circolare alle tipografie veneziane. Ma gli esiti non furono positivi: delle 30 tipografie, solo 13 risultarono ottemperare all’obbligo.
La sala del Maggior Consiglio accolse le sedute dell’Assemblea dei deputati e fu usata anche per altri atti pubblici, incidendo così sugli orari di apertura della biblioteca; cosa che non sembrò dispiacere troppo a Valentinelli.
Invece la richiesta, rivolta dal Circolo Italiano il 22 settembre, di portare l’orario della biblioteca da 4 a 15 ore giornaliere per tutti i giorni dell’anno, suscitò una risentita replica del bibliotecario. In essa si segnalavano il grave pericolo che avrebbe comportato l’illuminazione nelle ore serali e l’insufficienza numerica del personale, ma soprattutto veniva rivendicata la bontà dell’organizzazione vigente in funzione della natura della biblioteca, non «volgare Gabinetto di lettura» ma «venerando deposito delle più rare preziosità librarie». Le richieste del Circolo Italiano (sulle quali fu raggiunto un compromesso protraendo l’orario feriale dalle 9 alle 16, aprendo la domenica dalle 12 alle 15 e riducendo le chiusure mediante la turnazione delle ferie), come pure l’allargamento del servizio del prestito richiesto dal governo provvisorio, interpretavano invece le esigenze dei cittadini di trovare nelle raccolte marciane la risposta alle necessità informative più varie, sempre però legate dall’idealità politica. Dai registri di lettura di quegli anni emerge come accanto al tradizionale pubblico di studiosi e studenti la sala di lettura ospiti, raggiungendo spesso le 50-60 presenze al giorno, guardie nazionali, giornalisti, medici, uomini di legge; e come anche gli studiosi includano nelle loro letture opere cui veniva data una precisa valenza ideologica, dall’Ettore Fieramosca alla raccolta di canti popolari di Tommaseo, dalla storia d’Italia di Botta a quella di Venezia di Laugier, accanto alle opere di Dante, Manzoni, Alfieri, Leopardi.
Con il ritorno degli austriaci la Marciana fu privata del personale aggiunto durante il governo provvisorio(119); nel 1850 Valentinelli ottenne di poter assumere Veludo, che nel 1852, alla morte di Baretta, divenne vicebibliotecario. Altri collaboratori restarono per breve tempo alla Marciana, come Lauro Corniani degli Algarotti ed Emilio Teza; importante e stabile fu invece la presenza di Camillo Soranzo(120). Tra gli accrescimenti del periodo, modesti per quanto riguardava gli acquisti correnti, meritano particolare cenno il lascito fatto dal consigliere Giovanni Rossi, più volte rievocato, di buona parte della sua biblioteca (la raccolta dei drammi musicali, quasi tutti i suoi manoscritti, 600 buste di opuscoli di interesse veneziano ed il manoscritto inedito della sua ponderosa opera Storia de’ costumi e delle leggi dei veneziani)(121), il legato di 275 manoscritti di carattere tecnico di Carlo Ghega, il dono, per il tramite di Rawdon Brown, della serie degli State Papers da parte del governo britannico e quello dei Documents inédits sur l’histoire de France da parte della Francia.
Ligio al proprio dovere d’ufficio, Valentinelli, anche nei momenti di crisi, come il 23 luglio del 1866 quando senza eccessive proteste aveva consegnato al benedettino Beda Dudik, che abbiamo già visto all’opera nelle requisizioni in Archivio per conto del governo austriaco, 95 manoscritti, ricorrendo piuttosto alla diplomatica mediazione di Veludo. Così Valentinelli si adeguò nella gestione della biblioteca alle indicazioni ministeriali del nuovo Stato unitario (è del 1867 l’emanazione delle nuove Discipline per la sala di studio(122)), senza peraltro rinunciare ad alcuna delle prerogative che il suo ruolo e la sua fama di studioso gli assicuravano(123). Agli inizi dello stesso anno scriveva al ministro della Pubblica istruzione segnalando il danno che sarebbe derivato alle raccolte marciane dalla decadenza della legge austriaca che assegnava alla biblioteca veneziana il diritto di stampa per tutto il Lombardo-Veneto(124); il 27 giugno pubblicava un articolo di critica alle statistiche ministeriali(125).
Il 15 agosto successivo veniva promulgata la legge 3848, che estendeva al Veneto quella del 7 luglio 1866, nr. 3036, sulla soppressione delle corporazioni religiose: nel 1868 a Valentinelli fu affidata la presidenza della commissione, composta dai responsabili dei maggiori istituti culturali della città(126), che doveva decidere della spartizione dei libri. Alla conclusione dei lavori, nel 1871, dei circa 30.000 volumi delle biblioteche delle corporazioni soppresse, alla Marciana furono assegnati alcune migliaia di opuscoli, qualche centinaio di volumi e di manoscritti, tra cui i corali che erano «presso la sagrestia di S. Lorenzo».
Se la Biblioteca di S. Marco rappresentava una realtà bibliotecaria caratterizzata soprattutto dalle raccolte di manoscritti e di materiale antico, riservata agli alti studi, ma ad essi comunque sufficientemente utile(127), la situazione della maggior parte delle altre biblioteche direttamente amministrate dallo Stato non era affatto soddisfacente. La necessità di creare delle norme comuni per le biblioteche degli Stati preunitari, al fine di migliorarne la funzionalità, portò l’allora ministro della Pubblica istruzione, Bargoni, ad istituire nel 1869 una commissione «pel riordinamento scientifico e disciplinare delle Biblioteche del Regno», che produsse il primo regolamento delle biblioteche governative(128).
Della commissione facevano parte, oltre ai politici, i bibliotecari Antonio Panizzi, Giuseppe Canestrini e Federico Odorici, nonché Tommaso Gar, già bibliotecario e docente universitario prima che direttore dell’Archivio veneziano. Con tutti loro Valentinelli intratteneva fitti rapporti epistolari, ma nelle lettere di quel periodo non vengono mai affrontati problemi organizzativi o regolamentari.
Il governo italiano non prestò peraltro particolare appoggio a Veludo, subentrato alla morte di Valentinelli (1874) nella direzione della Marciana (ove era coadiuvato dal vicebibliotecario Giambattista Lorenzi(129)), nella gestione della lunga controversia con il Comune di Venezia sulla sistemazione del legato di Gerolamo Ascanio Molin, che causò le dimissioni di Veludo nel 1884(130).
Con lui si chiudeva per la Marciana la serie dei bibliotecari veneti, di nascita o di formazione, che tanti strumenti e contributi avevano dato agli studi letterari e storici(131), proprio mentre si apriva il periodo che Fumagalli chiamò «la primavera fortunata» delle biblioteche italiane, in cui nacquero cataloghi, riviste e strumenti professionali per i bibliotecari(132).
Il nuovo direttore, il romano Carlo Castellani(133), riprese subito il progetto di catalogazione dei manoscritti greci pensato da Veludo(134), e volle allestire una mostra permanente dedicata ai cimeli della tipografia veneziana, nella sala intitolata al cardinal Bessarione(135); ma la maggior parte delle sue energie, e di quelle del successore, il triestino Salomone Morpurgo(136), furono assorbite dai sempre crescenti problemi di agibilità della biblioteca: le raccolte si erano ormai estese in molte sale oltre a quelle originariamente concesse, il peso dei libri si rivelava insostenibile per le delicate strutture di Palazzo Ducale, ed appariva ormai indilazionabile l’esigenza di trasferire la Marciana ad altra sede. Ma fu solo nel 1905 che poté avvenire l’effettivo trasferimento delle collezioni marciane nel solido palazzo sansoviniano della Zecca, mentre per il desiderato ritorno nella Libreria si dovette attendere il 1929.
la biblioteca della Fondazione Querini Stampalia
Nel 1869, poco dopo la morte del conte Giovanni Querini Stampalia, divennero di uso pubblico, per volontà testamentaria, la biblioteca(137) e la galleria, con le raccolte d’arte, site nel palazzo dei Querini di S. Maria Formosa(138). Accanto alla biblioteca Giovanni Querini voleva che fosse creata la «gratuita istituzione del Gabinetto di lettura, ed adunanze serali di dotti e amici del sapere, che manca ora in questa Città», alla quale veniva assegnato almeno un terzo della rendita annua; biblioteca e gabinetto erano destinati a essere aperti al pubblico il più possibile «ma costantemente in tutti quei giorni, ed ore in cui le biblioteche pubbliche sono chiuse, e la sera specialmente per comodo degli studiosi»(139).
Primo bibliotecario fu, come indicato nel testamento, Gustavo Adolfo Ungher, «mio vecchio maestro, e distinto filologo»; fra gli altri compiti, egli sovrintese alla revisione ed alla catalogazione delle opere a stampa (libri ed opuscoli), affidata a Camillo Soranzo e Pietro Canal e conclusasi tra il 1877 ed il 1878(140). Poiché la sua salute declinava, nel 1880 uno dei curatori della Fondazione, Giovanni Veludo, allora anche prefetto della Marciana, promosse la nomina a bibliotecario dell’abate Leonardo Perosa, poi attivo sino al 1904, anno della morte(141). Dal 1881 al 1883 Perosa riordinò e catalogò i 1.043 manoscritti, cui, dopo l’inventario giudiziale compilato da Bartolomeo Cecchetti e Niccolò Barozzi, aveva già dato una prima sistemazione Veludo, suddividendoli per classi di materie, in analogia alla suddivisione adottata sin dal Settecento per i codici marciani(142). Successivamente si dedicò alla organizzazione ed alla realizzazione di un catalogo sistematico delle opere a stampa, che venne completato nel 1897(143). L’accrescimento della biblioteca nei primi anni fu abbastanza ridotto; nel 1876(144) non venne colta l’occasione di acquisire gli atti dei due Collegi medici della Repubblica (fisico e chirurgico), acquistati poi dalla Marciana nel 1887(145); fra le accessioni più significative sono due manoscritti donati da Veludo nel 1888, 80 manoscritti autografi di Veludo ceduti dalla vedova, i manoscritti di Antonio dell’Acqua Giusti donati nel 1903 da Gaetano Cattonari(146). Le stesse difficoltà economiche portarono anche ad una minaccia di scioglimento della Fondazione(147) e ad una temporanea chiusura delle sale della biblioteca per i primi venti giorni del 1888, cui venne ovviato devolvendo alle spese necessarie a tenere aperta la biblioteca (e solo dalle 11 alle 16) un legato di 150 napoleoni d’oro destinato dal conte Giovanni ad un concorso scientifico(148).
La prima origine della biblioteca dell’Ateneo veneziano è da vedersi nel nucleo di libri di medicina, e di altre scienze connesse, che la Veneta Società di Medicina, una delle istituzioni culturali che concorsero a costituire l’Ateneo, ottenne dal Ministero delle Finanze negli anni 1808-1809, quali «avanzi delle librerie demaniate»; i libri furono sistemati nella saletta dell’ex sacrestia della soppressa Scuola di S. Fantin. Lo statuto dell’Ateneo prevedeva la figura del bibliotecario, ed il primo fu il bibliofilo Giovanni Rossi(149); negli anni successivi la biblioteca si arricchì considerevolmente con i doni dei soci, sino a superare, alla fine del secolo, le 10.000 unità; nel 1857 tutte le opere vennero catalogate da Giambattista Lorenzi(150), e un nuovo riordino della biblioteca venne illustrato da Alberto S. De Kiriaki nel 1889(151), data a partire dalla quale venne pubblicato a puntate nella rivista dell’istituto, fino al 1896, il catalogo dei libri posseduti.
Una precoce attestazione dell’importanza attribuita alla biblioteca dell’Istituto Veneto, che aveva iniziato a formarsi dopo il 1840 nelle sale di Palazzo Ducale ad esso destinate(152), è conservata in un comma nella già ricordata richiesta di ampliamento di orari e di servizi della Marciana, fatta dal Circolo Italiano al governo provvisorio il 22 settembre 1848: «Giovi pure imporre l’orario della Marciana alla Biblioteca dell’Istituto di Scienze e Lettere, che trovasi del pari nel palazzo dei Dogi»(153). Ma solo nel 1861, in occasione di una relazione di Agostino Sagredo sugli scritti di Lazari, in cui si deprecava il divieto di accedere direttamente ai cataloghi della Marciana, il segretario Namias, sostenendo il diritto alla «innocente ispezione» dei cataloghi da parte degli studiosi, fornisce le prime articolate notizie sul funzionamento della biblioteca dell’Istituto. Già allora cominciava a profilarsi la sua ricchezza nel campo delle riviste periodiche, di cui lo stesso Namias aveva predisposto e diffuso un elenco; le raccolte si accrescevano con acquisti di un certo rilievo, ma soprattutto con doni, puntualmente registrati e analizzati negli «Atti» da parte dei soci(154), e con i primi scambi di pubblicazioni. Stretto il rapporto che univa l’Istituto alla Marciana: già nello statuto interno del 1844 era previsto il prestito dei libri marciani(155) in favore dei membri dell’Istituto, e dal 1858 la luogotenenza di governo aveva riconosciuto all’Istituto Veneto il diritto di essere «coadiuvato dalla Biblioteca Marciana» per la propria attività, e di poter quindi presentare ogni anno un elenco dei libri che la Marciana avrebbe dovuto acquistare(156). E dopo Morelli, presente nella originaria rosa dei prescelti, anche Gamba(157), Veludo e Valentinelli vennero accolti tra i membri effettivi dell’Istituto(158).
Nata come «Libreria consultiva per le ricerche di oggetto storico, di erudizione patria e di paleografia», anche la biblioteca dell’Archivio generale ai Frari(159), cui si è fatto cenno più sopra quale elemento non secondario nelle strategie culturali di quell’istituto, ebbe più rapido incremento dopo l’istituzione della scuola di paleografia e diplomatica (1854). Nel 1869 ricevette una parte dei libri provenienti dalle soppressioni del 1866 e negli anni seguenti curò l’acquisizione di un sempre maggior numero di pubblicazioni ufficiali e delle riviste di studi storici locali, nate, come l’«Archivio Veneto», sulle orme dell’«Archivio Storico Italiano»(160). Nel 1877 il direttore, Bartolomeo Cecchetti, poteva illustrare gli oltre 2.000 libri ed opuscoli della Libreria legislativa, che conservava «un buon numero di stampe della Repubblica veneta, […] alcune collezioni dei Governi democratici e del Regno d’Italia, del Governo austriaco, di quello provvisorio di Venezia, poi ancora dell’Austriaco fino al 1866 […]», gli atti del governo del re di Sardegna dal 1848, le leggi del Regno d’Italia dal 1861, gli atti parlamentari e la «Gazzetta Uffiziale del Regno» dal 1870, le pubblicazioni di ministeri, prefetture, deputazioni provinciali, municipi, camere di commercio e curie, oltre a raccolte di leggi di altri paesi europei, per «l’importanza storica universale che ha il nostro Archivio»(161). Tra il 1885 ed il 1886 si arricchì dei doni Fortis e Berlan, per quasi 1.000 nuove opere di carattere giuridico.
Di rilievo nel panorama cittadino era poi la biblioteca del Museo civico Correr. Nel 1880 le raccolte museali e librarie cresciute attorno al legato di Teodoro Correr alla città vennero trasferite dal palazzo Correr a S. Zan Degolà, ove erano state aperte al pubblico dal 1836, nel vicino ex Fondaco dei Turchi, per ricevervi un nuovo ordinamento(162). La biblioteca(163) aveva visto i primi significativi incrementi attorno alla metà del secolo, con un consistente legato di Domenico Zoppetti, cui fecero seguito nel 1861 quello dell’avvocato Giuseppe Maria Malvezzi e nel 1865 il dono di libri e manoscritti di Bertucci Balbi Valier: ma il 1865 fu soprattutto l’anno in cui Emmanuele Antonio Cicogna cedette al Comune la sua ricchissima collezione(164), concorrendo a definire il ruolo sempre più importante della biblioteca nella conservazione delle memorie patrie. Ancora, nel 1868 il generale Giorgio Manin vi depositava in perpetuo la raccolta degli Atti diplomatici del 1848-1849 (nel 1886 sarebbe stata donata anche la sua biblioteca); seguivano i lasciti di Girolamo Dandolo, dell’abate Giuseppe Veronese, di Bartolomeo Manfredini, e quello di Michele Wcovich Lazzari, prezioso per i manoscritti di interesse veneziano(165). Anche gli archivi privati di numerose famiglie fra i quali Donà dalle Rose e Gradenigo Dolfin si aggiunsero alle raccolte; dalle soppressioni del 1866 pervennero numerosi libri a stampa, soprattutto dalla biblioteca di S. Michele di Murano. Importanti erano già verso la fine del secolo le raccolte di stampe, che comprendevano anche quelle del legato Molin, trasportate dalla Marciana alla biblioteca del Correr.
Da ricordare è anche la presenza della biblioteca del R. Istituto di Belle Arti, che, se pur risultava possedere alla fine del secolo solo 3.000 volumi, conservava fra questi opere importanti, antiche e moderne, «utili per lo scopo d’esso istituto»(166).
A partire dal 1875 aveva iniziato a costituirsi, attraverso doni dei soci e scambi di pubblicazioni, anche la biblioteca della Deputazione di Storia Patria, che venne arricchita nel 1889 con l’acquisto della biblioteca di Giambattista Lorenzi, e seguì la sede della Deputazione nei suoi successivi spostamenti(167).
Nel 1820 fu aperto presso l’Ateneo veneziano il primo Gabinetto di lettura della città, per iniziativa del segretario Paolo Zannini, che intendeva favorire le occasioni di incontro fra gli accademici e integrare l’attività della biblioteca(168): iniziativa che non mancò di suscitare qualche allarme nell’Ufficio di censura, che controllava attentamente la diffusione e la lettura dei periodici italiani e stranieri, poiché al Gabinetto potevano accedere «tutti indifferentemente gli individui di questa città, i quali previo una tenue corresponsione si associano all’oggetto di leggervi i giornali, ed essenzialmente le gazzette estere e nazionali»(169). Dall’indagine condotta nel 1822 dal presidio di governo risultavano esservi in città, oltre al Gabinetto dell’Ateneo, altri due posti in cui era possibile la lettura pubblica dei giornali: il Gabinetto annesso al negozio di libri al ponte di S. Moisè di proprietà di Pietro Milesi e la caffetteria sita al civico 722 in campiello del Piovan; ma i giornali erano pochi, ed i frequentatori erano in tutto solo 36(170).
Veludo dà brevi notizie soltanto del Gabinetto aperto dal libraio ed editore Giambattista Missiaglia nel 1832 in piazza S. Marco, ed intitolato ad Apollo(171). Le forti restrizioni cui l’apertura era stata condizionata e le crescenti difficoltà economiche indussero Missiaglia a cedere, l’11 luglio del 1840, il Gabinetto, la libreria e l’annessa biblioteca circolante allo stabilimento del «Gondoliere»(172). Alle attività tipografico-editoriali finanziate da Antonio Papadopoli, che dal 1837 comprendevano oltre alla tipografia anche una libreria in piazza S. Marco(173), nel 1839 si era infatti affiancata l’apertura di un Gabinetto di lettura. Sia Papadopoli che il direttore, Giovanni Bernardini, erano però invisi alla censura ed alla polizia, e il nuovo Gabinetto fu chiuso appena un anno dopo(174). Ma pochi mesi dopo risorse grazie all’attività di una «Società del gabinetto di lettura» (promossa, ancora una volta, da Paolo Zannini insieme all’oculista Paolo Fario ed a Luigi Carrer), che ottenne l’ammissione di «un buon numero di giornali scientifici, letterari e politici italiani, tedeschi, francesi ed inglesi»(175); la società, di cui Emilio De Tipaldo fu il primo presidente e Giambattista Varè il primo segretario(176), contava nel 1847 ben 142 iscritti(177). Dapprima fiorente, la società si trovò dopo qualche anno in gravi difficoltà economiche: chiese allora, ed ottenne, ospitalità presso l’Ateneo, ma i soci «continuarono a disertare la nuova, come l’antica bandiera» e si dovette giungere alla chiusura. Al vicepresidente dell’Ateneo, Tommaso Locatelli, editore della «Gazzetta Privilegiata», si deve, qualche anno dopo, un’interessante analisi dei motivi del fallimento dell’iniziativa: non si sentiva la mancanza di un Gabinetto di lettura perché di sua natura luogo in cui raccogliersi lontano dal tumulto, e a Venezia la quiete era anche troppa; i giornali si trovavano in gran copia in molti caffè, presso l’Istituto Veneto ricco di oltre 200 titoli; si leggeva moltissimo nelle case, perché almeno un terzo degli abbonati alla «Gazzetta» erano veneziani, e la posta distribuiva ogni giorno una quantità «sterminata» di giornali(178).
Il Gabinetto dell’Ateneo, in realtà, era rimasto sempre attivo, vedendo anche ampliato, nel 1854, lo spazio a propria disposizione sotto la presidenza di Giovanni Querini Stampalia(179), e registrando oltre 12.000 presenze annue(180); eppure non appariva sufficiente a soddisfare la domanda di aggiornamento e di informazione dei cittadini, poiché, come si è visto, lo stesso Querini lamentava, nel 1869, l’assenza in Venezia di un vero e moderno Gabinetto di lettura.
Ma neanche il suo desiderio di farne nascere uno nell’ambito della Fondazione da lui promossa si realizzò pienamente; e non a caso proprio nel 1887, mentre la crisi della Querini si aggravava, venne ufficialmente rifondato un «Gabinetto di lettura e Biblioteca di consultazione» presso l’Ateneo, con una spesa di oltre 10.000 lire a carico dell’istituto e contributi pubblici. Nell’appassionato discorso inaugurale, il presidente Fambri sottolineava come fosse sempre mancato in Venezia un istituto del genere, di cui il fiorentino Gabinetto Vieusseux era l’insuperato modello, ove si potesse trovare quello che «le pubbliche biblioteche possiedono soltanto in parte e non offrono che per poche ore, mai contemporaneamente come occorre (cioè a dieci e magari venti volumi per volta), e, quel che è peggio, mai sotto la mano», intendendo soprattutto i periodici (che allora erano oltre 200) e le opere di consultazione. I soci del Gabinetto, aperto tutti i giorni dalle 10 alle 24, avevano inoltre il diritto di consultare tutte le opere della «speciale» biblioteca dell’Ateneo(181). Nel 1890 i frequentatori furono 19.950 e nel 1891 ben 22.125; poi iniziò nuovamente una parabola discendente, fino a giungere nel 1895 a sole 10.000 presenze. Alla conclusione del suo mandato, Fambri annotava che non era mancato l’aiuto di Comune e Provincia a tale istituzione, ma che «fu il pubblico che non corrispose per niente».
Una segnalazione a parte merita la vicenda del Gabinetto di lettura di Murano: sorto nel 1861, era alloggiato nelle sale superiori del caffè Divina commedia. Acquisiva i giornali scambiandoli con «La Voce di Murano» e i libri per dono, appoggiandosi al Museo vetrario, il cui direttore era allora l’abate Vincenzo Zanetti; restò attivo per diversi anni e costituì il primo nucleo della Biblioteca Popolare di Murano, fortemente voluta da Zanetti, che venne inaugurata il 1° ottobre 1867(182).
Per venire incontro alle esigenze di formazione e di informazioni delle classi meno abbienti, sin dal 1867 il movimento associazionistico aveva concretizzato alcune importanti attività nel settore delle biblioteche(183). Il 25 aprile venne inaugurata in Venezia la prima biblioteca circolante, per iniziativa della Società per la lettura popolare, costituitasi per merito di personalità quali Antonio De Petris e Giovanni Biasutti. L’idea ispiratrice era quella di una biblioteca popolare non già concessiva, bensì intesa come un diritto, ed in stretto rapporto con la scuola; in essa dovevano pertanto trovarsi sia «libri tecnici» che «libri piacevoli»; i promotori si auguravano di poter disporre in futuro di spazi adatti alle letture in comune, come già usava nel mondo anglosassone.
Tra i soci ordinari, il primo fu Jacopo Treves, mentre fra i soci fondatori spiccavano i nomi di Loredana Gatterburg Morosini e di Andriana Widmann Rezzonico, che mise a disposizione tutta la sua biblioteca «perché ne venisse fatta la scelta di quei libri che poteano essere adottati dall’istituzione». Anche il Comune partecipò con un sussidio di 240 lire e con l’offerta di mobili per arredare la sede; 12 tra giornali e riviste pervenivano in dono(184).
Dello stesso anno è la pubblicazione della relazione tenuta in occasione dell’inaugurazione della «Biblioteca provinciale gratuita popolare, e ad uso delle prigioni», funzionante forse già dal 1866 grazie all’attività generosa dei promotori, tra cui risalta la figura di Alberto Errera, e alla disponibilità del prefetto, senatore Torelli(185). La biblioteca, che nasceva a fianco di un’altra iniziativa di Errera, quella delle scuole serali private gratuite, venne inaugurata nella sede dell’Istituto industriale e professionale di S. Giovanni Laterano, il cui «presidente», Demetrio Busoni, era nel gruppo dei promotori. Da una relazione pubblicata nel 1869 dal bibliotecario Arturo De Rossi(186), risulta che la biblioteca, che aveva assunto il nome di Biblioteca circolante popolare provinciale di Venezia, possedeva 2.095 volumi; che i soci, in numero di 448 nel 1867, erano calati a 347 dopo che per l’ammissione era stato richiesto un certificato di residenza, mentre la quantità delle letture aumentava continuamente, con una media giornaliera di 24 volumi. I prestiti erano stati 1.500, 125 dei quali a favore di «distretti» della provincia (Murano, Burano, Chioggia, Mestre, Mirano, Dolo e San Donà di Piave); tra i soci prevalevano gli studenti e i tipografi, seguiti a ruota da impiegati e gondolieri; tra le materie rappresentate, il primato andava alla storia, la più richiesta anche per i prestiti, seguita in questa categoria dai romanzi (Sue e Capranica, Grossi e Manzoni).
Dalla successiva relazione a stampa, pubblicata a Milano da Achille Lanzi(187) nel 1875, apprendiamo che la media annua dei soci nel triennio 1871-1873 era stata di circa 300, tra i quali prevalevano gli studenti e le maestre, seguiti dagli agenti di commercio e dai militari; che la biblioteca aveva raggiunto i 2.614 volumi e che si era dotata di un nuovo regolamento e di cataloghi per autori e per classi, tra le quali la prevalenza andava sempre alla storia, seguita dai romanzi, dalla letteratura e da geografia e viaggi. Mancano testimonianze sui successivi anni di vita della biblioteca, ma probabilmente venne accentuando il suo aspetto parascolastico, sia per la scelta dei libri che per le categorie di frequentatori, se nel 1880 l’assessore comunale Cuttanei ottenne la «gratuita cessione di 1.830 volumi dai depositari delle due disciolte biblioteche: la Provinciale Popolare e quella della Società Gaspare Gozzi e dal Comune un fondo annuo di lire 300 per acquisto e legatura di libri, nell’intento di fornire agli insegnanti delle scuole elementari comunali il mezzo di fornirsi senza spesa di quanto può loro occorrere per la coltura dello spirito e pegli studi di pedagogia e didattica». Nasceva così la Biblioteca scolastica comunale, sita nella scuola comunale maschile elementare di palazzo ex Donà dalle Rose a S. Stin(188). Nel 1882 ne veniva pubblicato il catalogo(189), che contava allora 1.860 volumi in italiano, inglese, francese e tedesco, divisi in cinque classi: miscellanea (in prevalenza narrativa e periodici); geografia e storia, biografie e viaggi; scienze naturali; matematica; appendice alla miscellanea. Già dal 1880 la biblioteca, riservata agli insegnanti, aveva ricevuto un regolamento interno che prevedeva, oltre alla lettura in sede ed al prestito a domicilio, la possibilità di discutere con i colleghi «i pregi o i difetti didattici, pedagogici o letterari» dei libri della biblioteca(190).
Dieci anni dopo la pubblicazione dei dati relativi alla provincia di Venezia voluta dal prefetto Luigi Sormani Moretti, in cui vengono fornite anche le puntuali notizie sulle biblioteche sin qui ampiamente citate, le statistiche nazionali sulla diffusione delle biblioteche in Italia alla fine del secolo, sia pur redatte in via provvisoria e parziale, registrano nel Veneto la presenza di oltre 180 unità; a Venezia e nella provincia ne vengono segnalate 39. A confronto delle altre regioni, quella veneta è superata solo dalla Lombardia (235 biblioteche), dalla Sicilia (206) e dal Piemonte (202), mentre precede l’Emilia (181) e la Toscana (166)(191). La situazione veneziana non appare diversa da quella di altre città di solida tradizione culturale, almeno per quanto riguarda le tipologie di biblioteca, distinte in ben 13 categorie, dalle pubbliche alle scolastiche, da quelle accademiche a quelle private. Ma dal punto di vista delle possibilità di studio e di lettura effettivamente disponibili, sarà opportuno ricordare che in quegli anni le biblioteche maggiori, Marciana e Querini, sono scarsamente agibili, per i motivi sopra ricordati, e segnalare con particolare interesse la nascita di nuovi istituti, collegati a nuove realtà culturali cittadine, come la biblioteca della Scuola superiore di commercio(192), quella della Società e liceo musicale «Benedetto Marcello»(193) e quella dell’Ospedale Civile(194), che concorrono ad ampliare e soprattutto a specializzare l’offerta informativa, anticipando quelle che saranno le linee di sviluppo delle biblioteche veneziane nel secolo successivo.
1. Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 328-330 (pp. 323-341).
2. Giuseppe Cadorin, Archivi pubblici e privati, in Venezia e le sue lagune, II, 2, Venezia 1847, pp. 3-75; Giovanni Veludo, Accademie, biblioteche, raccolte scientifiche, medaglieri, tipografie e giornali, ibid., II, 1, Venezia 1847, pp. 425-460 (in partic. sulle biblioteche pp. 430-448).
3. G. Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’, p. 329.
4. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 395, 400 (pp. 381-482); Giovanni L. Fontana, Patria veneta e Stato italiano dopo l’Unità: problemi di identità e di integrazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 556 (pp. 553-596).
5. Su Giuseppe Cadorin e sui suoi studi attorno al Palazzo Ducale e a Tiziano v. Filippo Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del secolo XIX […], Venezia 19163, pp. 179-180. Che la presentazione di storia e struttura degli archivi veneziani — specie nell’ambito del genere letterario del resoconto della missione di studi — fosse sentita come impegno proprio di storici e studiosi, è testimoniato per il contesto veneziano dai noti lavori di Rawdon Brown, L’Archivio di Venezia con riguardo speciale alla storia inglese […] con una nota preliminare del conte Agostino Sagredo, Venezia 1865, o di Armand Baschet, Les Archives de Venise. Histoire de la Chancellerie secrète […], Paris 1870. Su questa linea anche Agostino Sagredo, Dell’Archivio pubblico di Venezia e della Scuola di paleografia. Lettera […] al prof. Francesco Bonaini, «Archivio Storico Italiano», n. ser., 2, 1855, pt. II, pp. 175-192, 272-273 (pp. 174-192, 272-273).
6. Giuseppe Cadorin, I miei studi negli Archivi, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 5, 1846, p. 271 (pp. 268-285).
7. Per la storia dei fondi oggi all’Archivio di Stato si rinvia unitariamente alla magistrale sintesi curata da Maria Francesca Tiepolo in apertura della ‘voce’ Archivio di Stato di Venezia, in Guida generale degli Archivi di Stato, IV, Roma 1994, pp. 857-1148, in partic. pp. 870-874, con dettagliati riscontri bibliografici. Ad altri più specifici saggi sarà cura di far riferimento volta per volta nel corso del testo.
8. Archives et Révolution: création ou destruction?. Atti del colloquio, «La Gazette des Archives», 1988, nrr. 146-147. Per altri riferimenti bibliografici e archivistici ai temi del presente paragrafo si rimanda a Francesca Cavazzana Romanelli, Archivistica giacobina. La municipalità veneziana e gli archivi, in Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell’età napoleonica, a cura di Giuseppe De Rosa-Filiberto Agostini, Roma-Bari 1990, pp. 325-326 e n. 2 (pp. 325-347), edito pure con alcuni aggiornamenti in «Rassegna degli Archivi di Stato», 51, 1991, nr. 1, pp. 64-83.
9. Giovanni Scarabello, Da Campoformido al congresso di Vienna: l’identità veneta sospesa, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 1-20; Id., Aspetti dell’avventura politica della Municipalità democratica, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, pp. 25-47; nello stesso volume alle pp. 153-157, Michela Dal Borgo-Alessandra Sambo, Le fonti per la storia della Municipalità democratica.
10. Incarico politico e non burocratico, affidato a Pietro Giovanni Carminati, municipalista dei più attivi e influenti, e segretario del consesso fin dal suo primo avvio quale organo deliberante. Cf. Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia. 1797, a cura di Annibale Alberti-Roberto Cessi, I-IV, Bologna 1928-1942: I, 1, pp. 8, 144, 192; A.S.V., Democrazia, b. 87, filza «1. Comitato Pubblica Istruzione», c. 53r-v.
11. Così la proposta del cittadino Giuseppe Ferro nella sessione privata del 22 agosto (Verbali delle sedute, I, 1, pp. 546, 549).
12. Ibid., I, 2, p. 55.
13. A. Baschet, Les Archives, p. 9.
14. Sulle asportazioni della prima dominazione austriaca, per le quali v. pure Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993, p. 295, cf. Francesca Cavazzana Romanelli, Gli Archivi della Serenissima. Concentrazione e ordinamenti, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 296-297 e n. 13 (pp. 291-308), con ulteriori apparati sull’intera politica archivistica del periodo.
15. A.S.V., Prima dominazione austriaca, Governo generale, 1804, XLV/69, b. 18; Letterio Briguglio, La storia degli archivi e il suo oggetto. Progetto di un ‘Archivio generale’ a Venezia nel 1801, «Rassegna degli Archivi di Stato», 23, 1963, nr. 3, pp. 328-329 (pp. 321-334).
16. Privo di futuro era rimasto anche un singolare progetto di creazione in Venezia di «un luogo di concentrazione degli atti politici-camerali tanto di antica quanto di recente data» presentato al governo nel 1801, da realizzarsi tramite l’ordinamento degli archivi veneziani secondo la classificazione per voci alfabetiche «dominanti» e «subalterne» sotto la guida dell’archivista milanese Luca Peroni. Cf. L. Briguglio, La storia degli archivi, pp. 326-328.
17. Conservatore dei primi Giovanni Balbi, dei secondi Stefano Andrea Guerra (Bartolomeo Cecchetti, Una visita agli archivi della Repubblica veneta, «Atti dell’Ateneo Veneto», ser. II, 1866, vol. III, p. 326 [pp. 317-364]).
18. Venezia 1798-1808. Su Marin, la cui figura è adombrata pure da Ippolito Nievo nelle Confessioni di un italiano, v. Agostino Sagredo, Marin, Carlo Antonio, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18° e de’ contemporanei compilata da letterati italiani d’ogni provincia, a cura di Emilio De Tipaldo, I-X, Venezia 1834-1845: III, pp. 484-490; Emmanuele Antonio Cicogna, Delle inscrizioni veneziane raccolte ed illustrate, VI, Venezia 1853, pp. 556-558. Girolamo Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni. Studi storici, Venezia 1855, pp. 146-147; F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana, pp. 21-23; Massimo Canella, Appunti e spunti sulla storiografia veneziana dell’Ottocento, «Archivio Veneto», ser. V, 107, 1976, nr. 141, pp. 76-81 (pp. 72-115); Gino Benzoni, La storiografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 599 (pp. 597-623).
19. Così da alcune tracce epistolari recentemente riemerse: F. Cavazzana Romanelli, Gli Archivi della Serenissima, p. 298 e n. 16.
20. A.S.V., Prefettura dell’Adriatico, b. 31, lettera di Marin alla prefettura, s.d. [ma giugno 1807]; A. Baschet, Les Archives, pp. 12-13 n. 2; Dorit Raines, La bibliothèque manuscrite de Giovanni Rossi: un gardien du passé vénitien et sa collection, «Miscellanea Marciana», 5, 1990, pp. 79, 90 (pp. 77-205).
21. A.S.V., Presidio di Governo, b. 93, nota di Jacopo Chiodo al presidio, 29 novembre 1815.
22. Sul ruolo di Agostino Carli Rubbi negli archivi veneziani fra il 1812 e il 1825 v. Claudio Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Venezia 1993, pp. 71-95.
23. A.S.V., Presidio di Governo, b. 93, nota di Agostino Carli Rubbi al presidio, 29 novembre 1815, ove di Marin, definito «ottimo e dottissimo cavaliere», si riferisce peraltro che «in officio univa il capriccio, l’autorità gelosa, l’ignoranza della materia e la più disadatta incongruenza […]. Ei non sapeva fare, non lasciava fare, non si fidava di chi sapea far meglio di lui, e ne aveva anzi gelosia».
24. Sergio Barizza, L’istituzione del Comune di Venezia. La prima amministrazione, la formazione dell’Archivio municipale, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 285-306.
25. G. Cadorin, Archivi pubblici e privati, pp. 33-34; M.F. Tiepolo, Archivio di Stato di Venezia, pp. 1080-1101.
26. Bruno Bertoli, Modificazioni strutturali della Chiesa veneziana dalla visita Flangini alla visita Pyrker, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Id.-Silvio Tramontin, Roma 1971, pp. XXXIII-XXXV (pp. VII-XLI); Id., La Chiesa di Venezia dalla caduta della Serenissima agli inizi della Restaurazione, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 15-61.
27. Da alcuni carteggi di polizia del 1839 risulta come registri e documentazione sciolta circolassero, oramai a pezzi, in alcune botteghe di biadaioli e rigattieri della zona di S. Maria Formosa (Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Archivio, b. 1). Cf. Francesca Cavazzana Romanelli, Archivio Storico del Patriarcato di Venezia, in Associazione Archivistica Ecclesiastica, Guida degli archivi diocesani d’Italia, II, a cura di Vincenzo Monachino-Emanuele Boaga-Luciano Osbat-Salvatore Palese, Roma 1994, pp. 285-300; Ead., Fonti per la storia marciana nell’Archivio storico del Patriarcato di Venezia, in San Marco. Aspetti storici ed agiografici. Atti del convegno, a cura di Antonio Niero, Venezia 1996, pp. 205-206 (pp. 205-222).
28. Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, II, Venezia 1851, pp. 558-559; Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Curia III, Capitolo patriarcale di San Marco, b. 1.
29. Francesca Cavazzana Romanelli, L’archivio del capitolo di San Pietro e di San Marco, in Guida agli archivi capitolari d’Italia, a cura di Salvatore Palese-Francesco De Luca-Lorella Ingrosso, I, Città del Vaticano 2000, pp. 324-331.
30. Antonio Niero, L’erudizione storico-ecclesiastica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 97-121. Unica e rimarchevole eccezione quella del Seminario patriarcale — dal 1816 presso l’ex convento della soppressa congregazione somasca alla Salute — entro il quale confluirono, grazie al ruolo del suo prefetto agli studi, il prolifico cultore di studi letterari, biografici e artistici Giannantonio Moschini, numerosi nuclei di carteggi o di fondi privati, ed ove venne allora impostato quell’archivio «scolastico» che, affiancandosi al consistente fondo dell’Osservatorio meteorologico e geodinamico pure di impianto primo-ottocentesco, documenta nella sua organicità una pagina importante della storia dell’istruzione e degli studi (cf. Francesca Cavazzana Romanelli, Gli archivi dei Seminari. Topografia e struttura dei fondi veneziani, in Chiesa chierici sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo. Atti del convegno, a cura di Maurizio Sangalli, Siena 2000, pp. 263-286; Gianni Bernardi, Gli archivi del Seminario patriarcale di Venezia (secc. XIX-XX) e gli altri archivi aggregati. Presentazione dei fondi, ibid., pp. 309-328).
31. Bruno Bertoli, Le parrocchie veneziane dal Medioevo al secolo XX. Un profilo storico-istituzionale, in Archivi e chiesa locale. Studi e contributi, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli-Isabella Ruol, Venezia 1993, pp. 132-134 (pp. 121-160); Silvio Tramontin, La riduzione napoleonica delle parrocchie a Venezia: origine-attuazione-conseguenze, «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», n. ser., 21, 1991, nr. 39, pp. 119-136; Francesca Cavazzana Romanelli, Gli archivi parrocchiali veneziani, «Notiziario Bibliografico. Periodico della Giunta Regionale del Veneto», 32, settembre 1999, pp. 16-27.
32. Le fabbricerie parrocchiali di istituzione primo-ottocentesca, cui era affidata l’amministrazione delle «temporalità» della Chiesa comprese quelle attinenti a legati, oblazioni, servizi di culto e manutenzione della fabbrica, erano titolari di un proprio autonomo archivio (e ciò valse pure per la fabbriceria poi procuratoria di S. Marco, che avrebbe ereditato per competenza le carte dei procuratori de supra). Esse provocarono in aggiunta, in molti casi, una radicale riorganizzazione degli stessi archivi parrocchiali preottocenteschi, inglobati nel nuovo archivio corrente della fabbriceria quali antefatti necessari alla propria gestione contabile: spesso suddividendo carte, pergamene, fin antiche mariegole di confraternite secondo i rinnovati titoli di rubriche e fascicoli ottocenteschi e legando infine il tutto in accuratissimi quanto irreversibili inventari.
33. Francesca Cavazzana Romanelli, Vicende di concentrazione e dispersione. gli archivi dei religiosi nel Veneto tra ’700 e ’800, «Archiva Ecclesiae», 42, 1999, pp. 185-199; Bruno Bertoli, La soppressione di monasteri e conventi a Venezia dal 1797 al 1801, I, «Archivio Veneto», ser. V, 156, 2001, pp. 93-148.
34. Sulle pergamene dei monasteri e conventi veneziani, ancora riunite fra loro in pacchi dalla disagevole consultabilità, avrebbe operato a fine Ottocento una prima distinzione generale l’archivista Riccardo Predel;li, mentre a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si sarebbe infine esercitato sul prezioso materiale l’infaticabile impegno di ordinamento, regestazione e trascrizione di Luigi Lanfranchi per il suo Codice Diplomatico Veneziano e per molte delle edizioni delle Fonti per la storia di Venezia.
35. Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano 1987, pp. 333 e passim; Id., La gestione del patrimonio librario, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 265-290; D. Raines, La bibliothèque manuscrite de Giovanni Rossi, p. 77. Numerosi i riferimenti alla sorte degli archivi privati nell’utilissimo repertorio di Francesco Scipione Fapanni, Biblioteche pubbliche e private, antiche e moderne in Venezia e nelle isole, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2148 (=9116).
36. Archivio di Stato di Venezia, pp. 906-912, 1114-1125; Dorit Raines, L’Archivio familiare strumento di formazione politica del patriziato veneziano, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 64, 1996, nr. 4, pp. 5-37; Ead., L’arte di ben informarsi. Carriera politica e pratiche documentarie nell’archivio familiare di patrizi veneziani: i Molin di San Pantalon, in Archivi nobiliari e domestici. Conservazione, metodologie di riordino e prospettive di ricerca storica, a cura di Laura Casella-Roberto Navarrini, Udine 2000, pp. 187-210.
37. Così stanno a testimoniare le biblioteche di entrambi — episodi clamorosi nella storia del collezionismo bibliografico ottocentesco, cui si farà cenno più oltre — e i 127 volumi di memorie, di cui 86 di documentazione d’archivio in copia compilati da Rossi per la sua raccolta di costumi e leggi dei veneziani oggi alla Marciana. Cf. D. Raines, La bibliothèque manuscrite de Giovanni Rossi, pp. 77-205; Ead., ‘Costumi e leggi de’ Veneziani’ di Giovanni Rossi. Catalogo dei documenti contenuti negli 86 volumi manoscritti della Biblioteca Naziona;le Marciana, «Miscellanea Marciana», 7-9, 1992-1994, pp. 243-384.
38. L’individuazione della sede dei Frari era stata preceduta da una serie di ricerche ed ipotesi che si erano estese ad altri luoghi cittadini disponibili, quali il monastero di S. Zaccaria (nel quale già alcuni fondi erano stati trasportati), o quello di S. Lorenzo. Sui lavori di restauro del compendio dei Frari predisposti dall’ingegnere e capitanio del Genio Ganassa fra il 1818 e il 1822 per ospitarvi l’Archivio generale veneto cf. Francesca Cavazzana Romanelli, Il refettorio d’estate nel convento dei Frari a Venezia, ora sede dell’Archivio di Stato. Storia e restauri, «Studi Veneziani», suppl. nr. 5 di «Bollettino d’Arte. Ministero per i Beni Culturali e Ambientali», 69, 1984, pp. 16-19 (pp. 13-32).
39. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2844, Emmanuele A. Cicogna, Diari, I, cc. 3050, 3052, 3069, 3079, 4031.
40. Ampi brani della supplica, testimonianza della progettualità tenace di Chiodo intrecciata con la consapevolezza della continuità del proprio ruolo professionale e culturale nel passaggio fra molteplici regimi in F. Cavazzana Romanelli, Gli archivi della Serenissima, pp. 306-307 n. 21. Fa ugualmente parte dell’agiografia archivistica quella presunta confidenza che l’imperatore avrebbe fatto in una sua successiva visita all’Archivio dei Frari già definitivamente allestito, in cui pare avesse bisbigliato sorridendo all’orecchio di Chiodo, alludendo alle resistenze viennesi per i costi dell’operazione: «Sa ella che l’abbiamo vinta con la Camera aulica che non voleva saperne? Ne sono proprio contento». Cui Chiodo pare rispondesse «con quella ingenuità che gli era propria»: «Bravo Maestà, così va fatto» (Girolamo Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni. Studi storici, Venezia 1855, p. 366; cf. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, p. 60).
41. G. Dandolo, La caduta della Repubblica, pp. 363-368; Luigi Ferro, Jacopo Chiodo fondatore dell’Archivio di Stato di Venezia, in Ad Alessandro Luzio gli Archivi di Stato italiani. Miscellanea di studi storici, Firenze 1933, pp. 363-369. Numerosi i curricula di Chiodo fra le sue minute in A.S.V., Archivietto, Istituzione e costituzione dell’Archivio generale in Venezia, bb. 1-3.
42. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVII, Torino 1982, in partic. cap. IV, Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento, p. 339.
43. Ridondanti i materiali scritti — schemi, minute e resoconti — lasciati da Jacopo Chiodo, a documentazione dell’immane lavoro di organizzazione concettuale e logistica del nuovo Archivio generale veneto: fra gli altri all’A.S.V., adiacenti all’Archivietto, le serie «Istituzione e costituzione dell’Archivio generale in Venezia» e «Indici. Consegna di atti». Altro materiale di rilievo nelle buste, bisognose di ordinamento e dal carattere più privato, provvisoriamente denominate «Carte dei direttori Marin, Chiodo e Cecchetti». Di tenore più ufficiale le relazioni conservate entro l’archivio del Governo, fra le quali si segnalano il «Piano riguardante la generale concentrazione e distribuzione di tutti gli archivi nel locale del soppresso monastero di S. Maria gloriosa dei Frari» (b. 1818, XII.13), e l’ampia documentazione sempre in Governo, b. 1823, XII. 6/2.
44. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 399.
45. Ibid., p. 386. Il corsivo si riferisce a citazioni testuali di Chiodo da A.S.V., Senato, Terra, filza 2920.
46. «Piano riguardante la generale concentrazione […]», 13 dicembre 1817.
47. Promemoria per il recupero degli archivi giudiziari da S. Giovanni Laterano, 23 febbraio 1820 (A.S.V., Archivietto, Istituzione e costituzione dell’Archivio generale in Venezia, b. 1).
48. G. Benzoni, La storiografia, p. 600.
49. A. Baschet, Les Archives, pp. 35-41; Riccardo Predelli, Bartolomeo Cecchetti, «Ateneo Veneto», ser. XIV, 1, 1890, pp. 304-324, in partic. p. 310 n. 1: «Dal 1812 al 1843 non s’ebbero più di due studiosi l’anno, nel 1843, 45, 47, furono 4, 6 nel 44, 10 nel 48, poi decrebbero: solo dal 54 (11) in seguito andaron progressivamente aumentando».
50. «John Ingram, a dì 25 giugno 1824, chiese di leggere e di trascrivere alcuni documenti relativi all’Inghilterra. A dì 25 luglio successivo, l’Ingram ebbe risposta negativa. Il primo permesso di penetrare in Archivio fu conceduto a dì 12 febbraio 1825, ad E.A. Cicogna, cittadino veneto» (Rinaldo Fulin, E.A. Cicogna. Discorso letto nell’aula del R. Liceo Marco Polo […] nell’occasione della festa letteraria XVII marzo MDCCCLXXII, «Archivio Veneto», 6, 1872, p. 232 n. 1 [pp. 211-240]).
51. G. Benzoni, La storiografia, p. 600; Ugo Tucci, Ranke storico di Venezia, in Leopold von Ranke, Venezia nel Cinquecento, Roma 1974, p. 66 (pp. 3-69); Id., Leopold von Ranke e il mercato antiquario veneziano di manoscritti, «Quellen und Forschungen», 67, 1987, pp. 282-309.
52. A. Baschet, Les Archives, p. 41.
53. Su Mutinelli cf. F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana, pp. 110-114; M. Canella, Appunti e spunti, pp. 105-110. L’immagine satirica del «polveroso Mutinelli, preside inoperoso dei patrii archivi» è riportata, tratta dalle pagine di Domenico Fadiga, in «Almanacco del pungolo» del 1858, da A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 322. Su Dandolo: F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana, pp. 77-83; Agostino Sagredo, Conte Girolamo Dandolo, «Archivio Storico Italiano», ser. III, 5, 1867, pt. 1, p. 248; Id., Girolamo Dandolo, ibid., 7, 1868, pt. 1, pp. 194-204; Giorgio E. Ferrari, Saggio di catalogo storico-descrittivo della pubblicistica veneziana del Sessantasei (Specimen da una Bibliografia di studio analitico generale), Venezia 1967, p. 350; M. Canella, Appunti e spunti, pp. 110-116.
54. Scrittore il primo di ampollosi e divaganti studi storici, quali gli Annali urbani di Venezia dall’anno 810 al 12 maggio 1797, Venezia 1841, e gli Annali delle province venete dall’anno 1801 all’anno 1840, Venezia 1843 (del 1854 le Memorie storiche degli ultimi cinquant’anni della Repubblica che sollecitò l’accesa replica di Dandolo) e di un Lessico veneto compilato per agevolare la lettura della storia dell’antica Repubblica Veneta e lo studio dei documenti ad essa relativi; autore il secondo di un’appassionata difesa degli ultimi cinquant’anni della Repubblica e di accurati profili biografici dei suoi migliori figli (La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia 1855, con Appendice, Venezia 1857). Così di sé Dandolo: «Io, uomo affatto nuovo agli Archivi […], mi vidi chiamato a assumere, nel maggio 1861, la direzione dell’Archivio generale di Venezia, cui erasi allora assoggettato di fresco anche il minore Archivio di Mantova […]. Per mille e una ragione […] non avrei mai aspirato ad un tale ufficio» (Girolamo Dandolo, Il benedettino Beda Dudik all’Archivio generale di Venezia. Memoria documentata del conte Girolamo Dandolo direttore dell’Archivio medesimo, Venezia 1866, pp. 10-11; cf. G.E. Ferrari, Saggio di catalogo storico-descrittivo, p. 345).
55. A. Sagredo, Girolamo Dandolo, p. 196.
56. A. Baschet, Les Archives, p. 102.
57. Gino Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, in Venezia e l’Austria, a cura di Id.-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 343-370 (la citazione è da p. 355); Id., La storiografia, pp. 597-612.
58. Un improbabile lenimento alle sventure politiche della patria cercava Vincenzo Lazari negli studi all’Archivio attorno alla storia delle monete e medaglie veneziane: «Ne le sciagure che si aggravavano sulla mia patria bastarono a togliermi a quelle pacifiche indagini in cui trovavo conforto del molto dolor che straziava me impotente spettator dell’eccidio del mio paese. Molti di questi studii furono condotti fra il lugubre tuonar del cannone nell’ultimo assedio che strinse questa cara città, grande e maravigliosa finanche nelle sue sventure» (Vincenzo Lazari, Le monete dei possedimenti veneziani […], Venezia 1851, p. VII, cit. in A. Baschet, Les Archives, p. 54 e n. 1).
59. Sui rischi corsi dai documenti d’archivio durante i bombardamenti dal 29 luglio al 22 agosto 1849 v. i resoconti, abbastanza discordanti, di A. Baschet, Les Archives, p. 52 n. 1, e di B. Cecchetti, Una visita agli archivi, p. 320 n. 4.
60. Aggiungeva inoltre il decreto: «I documenti, che non riguardino persone viventi (accertata dal Direttore dell’Archivio la loro autenticità), potranno essere dati in luce» (Bullettino uffiziale degli atti legislativi del Governo provvisorio della Repubblica veneta dal 1° al 31 maggio 1848, d. nr. 7112, p. 146).
61. R. Predelli, Bartolomeo Cecchetti, p. 309. Su Foucard cf. F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana, p. 135. Sull’avvio e i primi anni di vita della scuola di paleografia veneziana vivaci resoconti in A. Sagredo, Dell’Archivio pubblico di Venezia, pp. 180-186.
62. G. Dandolo, Il benedettino Beda Dudik; fitta la pubblicistica coeva sulla vicenda, ripresa con dovizia di approfondimenti in G.E. Ferrari, Saggio di catalogo storico-descrittivo, pp. 316-323, 343-351, 423-431. Dandolo, sottoposto in aggiunta a insinuazioni circa la sua flebile opposizione alla spoliazione, ne sofferse, pare, sino a morirne (F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana, p. 78). Su un tentativo perpetrato dall’Austria fin dal 1843 di concentrare a Vienna tutte le carte veneziane di interesse politico — tentativo cui si oppose, attivando nel 1846 la congregazione municipale, Agostino Sagredo — v. A. Sagredo, Dell’Archivio pubblico di Venezia, pp. 179-180; Mario Brunetti, L’azione del Comune di Venezia nel 1846 per la conservazione dell’Archivio di Stato e per la creazione di una Commissione di storia patria, «Archivio Veneto», ser. V, 58-59, 1956, pp. 145-148.
63. Un interessante carteggio tra Francesco Bonaini e Tommaso Gar, segnalatomi dalla cortesia di Franco Cagol presso la Biblioteca Comunale di Trento (Fondo manoscritti, BCT 1-2247/25) getta inedita luce non solo sugli amichevoli rapporti di Gar con il noto archivista toscano, ma pure sulla situazione riscontrata da Gar al suo arrivo ai Frari. I principali settori di impegno di Gar alla direzione dell’Archivio sono rievocati in Girolamo Venanzio, Commemorazione della vita e degli studj del comm. Tommaso Gar, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. IV, 1, 1871-1872, pp. 153-154 (pp. 143-156). Alla direzione dell’Archivio dei Frari, ricordava a proposito di Gar l’amico e corrispondente Niccolò Tommaseo, «la natura e l’educazione parevano averlo quasi apposta formato; tanto bene in lui s’univano la cortesia de’ modi, la pazienza delle indagini, l’affabilità e la giustizia verso i suoi cooperatori più che sottoposti, il culto delle memorie patrie, delle quali Venezia, sinattanto che Italia non imbarbarisca, sarà tenuta non piccola parte» (Ludovico Oberziner, Tommaso Gar commemorato da Niccolò Tommaseo, Trento 1908, p. 30). Cf. il necrologio pronunciato da Giovanni Cittadella, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. III, 16, 1870-1871, pp. 2292-2297; Bartolomeo Cecchetti, Tommaso Gar. Ricordo, Venezia 1873; Antonio Zieger, Archivisti italiani: Tommaso Gar, «Notizie degli Archivi di Stato», 3, 1943, nr. 2, pp. 112-117; Id., Tommaso Gar nel centenario della morte, Trento 1971; Maria Teresa Biagetti, Tommaso Gar, storico, archivista e ‘bibliologo’, «Il Bibliotecario», 29, 1991, pp. 39-55.
64. Su Teodoro Toderini cf. Rinaldo Fulin, Teodoro Toderini, «Archivio Veneto», 11, 1876, pp. 227-228. Nato a Mirano nel 1819, fece studi di contabilità a Padova e fu assunto nel 1841 quale «alunno di ragionateria» presso la direzione del Monte di Pietà. Dal 1842 iniziò la sua carriera presso l’Archivio generale dei Frari, ove passò tutti i gradi della carriera, fino a quelli di direttore (1872) e di soprintendente (1874). Noto per il suo repertorio in tre tomi manoscritti di Genealogia delle famiglie originarie di Venezia (più consultato dell’altra sua opera Cerimoniali e feste in occasione di avvenimenti e passaggi nelli Stati della Repubblica Veneta di Duchi, Arciduchi ed Imperatori dell’augustissima casa d’Austria, Venezia 1857), è ricordato per il tratto di amabile gentilezza con cui accoglieva visitatori e studiosi.
65. Apprendista nel 1855, a diciassette anni, presso la direzione dell’Archivio generale, ove frequentò sin dalla sua fondazione la scuola di paleografia, nel 1859 vi ritornò — dopo una parentesi presso la registratura della luogotenenza e la contabilità di Stato — quale assistente di III classe, acquisendo successivamente i vari gradi di carriera fino a quello di direttore e soprintendente nel 1875 (R. Predelli, Bartolomeo Cecchetti, p. 314 n. 1; Salvatore Carbone, Bartolomeo Cecchetti e l’Archivio di Stato di Venezia, «Rassegna degli Archivi di Stato», 17, 1957, pp. 243-266; Paolo Preto, Cecchetti, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, Roma 1979, pp. 227-230).
66. L’elenco delle opere costituenti la prolifica produzione archivistica e storiografica di Bartolomeo Cecchetti, dal caratteristico genere intermedio fra lo studio storico e la segnalazione di documentazione inedita, è in Giuseppe Giomo, Bartolomeo Cecchetti, «Archivio Veneto», 38, 1889, pp. 219-229 (pp. 197-232), e S. Carbone, Bartolomeo Cecchetti, pp. 260-266.
67. G. Benzoni, La storiografia, pp. 622-623; Gina Fasoli, Anche la Deputazione di storia patria per le Venezie ha la sua storia, «Archivio Veneto», ser. V, 170, 1990, pp. 215-235, ove si accenna pure a un iniziale risentimento di Bartolomeo Cecchetti per non essere stato coinvolto nella fondazione della Deputazione. Sul generale dissenso fra Rinaldo Fulin e Bartolomeo Cecchetti cf. pure Marino Berengo, Carlo Cipolla e Rinaldo Fulin tra «Archivio Veneto» e Deputazione, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento. Atti del convegno, a cura di Gian Maria Varanini, Verona 1994, p. 91 (pp. 85-96), ricco di notazioni sull’intero ambiente culturale e sui suoi protagonisti, alla pari di Gian Maria Varanini, L’ultimo dei vecchi eruditi. Il canonico veronese conte G.B. Carlo Giuliani (1810-1892). Religione, patria e cultura nell’Italia dell’Ottocento. Atti della giornata di studio, a cura di Gian Paolo Marchi, Verona 1994, pp. 113-192. Mario De Biasi, La Deputazione di storia patria per le Venezie dalle origini ad oggi (1873-1995), Venezia 1995.
68. Isabella Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica, Bologna 1987, pp. 23-42. La citazione è da p. 31.
69. Ibid., p. 30. Sul dibattito relativo al r.d. 5 marzo 1874, nr. 1852 cf. pure Arnaldo D’Addario, La collocazione degli archivi nel quadro dello Stato unitario. I motivi ottocenteschi di un ricorrente dibattito (1860-1874), «Rassegna degli Archivi di Stato», 35, 1975, nrr. 1-3, pp. 11-115; Elio Lodolini, Organizzazione e legislazione archivistica italiana, Bologna 1980, pp. 55-59. Il decreto era stato preceduto dal lavoro di apposita commissione nominata nel 1870 e presieduta dal piemontese Luigi Cibrario, con la partecipazione pure di Tommaso Gar.
70. Elio Lodolini, Lineamenti di storia dell’archivistica italiana […], Roma 1991, pp. 101-142.
71. [Bartolomeo Cecchetti], L’Archivio di Stato in Venezia negli anni 1876-1880, Venezia 1881, pp. 1-24.
72. Sospeso dall’Austria nel 1860, come abbiamo visto più sopra, l’insegnamento di Cesare Foucard, era succeduto a quest’ultimo Bartolomeo Cecchetti, sostituito quindi dal 1877 da Riccardo Predelli. Cf. Notizie della I.R. Scuola di Paleografia in Venezia presso l’Archivio generale […], Venezia 1858; Programma dell’I.R. Scuola di Paleografia in Venezia pubblicato alla fine dell’anno scolastico 1861-62 da B. Cecchetti, Venezia 1862; Bartolomeo Cecchetti, Della I.R. Scuola di Paleografia e di storia veneziana […] durante l’anno scolastico 1863-64, Venezia 1864; [Teodoro Toderini-Bartolomeo Cecchetti], Il R. Archivio Generale di Venezia, Venezia 1873, pp. 415-417; Idd., L’Archivio di Stato in Venezia nel decennio 1866-1875, Venezia 1876, pp. 133-141; [B. Cecchetti], L’Archivio di Stato in Venezia negli anni 1876-1880, pp. 103-107.
73. [B. Cecchetti], L’Archivio di Stato in Venezia negli anni 1876-1880, pp. 83-85; Archivio di Stato di Venezia, Catalogo della libreria legislativa e di amministrazione, Venezia 1880; Id., Della libreria legislativa nell’Archivio di Stato di Venezia, Venezia 1877; Elenco degli statuti a penna e a stampa [dell’]Archivio di Stato di Venezia, Venezia 1880. Sulla biblioteca legislativa cf. anche più oltre nel testo.
74. «[…] affine di dare anche ai profani che visitano l’archivio un’idea delle sue ricchezze, dopo che ne hanno ammirato la vastità dei locali e la grandiosità della massa» (R. Predelli, Bartolomeo Cecchetti, p. 316). La raccolta, aperta al pubblico già dal 1879, fu trasferita nel 1880 nella spaziosa sala già biblioteca del convento intitolata alla regina Margherita. Aveva collaborato con Cecchetti nella scelta, disposizione e descrizione dei documenti Federico Stefani, allora vicepresidente della Deputazione veneta di Storia Patria (Archivio di Stato di Venezia, Sala diplomatica Regina Margherita, Venezia 1880, pp. XXI-XXIII).
75. Fra esse, per ricordarne solo alcune, la Mensa patriarcale pervenuta nel 1879 dall’Economato generale benefici vacanti, pregiate serie delle «Commissarie dei Procuratori di S. Marco» ottenute in deposito nel 1877 dagli Istituti pii riuniti (la parte del fondo de supra essendo già stata versata in custodia dalla fabbriceria di San Marco nel 1868), e nel 1884, a seguito di un dibattito nazionale al quale Bartolomeo Cecchetti stesso aveva preso parte, i fondi dell’Archivio notarile (Bartolomeo Cecchetti, Della necessità della conservazione degli Archivi notarili d’Italia […], «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. III, 12, 1866-1867, pp. 521-567; Id., La questione degli archivi notarili in Italia, «Archivio Veneto», 11, 1876, pp. 168-177; [Id.], Statistica degli archivii della Regione veneta, I, Venezia 1880, pp. XXVIII-XLIII); Maria Pia Pedani, ‘Veneta auctoritate notarius’. Storia del notariato veneziano (1514-1797), Milano 1996, pp. 185-186.
76. T. Toderini-B. Cecchetti, L’Archivio di Stato in Venezia nel decennio 1866-1875, pp. 38-59. Cf. Alessandra Schiavon, Gli archivi delle corporazioni religiose soppresse: ordinamenti e inventari nell’esperienza veneziana, in L’inventariazione archivistica. Aspetti, metodologie, problemi. Atti del seminario, Venezia 1992, pp. 11-19.
77. Tommaso Gar, Letture di bibliologia fatte nella Regia Università degli studi in Napoli durante il primo semestre del 1865 […], Torino 1868 (rist. anast. Manziana 1995); cf. Maria Teresa Biagetti, Biblioteconomia italiana dell’Ottocento. Catalografia e teoria bibliografica nella trattatistica italiana, Roma 1999, pp. 103-119.
78. M.F. Tiepolo, Archivio di Stato di Venezia, pp. 874-875.
79. Consapevolezza della distinzione fra inventari e indici, e della necessaria gradualità nell’approntamento di strumenti di ricerca vieppiù analitici appare chiaramente in T. Toderini-B. Cecchetti, L’Archivio di Stato in Venezia nel decennio 1866-1875, p. 51. Non del tutto condivisibili a questo proposito le analisi delle teorie archivistiche di Cecchetti formulate in S. Carbone, Bartolomeo Cecchetti, pp. 251-257; cf. E. Lodolini, Lineamenti, pp. 111-112.
80. Sull’istituzione delle soprintendenze archivistiche promosse dal r.d. nr. 1949 del 31 maggio 1874, con lo scopo di dare impulso alla vigilanza nelle rispettive regioni di competenza e di fungere da tramite con il Ministero esercitando un ruolo di coordinamento degli altri archivi nazionali che già esistessero o che si progettava di istituire, cf. E. Lodolini, Organizzazione e legislazione, pp. 91-93; I. Zanni Rosiello, Archivi e memoria, pp. 15-16. La mancata realizzazione di istituti archivistici statali in ogni provincia e il progressivo accentramento ministeriale contribuiranno entrambi a decretare, a partire dal 1892, la soppressione delle soprintendenze archivistiche e la chiusura di un esperimento di sia pur parziale decentramento e di interesse nei confronti delle realtà archivistiche locali.
81. Ripetuti, negli scritti di Cecchetti, i richiami a Chiodo (e l’utilizzo di suoi materiali inediti): quasi a rievocare la continuità di un ideale magistero (fra gli altri B. Cecchetti, Una visita agli archivi, p. 28; cf. G.E. Ferrari, Saggio di catalogo storico-descrittivo, p. 346).
82. I. Zanni Rosiello, Archivi e memoria, p. 18; Francesca Cavazzana Romanelli, Fra Stato e Chiesa. La statistica degli archivi veneti e il censimento ottocentesco degli archivi ecclesiastici veneziani, in Miscellanea di studi in onore di Wladimiro Dorigo, a cura di Ennio Concina-Michela Agazzi-Giordana Trovabene, in corso di stampa.
83. Su Federico Stefani, promotore con Rinaldo Fulin della Deputazione di Storia Patria, e con lo stesso, Guglielmo Berchet e Niccolò Barozzi iniziatore della pubblicazione dei Diarii di Marin Sanudo, direttore del «Nuovo Archivio Veneto», più volte presidente della Deputazione e membro dell’Istituto Veneto, cf. Niccolò Barozzi, Federico Stefani. Discorso funebre, «Nuovo Archivio Veneto», 13, 1897, pt. I, p.n.n.; il profilo curato da Guglielmo Berchet, ibid., 14, 1897, pt. II, pp. 451-452; Pompeo Molmenti, Federico Stefani, «Archivio Storico Italiano», ser. V, 19, 1897, pp. 436-441; Id., Commemorazione di Federico Stefani, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. VII, 56, 1897-1898, pp. 3-14; F. Nani Mocenigo, Della lettera;tura veneziana, pp. 137-138; Agostino Contò, Carlo ;Cipolla, Federico Stefani e la Deputazione Veneta: notizie dal carteggio, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Ottocento e Novecento, a cura di Gian Maria Varanini, Verona 1994, pp. 97-109. Su alcuni risvolti della sua nomina alla direzione dell’Archivio dei Frari e alla Soprintendenza degli archivi veneti, proposta da ;Guglielmo Berchet al Consiglio superiore degli archivi, cf. il saggio di Francesca Cavazzana ;Romanelli, Gli archivi, in quest’opera.
84. Su entrambi si rinvia alle note bio-bibliografiche in F. Cavazzana Romanelli in questa Storia di Venezia.
85. Un elenco di «Persone ammesse a far studii nel R. Archivio Generale di Venezia dal 1812 al 1875» è in T. Toderini-B. Cecchetti, L’Archivio di Stato in Venezia nel decennio 1866-1875, pp. 84-131. Nel 1879 si contarono in totale 1.324 presenze in sala di studio ([B. Cecchetti], L’Archivio di Stato in Venezia negli anni 1876-1880, p. 86; alle pp. 205-243 l’elenco degli studiosi fino al 1880, con i relativi argomenti di ricerca). Compilazioni di «Elenchi degli studiosi» a partire dal 1812, con relativi argomenti di ricerca, sono conservati pure in A.S.V., Archivietto.
86. Il r.d. 27 maggio 1875, che abrogò il precedente regolamento austriaco del 1865 sul funzionamento dell’Archivio, fu seguito di lì a poco da norme di attuazione interna (T. Toderini-B. Cecchetti, L’Archivio di Stato in Venezia nel decennio 1866-1875, pp. 8-10, 81-82, 131-132).
87. «È un caro debito far gli onori di casa; e quando s’abbiano tesori e mirabili cose quali sono quelle da noi vigilate, è anche un vanto» (ibid., p. 143, ove si riferisce pure che «i visitatori del nostro Archivio furono, nel decennio scorso, circa 250 all’anno [2.432 in complesso] persone o famiglie»). Cf. A.S.V., Archivietto, Libri dei visitatori, 4 regg. dal 1835 al 1891, più 1 reg. «Visitatori della Sala diplomatica» dal 1880.
88. G. Veludo, Accademie, biblioteche, pp. 430-448.
89. Nato nel 1811, fu per molti anni professore di lingua e letteratura italiana; «perito a fondo nelle lingue greca, latina, italiana e francese, pratico negli studi filologici e bibliografici» lo definiva Valentinelli, caldeggiandone l’assunzione in Marciana nel 1850 (cf. M. Zorzi, La Libreria di San Marco, pp. 380, 387).
90. Per la più esauriente indagine sulla storia delle biblioteche veneziane alla caduta della Repubblica e sotto le dominazioni francesi e austriaca, cf. Marino Zorzi, Le biblioteche a Venezia nel secondo Settecento, «Miscellanea Marciana», 1, 1986, pp. 253-324; Id., La Libreria di San Marco, pp. 319-364, 513-533; Id., La gestione.
91. Sulla biblioteca, nata nel 1799 da un lascito al clero del patriarca Federigo Giovanelli, cf. Emilio Hoenning O’Carroll, Il compiuto riordinamento della Biblioteca del seminario Patriarcale. Relazione del Bibliotecario, Venezia 1930.
92. Fu istituita insieme alla scuola, nel 1806; ricevette in dono da Francesco I l’opera di storia naturale di Stefano Chiereghin, ora depositata presso la Marciana; cf. anche M. Zorzi, La gestione, pp. 281-282.
93. Per un totale di 6.000 volumi.
94. Di Lorenzo Giustinian Recanati per il Redentore, di Giannantonio Moschini per S. Michele, di Tommaso Tommasoni per i Domenicani; cf. anche M. Zorzi, La gestione, pp. 282-283.
95. «[...] nella quale conservansi importanti codici manoscritti dell’VIII e IX secolo, oltre le numerose opere uscite dai tipi di quel convento e quelle degli armeni di Costantinopoli e di altre contrade»; cf. anche M. Zorzi, La Libreria di San Marco, p. 332.
96. Sulla biblioteca di Giovanni Rossi, cf. ibid., pp. 388-389, 541 nn. 143-147; D. Raines, La bibliothèque manus;crite de Giovanni Rossi.
97. Per le vicende della Marciana tra la fine del Settecento e per tutto l’Ottocento si farà costante riferimento ai capitoli X-XIV dell’opera di M. Zorzi, La Libreria di San Marco, indicando in nota solo eventuali riferimenti bibliografici integrativi.
98. Per la bibliografia su Morelli, cf. Carlo Frati, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani dal sec. XIV al XIX, Firenze 1934, pp. 379-384, e Marino Parenti, Aggiunte al dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani di Carlo Frati, II, Firenze 1959, pp. 264-267.
99. Non si trova nell’archivio della Marciana l’elenco originale dei pezzi consegnati ai commissari francesi; in vari documenti Morelli parla della cifra globale di 470 tra manoscritti e stampati rari: 241 manoscritti (202 della Marciana, 22 delle biblioteche monastiche di Venezia e Murano, 17 da S. Giustina di Padova), 120 incunaboli, 59 edizioni aldine, 50 edizioni musicali (da biblioteche di Venezia, Padova e Treviso); con questi dati concordano sostanzialmente le fonti francesi, mentre dati diversi emergono dall’opuscolo Catalogo de’ capi d’opera di pittura, scultura, antichità, libri, storia naturale, ed altre curiosità trasportati dall’Italia in Francia, Venezia 1799, p. XXIX: 206 risultano i manoscritti della Marciana, e il totale sale a 483 unità, tra cui bisogna però conteggiare i 10 manoscritti e l’incunabolo ottenuti dalla biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli, cf. Emilio Patriarca, La rapina francese alla Guarneriana, «La Guarneriana», 4, 1961, nr. 1, pp. 15-28. Al posto dei pezzi mancanti a raggiungere la prevista cifra di 500 i commissari avevano accettato, dal Museo Marciano, il cammeo rappresentante Giove Egioco.
100. Victor Ceresole, La vérité sur les déprédations autrichiennes à Venise, Venise 1887, p. 51. Morelli e i suoi successori tentarono di ottenere la restituzione dei codici, ma vanamente sino al 1866 (v. infra).
101. Sulla sorte dei libri delle biblioteche incamerate, cf. Pietro La Cute, Le vicende delle biblioteche monastiche veneziane dopo la soppressione napoleonica, s.n.t. [estr. dalla «Rivista di Venezia», ottobre 1929], pp. 1-50.
102. Del 25 aprile 1810; con esso venivano definitivamente soppresse le corporazioni, congregazioni, comunità e associazioni ecclesiastiche di qualunque natura, a eccezione di quelle che svolgevano servizi ritenuti utili (ordini ospitalieri o dediti all’assistenza e all’educazione) e di parte del clero secolare.
103. Qui si verificarono le più gravi dispersioni, ma gran parte della biblioteca fu salvata facendola trasportare a Roma, nel monastero camaldolese di Monte Celio, da Zurla e da Mauro Cappellari (poi papa Gregorio XVI); cf. Vittorino Meneghin, San Michele in Isola di Venezia, II, Venezia 1962, pp. 281-288.
104. Entrato in biblioteca nel 1795; su di lui v. la voce di Giorgio E. Ferrari, Bettio, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 757-760, e M. Zorzi, La Libreria di San Marco, ad indicem, e soprattutto le pp. 316, 371-383.
105. Su Matteo Luigi Canonici e sulla sorte della sua biblioteca, in cui era confluita buona parte di quella di Giacomo Soranzo, cf. Irma Merolle, L’abate Matteo Luigi Canonici e la sua biblioteca: i manoscritti Canonici e Canonici-Soranzo delle biblioteche fiorentine, Roma 1958; la voce di Nereo Vianello, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 167-170.
106. Amministrato a parte, fu esaurito solo dopo la fine del Regno italico; cf. Giulio Coggiola, Dalla Libreria del Sansovino al Palazzo Ducale. Un episodio della vita della Marciana. 1797-1812, in La Biblioteca Marciana nella sua nuova sede. XXVII aprile MDCCCCV, Venezia 1906, p. 37 (pp. 15-52).
107. Un primo tentativo, reso nullo da un intervento di Canova, era già avvenuto nel 1807; cf. G. Coggiola, Dalla Libreria, pp. 32-35.
108. Ibid., pp. 38, 41-48, 51.
109. Dall’elenco compilato da Bettio risulta che dalle biblioteche di Venezia (escluse quindi quelle di Padova e Treviso) erano stati consegnati 432 pezzi, dei quali solo 417 (o meglio 415, perché 2 erano stati sostituiti) venivano restituiti: alla Marciana tornavano 202 codici e 2 edizioni musicali; dei cimeli sottratti alle biblioteche regolari veneziane tornavano 21 manoscritti, 75 incunaboli, 48 aldine e 71 edizioni musicali. Dei 17 manoscritti sottratti a S. Giustina di Padova, non reclamati a causa della successiva soppressione della congregazione, 15 restarono a Parigi, uno fu restituito alla Marciana e dell’ultimo si sono perse le tracce. Oltre a riavere i propri libri e manoscritti, la Marciana ottenne anche i codici già appartenenti alle comunità soppresse.
110. A Bettio fu destinata la raccolta di appunti, esemplari postillati e lettere, nota come «Archivio Morelliano», che pervenne anch’essa in Marciana dopo la morte di Bettio.
111. Nel 1825 Bettio propose al governo che per il Museo fosse trovata un’altra sede; il progetto fu accettato, ma realizzato solo nel 1847.
112. Approvato il 19 gennaio 1827, pubblicato il 1° febbraio.
113. Cui Bettio tentò di opporsi, ritenendolo pericoloso, ma inutilmente.
114. Sul rilievo che gli inediti volumi della Bibliografia veneta di Bettio ebbero per la stesura della Bibliografia veneziana di Cicogna, cf. G.E. Ferrari, Bettio, Pietro, p. 760, e Id., Dall’uno all’altro centenario del Cicogna e del Bettio per la genesi della Bibliografia veneziana, «Almanacco dei Bibliotecari Italiani», 1969, pp. 123-137.
115. La biblioteca contariniana comprendeva in tutto 8.365 pezzi; 1.851 andarono al Seminario e 1.841 ai frati Minori.
116. Su Valentinelli v. la sintesi, con la bibliografia completa delle sue opere e degli scritti su di lui, di Giorgio E. Ferrari, Profilo ed eredità bibliografica di Giuseppe Valentinelli, «Miscellanea Marciana», 2-4, 1987-1989, pp. 9-79 e, più recentemente, M.T. Biagetti, Biblioteconomia italiana dell’Ottocento, pp. 118-120.
117. Un accurato esame degli avvenimenti degli anni 1848-1849 si legge in Ester Pastorello, La Biblioteca di S. Marco nei giorni della rivoluzione e della difesa di Venezia. Echi e ricordi, «Ateneo Veneto», 38, 1915, nr. 1, pp. 171-201.
118. Non si rinunciò peraltro all’acquisto della Bibliografia veneziana di Cicogna; tra coloro che acquistarono il maggior numero di duplicati troviamo i nomi di Carrer, di Pietro Canal e di Veludo.
119. I disagi dovettero essere ridotti, dato il contemporaneo calo delle presenze: il 27 agosto vi erano stati in biblioteca solo 8 lettori; dal 28 al 30 la Marciana restò chiusa; nei giorni successivi, e sino alla fine di ottobre, che segnava la chiusura dell’«anno scolastico», l’affluenza non superò le 10 unità giornaliere. Dal 1° novembre in poi la frequenza riprese ad aumentare, stabilizzandosi sulle 20-25 presenze quotidiane; cf. Venezia, Archivio della Biblioteca Marciana, Libro di Lettura dal 19 giugno 1849 a tutto 12 novembre 1850.
120. Assunto come «diurnista» presso la Marciana dal 1860, per lavorare alla copia delle schede del catalogo sistematico, vi compì tutta la carriera sino a divenire vicebibliotecario.
121. D. Raines, ‘Costumi e leggi de’ Veneziani’, pp. 243-284.
122. Approvate con nota del Ministero della Pubblica istruzione del 4 aprile 1867, nr. 1712; pubblicate nel «Giornale delle Biblioteche», 1, 1867, nr. 4, pp. 30-31.
123. Aveva già allora pubblicato i più importanti suoi lavori di regestazione da manoscritti marciani (cf. G.E. Ferrari, Profilo, passim), così legati al mondo tedesco, friulano e dalmata, grazie ai quali sarebbe anche divenuto vicepresidente della giunta esecutiva per l’istituzione della Deputazione di Storia Patria, nel 1873 (cf. Mario De Biasi, La deputazione di storia patria per le Venezie dalle origini ad oggi, 1873-1995, Venezia 1995, p. 19).
124. Ne conseguì una carenza nelle raccolte marciane che perdurò fino al 1910, quando fu promulgata la legge che estendeva il diritto di stampa (concesso nel 1870 alla Biblioteca Nazionale di Firenze e nel 1880 a quella di Roma) alle biblioteche periferiche.
125. V. le sue Osservazioni indotte dall’esame del rapporto Natoli sulle Biblioteche italiane («Giornale delle Biblioteche», 1, 1867, nr. 7, pp. 49-54), in cui criticava, giustamente, gli errori relativi alle biblioteche veneziane contenuti nell’«Annuario dell’Istruzione pubblica del Regno d’Italia pel 1866-67».
126. Tommaso Gar, direttore dell’Archivio generale dei Frari; Niccolò Barozzi; Antonio Dall’Acqua Giusti, dell’Accademia di Belle Arti; Alessandro Valle, bibliotecario di Palazzo Reale; Vettor Giulio Sandi, ispettore del demanio; cf. M. Zorzi, La Libreria di San Marco, pp. 391, 542-543 nn. 164-167.
127. Tra i giudizi negativi sulla gestione austriaca, che non largheggiò nelle dotazioni per gli acquisti, v. la testimonianza di Alberto Errera, L’istruzione pubblica a Venezia. Proposte e riforme, Venezia 1866 (estr. dalla «Gazzetta di Venezia», novembre e dicembre 1866), alle pp. 25-26: «[…] la Biblioteca Marciana ha sì misero peculio, che le toglie di acquistare quelle opere interessanti di scienze morali ed esatte, che nemmeno ad uno studioso privato potrebbero difettare […] nella Marciana le cose moderne sono poche […]».
128. Emanato con r.d. 25 novembre 1869, nr. 5386.
129. Sulla figura di Lorenzi, sulle sue straordinarie capacità di autodidatta e sulle sue pubblicazioni, cf. M. Zorzi, La Libreria di San Marco, pp. 393-394, 544 nn. 3-7, e Francesca Cavazzana Romanelli, Fonti archivistiche e strutturazione della città, in L’architettura gotica veneziana. Atti del convegno, Venezia 2000, pp. 230-231 (pp. 227-234).
130. La controversia si chiuse nel 1886, con una convenzione in base alla quale veniva riconosciuto come proprietario del legato il Comune e il governo, in quanto detentore del diritto di disporre circa il luogo di conservazione dei beni, consentiva il trasporto presso il Correr di tutti gli oggetti a eccezione dei libri.
131. Giorgio E. Ferrari, Bibliotecari veneti per le lettere venete nella parabola dell’Ottocento, «Lettere Venete», 1, 1961, nr. 4, pp. 47-56.
132. Citato in Giulia Barone-Armando Petrucci, Primo: non leggere. Biblioteche e pubblica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni, Milano 1976, p. 54. Per i manoscritti, nel 1885 nacque la collana «Indici e cataloghi», seguita nel 1891 dagli «Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia» a cura di Mazzatinti; dal 1886 usciva il «Bollettino delle pubblicazioni ricevute per diritto di stampa dalla Biblioteca Nazionale di Firenze» e si preparava, per cura di Attilio Pagliaini, il Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899; nel 1888 fu fondata da Guido Biagi la «Rivista delle Biblioteche» e nel 1899 nacque «La Bibliofilia»; nel 1885 uscì il primo Manuale di bibliografia italiano, opera di Giuseppe Ottino, successivamente ampliato da Giuseppe Fumagalli; a Fumagalli, insieme a Guido Biagi, si deve l’adattamento italiano del manuale del bibliotecario di Petzholdt (1895).
133. Su Castellani, cf. la voce redatta da Alfredo Serrai, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXI, Roma 1978, pp. 609-611.
134. Pubblicando le descrizioni dei primi 78 manoscritti della cosiddetta appendice, cf. Carlo Castellani, Catalogus codicum graecorum qui in Bibliothecam D. Marci Venetiarum inde ab anno MDCCXL ad haec usque tempora inlati sunt, Venetiis 1895.
135. Inaugurata dalla regina Margherita nel 1887, era sita nella odierna sala del Guariento.
136. Aveva iniziato la carriera nel 1885 a Firenze, prima alla Biblioteca Nazionale e poi alla Riccardiana, che diresse; dal 1897 reggeva la Marciana; cf. Giorgio De Gregori-Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del XX secolo. Dizionario bio-bibliografico 1900-1990, Roma 1999, pp. 129-131.
137. Al nucleo originario dei libri e manoscritti di casa Querini si erano aggiunti, per via di matrimonio, quelli di casa Garzoni e Lippomano. Per la descrizione dei fondi e dei codici di maggior pregio, cf. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, Biblioteche dello Stato, delle Province, dei Comuni ed altri Enti morali, I, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia, Roma 1893, pp. 121-122.
138. Sulla figura di Giovanni Querini, cf. Giorgio Busetto, sotto il titolo d’insieme La Fondazione Querini Stampalia e la Fondazione Bevilacqua La Masa, in Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla Monarchia alla Repubblica, Venezia 1997, pp. 301-302 (pp. 301-315); Giovanni Scarabello, Ricordo di Giovanni Querini Stampalia [testo letto in occasione del 120° anniversario della morte il 25 maggio 1989], in Fondazione Querini Stampalia, Statuto, Venezia 1999, pp. 7-19.
139. Dal testamento di Giovanni Querini, ora leggibile anche in Fondazione Querini Stampalia, Statuto, Venezia 1999, pp. 21-35.
140. Dei volumi vennero redatti l’inventario, il catalogo topografico e quello alfabetico a schede, e inoltre cataloghi speciali di incunaboli, cinquecentine e libri rari; dei doppi; degli esemplari imperfetti; cf. Anna Francesca Valcanover, Leonardo Perosa e i manoscritti della Biblioteca Querini Stampalia, Venezia 1990, pp. 7-8 e p. II n. 8.
141. Per notizie bio-bibliografiche su Perosa, cf. Ead., Il catalogo sistematico della Biblioteca Querini Stampalia, «Miscellanea Marciana», 2-4, 1987-1989, p. 164 (pp. 159-165).
142. Leonardo Perosa, Dei codici manoscritti della Biblioteca Querini-Stampalia recentemente ordinati e registrati. Relazione presentata […] il dì 24 luglio 1883, in Relazione economico-morale della Pia fondazione Querini-Stampalia dal 1° gennaio 1873 a tutto l’anno 1882, Venezia 1883, pp. 34-38 (pp. 27-49); alle pp. 39-48 si leggono le notizie sui codici di maggior pregio; del catalogo venne fatta fare una copia per uso pubblico dal calligrafo Giuseppe Trois (p. 48).
143. I libri e gli opuscoli erano stati suddivisi in XV classi, secondo criteri più pratici che teorici, fra le quali la classe II era dedicata alla storia veneta; erano state poi create una classe XVI per i manoscritti e una XVII (Appendice) per le «opere riservate ad una speciale vigilanza del Bibliotecario»; cf. A.F. Valcanover, Il catalogo sistematico, p. 163.
144. Ead., Leonardo Perosa, p. 23 e p. III n. 19.
145. Indice degli atti e dei documenti dei Collegi Medico-Chirurgico e Medico-Fisico di Venezia conservati presso la Biblioteca Marciana, a cura di Piero Falchetta, in Dalla scienza medica alla pratica dei corpi. Fonti e manoscritti marciani per la storia della sanità, a cura di Nelli Elena Vanzan Marchini, s.l. 1993, pp. 163-174.
146. A.F. Valcanover, Leonardo Perosa, pp. 23-24 e p. IV nn. 22-31.
147. Cf. Ricorso del Consiglio di curatela della Pia Fondazione Querini-Stampalia al R. Ministero dell’Interno contro la proposta della Deputazione provinciale di Venezia per lo scioglimento dell’Opera Pia suddetta e per la nomina di un commissario regio con documenti relativi, Venezia 1886.
148. La catastrofe della Fondazione Querini Stampalia, «Il Tempo», 31 dicembre 1887, pp. 2-3. Sulle vicende legate alla chiusura della biblioteca, cf. A.F. Valcanover, Il catalogo sistematico, pp. 160, 164-165 nn. 9-10; Ead., Leonardo Perosa, p. 24 e p. IV n. 27.
149. M. Zorzi, La gestione, p. 284.
150. Sulla consistenza della biblioteca agli inizi del XX secolo, circa 12.000 volumi, cf. Giuseppe Occioni-Bonaffons, Relazione sull’ordinamento della Biblioteca dell’Ateneo Veneto, «Ateneo Veneto», 28, 1905, nrr. 1-2, p. 263 (pp. 261-272); sull’attività di Lorenzi, ibid., pp. 265, 269.
151. Alberto S. De Kiriaki, La Biblioteca dell’Ateneo, ibid., ser. XIII, 2, 1889, pp. 388-390.
152. I locali furono individuati in accordo con Bettio, «custode» del Palazzo e primo socio corrispondente delle provincie venete; per questa e le altre notizie, cf. Giorgio E. Ferrari, La biblioteca dell’Istituto: eredità e prospettive, in Palazzo Loredan e l’istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1985, pp. 83-99.
153. Venezia, Archivio della Biblioteca Marciana, a. 1848, nr. 65.
154. G.E. Ferrari, La biblioteca, pp. 84 n. 8, 85-87: si trattava per lo più di singole opere; i primi fondi importanti pervennero con le donazioni di Serafino e Angelo Minich nell’ultimo ventennio del secolo; ibid., pp. 89-90. Nel 1880 la biblioteca contava circa 30.000 volumi, secondo Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Venezia. Monografia statistica, economica, amministrativa, Venezia 1880-1881, p. 420.
155. Esteso ad altre categorie dal governo austriaco dal 1860, con poco entusiasmo di Valentinelli, cf. il saggio da lui predisposto per l’Esposizione universale di Vienna, La R. Biblioteca Marciana di Venezia, Venezia 1872, p. 69.
156. Giuseppe Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, p. 124.
157. Bartolomeo Gamba fu nominato socio effettivo nel 1839; fra i candidati vi era anche Bettio, che non fu scelto; cf. G. Gullino, L’Istituto Veneto, pp. 19-32, 400. Bettio aveva fatto inutilmente ricorso anche all’appoggio dell’amico e assiduo corrispondente Joseph von Hammer, consigliere imperiale; cf. Die italienische Korrespondenz des Freiherren Joseph von Hammer-Purgstall […], a cura di Thomas Wallnig, Graz 1999, p. 71.
158. Veludo fu socio corrispondente dal 1855 ed effettivo dal 1869, Valentinelli corrispondente dal 1846 ed effettivo dal 1870, cf. G. Gullino, L’Istituto Veneto, pp. 440, 442.
159. [B. Cecchetti], Della libreria legislativa, p. 5; MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, pp. 123-124.
160. La biblioteca riceveva «Archivio Storico Siciliano», «Archivio Storico Lombardo», «Archivio Storico per le Provincie Napoletane», «Curiosità e Ricerche di Storia Subalpina», «Archivio Storico, Artistico, Archeologico della Città e Provincia di Roma», «Il Giornale Ligustico», «L’Archeografo Triestino», «Archivalische Zeitschrift» e le pubblicazioni curate dalle Soprintendenze agli archivi, dalle Accademie, dalle Deputazioni e Società di Storia Patria italiane, belghe, austriache, danesi, francesi, inglesi, polacche, rumene e ungheresi.
161. La biblioteca contava, tra parte legislativa e parte storica, 1.666 opere in 4.329 volumi e 1.230 opuscoli. Da questo conteggio sembrano restar fuori i 2.638 mazzi, con proprio inventario, del Deposito di stampe ufficiali, proclami, editti, circolari e regolamenti. Nel 1880 venne pubblicato il Catalogo della Libreria legislativa e di amministrazione, cf. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, p. 124. Per i dati numerici della biblioteca al 1881, cf. L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, pp. 422-423.
162. Mario Brunetti, Le collezioni storiche. Guida del Museo Civico Correr, Venezia 1954, p. 6.
163. Secondo L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, p. 423, nel 1880 la biblioteca raccoglieva oltre 60.000 volumi e 12.000 opuscoli, oltre a una copia «di tutti i periodici e diari pubblicati in Italia dal 1850 in poi».
164. Cicogna aveva in un primo tempo pensato di lasciare la sua biblioteca alla Marciana, scegliendo poi il Correr sia per la passata dimestichezza con Teodoro Correr che per la disponibilità del Comune a concedergli, in cambio, un vitalizio per le sorelle; cf. Lara Spina, ‘Sempre a pro degli studiosi’: la biblioteca di Emmanuele Antonio Cicogna, «Studi Veneziani», n. ser., 29, 1995, pp. 308-312 (pp. 295-355).
165. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, pp. 115-116.
166. L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, p. 423.
167. M. De Biasi, La Deputazione di storia patria per le Venezie, pp. 31-32. L’acquisto della biblioteca Lorenzi richiese l’impegno di 300 lire per 10 anni, cf. Il ‘Veneto Governo Democratico’ in tipografia. Opuscoli del periodo della Municipalità Provvisoria di Venezia (1797) conservati presso la biblioteca della Deputazione di Storia Patria per le Venezie. Saggio introduttivo e catalogo, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1990, p. 6.
168. La proposta, che prevedeva anche che il Gabinetto si finanziasse con contributi volontari dei soci, fu accettata il 27 gennaio 1820; il 12 ottobre successivo venne dato il permesso dalla direzione generale di polizia, cf. Gaetano A. Ruggieri, Ricordi storici sull’Ateneo di Venezia, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 1, 1827, pp. 10-11 (pp. 1-16), e in questi volumi il saggio di Laura Lepscky Mueller.
169. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989, pp. 43-44; M. Zorzi, La gestione, p. 284.
170. G. Berti, Censura e circolazione, pp. 39, 44; M. Zorzi, La gestione, p. 284.
171. G. Veludo, Accademie, biblioteche, p. 430, che dà però la data 1830; Vittorio Malamani, La censura austriaca delle stampe nelle provincie venete (1815-1848). I giornali e i periodici [...], «Rivista Storica del Risorgimento Italiano», 2, 1897, p. 697 (pp. 692-726).
172. V. Malamani, La censura austriaca, p. 698.
173. Marino Berengo, Una tipografia liberale veneziana della restaurazione. Il Gondoliere, in Libri, tipografie, biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, a cura dell’Istituto di Biblioteconomia e Paleografia dell’Università degli Studi di Parma, I, Firenze 1997, pp. 341-346 (pp. 335-354).
174. V. Malamani, La censura austriaca, pp. 698-699.
175. Sulla effettiva diffusione dei giornali italiani e stranieri, cf. G. Berti, Censura e circolazione, pp. 44-55.
176. V. Malamani, La censura austriaca, pp. 699-700.
177. G. Veludo, Accademie, biblioteche, p. 430.
178. Tommaso Locatelli, Continuazione dei ricordi storici dell’Ateneo Veneto, «Atti dell’Ateneo Veneto», ser. II, 1864, vol. I, pp. 79-80 (pp. 77-85).
179. Rodolfo Gallo, La biblioteca dell’Ateneo, in Ateneo Veneto. Fascicolo speciale per il 150° anniversario 1812-1962, Venezia 1962, p. 177 (pp. 177-179).
180. 12.000 presenze nel 1838, 14.848 nel 1869; cf. Paulo Fambri, Commiato […] dalla presidenza dell’Ateneo Veneto, «Ateneo Veneto», ser. XX, 2, 1895, nrr. 11-12, p. 120 (pp. 111-121).
181. Gabinetto di lettura e Biblioteca di consultazione presso l’Ateneo Veneto, Discorso inaugurale del presidente Comm. Paulo Fambri. Regolamento ed elenco dei periodici e delle riviste, Venezia 1887. Notizie sul funzionamento di questo Gabinetto in P. Fambri, Commiato, pp. 114-115, 117, 119.
182. «Il Monitore delle Biblioteche popolari circolanti in tutte le provincie del Regno», suppl. al nr. 5 dell’8 marzo 1873 del «Giornale delle Biblioteche», p. 8.
183. Tiziana Plebani, Il bambino nella storia della lettura. Dalla biblioteca dell’oralità al catalogo delle letture, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione, Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 177-178 (pp. 167-181).
184. L’annuncio di un «progetto di statuto per una Società promotrice di una biblioteca circolante popolare» appare nel «Giornale delle Biblioteche», 1, 1867, nr. 2, p. 16. Cf. Relazione sulla fondazione della Società per la Lettura Popolare in Venezia, e della sua prima Biblioteca circolante, Venezia 1867; Giorgio E. Ferrari, L’ideale formativo della Biblioteca Popolare in Venezia dopo l’Unità d’Italia, «Lettere Venete», 1, 1961, nrr. 2-3, pp. 51-58.
185. La Biblioteca Popolare della Provincia di Venezia e le letture in comune. Relazione dei promotori e parole di inaugurazione del prof. Busoni, del dott. Alberto Errera e dei sigg. senatore Torelli prefetto e G.B. Giustinian sindaco di Venezia, Venezia 1867; cf. G.E. Ferrari, L’ideale formativo, pp. 52-55. Su Torelli v. il saggio di Nico Randeraad in questi volumi.
186. Arturo De Rossi, Relazione sui primi tre anni (1866-67-68) e 1. semestre (1869) di esercizio della Biblioteca circolante popolare provinciale di Venezia, Venezia 1869 (a p. 12 è nominato il «giovane bibliotecario Giovanni Riva»); «Il Monitore delle Biblioteche popolari circolanti nei Comuni del Regno d’Italia», suppl. del 23 luglio 1869 del «Giornale delle Biblioteche», p. 4.
187. Achille Lanzi, La Biblioteca Provinciale circolante popolare di Venezia nel triennio 1871-1873. Ragguagli e considerazioni del direttore […], Milano 1875. Il nuovo direttore della biblioteca era «un colto funzionario che a tratti assai rivela la sua formazione o consuetudine di vita lombarda», cf. G.E. Ferrari, L’ideale formativo, p. 56.
188. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. II, Biblioteche […] non comprese nella parte I, Roma 1896, p. 57, s.v. Biblioteca Scolastica Comunale.
189. Biblioteca Scolastica Comunale in Venezia, Catalogo, Venezia 1882.
190. Comune di Venezia, Biblioteca amministrativa, Venezia 1900, pp. 72-73.
191. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, p. VIII.
192. Ibid., p. XII. Secondo L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, p. 423, nel 1880 la biblioteca possedeva 6.200 volumi di «scienza, economia, geografia e merceologia» e una collezione di opere scolastiche giapponesi.
193. MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, p. XXVII. La biblioteca, prevista dallo statuto della Società, era andata costituendosi a partire dal 1878, con doni di grande importanza, come quelli di Giacomo Levi, di Agostino Gambara, della raccolta di musica già della Società Apollinea, e di molti altri. Libri e manoscritti furono classificati con un complesso sistema (7 categorie divise in 52 classi), che restò poi in uso fino al 1935. A partire dal 1° gennaio 1896 il liceo musicale passava al Comune di Venezia, che acquistò sia gli strumenti che le biblioteche del liceo e della banda cittadina. Cf., anche per notizie dettagliate sui fondi antichi dell’attuale Conservatorio di musica «Benedetto Marcello», Gigliola Bianchini-Gianni Bosticco, Liceo-Società musicale ‘Benedetto Marcello’ 1877-1895. Catalogo dei manoscritti (Prima serie), Firenze 1989, pp. VII-XXVII.
194. Prevista già nel regolamento dell’Ospedale del 1833, la biblioteca si abbonò presto ad alcune riviste scientifiche italiane e straniere, e nel 1880 possedeva circa 1.000 volumi; affidata dal 1886 a un primario, vide nel 1887 la nascita di un Gabinetto di lettura per i medici e gli studenti; grazie ai lasciti Levi, Zannini, Alessandri e Cini, alla fine del secolo i libri ammontavano già a 5.000; cf. L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, p. 423; MAIC, Statistica delle biblioteche, pt. I, p. XLI; Nelli Elena Vanzan Marchini, Biblioteche e patrimoni storico-artistici nell’area dell’Ospedale Civile ai Santi Giovanni e Paolo, «Ateneo Veneto», n. ser., 186, 1998, nr. 36, pp. 166-170 (pp. 163-177); Lara Spina, Le cinquecentine della biblioteca medica S. Marco, in La Scuola di San Marco: i saperi e l’arte, a cura di Nelli Elena Vanzan Marchini, Venezia 2001, pp. 99-109.