ARCHIVIO e ARCHIVISTICA
La voce "archivio" (greco ἀρχεῖον; latino arcivum, archivum, archivium) indica tanto la raccolta di atti concernenti un individuo o una famiglia (archivî privati o familiari) o un qualsiasi ente (archivî pontifici, nazionali, di stato, arcivescovili e vescovili, provinciali, comunali, parrocchiali, ecc.), quanto il locale ove codesti atti sono custoditi. Non è il caso di attardarsi sulle tante divisioni che, secondo i varî punti di vista, si sono escogitate degli archivî, bastando, fra tutte, ricordare quella in archivi vivi (suddivisi a loro volta in correnti, di deposito e generali) e archivi morti: gli uni, ancora suscettibili di accrescimento; gli altri, che la cessazione dell'attività dell'individuo o ente a cui si riferiscono, ha chiusi a qualsiasi aumento. Piuttosto mette conto d'osservare che il complesso di norme, che un'esperienza secolare ha suggerite per custodire, ordinare e far funzionare gli archivî, prende nome di archivistica, e che questa disciplina suole essere divisa in: I. Archiveconomia; II. Archivistica pura; III. Utilizzazione e natura giuridica degli archivî.
I. Archiveconomia. - La maggior parte di questa prima branca dell'archivistica è consacrata alla costruzione dei fabbricati, addita i mezzi migliori per combattere i nemici grandi e piccoli degli archivî - fuoco, umido, polvere, parassiti, luce solare, ecc. - e conseguentemente fornisce norme circa i locali, le scaffalature, le rilegature, i restauri, i ravvivamenti dei caratteri deleti e altri argomenti affini. Certamente, se gli archivî fossero custoditi in fabbricati ad hoc (come per esempio quelli di Londra, Berlino, Dresda, ecc., che sono veri modelli del genere), e quindi ben aereati, asciuttissimi e, ch'è più, perfettamente isolati, tutti i nemici ora ricordati riuscirebbero meno pericolosi. Ma, generalmente (e, salvo qualche eccezione, è appunto il caso dell'Italia), gli archivî sono allogati alla meglio in ex conventi o altri vecchi edifici poco o punto adatti allo scopo: ragione per cui la lotta si fa in condizioni più o meno sfavorevoli. Comunque, fra i tanti ripieghi posti in opera, quello ormai costante è l'assoluta separazione degli uffici dagli archivî propriamente detti o magazzini archivistici.
Quanto agli scaffali, in origine, per contenere il materiale archivistico, si adoprarono arche o cassoni, sacchi, pacchi e involti. Il cassone fu poi intramezzato di assiti per formarne tanti compartimenti: sicché l'armadio a caselle prima, indi quello a palchetti in un primo momento rigidi, in un secondo mobili), dié luogo allo scaffale. Col progresso delle industrie, al legname, che occupava troppo spazio ed era veicolo troppo propizio alle fiamme, si sostituirono il ferro e l'acciaio; e oggi, invece degli antichi sistemi (pericolosi anche per la statica dell'edificio) delle scaffalature doppie, degli scaffali addossati, dei banconi posti nel mezzo delle singole camere e simili, si sogliono costruire i magazzini archivistici, non più con murature interne, bensì innalzando dal suolo un castello metallico a piani multipli, ad altezza d'uomo, chiuso semplicemente in un involucro di cemento. È intuitivo che, per evitare la polvere, occorra disporre di pavimenti assorbenti o refrattarî, quali sono, per esempio, in Italia quelli dell'Archivio dei Frari (Venezia), degli archivî toscani e delle sale del Iuvara a Torino.
Alquanto più ardua è la lotta contro gli elementi parassitarî - talune crittogame e varî insetti, di cui finora si sono noverate ben 67 specie - che si annidano nelle rilegature e nella stessa carta, e che fanno particolare scempio della moderna carta di legno, così poco resistente alle ingiurie e di siffatti animali e del tempo, che parecchi stati (tra cui l'Italia col decreto poco o punto osservato del 13 gennaio 1910), per non veder distrutti i proprî atti, hanno prescritto speciali norme circa la qualità di carta da adoprare per essi. Dei varî mezzi di lotta escogitati contro codesti parassiti il più efficace s'è rivelato finora l'acido cianidrico con la prudente aggiunta d'una piccola quantità di gas lagrimogeno. E per quanto concerne più particolarmente le rilegature giova non poco mescolare alla colla, aromi irritanti o disinfettanti.
Se non che codesti sono rimedî preventivi. A salvare poi i documenti già più o meno deperiti da danni ulteriori non resta se non restaurarli. Tanto più che l'arte del restauro, svoltasi dal Cinquecento alla fine dell'Ottocento con criterî affatto personali ed empirici, ha compiuto negli ultimi trent'anni sensibili progressi e s'avvia a una certa omogeneità. Tra i varî metodi c'è quello adesivo, consistente o (come faceva a Napoli Cristofaro Matino) nel racchiudere il documento, cartaceo o membranaceo che sia, tra due fogli di "curlo" o "baudruche"; oppure (come cominciò a fare a Roma Carlo Marré e si fa ora quasi dovunque) nel chiudere i documenti cartacei fra due teli di leggerissima mussola di seta o crêpeline, salvo poi a spalmare di gelatina quelli membranacei, in guisa da tenerne ferme le parti cadenti e le rappezzature. Se non che contro l'uso della gelatina, che effettivamente finisce col danneggiare la pergamena, insorsero studiosi e industriali tedeschi, che consigliarono di sostituire a quella particolari preparati chimici (Zapon, Neu-Zapon, acetilcellulosio, ecc.), che tutti, per altro, si rivelarono difettosi, non meno del preparato svedese detto Kitt o di quello inglese chiamato vellucent, i quali sono piuttosto mezzi precauzionali per tenere aderenti oggetti varî. Migliori risultati hanno dato gli studi compiuti in Italia dal professor Icilio Guarreschi, in occasione dell'incendio della Biblioteca Nazionale di Torino.
Ultimo nemico dei documenti d'archivio è la luce solare, la quale, alla stessa guisa dell'umidità, esercita sui caratteri un continuo lavorio di sbiadimento. Per questo motivo appunto, le mostre permanenti, usate ancora in taluni archivî, sono tutt'altro che consigliabili, salvo che le vetrine non siano ricoperte da tendine. Per fortuna, i caratteri deleti possono essere ravvivati. Ma a patto di servirsi non già dei metodi empirici, che nel passato hanno distrutto migliaia di manoscritti, bensì d'innocui preparati chimici (per esempio dell'acido gallico diluito), o, meglio ancora, dei raggi ultravioletti, di cui ora si va facendo uso alquanto largo, ma che gia dal 1889 cominciarono a essere adoperati a siffatto scopo in Roma dal professor Romolo Brigiuti.
II. Archivistica pura. - Chi osservi un archivio generale (per esempio un archivio di stato) lo trova ripartito in serie. Codeste serie, prima di far parte di quell'archivio generale, si sono formate via via presso i singoli enti o uffici per opera d'un archivista, il quale, sia pure in modo alquanto empirico, ha dato alla serie la formazione che essa serberà sempre. Questa prima fase del lavoro archivistico, detta variamente di protocollo, di registrazione o registratura, di cancelleria. ecc., consiste nell'elencare nel cosiddetto protocollo le pratiche trattate da quell'ufficio, indicando di ciascuna, in un primo momento (carico), il numero d'ordine di arrivo, la data, l'oggetto, la classificazione secondo un titolario fisso, il suo collegamento con atti concernenti il medesimo oggetto; e, in un secondo momento (scarico), il provvedimento o, come si suol dire, l'evasione data alla pratica stessa. A questo protocollo analitico-cronologico - dal quale si possono ricavare altri raggruppamenti delle pratiche (per materia, per provenienza, ecc.) - si sogliono accompagnare rubriche o indici particolari, che quanto meglio son compilati tanto più agevoli rendono le ricerche. Indi le pratiche, così protocollate, si distribuiscono, secondo le attribuzioni indicate nel titolario, in fascicoli, elencati a loro volta in repertorî e serbati nel cosiddetto archivio corrente, ove rimangono per lo più un anno, salvo a passar poi nell'archivio di deposito donde, dopo un periodo più o meno lungo (fissato in Italia in un decennio) sono versati (di qui la voce tecnica "versamento") in un archivio generale.
Una saggia norma archivistica, purtroppo non sempre osservata, prescrive che quando gli atti passano dall'archivio corrente a quello di deposito (e quindi di anno in anno) siano sottoposti a una scelta o, come si dice, scarto, che, eliminando tutte le scorie ingombranti, lasci sussistere quei soli atti che si presume possano avere interesse per l'amministrazione, per i privati e per gli studî storici. Quando avvenga nell'archivio corrente, lo scarto si chiama normale; quando invece nel momento in cui gli atti dall'archivio di deposito sono versati in quello generale o dopo siffatto versamento, si dà allo scarto l'attributo di straordinario. Nell'uno e nell'altro caso, la dolorosa esperienza del passato (i danni apportati agli archivî francesi dal Bureau du triage des titres, istituito dalla Convenzione nazionale, superarono di gran lunga quelli derivanti dai vandalismi dei sans-culottes) ha insegnato che il solo rimedio per evitare scarti inconsulti è quello di affidare codesta operazione che, pur nella sua ineluttabilità, è delicatissima, a chi per pratica professionale conosca a menadito i varî argomenti trattati dalle carte tra le quali deve aver luogo la cernita. Pertanto, in Italia proposte di scarto tra gli atti di un pubblico ufficio non possono essere avanzate se non da una commissione di funzionari del ramo, integrata dal direttore dell'archivio di stato della circoscrizione (o da un suo rappresentante): né quelle proposte diventano esecutive se non dopo l'approvazione della Giunta del Consiglio superiore degli archivî risiedente presso il Ministero dell'interno. Durante la guerra mondiale necessità pratiche costrinsero ad allentare la rigidità di codesti principî, e alla diminuita vigilanza si tentò di supplire con l'aiuto di massimarî, indicanti per ciascuna amministrazione le carte divenute inutili; ma poiché siffatti massimarî, nonostante la loro utilità, non evitarono alcuni eccessi, si tornò all'antica procedura.
Oltreché depurati di tutte le scorie, gli atti dovrebbero essere versati in un archivio generale già bene ordinati e muniti di protocolli, inventarî e indici. Ma, particolarmente per gli archivî antichi, versati da tempo in un archivio generale, non è raro il caso che tra gli atti regni un disordine più o meno accentuato. Supponendo il caso estremo del disordine massimo, la prima fatica che dovrà durare l'archivista è la cosiddetta cernita; per procedere alla quale il metodo migliore resta sempre quello di non averne alcuno, bensì di contentarsi, modestamente, di schedare pezzo per pezzo i singoli atti così come in quel disordine si presentano, indicando di ciascuno la data, l'oggetto e un numero d'ordine provvisorio. La pratica insegna che, malgrado l'empiricità del procedimento, l'archivista che sappia il fatto suo finisce sempre con lo scorgere l'ordinamento originario dell'archivio e col restituirne a poco a poco le singole serie. Giacché precisamente alla restituzione delle antiche serie, alla ricostituzione dell'archivio così come era originariamente costituito, tendono, nell'archivistica moderna, i lavori di ordinamento, a differenza dei vecchi sistemi, che miravano semplicemente, e talvolta senza nemmeno riuscirvi, a rendere più agevoli le ricerche. Tali l'ordinamento cronologico o quello alfabetico (per nomi di persona o di luogo) o l'altro decimale (adoprato ancora per i manoscritti in molte biblioteche pubbliche straniere) o quello per materie (che, come il più soggettivo, così è il più arbitrario): i quali, non senza vantaggi parziali, hanno in comune lo svantaggio immenso di dissociare ciò che originariamente era unito, di distruggere una compagine che s'era formata storicamente, o, come si dice in terminologia tecnica, di contravvenire al respect des fonds o principio di provenienza o anche metodo storico. I vantaggi, anche pratici, di tale metodo storico si sono rivelati via via così evidenti che non c'è più alcun archivio d'importanza che non procuri d'applicarlo; al modo stesso che non c'è studioso d'archivistica che non consideri i cosiddetti archivî economici e i cosiddetti archivi di guerra, racimolati, gli uni e gli altri, da ogni parte, e quindì privi di connessione storica, quali eccezioni tutt'altro che commendevoli.
Del resto, ordinare gli atti per fondi o provenienza non esclude che, volendo, si possano ricavare tutti i vantaggi insiti negli altri sistemi di ordinamento. Basta che l'ordinamento propriamente detto sia accompagnato dai successivi lavori archivistici che ne sono un necessario complemento, e cioè dalla compilazione degl'inventarî, dei regesti, dei sunti e degl'indici. L'inventario è un rapido elenco numerico degli atti, nell'ordine in cui sono stati disposti nelle singole serie. Suoi principali requisiti sono schematicità, brevità e chiarezza; ragion per cui non è opportuno intercalarvi regesti e sunti, relativi ai documenti più antichi o più importanti, che pertanto val meglio raccogliere in un'appendice o addirittura in lavori a parte. Quanto poi alla differenza tra il regesto e il sunto, si tenga presente che quello è il compendio d'un atto singolo la cui materia sia unica (per esempio, un diploma di concessione, un contratto, ecc.) e possa quindi esser foggiata a proposizione grammaticale perfetta; laddove questo è il ristretto d'un atto composto di parecchie membra, non condensabili in un'unica proposizione. Tanto gl'inventarî quanto i regesti e i sunti debbono essere corredati da indici cronologici, alfabetici, per materia, ecc.; e per tal modo appunto, pur dando alle carte un rigoroso ordinamento per provenienza o per fondi, si riesce, come s'è detto, a conseguire tutti i vantaggi inerenti ad altri sistemi di ordinamento senza, peraltro, incorrere nei relativi inconvenienti.
Ultima fatica dell'archivista è l'archiviazione, di cui sono parti: a) la condizionatura, consistente nella paginazione o cartolazione delle singole unità, nella numerazione o quotazione esterna dei volumi o filze, nello stampigliaggio, nell'impacchettamento degli atti sciolti (consigliabili sempre le fettucce invece dello spago, che recide la materia scrittoria), ecc.; b) il collocamento, indipendente dall'ordinamento e subordinato, invece, alle esigenze dello spazio. Inutile quasi soggiungere che, collocati gli atti, occorre massima cura così nel riassumerli, cioè nel toglierli dal posto per la consultazione, come, ancora più, nel riarchiviarli, ossia nel rimetterli a posto. Perché codeste operazioni riescano più agevoli, i grandi archivî sogliono compilare le cosiddette guide topografiche, che dànno il prospetto delle serie che compongono l'archivio generale; alla stessa guisa che, per facilitare le ricerche, s'usa compilare altresì l'indice degli inventarî.
III. Natura giuridica e utilizzazione degli archivî. - Quest'ultima parte dell'archivistica concerne le norme giuridiche relative alla conservazione e alla comunicazione degli atti di archivio: materia che in Italia è disciplinata dal regolamento del 2 ottobre 1911. Senza esporne qui per filo e per segno il contenuto, basterà dire che, circa il primo punto, esso contempla non solamente gli atti delle pubbliche amministrazioni e di taluni enti morali (dei quali atti, tra l'altro, vieta, nel modo che s'è visto, scarti inconsulti), ma anche, quantunque in misura limitata, quelli posseduti da privati. Diciamo "in misura limitata", perché la nostra legislazione archivistica non è così progredita da dare allo stato un vero e proprio controllo sugli archivî privati. I privati, se vogliono, possono immettere i loro atti in un archivio di stato a titolo di dono o anche di deposito temporaneo e restituibile; ma lo stato, dal canto suo, non ha mezzi legali per impedire a un privato di distruggere o comunque disfarsi del proprio archivio; e tutt'al più (come s'è fatto in questi ultimi tempi, mercé un'interpretazione analogica della legge sulle antichità e belle arti) può mettere un fermo per impedire la vendita o la scissione d'un archivio privato di riconosciuta importanza storica, ed esercitare un diritto di prelazione. In un sol caso, a simiglianza di quanto si usava già in Italia nel secolo XIlI, lo stato esercita di fronte agli archivî privati una vera e propria azione di revindica, e cioè allorché venga a morte un cittadino che abbia coperto importanti uffici politici o diplomatici. Le carte lasciate da lui, prima di divenir patrimonio degli eredi, vengono sottoposte da parte dell'amministrazione archivistica competente a una cernita, mercé la quale sono rivendicati gli atti di stato e quelli di interesse storico.
Quanto poi alla comunicazione degli atti, vigendo in Italia il principio della pubblicità, qualsiasi persona, cittadino o straniero, ha diritto di consultâre quelli serbati nei 24 archivî di stato, nell'archivio centrale del regno e negli archivi provinciali dell'Italia meridionale e della Sicilia: tutti dipendenti, immediatamente o mediatamente, dal Ministero dell'interno, che vi sopraintende mercé un apposito ufficio, presso cui siede il Consiglio superiore degli archivî, taluni componenti del quale formano la Giunta ricordata più sopra. Soli atti eccettuati dalla pubblicità (e restrizioni analoghe si trovano, per ovvî motivi, anche nella legislazione archivistica di altre nazioni) sono: a) gli atti confidenziali e segreti fin dall'origine (per esempio quelli di polizia); b) gli atti posteriori al 1877 che concernano la politica estera e l'amministrazione generale dello stato. L'una e l'altra eccezione hanno per altro un temperamento, in quanto, pur con alcune cautele, la consultazione di quegli atti può esser consentita dal Ministero dell'interno all'interessato che ne faccia domanda.
Storia degli archivî.
Gli archivî nell'antichità. - In origine l'archivio fu la sede o il luogo di riunione dei magistrati; solo nell'età ellenistica la parola prende il suo significato tecnico.
In Atene i documenti di stato furono messi dapprima sotto la custodia dell'Areopago, poi con la costituzione democratica verso il 460 a. C., dietro proposta di Efialte, sotto la sorveglianza di 7 νομοϕύλακες. Solo dopo la metà del sec. IV s'istitui un vero e proprio archivio di stato nel Metroon dove si conservavano leggi, plebisciti, protocolli del consiglio e dell'assemblea popolare, atti processuali, conti delle entrate e uscite dello stato, inventarî, liste dei nomi degli efebi, ecc. La deposizione di documenti nel Metroon permetteva ai cittadini di prendere visione degli atti relativi alla politica e all'amministrazione della città, e garantiva gli atti da eventuali falsificazioni o alterazioni. La sorveglianza del Metroon competeva all'epistate dei pritani in carica, la direzione effettiva al grammateus assistito da altri grammateis. Prescindendo da Atene, la sorveglianza dell'archivio spettava a quei magistrati alla cui competenza si riferivano i documenti custoditi nell'archivio. Il lavoro materiale archivistieo era compiuto da schiavi pubblici. Non di rado del resto in Atene come nel rimanente della Grecia un esemplare del documento è depositato negli archivî, mentre il tenore di esso è riprodotto sul marmo.
In alcune regioni della Grecia i precursori dell'ἀρχεῖον sono i μνήμονες, specie dì archivio vivente. Essi compaiono nell'iscrizione di Lygdamis (454-53 a. C.), pubblicata dal Dittenberger (Syllog., 3a ed., 45), dove sotto il vincolo del giuramento essi dànno notizie sullo stato del possesso degl'immobili. Dall'iscrizione di Lygdamis di Alicarnasso, da iscrizioni di Iaso e di Gortina risulta che i μνήμονες decidevano con giuramento le questioni relative al possesso degli immobili e che assistevano i contraenti nelle alienazioni dei fondi. A Gortina intervengono nei casi relativi allo stato personale, come riduzioni in schiavitù, adozioni, ecc.
Nelle varie città ellenistiche, prima che si istituissero archivî per la conservazione dei documenti privati, dovevano essere in uso archivî dove si conservavano gli atti di carattere pubblico della città, leggi, atti amministrativi, atti processuali e liste dei cittadini divisi per fratrie, phylai, demi, centurie. L'istituzione degli archivî per uso dei privati diventa frequente nell'età ellenistica. Scopi fiscali non sono estranei alla diffusione degli archivî pubblici, poiché alla registrazione dei contratti negli archivî si connette il pagamento della tassa dell'ἐγκύκλιον per le alienazioni e le costituzioni di pegno su immobili e schiavi. La diffusione degli archivî per la conservazione e registrazione di documenti di diritto privato sembra comune nell'Asia Minore, in Egitto e in genere nelle città ellenistiche.
Le notizie relative alla deposizione dei documenti di diritto privato negli archivî sono assai scarse per i paesi della Grecia propriamente detta. La diffusione però di istituti connessi alla pubblicità del documento, come la καταγραϕή degli immobili e schiavi fa ritenere che, almeno nell'età ellenistica, anche in Grecia l'uso degli archivî fosse divenuto corrente. Nei paesi dell'Asia Minore come in Egitto ì funzionarî stessi dell'archivio assumono le funzioni di redigere il documento. In Egitto l'agoranomo funge da sopraintendente dell'archivio della metropoli e da notaio. Alcuni tipi di documenti pubblici però, come ad es. i documenti di natura processuale, non sono redatti negli archivî notarili. Nell'Egitto ellenistico e nei paesi in cui vi sono archivî analoghi a quelli egiziani, la genuinità e la veridicità del documento pubblico non possono essere impugnati che con un procedimento penale per falso. Questo principio dovette valere tanto per i dcomenti quanto, molto probabilmente, per quelli privati resi pubblici in seguito senza opposizione del debitore.
Nelle città ellenistiche esistono varî archivî che si dividono per materia il lavoro archivistico. Di questa divisione del lavoro archivistico ci rimangono tracce nel registro di Taso, redatto dal magistrato della città, che contiene estratti di compravendita e di costituzioni di dote, e nelle disposizioni relative agli archivî di Alessandria, dove le alienazioni degl'immobili e degli schiavi erano registrate dai tesorieri, ταμίαι, della città.
In Asia Minore, nell'età imperiale, le vendite d'immobili e di schiavi sono redatte a mezzo degli archivî cittadini. Ma sono stesi negli archivî designati in alcuni luoghi come χρεωϕυλάκια anche contratti di credito, i quali non di rado assumono la forma privata quando non importano garanzie su immobili. Il diffondersi e l'organizzarsi sempre più saldamente degli archivî vale a diffondere l'uso del documento pubblico a scapito di quello privato. In Egitto ad es. la singrafe privata presso un syngraphophylax tende già nella tarda età tolemaica a diventare sempre più rara e ad essa si vanno sostituendo le singrafi che sono redatte nell'agoranomeion, nel mnemoneion e nel grapheion.
Nei paesi ellenistici gli archivî vanno di mano in mano organizzandosi col centralizzarsi. In ogni nomo egiziano troviamo una βιβλιοϑήκη δημοσίων λόγων istituita dai Romani per la conservazione degli atti amministrativi, la cui competenza si estende anche a negozî relativi ai terreni privati. Più tardi per gli atti relativi a questi ultimi acquista una competenza specifica la βιβλιοϑήκη ἐγκτήσεων, staccatasi dalla βιβλ. δημ. λογ. fra il 67 e il 72 d. C. La β. ἐ. esercita un controllo generale sul notariato poiché senza l'autorizzazione impartita in forma di ἐπίσταλμα il notaio non è autorizzato a redigere un documento pubblico. La β. ἐ. è l'archivio centrale del nomo dove si conservano copie degli atti notarili incollati (εἰρόμενα), le rubriche dei contratti (ἀναγραϕαὶ συμβολαίων), i διαστρώματα, fogli personali relativi ai diritti sugl'immobili e sugli schìavi.
Ogni diritto reale relativo ai terreni privati è dichiarato dagli interessati, a seconda dei casi, con una ἀπογραϕή o con una παράϑεσις. Le banche, che in Grecia fungevano in antico da depositarie dei documenti, hanno anche funzioni notarili. In quanto redigono le διαγραϕαὶ τραπέζης, vanno soggette anch'esse al controllo della βιβλιοϑήκη ἐνκτήσεων. Gli archivî servivano anche per la pubblicazione dei documenti privati che nell'età imperiale si raggiunge col procedimento della δημοσίωσις e dell'ἐκμαρτύρησις. Mentre nell'età tolemaica la pubblicazione del documento privato avveniva per mezzo dell'ἀναγραϕή nel grapheion, cioè con una registrazione nell'ufficio notarile del villaggio che possedeva un archivio proprio, nell'età imperiale la δημοσίωσις del documento privato avviene nel καταλογεῖον e nella διαλογή degli archivî centrali di Alessandria, mediante le presentazioni dell'originale del documento con una copia all'‛Αδριάνη Βιβλιοϑήκη e con una copia alla Βιβλιοϑήκη del Navaêov. Molto probabilmente all'emittente del documento privato era concesso un termine per impugnarlo, trascorso il quale, l'emittente perdeva la facoltà di sollevare le eccezioni ammesse contro il documento privato.
L'ἐκμαρτύρησις una forma di pubblicazione del documento privato il quale veniva inserito in un documento di carattere pubblico. Ma non sembra che il documento pubblico redatto posteriormente annullasse il documento privato redatto anteriomente. Si conoscono però due forme di ἐκμαρτύρησις: una, l'ἐκμαρτύρησις nella ϕώρα, che è la forma più antica e che richiede la partecipazione dell'emittente del documento; l'altra, la più recente, che non richiede il concorso dell'emittente.
Gli atti romani, in principio, rimanevano in possesso dei magistrati, ma già in età assai antica gli edili della plebe presero a conservare nel tempio di Cesare sull'Aventino i plebisciti. Gli atti relativi ai rapporti internazionali erano conservati e pubblicati nei templi e negli altri edifici pubblici del Campidoglio.
Una gran massa di documenti, leggi, senatoconsulti, plebisciti, protocolli degli atti del senato, comunicazioni relative all'amministrazione delle provincie fatte dai magistrati delle provincie stesse, atti amministrativi varî e, durante l'impero, costituzioni imperiali, veniva deposta nell'erario, cioè nel tempio di Saturno presso il Foro, fondato secondo la tradizione da P. Valerio Publicola. A questo archivio dal 310 a. C. sono preposti i censori, ai quali si sostituiscono poi i questori. Sotto l'Impero la cura dei documenti pubblici passa dai questori ai prefetti.
Un altro archivio romano era nell'atrium libertatis, vicino al Foro, sotto la custodia dei censori che vi depositavano i documenti relativi alle loro mansioni. Nelle aedes Nympharum, nel campo di Marte, erano conservate le tavole relative al censo dei cittadini. Nel tabularium era il catasto. lnoltre ogni alto funzionario ed ogni corporazione aveva il suo archivio.
Gli atti negli archivî erano ordinati cronologicamente per oggetto. Le tavole erano legate insieme. Le copie degli atti recavano l'indicazione della loro provenienza e la vidimazione. Negli archivî i lavori materiali erano affidati a servi pubblici e a liberti (apparitores).
Nell'età imperiale pubblici archivî dovettero esistere in tutte le provincie, le quali però non sono soggette a regimi uniformi. Agl'inizî dell'età bizantina il sistema archivistico imperiale è trasformato profondamente. A giudicare dall'Egitto, anzi, la maggior parte degli archivî sono scomparsi. In Egitto, ad esempio, con la scomparsa dei pubblici notai sembra che i documenti potessero essere depositati presso i tabelliones (νομικοί) e eventualmente presso gli organi ecclesiastici.
I gesta o acta ecclesiastica nella loro forma esteriore corrispondono ai gesta pubblici. Gli atti dei concilî sono conservati negli archivî della chiesa a cui appartiene il praeses del concilio e così i protocolli delle liti portate dinanzi alle autorità ecclesiastiche. Presto s'inviano all'archivio della chiesa romana (chartarium) e al palatium imperiale di Costantinopoli, esemplari dei gesta più importanti.
Gii archivî nel Medioevo e nell'età moderna. - Accanto ai gesta municipalia, estesi da Antonino Pio a tutto l'impero, e sopravvissuti, a differenza degli acta, alle invasioni barbariche (tanto che li si ritrova ancora in Francia nel sec. IX e a Napoli nell'anno 999), altri depositi di carte sorsero a Roma e in altre città prima nei templi pagani, poi nelle basiliche cristiane. E fra essi diventò ben presto prevalente l'archivio della Chiesa romana (v. oltre, Archivî ecclesiastici).
Disgraziatamente, di codesta parte antichissima, così dell'archivio pontificio, come degli archivî dei re d'Inghilterra, dei re normanni di Sicilia e della corte imperiale, non è sopravanzato quasi nulla. Si suole attribuire codesta scomparsa all'uso dei sovrani di farsi seguire nei loro viaggi dai propri archivî. Ma, veramente, in codesti archivî viatorî, come suole accadere anche oggi, non c'erano se non le carte d'uso immediato: onde la distruzione quasi totale degli archivî dell'alto medioevo (eccezion fatta per quelli di alcune chiese, conventi e notai) è da attribuire piuttosto alle cause generali che fecero andar perduto quasi tutto il materiale scritto di quei secoli di ferro.
Ben altra cura degli archivî si comincia ad avere in Italia col fiorire della vita comunale. I singoli comuni non solo prendono a ricercare e rivendicare presso i notai i documenti relativi ai proprî diritti, ma s'avvalgono altresì di questi stessi notai per imprimere carattere pubblico ai proprî atti, non senza imporre loro l'obbligo di serbarli, di ordinarli e perfino di darli in comunicazione in particolari uffici e durante un orario determinato, e di rilasciarne copie mercé il pagamento d'una tariffa. Organizzazione analoga hanno nell'Italia meridionale gli archivî degli imperatori e re di casa Hohenstaufen, distrutti circa la metà del Trecento da alluvioni e intemperie, e non, come vuole una leggenda, dal furore antisvevo dei primi re angioini, i quali, per contro, tennero spesso presenti e citarono i documenti emanati dai loro predecessori e dettero dal canto loro non poco impulso ai proprî archivî. Anzi, proprio nelle disposizioni della regina Sancia (la seconda moglie di Roberto d'Angiò) e di Giovanna I si riscontrano gli esempî più cospicui di antichi regolamenti archivistici; regolamenti così minuti da contenere quasi tutte le massime oggi in vigore, non escluse quelle relative all'eliminazione delle scritture inutili. Per contro, nel resto d'Italia il sorgere delle Signorie segna per l'archivistica, se non un vero e proprio regresso, certamente una sosta, in quanto, per non dire altro, la libera pubblicità degli atti fu molto frenata dagl'interessi dei nuovi dinasti, per opera dei quali la parte più importante degli archivî, già comunali e ora signorili, fu trasformata in archivî segreti.
Se non che, rassodate le Signorie, anche nell'Italia centrale e settentrionale l'archivistica riprende il cammino interrotto: gli inventarî si moltiplicano; archivî generali cominciano a esser fondati (e non solo in Italia, ma altresì in Spagna e nell'Impero); fintantoché a dare agli archivî vita quanto mai intensa non sopraggiunge la diffusione sempre più larga della storiografia umanistica. Si conosce che una delle caratteristiche di quella storiografia fu lo sfruttamento degli atti di archivio; e poiché molti di quegli storici lavoravano per commissione dei governi, divenne interesse di governo porre gli archivî nelle condizioni di funzionare. Per ricordare tre o quattro esempî soli, in Spagna Filippo II migliorò gli archivî della corona d'Aragona e fece sistemare quello grandioso della corona di Castiglia a Simancas; a Roma, i papi da Sisto IV ad Urbano VIII fondarono e riordinarono archivî. Cura particolare, pur non istituendo fin da allora un archivio generale, consacrò Venezia agli archivî delle sue singole magistrature; e, tra essi, a quello della Cancelleria ducale, che fin dal 1537 possedeva un inventario, distrutto poi, insieme con molte di quelle carte, negl'incendî di palazzo ducale del 1574 e del i576; e anche all'altro, come allora si diceva, "della Secreta", del quale più tardi (1624) un decreto deliberò "la fattura dell'indice", e che nel 1636 ebbe un riordinamento per opera del cassinese Fortunato Olmo. E - circostanza molto importante - proprio allora, cioè al tempo del pontificato di Pio IV, sorsero a Roma e poi si trasformarono perfezionandosi in Toscana (mercé Antonio da Sangallo) il diritto di rivendicazione degli atti e la conseguente immobilizzazione degli archivî presso i possessori a beneficio così dello stato come degli studiosi.
Codesto fervore archivistico continuò per tutta l'età barocca, durante la quale la pletora dei documenti generò disordini e confusioni, riparati a Venezia dal benemerito Pietro Garzoni, ma ridivenuti peggiori dopo la morte di lui. Né esso venne meno nel secolo decimottavo, quantunque, d'altra parte, a causa dell'indirizzo razionalistico-enciclopedistico imperante, gli archivî di tutta Europa subissero, sia dal punto di vista dei cattivi ordinamenti, sia da quello degli scarti inconsulti, danni non pochi. Sono di quel tempo le discussioni tra gli archivisti francesi Le Moine e Chevrières, l'uno fautore d'un ordinamento per materie, modellato press'a poco sull'Enciclopedia, l'altro tendente a serbare quello storico, già in uso da secoli. La vittoria arrise al primo, non soltanto in Francia, ma anche negli stati direttamente sottoposti o viventi sotto l'influsso dell'imperatrice Maria Teresa e, per essa, del suo onnipotente ministro conte di Kaunitz. Al quale fu dovuto se vennero ordinati per materia e l'Haus-Hof-und Staatsarchiv fondato a Vienna nel 1749, e, malgrado l'opposizione dell'archivista Pescarenico, gli archivî milanesi, ove le direttive del Kaunitz furono applicate dal Sambrunico e poi dai suoi successori Ilario Corte e Luca Peroni (donde il "metodo peroniano" di famigerata memoria), e perfino gli archivî toscani, nei quali, per fortuna, non si sconvolsero tanto le serie da render poi impossibile quel riordinamento storico, attuato, in tempi da noi non lontanissimi, dal Bonaini.
Coeva a siffatta tendenza, alla quale tuttavia altri stati, sia pure perché meno progrediti, seppero sottrarsi (esempî cospicui, l'Archivo general de las Indias, fondato nel 1787 a Siviglia da Carlo IV di Spagna, e la legge organica per gli archivî delle Due Sicilie, pubblicata da Ferdinando I nel 1818), fu l'altra della centralizzazione degli archivî. L'esempio, come s'è visto, fu dato da Maria Teresa, che nel ricordato Haus-Hof-und Staatsarchiv riunì quasi tutti gli archivî dell'Impero; e fu seguito soprattutto dalla Francia, prima con l'istituzione a Parigi di un Cabinet des chartes, contenente in semplici copie i documenti relativi alla storia francese serbati in archivî stranieri, poi col non riuscito tentativo della Convenzione Nazionale di accentrare a Parigi tutti gli archivî francesi, e finalmente con la spoliazione compiuta da Napoleone I (a cui il principio della centralizzazione era stato inculcato dall'archivista generale dell'Impero Daunou) dei principali archivî stranieri (e particolarmente italiani) a beneficio della Francia. Vero è altresì che quei cimelî, non senza che parecchi ne rimanessero per istrada, tornarono alle loro sedi in virtù delle convenzioni del 1815, nelle quali non solo fu riconfermato l'antico principio internazionale della territorialità, ma - mercé il trattato fra la Prussia e la Sassonia, in cui fu stipulata la restituzione di certi archivî a uno stato terzo, al quale effettivamente si riferivano - cominciò anche ad apparire l'altro principio della provenienza. Codesto principio ebbe sviluppo nei successivi trattati dai quali trasse vita la nuova Italia, e particolarmente in quello di Vienna del 3 ottobre 1866 relativo alla cessione della Venezia, sebbene, d'altro canto, le tergiversazioni dell'Austria, che non cessarono neppure dopo la convenzione di Firenze del 14 luglio 1868, rendesse quelle stipulazioni, per quanto concerne gli archivî, quasi lettera morta. E proprio in codeste tergiversazioni austriache è da rinvenire l'atteggiamento energico che nel trattato di Saint-Germain (10 settembre 1919) assunsero di fronte agli archivî dell'ex impero austro-ungarico l'Italia e gli altri stati eredi della duplice monarchia. Per salvare parzialmente dallo smembramento le magnifiche collezioni raccolte a Vienna dagli Asburgo, la delegazione della nuova Repubblica austriaca dové lottare non poco; e soltanto con l'aiuto della delegazione italiana, riuscì a far riconoscere dagli altri delegati, salvo da quelli della Ceco-Slovacchia, l'anzidetto principio di provenienza. Per tal modo ebbero inizio (anche per altre questioni laterali) talune conferenze, che sfociarono nella convenzione generale di Roma del 6 aprile 1922 e, per quanto concerne più particolarmente l'Italia e la Iugoslavia, nell'altra di Venezia del 16 dicembre 1924 e negli accordi di Trieste del luglio 1926.
Dei grandi archivî italiani, importanti sono, soprattutto per le ricerche storiche, quelli di Firenze, di Napoli, di Venezia, di Milano, di Torino, di Mantova, di Modena (oltre, s'intende, quello vaticano di cui si parla a parte); di quelli esteri, ricordiamo soprattutto gli archivî che contengono maggior copia di materiale interessante la storia d'Italia: e cioè le Archives Nationales di Parigi, l'Archivo general di Simancas in Spagna, che racchiude un'imponente massa di documenti sulla storia d'Italia nei secc. XVI e XVII, e lo Staatsarchiv di Vienna.
Archivî ecclesiastici.
Gli archivî ecclesiastici. - Gli archivî ecclesiastici, quelli cioè provenienti da enti ecclesiastici, in quanto tali, sono: gli archivî papali, cioè quelli delle Sacre Congregazioni, Tribunali e Uffici in Roma riguardo a tutta la Chiesa cattolica; gli alchivî metropolitani o arcivescovili per una provincia ecclesiastica; gli archivî vescovili o diocesani, col materiale sulle sacre visite, il sinodo, il seminario, gli studî, le possessioni, le comunità religiose dipendenti dal vescovo, la corrispondenza con la Santa Sede e con le Sacre Congregazioni, le dispense, i rapporti dei parroci sulla posizione spirituale e temporale delle varie parrocchie, ecc.; archivî capitolari; archivî degli ordini religiosi o corporazioni ecclesiastiche (case generalizie, provinciali, monasteri o singole case religiose); archivî parrocchiali, col materiale sui battesimi, matrimonî, ecc.; archivî di alcune confraternite e opere pie.
La chiesa romana e le altre chiese cominciarono presto a istituire archivî per custodirvi le proprie memorie, e hanno avuto sempre grande cura della conservazione dei documenti, dato lo spirito eminentemente conservativo della Chiesa. La riprova l'abbiamo nel fatto, che in Italia e in altri paesi tutti i documenti più antichi provengono dalle chiese, cioè dai vescovadi, capitoli o monasteri. Nella Gallia vi erano molti archivî ecclesiastici prima del sec. VIII (Sickel, Acta Karolinorum, I, 10; Hauck, Kirchengesch. Deutschlands, I2, 40). Nell'alto Medioevo i documenti indirizzati a persone non ecclesiastiche in Germania furono conservati soltanto per mezzo di archivî ecclesiastici, gli altri documenti non depositati in tali archivî andarono perduti: Nemmeno i grandi stati medievali ebbero un vero archivio prima del sec. XII. I papi, fin dai primi tempi, ebbero cura del proprio archivio. Clemente I, alla fine del sec. I, avrebbe dato ordine di raccogliere gli atti dei martiri, di cui affidò la redazione a sette notari. Di papa Antero (235-236) dice il Liber pontificalis: "Hic gestas martyrum diligenter a notariis exquisivit et in ecclesia recondit". Quindi nell'edificio della chiesa stessa vi era tale deposito, inizio di un archivio. Nelle varie chiese si raccoglievano in ugual modo gli atti, le lettere importanti e specialmente i decreti sinodali. La epistola uniformis di papa Liberio (352-366) dimostra che già nella metà del sec. IV vi erano dei registri pontifici.
Gli archivî ecclesiastici come quelli civili erano aperti alla consultazione, come fra l'altro si rileva da S. Agostino, il quale spogliò gli archivî per confutare i donatisti: necessaria documenta curavi sive de ecclesiasticis sive de publicis gestis (Retractat., 2, 27).
Archivio vaticano - Le prime notizie sul locale dell'archivio pontificio risalgono a papa Damaso nel sec. IV, ed era presso la basilica di S. Lorenzo in Damaso. Da S. Lorenzo l'archivio venne trasferito al Laterano dove si trovava certamente nel 649, mentre una parte del medesimo era depositata nella Turris cartularia iuxta Palladium presso l'arco di Tito al Foro Romano (F. Ehrle in Mélanges Chatelain, 1910, 449 segg.). Innocenzo III, sotto il cui pontificato ha inizio la serie ininterrotta dei registri papali, costruì una nuova sede per gli archivî pontifici presso S. Pietro in Vaticano.
L'archivio anteriore a Innocenzo III è andato totalmente perduto, eccettuato pochissimo materiale, in cui gli atti più importanti sono il Liber diurnus della cancelleria (sec. IX), una copia del registro di Giovanni VIII e quello originale di Gregorio VII. Anche dopo Innocenzo III l'archivio subì moltissime perdite nel decorso dei secoli a cagione di tanti suoi trasferimenti: nel sec. XIV insieme col tesoro pontificio, e nel sec. XIX, quando Napoleone I lo fece portare intieramente a Parigi. Così il tesoro fu saccheggiato ad Anagni nel 1303, ed anche i registri ebbero delle perdite. In parte fu trasportato poi da Benedetto XI a Perugia; in parte giunse fino a Lucca, dove nel 1314 andò saccheggiato o disperso dai ghibellini toscani; arrivò quindi ad Assisi, dove ebbe di nuovo delle perdite nel 1319-1320. Nel 1339 fu portato ad Avignone per essere restituito a Roma negli anni 1441, 1566 e 1784.
Paolo V è il fondatore dell'Archivio segreto Vaticano moderno, al quale passarono i materiali della biblioteca segreta nel 1612. Man mano si andò così radunando un materiale ricchissimo, il quale nel 1880 fu reso accessibile agli studiosi per la munificenza di Leone XIII. Un cardinale archivista ha la direzione e presidenza dell'Archivio Vaticano. La direzione e i servizî sono affidati a un prefetto, cinque archivisti, due scrittori, un assistente e dieci bidelli. È annessa all'archivio una Scuola di paleografia, diplomatica e archivistica secondo il programma pubblicato il 6 novembre 1923 dal cardinale archivista. Essa era stata già inaugurata da Leone XIII il 1° maggio 1884.
L'Archivio Vaticano ora contiene il seguente materiale. Bisogna però avvertire, che alcuni fondi recenti (fine del sec. XVIII e sec. XIX) e le parti recenti di alcuni fondi antichi non sono ancora completamente ordinate, e di esse, come anche di fondi intieri, non si hanno ancora cataloghi o inventarî, ai quali si attende.
22. Indici e inventarî: Gli indici dell'Arch. Vaticano sono 659 volumi (vedi Sussidi vol. I, prefazione). Molti sono gli autori di questi indici, specialmente: G. B. Confalonieri (morto nel 1648), Silvio de Paoli (1608-1610), Felice Contelori (1626-1644), G. A. de Prens (morto nel 1727), Pietro Donnino de Pretis (morto nel 1741), Filippo Ronconi (morto nel 1751), Giuseppe Garampi prefetto fino al 1772, Michele Lonigo (morto nel 1614), Gio. Bissaiga (morto nel 1691), G. B. Pistolesi (1749-1772). Inoltre vi sono 35 voll. di rubricelle delle suppliche papali, voll. 497 di rubricelle e 410 di protocolli della Segreteria di Stato (1816-1896).
Non tutti gli archivî pontifici si trovano ora nell'Archivio Vaticano. Alcuni sono ancora presso la sede del relativo dicastero, cioè Propaganda e S. Ufficio. In altri luoghi del Vaticano si trovano gli archivî delle sacre congregazioni pro negotiis eccl. extraord., Caeremonialis, Concilii, Consistorialis (in parte), S. Rituum (in parte); delle segreterie dei Brevi (in parte), dei Brevi ai principi (parte mod.), di Stato (parte mod.); del Tribunale della sacra penitenziaria, del Concilio vaticano, dei Convertendi, dei Protonotarî e della parrocchia dei sacri palazzi apostolici.
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