HITA, Arcipreste de
Poeta spagnolo, autore del Libro de Buen Amor, vissuto durante la prima metà del sec. XIV. Le scarse notizie intorno alla sua vita si ricavano dalla sua unica opera: si dice arciprete di Fita, cioè Hita, nella provincia di Guadalajara, e si nomina per due volte Juan Ruiz. In tre accenni pare indicare Alcalá de Henares come sua patria; ma l'allusione è problematica. È verosimile, invece, che il Libro abbia avuto le cure d' una duplice redazione, come risulta dai tre codici che lo conservano: una nel 1330, l'altra nel 1343. Quest'ultima, secondo una didascalia del copista, sarebbe stata composta durante la prigionia subita dall'autore per mandato di Egidio Albornoz, che tenne infatti la sede vescovile di Toledo dal 1337 al 1377. La notizia dell'amanuense potrebbe essere una sua congettura, tanto più che il poeta nel prologo pare alludere a una prigionia forse soltanto ideale. Tuttavia è possibile che il suo temperamento satirico e spregiudicato abbia potuto provocare questo provvedimento disciplinare.
Il Libro de Buen Amor è opera singolare, per la complessità dei motivi e degli atteggiamenti che la costituiscono, per l'originale, bizzarra e stravagante concezione, ma soprattutto per la sensibilità nuova, moderna, personalissima che vi si traduce. Vi concorrono diversi e disparati elementi di cultura e di vita, che l'A. de H. fonde e traveste con una tecnica insolita e con un senso poetico inesauribile e trasmutabile, che percorre i molteplici aspetti dello spirito umano: dal serio al ridicolo; dal sentimentale al volgare; ora appassionatamente autobiografico e ora letterariamente lirico e descrittivo; a volte commosso e sgomento per l'immediata partecipazione, a volte satirico, scanzonato, umoristicamente pessimista. Vi si avverte l'esperienza del prete secolare, che ha pratica di Sacra Scrittura e di morale teologica, senza larga dottrina cristiana né sicura fede religiosa; uomo tuttavia di spiriti prevalentemente laici, che conserva, nonostante i suoi amori con libri e rime, una sana e robusta rozzezza popolare, realisticamente esperta nel giudicare, schietta ed essenziale nelle passioni, prudente negli entusiasmi e grave nel dolore, ma aperta e gioiosa nel ridere. La fantasia dell'A. de H. poggia soprattutto su questa varia ed esuberante sensibilità, che, appunto perciò, sebbene si nutra di ricordi scolastici e di motivi d'arte profana, si palesa antiletteraria, antischematica e irregolare. L'assenza d'una salda struttura è, infatti, la prima caratteristica di questa poesia. Nonostante gl'intenti edificanti, esplicitamente espressi nel prologo, secondo cui il Libro dovrebbe prevenire dal peccato e rappresentare il dramma dell'anima che si rimorde e riscatta, l'A. de H., invece, dimentica un termine di questa allegoria per sentire l'altro dramma, quello dell'uomo che vive la vita dei sensi e delle passioni, delle debolezze e delle ambizioni: la vita, cioè, del peccato, non già negata e condannata, ma vista con umana semplicità, nella sua fatale e quotidiana articolazione. I varî episodî che si succedono non sono che esemplificazione d'una casistica di condotta pratica, di cui il poeta si finge protagonista: attore vivamente partecipe e sempre deluso e pentito, ma giammai stanco. In queste avventure la condizione autobiografica, che è realistica nell'atto della rappresentazione, è fondamentalmente di pura immaginazione, feconda d'invenzioni e di motivi, esperta di schemi metrici e di forme letterarie. Sicché la sensibilità lirica del poema trapassa dal tono empirico e quasi veristico, senza veli di pudore e d'ipocrisia, alla fragile irrealtà della finzione. Egli, come confessa, vuole "provare tutte le cose del mondo": l'esperienza maggiore e più frequente è quella amorosa, tanto che lungo la tela del Libro è un repentino avvicendarsi di conquiste e di rifiuti, di corteggiamenti e di rinunzie, attraverso cui sono raffigurate o appena abbozzate le più diverse figure femminili, nella loro differente posizione sociale e morale. Nella successione di tipi umani e di casi psicologici, l'A. de H. non soltanto esercita la sua piena, sicura e sottile conoscenza della realtà sentimentale, ma trova il modo di sfoggiare la dotta destrezza della sua tecnica poetica, passando dal verso ampio e organico della cuaderna via al verso breve e precipitoso della serranilla, dalla strofa popolaresca e ingenua del villancico al ritmo lento e misurato della musica araba. In conformità, s'intende, all'azione e al sentimento che vi si traducono: cosicché la sua arte conosce il tono della commedia e il movimento del dramma - come per la storia di donna Endrina, la più compiuta del libro e la più fortunata, che doveva riflettersi in seguito nel grande dramma Celestina (v.), e sa usare i colori idillici e gli aspetti volgari, grotteschi, caricaturali, come per il trionfo dell'Amore e la grande rappresentazione della Pasqua. Non soltanto sono disegnati ambienti e figure - a testimoniare la differente e inesauribile varietà umana e letteraria - ma trovano ampia rappresentazione quelle forze naturali, sociali e spirituali che perennemente operano in seno alla vita terrena. Così in vaste allegorie e lungo una sequenza di proverbî, di fiabe, d'osservazioni frammentarie, il poeta assiste al travaglio triste e insieme ridicolo dell'umanità. Egli ne coglie, con stupore lirico e con forte consapevolezza, il valore universale delle passioni e dei suoi destini: il senso dell'amore e della morte, il senso del lucro e dell'egoismo, visti nella loro realtà prosaica, ma anche nelle luci repentine che a volte vi si sprigionano. L'interesse del poeta sta nell'inseguire questa loro azione fatale, irresistibile e travolgente, che livella gli uomini, sconvolge la loro esistenza, li lancia all'avventura e allo sbaraglio, li fa schiavi e potenti, miseri e felici, con quel misto d' ingenuità e di cattiveria, di dolore e di godimento, di sconforto e di rinnovata fede che costituiscono l'eterna dialettica della vita. I nove decimi di quest'arte richiamano fonti più o meno dirette; e dal Pamphilus medievale ai distici dello Pseudocatone, dai fabliaux alla Disciplina Clericalis, dalle favole esopiane agli apologhi del Kalīlah e Dimnah e a qualche episodio del Conde Lucanor di Juan Manuel, confluiscono attori e scene entro la simpatia mimetica dell'autore. Dappertutto c'è l'interesse per l'individualizzarsi dell'istinto in una particolare esperienza e in un determinato aspetto fisico; e c'è il gusto, tra morale e fantastico, di colorire la mutevole contingenza che smentisce l'uniformità generica della legge etica, di affermare l'infinita varietà delle umane inclinazioni.
Ediz.: Ediz. paleografica di J. Ducamin, Tolosa 1901; ma cfr. R. Menéndez Pidal, in Romania, XXX (1901), pp. 434-440; J. Cejador y Frauca, in Clásicos castellanos, voll. 14 e 17, Madrid 1913.
Bibl.: R. Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y juglares, Madrid 1924; J. M. Aguado, Glosario sobre Juan Ruiz, Madrid 1929; S. Battaglia, Il "Libro de Buen Amor", in La Cultura, IX (1930), pp. 721-735, X (1931), pp. 15-33, con la bibl. anteriore. Inoltre, H. B. Richardson, An Etymological Vocabulary to the "Libro del Buen Amor" of A. de H., New-Haven 1930. (Cfr. R. Lapesa, in Rev. de filol. españ., XVIII, 1931).