ARCO ELETTRICO
. L'arco elettrico è una scarica a forma di fiamma che si stabilisce tra due carboni collegati ai poli di una batteria di pile, quando sono portati a contatto e poi allontanati alquanto. Esso fu fatto conoscere per la prima volta da Davy alla Società reale di Londra nel 1808; e siccome allora i carboni erano tenuti orizzontalmente, e per la corrente di aria calda la fiamma era piegata in alto, la scarica venne designata col nome di arco, che conserva tuttora (fig. 1).
Con i carboni vegetali usati dal Davy il consumo degli elettrodi era rapidissimo; ma col tempo furono trovati materiali molto più resistenti nella grafite e nel carbone di storta, finché si giunse agli attuali elettrodi di polvere di carbone impastata con agglutinanti e fortemente compressa. Questi carboni si fanno di diversi diametri per proporzionarli alla corrente che devono portare, e possono essere omogenei oppure a miccia, vale a dire muniti di un foro assiale contenente sostanze diverse.
L'aspetto di un arco si osserva facilmente in una proiezione ingrandita fatta sopra uno schermo mediante un obiettivo fotografico. Tra carboni omogenei tenuti verticalmente si nota una fiamma costituita da un nucleo violaceo circondato da un'aureola verdastra, distesa tra due punti degli elettrodi portati ad altissima incandescenza. La base positiva si foggia durante il funzionamento a coppa, e per questo prende il nome di cratere; la negativa assume una forma appuntita. La luce emessa dal cratere è molto superiore a quella della base negativa. La fiamma dell'arco si comporta come una corrente flessibile ed è deviata dal campo magnetico secondo la cosiddetta regola della mano sinistra (fig. 2).
La tensione, o caduta di potenziale, ai poli dell'arco può essere divisa in tre parti: un grande salto all'anodo, un debole gradiente lungo l'arco, e un altro salto al catodo, minore del primo. Col crescere della corrente cresce anche la sezione dell'arco, e ciò porta una diminuzione della tensione ai poli, al contrario di quanto accade coi conduttori metallici, nei quali la tensione cresce con la corrente. In altre parole, la curva della tensione in funzione della corrente, che si designa col nome di curva caratteristica, e che per un metallo è una retta ascendente (legge di Ohm), è per l'arco una curva discendente. A questo fatto si allude quando si dice che l'arco presenta una resistenza negativa.
Tale circostanza determina un'instabilità dell'arco che non ha riscontro nel comportamento dei conduttori metallici. Perché, se per una perturbazione qualunque la corrente è accresciuta oltre il valore normale, la tensione della rete diventa esuberante e dà luogo a un aumento di corrente, che, peggiorando le condizioni, non si arresta più, ed equivale a un corto circuito; mentre, se la corrente va al disotto del normale, la tensione della rete non è più sufficiente a mantenerla, e l'arco si spegne. Per ottenere la stabilità dell'arco occorre che la tensione tra gli elettrodi diminuisca col crescere della corrente. E questo si ottiene nel modo più semplice con l'intercalare nel circuito una resistenza R che, assorbendo una tensione R I proporzionale alla corrente, lascia nell'arco un residuo V - R I della tensione V della rete, tanto minore quanto più la corrente è grande. Questa resistenza stabilizza l'arco come la zavorra stabilizza la nave, e però si usa chiamarla resistenza zavorra.
Col crescere della corrente cresce il cratere, finché raggiunge la superficie esterna del carbone. Quando questo succede, il cratere non è più difeso dal vapore della fiamma contro l'ossidazione, né contro il raffreddamento dell'aria, e subisce delle fluttuazioni che si ripercuotono nella sezione dell'arco e si rivelano con un fischio. Un arco fischiante è indizio di eccesso di corrente, e richiede l'allontanamento dei carboni o l'aumento della resistenza.
Una densità di corrente più alta del normale si può far passare nell'arco senza che questo fischi, quando si adoperino carboni a miccia, e quando si pongano davanti ad un unico elettrodo positivo parecchi elettrodi negativi (Pierucci). Questi archi si dicono forzati, ed emettono dal cratere una luce eccezionalmente intensa.
Nell'aria libera i carboni si consumano in ragione di 1-2 cm. all'ora; ma quando si rinchiuda l'arco in un globo, che lo difenda dall'azione dell'ossigeno dell'aria, il consumo orario si abbassa fino a 1-2 mm. Con ciò si realizza un risparmio di materiale, e si riduce il costo della mano d'opera necessaria per il cambiamento dei carboni. Un altro vantaggio degli archi chiusi è una maggiore regolarità di funzionamento, dovuta all'assenza delle correnti di aria; e una migliore utilizzazione della luce emessa dal cratere, dovuta alla possibilità di tenere più lontani i carboni.
Tra carboni omogenei la luce emana principalmente dall'elettrodo positivo, perché quello negativo è incandescente sopra una piccola area e la fiamma è relativamente poco luminosa. Si calcola che, di tutta la luce emessa dall'arco, l'85% venga dal cratere, il 10% dall'elettrodo negativo e il 5% dalla fiamma. L'intensità della luce emessa va da 200 a 70000 candele, con una spesa di circa mezzo watt per candela. Facendo pervenire nell'arco dei sali metallici, la fiamma diventa luminosa ed emette la parte più importante della luce. Un arco così fatto si dice a fiamma, e si ottiene, sia con carboni a miccia, sia con carboni metallizzati, vale a dire impregnati di sali. Tali carboni si dicono genericamente ad effetto, e in particolare ad effetto giallo, quando contengono sali di calcio, che dànno una fiamma gialla; ad effetto rosso quando, mediante sali di stronzio, dànno una fiamma rossa; ad effetto bianco quando, mediante sali di bario, dànno una fiamma bianca. Gli archi a fiamma dànno luce in ragione di 4 candele per watt.
Un arco, che, pur bruciando nell'aria, non funziona tra carboni, è quello a magnetite; così detto perché ha come elettrodo negativo un impasto di ossidi, tra i quali prevale la magnetite, mentre l'anodo è di rame. Funziona su reti a 100-120 volt, si accende mediante contatto, come l'arco ordinario, e dà una fiamma luminosissima, con una luce di 4 candele per watt. Gli elettrodi durano circa 5000 ore per il rame e circa 200 ore per la magnetite. Quest'arco è diffuso negli Stati Uniti e nel Canadà, ma nell'Europa è limitatissimo.
Un arco che ha luogo fuori del contatto dell'aria è quello tra elettrodi di mercurio. Esso è molto più lungo dell'arco ordinario potendo raggiungere alcuni decimetri; si accende stabilendo momentaneamente, mediante inclinazione del tubo, una comunicazione ininterrotta di mercurio tra i due elettrodi. La luce di questo arco emana tutta dal vapore di mercurio ed è composta delle radiazioni gialla, verde e azzurra, proprie di questo metallo. Essa è vantata dai suoi sostenitori per la mancanza del calore che accompagna le radiazioni rosse e che affatica la retina; per la sua monocromaticità che si traduce in una maggiore acuità da parte dell'occhio; per la sua economia, permettendo essa di avere la candela al prezzo di 0,17 watt. Ma più che altro il valore della lampada a vapori di mercurio sta nella grande copia di raggi ultravioletti che essa emette, e che possono essere utilizzati nelle riproduzioni fotografiche e nella cura di certe malattie. In tal caso le lampade sono chiuse in recipienti di quarzo
Finora non abbiamo parlato che dell'arco a corrente continua, ma l'arco tra carboni può essere mantenuto anche con la corrente ma una resistenza induttiva, sia perché non dissipa energia, sia perché, interponendo un ritardo tra la corrente e la tensione, fa sì che questa sia già invertita quando la corrente si annulla, e con ciò rende la riaccensione dell'arco più pronta. Tuttavia il funzionamento dell'arco con corrente alternata non è mai così regolare come quello dell'arco a corrente continua. S'intende che con la corrente alternata la forma dei carboni non presenta dissimmetrie, e così pure la luce emessa dagli elettrodi.
La temperatura del cratere dell'arco a carboni è costante finché la pressione è costante, e a pressione ordinaria, secondo le più recenti determinazioni, raggiunge i 3900 gradi assoluti (Amerio). Negli archi forzati essa cresce rapidamente con la corrente, e dà luogo a quello splendore eccezionale che già abbiamo rilevato. Una temperatura eccezionalmente elevata si osserva quando nell'arco si fa scaricare un condensatore di grande capacità, nel qual caso si produce la fusione del carbone e la produzione di grafite (La Rosa). Lo stesso effetto si raggiunge mediante un arco sotto pressione, che permette di ottenere una temperatura nel cratere uguale a quella del Sole (Lummer). Notevolmente più bassa della temperatura del cratere è quella dell'elettrodo negativo, che nell'arco ordinario non pare superi i 3100 gradi assoluti. Quanto alla temperatura della fiamma, essa non si potrebbe dedurre, a tutto rigore, dall'emissione luminosa, perché è da ritenersi che tale emissione non sia tutta di origine termica. Per altro le esperienze eseguite sull'arco alternato a grande frequenza, dimostrando che tale emissione non subisce variazioni di sorta nelle varie fasi della corrente, portano a identificare, o quasi, la temperatura col grado di eccitazione dentro l'arco (Polvani).
Le condizioni di esistenza di un arco sono l'incandescenza dell'elettrodo negativo e la caduta di potenziale di fronte a questo stesso elettrodo.. È possibile produrre archi nei quali la caduta anodica sia quasi eliminata, il gradiente del potenziale lungo il gas sia quasi nullo, e la temperatura dell'anodo e del gas siano relativamente basse, ma la caduta catodica e l'alta temperatura del catodo sono indispensabili. Ogni volta che uno degli elettrodi non può diventar rovente, l'arco si può stabilire e mantenere con quell'elettrodo funzionante da anodo, ma non da catodo. L'arco non si mantiene con un catodo costituito da una soluzione elettrolitica (Stark e Cassuto). È possibile adescare un arco tra un catodo rovente, come può essere l'elettrodo di un arco ausiliario, e un anodo freddo, ma non tra un anodo rovente e un catodo freddo (Occhialini). Con un catodo che conduca bene il calore, come il rame, non è facile stabilire l'arco; e un arco con un elettrodo di rame alimentato da corrente alternata lascia passare la corrente nel senso in cui il rame è anodo e non nel senso inverso, e quindi funziona da raddrizzatore. Anche un'atmosfera buona conduttrice del calore, come è quella di idrogeno, rende difficile il mantenimento dell'arco.
Ora, siccome i corpi incandescenti emettono una copiosa corrente di elettroni, sorge naturale l'ipotesi che l'arco sia principalmente dovuto a questa emissione termoionica, e che le condizioni in cui questa si mantiene siano quelle di esistenza dell'arco (J.J. Thomson). Ma la causa dell'incandescenza del catodo non può essere ricercata se non nell'urto degli ioni positivi, che si precipitano sull'elettrodo negativo, e così siamo condotti ad ammettere che nell'arco abbia luogo una ionizzazione del gas e una produzione di ioni positivi. Per l'appunto, come si è notato, davanti all'elettrodo negativo si osserva un brusco salto di potenziale, il cui effetto è di scagliare con forza gli ioni positivi contro il catodo; mentre gli elettroni emessi dal catodo attraverso allo stesso salto devono trovare sufficiente energia da ionizzare le molecole che incontrano. In altre parole, la condizione di esistenza di un arco è l'esistenza di un salto di potenziale, davanti all'elettrodo negativo, capace di determinare la ionizzazione del gas. Nel fatto, il potenziale minimo di un arco tra un filo incandescente e una lastra in atmosfera di idrogeno è stato trovato di 16,35 volt, mentre il potenziale di ionizzazione dell'idrogeno è di 13,5 volt; ma di questa differenza ci si rende conto pensando che nell'arco così ottenuto solo una piccola parte delle molecole biatomiche del gas sono dissociate. Tanto è vero che in un forno a 2500°, dove la dissociazione raggiunge il 90%, l'arco si può mantenere con un potenziale minimo di 14 volt (Duffendack). Una concordanza maggiore si ha con l'arco a mercurio, nel quale il vapore è sempre monoatomico e non è inquinato da quello emesso dagli elettrodi. In tal caso la caduta catodica è stata trovata di 4,9 volt, esattamente uguale al potenziale di ionizzazione dell'atomo di mercurio.
Resta ora da vedere quale parte della corrente che si realizza nell'arco è da attribuire all'emissione termoionica, e se la temperatura osservata basta per rendere conto di questa emissione. Da studî recenti pare dimostrato che della corrente totale solo il 30% sia da attribuire agli ioni positivi, e che il resto si debba ascrivere all'emissione termoionica, e che la temperatura osservata sia perfettamente compatibile con questa emissione (Langmuir).
Gli elettroni si dirigono verso l'anodo e vi si addensano, generandovi il brusco e grande salto di potenziale che si osserva negli archi ordinarî. Attraverso a questo salto gli elettroni stessi sono scagliati con forza sull'anodo e lo riscaldano enormemente, di solito molto più del catodo. È vero che questa alta temperatura non sembra necessaria per il mantenimento della scarica, perché, come abbiamo detto, l'anodo può essere raffreddato senza che l'arco si spenga; ma ciò non vuol dire che questo fattore, quando sussiste, sia senza influenza sulla scarica. Nel fatto, la scarica che si stabilisce tra un catodo rovente e un anodo freddo ha un carattere diverso da quello dell'arco, e ricorda piuttosto quello della scintilla. Tale carattere dura finche l'anodo non si è riscaldato, e manca quando l'anodo è già caldo (Occhialini); inoltre i fenomeni luminosi della seconda fase, e cioè dell'arco vero e proprio, hanno origine dall'anodo caldo e si propagano verso il catodo (Occhialini, Pollock e Ranclaud).
Una scarica che si riattacca all'arco è quella detta "a bagliore", la quale presenta le sue più brillanti manifestazioni nei gas rarefatti, ma che si produce anche alla pressione ordinaria. Essa ha in comune con l'arco la caduta catodica, che però si eleva fino a 300 volt, e ne differisce per l'assenza dell'alta temperatura al catodo. Ma è da ritenersi che anche qui la conduzione sia alimentata dagli elettroni uscenti dal catodo sotto gli urti delle particelle positive fortemente accelerate attraverso al salto catodico, perchè, non esistendo molecola che richieda 300 volt per ionizzarsi, resta escluso che questo salto sia utilizzato nella produzione dei centri per la ionizzazione del gas. E in realtà è stato provato che un metallo freddo sotto l'urto di ioni positivi può emettere elettroni. La scarica a bagliore si sostiene con una densità di corrente al catodo 100 e più volte inferiore a quella dell'arco; se si fa crescere la corrente sopra questo limite, il catodo si arroventa, la caduta catodica si riduce a pochi volt, e la scarica assume la forma dell'arco. L'arco, infine, si presenta anche nell'ordinaria scintilla oscillatoria, quando, in seguito al primo fenomeno esplosivo della scarica, gli elettrodi si arroventano e dànno luogo a un'emissione termoionica (Occhialini).
Se in derivazione sui poli di un arco alimentato da una dinamo, o comunque attraverso a una forte induttanza, si pone un condensatore di grande capacità, si stabiliscono in esso e attraverso all'arco delle oscillazioni elettriche permanenti che si rivelano con un suono e che costituiscono il fenomeno dell'arco cantante (Duddell, fig. 3). La sua spiegazione appare chiara quando si pensa che la carica del condensatore è fatta a spese della corrente dell'arco, perché l'induttanza del circuito di alimentazione impedisce le rapide variazioni della corrente totale; ora la diminuzione della corrente dell'arco determina un aumento della tensione e quindi la carica del condensatore con una tensione superiore a quella normale dell'arco. Ne segue che, terminata la scarica, quando l'arco riprende tutta la corrente e riassume la sua tensione normale, il condensatore si scarica nell'arco e determina in esso un aumento della corrente e quindi un abbassamento della tensione; e quando, finita la scarica, si ripristina la tensione normale dell'arco, questo è in grado di riprendere la carica del condensatore, e in tal modo la vicenda delle cariche e delle scariche continua indefinitamente.
Le oscillazioni devono adattarsi al circuito in cui hanno sede, ma la loro produzione è indipendente dalla facoltà di oscillare del circuito stesso e può aver luogo anche in circuiti privi di un periodo proprio (La Rosa).
L'arco cantante può diventare un generatore di onde persistenti ad alta frequenza, sostituendo al carbone positivo un elettrodo di rame raffreddato da una corrente d'acqua, e immergendo l'arco in un'atmosfera d'idrogeno (Poulsen). In tal modo le oscillazioni possono raggiungere il numero di 200.000 per secondo ed essere impiegate nelle radiotrasmissioni (fig. 4). Per impiegare forti potenze è stato trovato utile soffiare l'arco con un flusso magnetico e mantenere il carbone in lenta rotazione
Con l'arco si possono riprodurre le modulazioni della voce e ottenere il cosiddetto arco parlante (fig. 5). Basta per questo inserire nel circuito di un arco, alimentato da accumulatori, il secondario di un rocchetto di induzione, e inserire nel primario un microfono con pila. Allora, parlando nel microfono tenuto lontano dall'arco, le correnti indotte si sovrappongono a quella dell'arco, e dànno luogo a un suono che segue più o meno le modulazioni della voce generatrice. Per la riuscita di quest'esperienza occorre un arco molto lungo tra carboni metallizzati. Una dinamo non potrebbe essere impiegata al posto degli accumulatori nell'alimentazione dell'arco perché con la sua grande induttanza smorzerebbe le rapide oscillazioni che dovrebbero percorrerla; a meno che non si ponesse in derivazione sulla macchina un condensatore di qualche microfarad, che offrisse facile via alle oscillazioni.
Bibl.: M. Leblanc, L'arc électrique, Parigi 1922; A. Hagenbach, Der elektrische Lichtbogen, Lipsia 1924; K. T. Compton, The electric arc, in Journal Am. Inst. El. Eng., 1927.