ARCO
. L'arco, considerato dal punto di vista costruttivo, è una struttura curva con la quale si supera uno spazio, che suole chiamarsi la luce, la corda, la portata e anche la sottotesa dell'arco stesso. La curva A B è detta d'intradosso, la C D di estradosso, f la freccia, saetta o monta, ed s lo spessore dell'arco. In C A e B D si vedono i piani d'imposta; e i muri che sorreggono l'arco si chiamano spalle o piedritti. I piani d'imposta possono anche non essere allo stesso livello; lo spessore poi può variare se preso in chiave oppure all'imposta o, qualche volta, alle reni. Il piano orizzontale sull'arco si raggiunge costruendo la muratura detta di rinfianco (fig.1).
Una prima classificazione degli archi può farsi considerando la forma della curva d'intradosso: arco a tutto sesto quando tale curva è una semicirconferenza di cui la luce è il diametro orizzontale passante per le imposte; a sesto ribassato se si tratta invece di un tratto di semicirconferenza (arco scemo o a monta depressa) o anche di una policentrica con il centro del tratto di curva mediano posto al disotto del livello delle imposte; a sesto acuto od ogivale, se la curva d'intradosso si costituisce di due archi di circonferenza formanti un vertice ed aventi i centri, spesso, ai due terzi della luce. Vi sono archi a mo' di ferro di cavallo a sesto eccedente (cioê superanti il semicerchio) col centro della curva al disopra della linea d'imposta, archi a sesto acuto rialzato, ed altri infine con curve speciose d'intradosso (arco inflesso, carenato) le quali sono spesso anticostruttive perché prive di quel contrasto fra gli elementi dell'arco, che è necessario alla sua funzione statica.
L'architettura romana, la romanica e quella della Rinascenza adottarono (fig. 2) l'arco a tutto sesto (a) ed in caso eccezionale l'arco scemo (b) che si trova invece nell'architettura dell'epoca dei Comuni. I bizantini rialzarono l'arco romano su di un alto piedritto (c). L'arco a sesto acuto è caratteristico dell'architettura gotica, talvolta non molto rialzato (d) talvolta più acuto (e) in rispondenza allo spostamento dei centri delle due circonferenze. Nell'Inghilterra è usato l'arco Tudor (f) composto di parti ad arco e parti rettilinee. In Venezia, nella Spagna troviamo l'arco inflesso (g). Per l'arco a tutto sesto l'architetto qualche volta usa l'artifizio di applicare la cornice più in basso della linea d'imposta per evitare che la sporgenza scemi lo sviluppo dell'arco stesso a chi guarda da vicino. Si ha così un arco a sesto rialzato. Archi con intradosso polilobato sono frequenti nell'architettura islamica: nella vecchia sinagoga di Toledo, nella chiesa del Corpo di Gesù in Segovia, nella moschea di Cordova se ne hanno esempî interessanti. Il Rivoira, a proposito della provenienza ispano-visigotica dell'arco eccedente (i), afferma che i primi esemplari di tale arco si trovano in India, in costruzioni dei primi tre secoli a. C. nella caverna di Lomas Rishi, nei templi di Bhaga e di Kārli (Architettura musulmana, Milano 1914, p. 113 segg.). Dell'arco acuto rialzato (h) abbiamo esempî bellissimi nella chiesa della Martorana (1143) di Palermo. Anche tale forma di arco ed il listare apparente degli edifici è dal Rivoira (op. cit., p. 171) assegnato ad influenza orientale.
Per i ponti, specialmente quando il ribassamento, cioè il rapporto tra la freccia e la luce, diviene più piccolo di ¼, per curva d'intradosso si adotta una policentrica. Essa per ragioni di simmetria ha un numero dispari di centri. Accenniamo brevemente al tracciamento di una curva a tre centri (fig. 3): sulla luce A B si descrive una semicirconferenza A M B e si divide in tre archi uguali A E, E F, F B. Dal punto D (essendo C D uguale alla freccia) si conduce la parallela ad M F sino ad incontrare in D1 la F B. Da D1 la parallela ad F C fino in O. In O1, O, O2, si hanno i tre centri voluti. La policentrica, per essere l'angolo D1 O1 B di 60°, passa per D1. Per policentriche a 5,7,9 centri è seguito spesso il tracciamento di Michal (v. C. Levi, Trattato teorico pratico di costruzioni, II, Milano 1929), o altri metodi (cfr. C. Gelati, Nozioni pratiche ed artistiche di architettura, Torino 1899). Conviene accennare brevemente al tracciamento dell'arco rampante il cui intradosso potrebbe essere anche un semplice arco di circonferenza, nel quale caso è facile tracciarlo (fig. 4). Data la corda A B, si traccia la orizzontale A C e su di essa una semicirconferenza. La curva dell'arco rampante si traccia prendendo n′ m′ = n m (cfr. C. Gelati, op. cit.).
Quando l'intradosso divien retto si ha la piattabanda (v.), in cui rimane non la forma, ma la struttura dell'arco.
Rispetto ai materiali con cui l'arco può essere costruito, esso è di pietra da taglio, se fatto con conci, lapidei, posti a contrasto mediante il taglio a cuneo; in tale caso il concio centrale, che assume evidentemente speciale importanza poiché obbliga gli altri tutti a stare a contatto, si chiama chiave o, meno comunemente, serraglio (Crusca) dell'arco; mentre peducci si chiamano i due cunei che poggiano sull'imposta. È monolitico se gettato con materiali disgregati tenuti insieme dalla malta, come si fa con il calcestruzzo semplice od armato; in tal caso fino a quando la malta non ha fatto una sufficiente presa l'arco rimane imprigionato fra le armature di legname (centine) o fra le casseforme servite per il getto. Finalmente è di laterizî (mattoni), disposti radialmente e tenuti in unione fra loro dalla malta o da un legante cementizio. Ma può anche essere di struttura mista, cioè di conci gettati fra mattoni di separazione.
Negli archi di pietra da taglio, elemento precipuo della resistenza è l'esatta conformazione e disposizione dei singoli conci, mentre ha importanza secondaria la malta, alla quale si assegna il solo ufficio di spianare le superficie di contatto dei giunti e di ripartire su di esse la pressione. I problemi da risolvere per la buona conformazione dei conci stessi appartengono alla teoria del taglio delle pietre nella stereotomia; essi non presentano serie difficoltà di soluzione quando l'arco è a tutto sesto, poiché allora i conci possono essere tutti uguali. L'uso della pietra da taglio è raro nelle costruzioni d'oggi e solo può riscontrarsi in opere di speciale importanza quali gli archi da ponte; per contro è frequentissima l'imitazione, che possiamo chiamare pseudo-costruttiva, poiché si simula la pietra mediante bugnature di stucco. Occorre appena accennare che in alcuni archi romani si riscontrano risalti e rientranze affinché i conci si innestino l'uno con l'altro, innesti che non sono visibili sul fronte, mentre nell'arte orientale spesso i conci alternati, per tinta, si incastrano con superficie complicate dando proprio al fronte dell'arco un aspetto geometricamente capriccioso (figg. 5 e 6).
Un problema che presenta qualche difficoltà è quello di raccordare gli archi ed i muri quando entrambi sono di pietra da taglio. Le soluzioni tipiche sono quelle dell'arco estradossato e dell'arco a conci pentagonali. Con la prima soluzione l'arco resta indipendente dalla struttura del muro ed il suo estradosso taglia nettamente gli strati del muro come si fece nel Medioevo e nel Quattrocento toscano (palazzo Pitti, palazzo Riccardi, palazzo Strozzi); però l'uso dell'estradosso ad ogiva diminuisce l'acutezza e la fragilità dell'angolo degli elementi del muro. Quando l'arco è invece a conci pentagonali, ogni pietra dell'arco s'innesta al corrispondente strato del muro ed allora si ha una costruzione unica. Le figure 7,8 e 9 mostrano le varie soluzioni che comunemente si adottano in corrispondenza dell'alternanza delle bozze del muro, isodoma e pseudo-isodoma; si noterà come alcune volte si siano adottati nell'arco conci "a martello", in cui una parte del concio segue la struttura dell'arco e l'altra parte quella del muro. L'effetto estetico di tali conci non è sempre felice.
Gli archi di mattoni sono nelle moderne costruzioni assai più frequenti e si eseguono adottando gli ordinarî mattoni parallelepipedi; le norme per la disposizione sono analoghe a quelle per i muri di mattoni. La malta qui funziona da collegamento e da cuneo. I giunti debbono attraversare l'arco per tutta la profondità, formando sulla fronte linee che vanno al relativo centro e sulla superficie d'intradosso linee parallele all'asse (della superficie cilindrica). Le altre commessure debbono invece, e sulla fronte e sull'intradosso, alternarsi, onde occorre stabilire almeno due tipi diversi di filari ed alternarli (fig. 10).
Quando gli archi debbono avere molto spessore, per evitare gli inconvenienti a cui portano i mattoni ordinarî parallelepipedi, e quindi di spessore costante, e non si hanno, come fu usato nel I e II secolo in alcune costruzioni romane, mattoni cuneiformi, si adottano anelli concentrici sovrapposti l'uno all'altro e di cui l'estradosso dell'uno combacia con l'intradosso di quello superiore.
Si hanno anche archi "misti" di pietra e di mattoni; i conci di pietra stanno generalmente alle imposte ed in chiave. Ciò riesce principalmente utile negli archi acuti, dove il voler far convergere tutti i mattoni al centro porta ad avere degli angoli che rendono difficile il collegamento. Si tagliano perciò opportunamente il giunto di chiave ed i peducci (come si rileva in costruzioni italiane di Siena e in edifici arabi; fig. 11).
Negli archi di getto (calcestruzzi semplici ed armati) assume particolare importanza l'armatura o centina (v. armatura).
Risulta evidente che fra l'arco e la volta a botte la differenza è solo nella lunghezza delle generatrici. L'arco è elemento di una parete discontinua e traforata; la volta si estende a ricoprire un ambiente.
Storia dell'arco. - L'arco in Oriente. - L'arco quale elemento strutturale delle costruzioni ha una importanza grandissima; e già gli Egizî, i Caldei, e gli Assirî conobbero e adottarono l'arco e la vòlta. Ma dai monumenti abbastanza numerosi, che ci sono rimasti di queste civiltà, non appare evidente che l'arco sia stato sfruttato con piena conoscenza della sua funzione. L'architettura egiziana ha pochi esempî di archi e di vòlte a botte. Notevoli sono la volta nella necropoli di Abido rilevata dall'egittologo francese Mariette (fig. 12) e da lui assegnata alla sesta dinastia, formata in parte di pietra (a, b) in parte di mattoni crudi tenuti insieme da una malta embrionale; la vòlta dell'Assassif, a tutto sesto, comprendente nello spessore nove mattoni cotti, nella grande cinta delle mura di Tebe, e che si fa risalire all'epoca Saitica. L'altra presso il Ramesseum, con lieve accenno di ogiva, e, nella stessa zona, un'altra con curva parabolica all'intradosso, spessore di quattro mattoni, e infine una vòlta ellittica nella vallata delle Regine a Tebe. Oltre questi veri e proprî archi e vòlte, vanno ricordati due tipi ottenuti per sovrapposizione, cioè con conci di pietra, a letto orizzontale, non contrastanti fra loro, ossia archi per forma non per sistema statico; la volta di un corridoio (fig. 13) del tempio di Deyr el-Baḥrī e l'altra nel tempio di Abido (figura 14) dovuto a Seti I (XIX dinastia). Perrot e Chipiez opinano che le vòlte per sovrapposizione, in pietra, siano semplicemente imitate dalle vòlte di mattoni, cosicché in Egitto non si può parlare di precedenza della vòlta per sovrapposizione su quella spingente. Constatano poi, pur affermando che gli Egizî conobbero la vòlta fin da epoca antichissima, che essa ha, nell'impiego, un carattere di eccezione e si trova o in parti secondarie e nascoste delle costruzioni monumentali o in costruzioni di minore importanza. Riconoscono inoltre che "questo modo di costruzione, mantenuto in stretti limiti non ha mai costituito in Egitto un sistema di architettura". Il Mariette, che rilevò anche molti monumenti egiziani, scriveva nel 1880 di credere "che in tutti i tempi gli Egizî hanno conosciuto la vòlta. Se essi non l'hanno più impiegata gli è perché essi sapevano che la vòlta porta in sé il suo germe di morte" ed aggiungeva "che cosa ci resterebbe oggi delle tombe e dei templi dell'Egitto, se l'Egitto avesse adottato di preferenza la vòlta".
Ma soprattutto nelle costruzioni di mattoni gli Egizî impiegarono archi e vòlte, e perciò Perrot e Chipiez, insistendo nel loro concetto, osservano che queste costruzioni avevano un carattere meno solenne, meno monumentale degli edifici in pietra; si poteva perciò porre in opera una materia di qualità inferiore con procedimenti meno sicuri. I monumenti che aspiravano all'eternità erano costruiti non con archi ma con architravi d'indistruttibile pietra. Ora proprio le citate considerazioni del Mariette, ripetute poi dal Le Bon (Les civilisations de l'Inde, Parigi 1887) per gli Indù, e quelle di Perrot e Chipiez lasciano sorgere il dubbio che gli Egizî non abbiano, in fondo, riconosciuta l'importanza costruttiva dell'arco e compreso il modo del suo comportamento statico. Certamente è sfuggito a questo popolo il fatto che l'arco permette di superare grandi spazî con una snellezza che l'architrave non è mai in grado di raggiungere e con una incomparabile grandiosità di effetti architettonici.
A parte poi che l'aforisma "l'arco non dorme mai" è attribuito agli architetti di parecchi popoli - p. es. degli Arabi - l'affermare che l'arco e la vòlta hanno in sé il germe di morte è evidentemente tratto dall'osservazione dei ruderi dei monumenti romani; ma sono note le devastazioni e le demolizioni quasi sempre sistematiche cui essi furono esposti specialmente in Roma.
Maggiore importanza attribuirono all'arco ed alla vòlta le civiltà caldea ed assira; e sebbene alcuni ritengano quei monumenti derivati dagli Egizî, gli elementi costruttivi comuni furono applicati con una più sottile comprensione delle loro funzioni. Nella Caldea, più che in Assiria, predomina la costruzione di archi con piccoli elementi, specialmente di materiale laterizio, ma nella bassa Caldea non mancano esempî di vòlte a botte per sovrapposizione, come quella della necropoli di Mugheir (el-Muqaynar) di mattoni crudi tenuti insieme con fango, sostenuta da due pareti a scarpata (fig. 15). In Khorsābād troviamo esempî magnifici di vòlte a botte con archi a tutto sesto nell'harem (fig. 16), nel canale ad arco ogivale (fig. 17), ed in quello ad arco ellittico. Questi due canali sono costruiti con archi addossati fra loro, o meglio uniti con lieve strato di argilla, e i cui piani non sono verticali ma leggermente inclinati. Degni di menzione sono però soprattutto gli archi a tutto sesto della porta di SE. del palazzo di Sargon (fig. 18).
La Persia antica ha monumenti grandiosi e solenni dove l'arco e la vòlta sono di uso costante: basta ricordare i palazzi di Fīrūzābād (fig. 19) e di Sarvistan con archi a tutto sesto e cupole ovoidi, i quali monumenti tuttavia appartengono a tempi tardi (forse sec. IV o V d. C.) e s'inseriscono in quell'oscuro e contrastato periodo di passaggio tra la costruzione romana e la bizantina. L'arco viene usato con senso appropriato sia costruttivamente che architettonicamente e non si può trascurare di mentovare fra le grandi costruzioni della rinascita nazionale quella della Tāq-i Khusraw, eseguita da Cosroe I (531-579) in Ctesifonte, - che il Rivoira (Arch. musulmana, Milano 1914, p. 120) dice creata da artefici mandati da Giustiniano - dove è, fra l'altro, una grande porta ad arco, seguita da vòlta a botte, a mo' delle moderne gallerie, alta ben 28 m. e larga 22. La vòlta è profonda circa 32 metri.
Nel mondo antico occidentale troviamo l'arco presso gli Etruschi ed in Acarnania; e in Etruria e a Roma l'arco ebbe uno sviluppo e un'importanza tutt'affatto particolari. Anzi è appunto l'arco che insieme alla vòlta ha conferito all'architettura romana il suo principale carattere di originalità. Così che naturalmente è sorta la questione: da chi e come venne ai Romani l'idea dell'arco.
L'arco in Etruria e a Roma. - Ai Romani è universalmenie riconosciuto il merito di aver dato all'arco il massimo sviluppo; ma si nega che essi l'abbiano inventato: è stata sempre opinione diffusa che l'abbiano preso dagli Etruschi. Ora, ammesso pure che le cose siano andate in questo modo, con ciò la questione dell'origine dell'arco, rispetto all'Italia, non si esaurisce. Gli Etruschi l'avrebbero inventato essi stessi dopo la loro immigrazione in Italia, o l'avrebbero portato con sé o importato dal di fuori? È da escludere che, per il tramite degli Etruschi, l'arco sia venuto in Italia dall'Oriente (Egitto, Mesopotamia). In questo caso sarebbe apparso senz'altro nella sua forma sviluppata. Nella cosiddetta tomba di Aliatte, in Lidia, s'incontra la vòlta incuneata, e un arco di struttura embrionale nella porta della supposta città di Pterion, nel paese degli Etei. Non sarebbe perciò legittima la supposizione che gli Etruschi, come portarono con sé dall'Oriente il tumulo ed altri tipi di costruzioni sepolcrali, venissero con la conoscenza dell'arco e della vòlta incuneata? Anche a questo riguardo c'è qualche osservazione da fare. La vòlta della menzionata tomba lidia è forse posteriore al tempo dell'emigrazione dei Tirreni in Italia; comunque, sebbene essa sia ancora abbastanza rudimentale, mostra tuttavia un notevole progresso in confronto dei primi tentativi d'arco e di vòlta che si incontrano in Italia, e l'arco embrionale della supposta città di Pterion avrebbe avuto certamente un immediato sviluppo anche in Asia Minore (e se ne conserverebbero le tracce), se l'esempio fosse stato seguito. Meno che mai c'è da pensare ai modelli del mondo greco. Può darsi che esista una certa contemporaneità fra le costruzioni elleniche e quelle che in Etruria presentano presso a poco uno stesso grado di sviluppo; ma questo sarebbe un puro caso. Come mai le costruzioni dell'Acarnania, che non trovarono imitazione nelle limitrofe regioni della stessa Grecia, sarebbero invece penetrate in Italia, e non nel versante adriatico ma nel tirreno? Ma v'ha di più. È indubitato che quei primi tentativi, in Italia, dei quali si che essi siano stati il germe delle forme più evolute. Tutto considerato, si può ritenere molto fondata l'opinione di chi pensa che l'arco sia nato per generazione spontanea in varie parti del mondo antico, senza alcun rapporto di interdipendenza tra di loro.
In Etruria, dunque, l'embrione dell'arco apparisce in epoca molto remota. L'esempio più antico ci è dato dalla tomba Campana a Veio, che risale alla fine del sec. VII a. C. Si tratta di una porta rastremata verso l'alto e terminante alla sommità con blocchi che si restringono e sono fermati da uno di essi che si inserisce in mezzo a due altri come una vera chiave di arco. Il Rivoira ha ravvisato la stessa chiave di arco nella tomba di monte Aguzzo, (fig. 20) presso Formello, e nella falsa vòlta d'una tomba orvietana della necropoli al Crocifisso del Tufo, entrambe ora ricostruite nel giardino del Museo archeologico di Firenze. Ma ciò che importa di rilevare è che questo embrione di arco non è esclusivo dell'Etruria propria: esso si ritrova più a sud, e precisamente ad Alatri, dove si osserva nelle mura poligonali di cinta. Questa constatazione è interessante. In vero, anche se la forma rudimentale dell'arco si fosse trovata solamente nell'Etruria propria, dato che non di forma sviluppata si tratta, ma appunto di forma rudimentale, e perciò di struttura non importata ma usata sul luogo, è chiaro che alla popolazione indigena se ne dovrebbe attribuire l'invenzione, e non agli immigrati Tirreni. Ma il fatto della coesistenza della stessa struttura nel Lazio meridionale, che in una certa epoca fu anch'esso occupato dagli Etruschi, ma non dagli Etruschi genuini, bensì da una popolazione a fondo italico, che di etrusco non aveva ormai che poco più del nome, conferma che di Italici si deve parlare e non di Etruschi. Ciò stabilito, poco importa il sapere se in Roma, posta in mezzo alle località nelle quali finora si è constatata l'esistenza dell'embrione dell'arco, esso sia nato pure spontaneamente o se i Romani abbiano fatto tesoro dell'esperienza delle consanguinee popolazioni vicine. Quello che interessa si è che l'arco romano è una struttura non esotica, ma genuinamente italica, nata e sviluppata indipendentemente da quanto di analogo era avvenuto presso altre architetture antiche. Comunque, una volta fatta la sua apparizione in Roma, l'arco cominciò ad avervi lo stesso sviluppo che andava prendendo in territorî limitrofi. È difficile ammettere che al tempo in cui si costruiva la cosiddetta Tonella di Pitagora a Cortona (fig. 21), a Roma non esistessero costruzioni ad arco o a vòlta incuneata. È ammissibile, per esempio, che la cloaca massima abbia avuto la vòlta sin dall'origine, la quale, se non all'epoca a cui la riferisce la tradizione, deve tuttavia appartenere a un'antichità abbastanza alta (fig. 22). È poi probabile che le opere arcuate avessero raggiunto, in Roma, un notevole sviluppo quando si costruivano il cosiddetto Deposito del Granduca, nel Chiusino, e le tombe di S. Manno, di Bettona (fig. 23), di Vaiano e di Preggio, nel Perugino: tutte a vòlta incuneata. E non appena l'arco ebbe raggiunto, in Roma, quello sviluppo imponente che fu determinato dalla grandiosità delle costruzioni delle quali l'arco stesso era il principale elemento costruttivo, i Romani ne estesero l'applicazione alle opere che andavano via via rendendosi necessarie nei territorî conquistati, a cominciare dalla stessa Etruria. Risulta ora che furono eseguite dai Romani opere che per molto tempo son passate per etrusche, come il ponte della Badia a Vulci, la supposta cloaca di Gravisca, presso Tarquinia, il ponte della Rocca a Bieda (fig. 24) e forse qualche altra opera ancora (porte di Volterra e di Perugia; porta di Giove a Falerii, etc.).
La tecnica dell'arco. - Mentre le architetture dell'architrave vedono nell'aumento di spazio da superare un grave ostacolo materiale ed architettonico, poiché si perde l'armonia dei rapporti fra vuoto e pieno, l'architettura dell'arco si fa ogni giorno più ardita nella conquista degli spazî.
La questione in via sommaria può studiarsi esaminando le condizioni statiche. Se con un architrave largo d ed altro h superiamo un interasse l fra le colonne, ed è occorsa una colonna che ha per diametro d al sommoscapo, supposto che il fregio e la cimasa insieme pesino n volte l'architrave, detta σ la sollecitazione unitaria alla compressione cui è sottoposta la sezione del sommoscapo, σ′ la sollecitazione unitaria massima di tensione e di pressione cui è soggetto l'architrave, γ il peso unitario del materiale di cui questo è formato, è certo che deve aversi
(la quale esprime che l'azione sulla colonna eguaglia il peso complessivo della cornice), e inoltre
(che dà l'eguaglianza del momento flettente nella mezzaria dell'architrave, supposto appoggiato con luce l-d, con il prodotto fra modulo di resistenza della sezione ed azione unitaria).
Le due espressioni si semplificano subito in
dove ϑ ed ε sono costanti.
È utile osservare a questo punto che se gli schemi dei templi greci dati dal Durm sono esatti, si deve dedurre che quegli architetti esageravano rispetto al valore di σ′, ove si consideri che i materiali lapidei non sono atti alle tensioni elevate. Le formule testé scritte dicono chiaramente che, se si vuole costruire un'opera la quale abbia perfetta similitudine con quella di cui parlavamo e sia K volte (K > 1) più grande, è necessario assoggettarsi ad un σ K volte più grande; e lo stesso vale per σ′. Se si vuole evitare un simile risultato, che può profondamente danneggiare la statica dell'opera, bisognerà far crescere d, diametro della colonna; tanto più cresce d, come si vede dalla prima equazione, tanto meno dovrà essere aumentato σ, e d'altra parte anche σ′ ne risente notevole beneficio. Per aumentare le dimensioni dell'opera da cui siamo partiti è necessario alterare il rapporto fra vuoto e pieno, e cioè diminuirlo andando incontro ad un senso di appesantimento estetico. Viceversa se si volessero diminuire le dimensioni (K ⟨ 1) allora σ e σ′ diventerebbero minori di prima e si avrebbe un guadagno dal punto di vista statico che potrebbe essere sfruttato in senso estetico.
La forma più frequente degli archi romani è quella a tutto sesto; l'arco ribassato è usato nelle tipiche finestre termali e negli archi di scarico; molto usata è anche la piattabanda.
Quando il materiale è la pietra da taglio, la struttura dell'arco è generalmente armonizzata con quella dei muri. Archi estradossati troviamo nel teatro di Marcello, nell'anfiteatro di Verona, nel ponte di Augusto sulla Marecchia a Rimini, in quello di Narni sulla Nera, anch'esso di Augusto, con arcata che raggiunse arditamente m. 34 di luce, forse la maggiore toccata dai Romani.
Con l'arco a conci pentagoni si crea il collegamento con la parete: l'arco però è spesso di materiale più resistente, come nella superba muraglia che cinge il Foro d'Augusto e nella porta del templum sacrae Urbis, motivi questi che ritroveremo nella Rinascenza. Specialmente quando l'arco ha immediatamente al disopra l'orizzontale delle cornici, si preferisce far giungere i conci pentagoni fino a tale linea, per lo meno nel gruppo di centro, anziché costruire prima l'arco e poi una soprastante muratura di conci ridotti a dimensioni meschine; si ha cura però di tagliare i conci dell'arco in modo da dare l'impressione di un arco estradossato, così come è fatto nell'arco di Druso a Roma, nell'arco di Caracalla in Tebessa e nel Colosseo; criterî similari furon seguiti negli archi di Augusto in Rimini e in quello dello stesso Augusto in Aosta.
Nelle costruzioni con portici (Tabularium, Basilica Giulia, teatro di Marcello, Colosseo), ed anche negli archi trionfali, le arcate s'impostano direttamente sui pilastri, la trabeazione che inquadra l'arcata è sorretta da metà o da tre quarti di colonna, la quale, nelle facciate a paramento piano (Tabularium, Basilica Giulia, archi di trionfo), rappresenta un ricordo dell'arte greca ed è posta a solo scopo ornamentale, ma nelle strutture in curva (teatro di Marcello, Colosseo) è anche un logico allargamento esterno della base del pilastro in perfetta armonia con lo spostamento del centro delle pressioni dovuto alle spinte non complanari degli archi, distaccati l'uno dall'altro dalla larghezza del pilastro. In alcuni archi di trionfo e nella porta di Adriano ad Adalia (fig. 26) le cornici divengono aggettanti, la colonna è intera e distaccata dal paramento del muro.
L'arco viene anche direttamente impostato sulla colonna: esempî ne abbiamo nella casa di Meleagro e in quella delle Nozze d'argento in Pompei, e poi nel peristilio della corte d'onore del palazzo di Diocleziano a Spalato dove sette archivolti poggiano direttamente sui capitelli, corinzî, delle colonne. Prelude al tipo adottato nelle basiliche cristiane e nelle chiese bizantine; del resto, nei secoli IV e V, i rilievi dei sarcofaghi cristiani ci dànno spesso esempî di arcate in serie impostate direttamente sulle colonne: bellissimo quello ravennate detto di S. Francesco.
Arcate sostenute dalle colonne con l'intermediario di un architrave troviamo nel portico circolare della chiesa di S. Costanza in Roma.
Il motivo architettonico dell'arco che protegge la piattabanda, molto imitato nel Rinascimento, lo troviamo nel teatro di Orange, in quello di Ferento, nel Foro di Augusto, nella accennata porta del templum sacrae Urbis, nella Porta Aurea di Spalato (fig. 29). Del resto alla fine del sec. XII tale motivo è già assai apprezzato, come si vede nella porta che s'apre lateralmente sulla navata della chiesa di Saint Remy-l'Abbaye nell'Oise (fig. 28), e in una porta laterale della navata della chiesa di Cinqueux nella diocesi di Beauvais (fig. 27).
Gli archi di mattoni sono spesso fatti con laterizî bipedali, ma si hanno anche esempî di mattoni cuneiformi usati per adottare strati di malta uniformi e di piccolo spessore. Quando si ha bisogno di grandi resistenze, si suole ricorrere a sovrapposizione di archi: si hanno così anelli doppî e tripli come si vedono nel Pantheon e a Treviri.
Talvolta, in analogia a quanto fu accennato per la costruzione dei muri, si distingueva l'opera di paramento in vista da quella interna: nel paramento esterno si ha un vero arco di mattoni, in quello interno un getto di calcestruzzo intramezzato da mattoni bipedali o sesquipedali in modo da ottenere archi di conci monolitici separati da mattoni che stanno lì quasi a guida delle pressioni interne (G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani Roma s. a.) e ad evitare il prevalere della sollecitazione di flessione. Altre volte la pietra da taglio si alterna con i conci di getto.
Nelle costruzioni edilizie romane troviamo adottato costantemente l'arco di scarico: nelle case di Ostia si notano piattabande o gruppi di piattabande protette da archi di scarico annegati nella muratura; e così nella basilica di Massenzio. E gli archi di scarico sono anche usati per concentrare azioni in punti determinati; ne abbiamo un esempio notevole nel muro circolare del Pantheon e nella citata basilica di Massenzio.
Non è infrequente poi che là dove si trovano architravi alla greca sia mascherata o nascosta la piattabanda, come avviene nel Tabulario, nella Porta Maggiore, nel Foro Traiano o che le trabeazioni, come nel Pantheon, siano protette da sovrastanti piattabande nascoste nel fregio.
Arcate sostenute da mensole troviamo nei balconi delle case di Ostia; arcatelle a tutto sesto, contigue, a serie, sorrette da colonnine poggianti su mensole nel palazzo di Diocleziano in Spalato, sopra la Porta Aurea (fig. 29); e molti motivi del periodo romanico si sono ispirati a questi esempî.
L'architettura della Roma imperiale, adunque, è l'architettura dell'arco e della vòlta, fatta di elasticità e di arditezza, di conquista degli spazî, di dominio delle spinte. In essa spesso l'elemento di sostegno, il pilastro, è sollecitato meno dell'elemento arco.
Caduto l'Impero, la costruzione dell'arco comincia a segnare un regresso: nei ponti costruiti dal sec. V al XI si adotta spesso l'arcata ogivale ma non a struttura spingente, sibbene con le zone di conci inferiori, e anche con quelle intermedie, per sovrapposizione: ritornano in sostanza le sagome ad ogiva delle tholos.
Solo nel sec. XII riappaiono le arcate ardite a tutto sesto e anche a sesto ribassato. Ma nell'Europa, intanto, l'architettura aveva subito un profondo mutamento. Il cristianesimo, che dapprima elabora solo superficialmente le strutture romane, e riesce poi, negli otto secoli successivi alla caduta dell'Impero, a dare un contenuto alle forme, ad imprimere loro una spiritualità tutta propria, s'incrocia, nel S. e SO. della Francia, nelle zone meridionali e della costa tirrenica d'Italia all'architettura dell'Islam che cede alcune forme strutturali e decorative. E dall'architettura romanica, la quale non poteva rappresentare se non uno stadio di transizione, un'epoca preparatoria, presto si giunge al gotico che segna il trionfo dell'arco e della vòlta. Si ritorna allo studio delle strutture spingenti, s'incanalano le loro azioni, si creano cioè le nervature; si vuole lanciare la vòlta verso il cielo, si vuole abbandonare la tozza impostatura romana delle vòlte sulle murature solide, e per riequilibrare le potenti spinte si crea l'arco rampante. La storia della costruzione gotica "è quella della nervatura e dell'arco rampante" (figg. 30, 31,32) afferma lo Choisy; e il Viollet-le-Duc osserva che "l'arco rampante è l'espressione più franca e potente del costruttore del Medioevo". Forse neanche l'arco rampante fu ignorato dai costruttori romani come sembra sia riuscito a stabilire il Giovannoni (terme di Diocleziano, basilica massenziana). Del resto esso, logicamente, non è altro che la riduzione alla sagoma esterna di un contrafforte inclinato, un alleggerimento per mezzo di un vuoto.
Il Rinascimento e il Barocco rielaborano le forme dell'architettura romana, ma in fondo non vi apportano grandi perfezionamenti; con tutto ciò gli archi dei ponti tendono ad avere luci notevolmente più grandi di quella del ponte di Narni: p. es. il ponte di Verona sull'Adige (1354) con una delle arcate di m. 48,70, quello di Trezzo sull'Adda, costruito da Bernabò Visconti (1377), distrutto quarant'anni dopo dal Carmagnòla, con luce di m. 72,25, il ponte della Vieille Brioude (1454) con luce di m. 54,20. Per sorpassare la luce del ponte di Trezzo bisogna giungere al 1902, quando fu costruito dal Séjourné il ponte ad arco ribassato di Lussemburgo, di 84 m. di luce; al ponte di Salcano, con arcata di 85 m.; a quello di Plauen in Sassonia, di m. 90. Il recentissimo Ponte della Caille nell'Alta Savoia (presso Cruseilles), del tipo Freyssinet, non è di muratura normale, ma ha l'arco di calcestruzzo cementizio non armato e la sua luce è di metri 139,80, essendo calcolato con sollecitazioni unitarie di 70 kg./cmq.
Ma i ponti moderni ad arco oltre che di calcestruzzo armato sono anche di ferro e di acciaio: sul Mississippì (St. Louis) un ponte a tre luci pressoché uguali ha l'arcata maggiore di metri 158,50 (1874); sul Douro a Porto un ponte ha l'arcata di m. 172,50 (1886); il viadotto del Viaur ha la luce centrale di metri 221,30 (1902). Va ricordato il ponte Alessandro III, ad arco con tre cerniere, gettato sulla Senna nel 1900, con una luce di m. 107,50: l'arco è formato da conci di acciaio colato.
Questi ardimenti non sarebbero stati possibili prima che fosse stato risolto il problema del comportamento statico dell'arco.
Quantunque i Romani facessero un uso così sapiente di questa struttura e i maestri comacini nel tardo Medioevo avessero fama di abilissimi costruttori di ponti, pure il comportamento statico dell'arco costituì un segreto ermetico ed inviolabile fino a ben oltre la metà del sec. XIX. Infatti sul principio del sec. XVIII Lahire (1712) tentò una valutazione della spinta esercitata da un arco sulle spalle, e la sua teoria fu più tardi perfezionata dall'Eytelwein (teoria del cuneo). Coulomb (1773) volle approfondire la questione, mostrando che oltre allo scorrimento relativo dei conci bisogna tener conto anche della rotazione, e creò la teoria dell'equilibrio limite; ma se ciò costituì un progresso, esso fu piuttosto teorico che pratico. Ai tentativi del Navier per valorizzare tale teoria dal punto di vista costruttivo, seguirono, nel 1828, le ricerche del Méry, il quale poté dare un'interessante costruzione grafica della curva delle pressioni, perfezionando anche i suoi presupposti, negli Annales des Ponts et Chaussées del 1840. Qualche anno prima (1833) Moseley aveva tentato di togliere l'indeterminazione nel tracciamento della curva delle pressioni adottando il cosiddetto principio della minima resistenza.
Con tutto ciò il segreto non poteva dirsi ancora violato; nemmeno quando lo Schefler (1857) enunciò una teoria sulla rottura degli archi basandosi sul principio di Moseley; nemmeno quando il Dupuit tentò di precisare il giunto dell'arco in cui la rottura stessa deve avvenire, e definire la parte della struttura che deve essere considerata come vero e proprio arco distinguendola dall'altra che deve comprendersi nelle spalle. Solo dopo la pubblicazione dei teoremi sul lavoro di deformazione dei sistemi elastici, dovuti agli italiani L.F. Menabrea ed A. Castigliano, il problema dell'arco può considerarsi risolto.
Così considerato, come un sistema elastico iperstatico, l'arco offre una semplicità teorica che eguaglia quella di tutti gli altri sistemi iperstatici: e nemmeno dal punto di vista pratico presenta gravi difficoltà di soluzione.
Tuttavia la costruzione del Méry, per lo studio sommario e preliminare degli archi di sensibile spessore, simmetricamente caricati, e anche per l'esame statico di molte costruzioni a vòlta, non è stata del tutto abbandonata ed è per questo che qui vi si accennerà brevemente.
Si abbia un arco simmetrico e simmetricamente caricato rispetto all'asse γ (fig. 34). Dividiamolo in conci e segniamo anche la parte dei carichi che a ciascun concio corrisponde. Nella scala del disegno, AD rappresenti lo spessore in chiave, BC quello all'imposta. Per la detta simmetria la parte destra dell'arco agirà su AD con azione orizzontale incognita, Q. Se si osserva da un lato che in chiave gli archi tendono ad aprirsi con fenditura dall'intradosso verso l'estradosso, se si vuole che il concio nella sezione AD sia totalmente premuto, è necessario che la Q passi non oltre il limite superiore del terzo medio dello spessore AD. Per il giunto BC, d'imposta, la fenditura tende invece a formarsi dall'estradosso all'intradosso, e se vogliamo che anche la sezione BC sia totalmente premuta, l'azione di spinta sulle spalle non deve passare oltre il limite inferiore del terzo medio di BC. Se supponiamo anzi che Q ed S, incognite, passino veramente per tali punti limiti, restano definite in modo unico le dette azioni ed anche la curva delle risultanti sui letti dei varî conci (curva delle pressioni) in cui l'arco si è supposto diviso. Infatti la Q incontra la risultante R di tutti i carichi (murature, peso proprio dell'arco, sovraccarichi accidentali), in un punto O per il quale deve anche passare, perché si verifichi l'equilibrio, anche la S, di cui pertanto resta determinata la direzione. In una certa scala, A′ B′, verticale, rappresenti la R, nota; se da A′ conduciamo una orizzontale, cioè la parallela a Q, e da B′ la parallela ad S, otteniamo in C′ A′ la rappresentazione della grandezza di Q nella scala stabilita più sopra ed in C′ B′ quella di S. Abbiamo così ottenuto i valori delle azioni che sollecitano la sezione AD e la sezione BC. Per avere la curva delle pressioni componiamo la Q con i pesi che gravitano sul primo concio e con il peso proprio di questo: si ha una risultante che ci darà l'azione che sollecita il letto fra il primo concio e la chiave. Questa risultante composta ancora con i pesi gravitanti sul secondo concio e con il peso di questo dà luogo a una seconda risultante che rappresenta anche l'azione sul letto fra il terzo e il secondo concio; e così via. Si ottiene una spezzata che è tanto più prossima alla curva delle pressioni, alla quale si mantiene tangente, quanto più numerosa è la divisione dell'arco in conci. La stabilità dell'arco si dirà assicurata: 1. se tale curva sí sviluppa entro il terzo medio dell'arco, segnato in figura; 2. se la pressione unitaria massima che si verifica nei varî conci resta minore o eguale al carico di sicurezza alla compressione del materiale. Nella sezione AD la sollecitazione unitaria massima è, detta a la larghezza dell'arco,
Se la curva dell'arco è tale che la spinta in chiave Q preme ad una distanza maggiore dell'imposta, allora è evidente che la spinta S tenderà ad avvicinarsi alla verticale; si comprende all'ingrosso come nell'architettura gotica con l'arco ogivale e i pinnacoli bastassero esili pilastrini e nervature per arcate importanti.
Pur avendo aumentato di molto le luci, i moderni hanno diminuito lo spessore degli archi: nei ponti di muratura il rapporto fra la grossezza in chiave e la luce era presso i Romani in media o,o8 a 0,09; oggi si è scesi a 0,04 ed anche a 0,03, cioè a meno della metà, cosicché il rapporto fra vuoto e pieno è cresciuto da 1,43 a 2,18 (L. Lanino, Corso di costruzioni stradali e idrauliche, Torino 1898-99). Tale spessore in chiave fu dal Perronet dato con espressioni lineari rispetto alla luce dell'arco; ma furono presto trovate esagerate per le grandi aperture, ed il Dupuit propose l'espressione
secondo che si tratti di archi ribassati o di archi a tutto sesto. Ma in queste formule non trova affatto riscontro il tipo del ponte, cioè il tipo di carico che insiste sull'area e il ribassamento; perciò Croizette-Desnoyer propose espressioni più complesse:
dove ρ è il raggio del cerchio che ha la stessa corda e la stessa freccia; α in media è 0,15, e β circa 0,13, crescendo man mano che si va verso l'arco a tutto sesto.
Altrove saranno trattate più minutamente le questioni che si riferiscono alla statica dell'arco elastico; qui possiamo concludere, sulla scorta di quanto è stato detto sopra, che questo elemento strutturale che ha permesso ai costruttori antichi e moderni di superare e di vincere sempre più arditamente gli spazî, ha avuto funzioni d' importanza fondamentale nell'architettura romana, potente e grandiosa, e in quella gotica dominata dall'impeto lirico, nelle due architetture cioè con cui l'uomo meglio ha dimostrato di essere il dominatore e il plasmatore della materia rendendola obbediente ai dettami dello spirito. Ed anche oggi l'eleganza architettonica delle grandi ardite arcate del Freyssinet ci rende giustamente orgogliosi di questa padronanza che solo l'arco può consentire al costruttore.
Bibl.: A. Choisy, L'art de bâtir chez les Romains, Parigi 1875; id., Histoire de l'Architecture, Parigi 1899; G. Gelati, Nozioni pratiche ed artistiche di Architettura, Torino 1899; C. Guidi, Lezioni di scienza delle costruzioni, II e IV, Torino 1924; O. Marucchi, Éléments d'archéologie chrétienne, III, Parigi 1909; A. Auric, Ponts en maçonnerie, Parigi 1911; A. Vierendeel, Cours de stabilité de constructions, IV, Lovanio 1920; A. F. Jorini, Teoria e pratica della costruzione dei ponti, Milano 1921; G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921; A. Föppl, Vorlesungen über technische Mechanik, Lipsia 1922; O. Marucchi, Man. d'archeologia cristiana, Roma 1923; A. Venturi, L'architettura del Quattrocento, Milano 1923; G. Gay, Ponts en maçonnerie, Parigi 1924; G. Giovannoni, Elementi di fabbriche, Roma 1926; C. Levi, Trattato teorico-pratico di costruzioni, II, Milano 1929; G. A. Breymann, Trattato generale di costruzioni civili, 2ª edizione ital., I, Milano s. a.; C. Ceradini, Meccanica applicata alle costruzioni, Milano s. a.; J. Durm, Die Baukunst der Römer, in Handb. der Archit., II, parte 2ª; G. Misuraca, La tecnica del fabbricare, II, Milano s. a.; Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l'Architecture française du XI au XVI siècle, Parigi 1867-75; Perrot e Chipiez, Histoire de l'art dans l'antiquité, Parigi 1882-1903.
Archi trionfali e onorarî.
Epoca romana. - L'arco ebbe presso i Romani anche una funzione puramente estetica, essendo di per sé un elemento eminentemente decorativo. Una grande porta arcuata, anche semplicissima, che si apra nel pieno di un muro di cinta, lo ravviva enormemente. Un ponte, un acquedotto, una qualunque serie di arcate impostate su di un allineamento di pilastri o di colonne costituiscono scenarî di straordinaria pittoricità. I Romani adottarono l'arco come elemento costitutivo nelle facciate esterne (e, quando la situazione si prestava, anche nelle interne) dei più svariati generi di edifici: nei portici, nelle basiliche, nei teatri e negli anfiteatri, nei circhi, nelle terme, nei ninfei, ecc. E siccome le strutture, per così dire, di involucro di molti dei sopra elencati edifici presentassero due o più ordini di arcate. Generalmente, in questi casi, le arcate s'impostavano su poderosi pilastri. Questi non di rado si presentavano nella semplicità della loro struttura organica, come nei ponti e negli acquedotti, e anche in alcuni edifici monumentali, come il Foro d'Augusto; ma più frequentemente erano muniti di soprastrutture, e precisamente di mezze colonne, che sorreggevano trabeazioni al di sopra della linea degli archivolti. Il sistema dell'arco impostato direttamente sulle colonne, del quale le prime sporadiche applicazioni sembra siano quelle che s'incontrano nell'Ephebeion di Priene e, in Italia, a Pompei, non ebbe un vero sviluppo durante l'epoca strettamente classica. Esso riuscì ad affermarsi soltanto assai più tardi (palazzo di Diocleziano a Spalato, S. Costanza a Roma, ecc.).
Il largo uso dell'arco non si riscontra soltanto negli edifici di Roma. Dovunque i Romani innalzarono monumenti, s'incontrano costruzioni arcuate. Esse costituiscono la più spiccata impronta della romanità nell'architettura delle più lontane provincie dell'Impero e nelle stesse città della Grecia e del mondo ellenistico (dell'Asia Minore e della Siria), che pure vantavano splendide tradizioni architettoniche.
Ma l'architettura romana, oltre all'aver dato all'arco il massimo sviluppo, facendone il massimo uso e anzi il massimo sfoggio, e adottandolo, si può dire, in tutte le sue creazioni di carattere monumentale, presenta per la prima volta questo tipo di costruzione nella funzione particolarissima di monumento trionfale e onorario. È persino superfluo avvertire che in questo caso, quando si parla di arco, non s'intende più soltanto l'arco vero e proprio, bensì tutto l'edificio di cui esso non è che una parte; tanto è vero, che si è dato il nome di arco persino a quell'edificio dedicato a Settimio Severo e detto arco degli Argentarî, sebbene abbia l'apertura architravata. Ma questa è un'eccezione. Quanto alla storia, si sa con certezza che fin dal principio del secondo secolo avanti l'era volgare si costruivano archi trionfali in pietra, chiamati fornices; si ricordano quelli di Lucio Stertinio (Liv., XXXIII, 27) e di Scipione l'Africano (Liv., XXXVII, 3). Ma quale ne fu l'origine?
Come in passato non si dubitava dell'origine etrusca dell'arco in genere, così, fino ad una quarantina d'anni or sono, era fuori discussione la piena e assoluta romanità dell'arco trionfale e onorario. Questa vecchia opinione, che rimonta ai dotti del sec. XVI, quali il Fabricius e il Rosinus, ha continuato ad avere anche recentemente dei sostenitori nel Caristie, nel Guadet e nel Durm; ma nel frattempo si è fatta sentire qualche autorevole voce in contrario. Ha cominciato il Graef a sostenere l'ipotesi della derivazione dell'arco trionfale e onorario dalle porte e dai tetrapili delle città ellenistiche. Tuttavia solo dal punto di vista formale il Graef si riferisce ai modelli ellenistici; ché, quanto al concetto, egli non mette neppure in discussione che sia d'origine romana. Lo ha seguito il Puchstein, il quale, ravvisando nell'arco trionfale la forma di una porta, pensa che esso avesse un duplice scopo: quello di far passare la gente attraverso il fornice, o i fornici, e quello di servire da basamento alle opere statuarie che lo sormontavano. La stessa idea del duplice scopo, che del resto già esplicitamente, ma non esattamente, aveva manifestato Plinio il vecchio nella sua Naturalis Historia (XXXIV, 27: columnarum ratio erat attolli super ceteros mortales, quod et arcus significant novicio invento), con più o meno varie modificazioni è stata accolta dal Löwy, dal Hülsen e dal Nilsson.
Il primo di questi autori, che già aveva messo completamente da parte Roma e l'Italia per sostenere la tesi che l'origine di tali costruzioni dovesse ricercarsi in Alessandria, è tornato ora sullo stesso argomento e, pur tralasciando d'insistere su quel preteso luogo d'origine, ricorda la porta presso la stoà Pecile di Atene, sormontata da un trofeo (Pausania, I, 15,1), come esempio di un tipo di costruzione che avrebbe potuto dare lo spunto all'arco trionfale romano. Lo Hülsen, rilevata la priorità del termine arcus triumphalis e la circostanza che dagli scrittori dell'età repubblicana non risulta un rapporto tra l'arco e il trionfo, nega addirittura che tale rapporto sia originario; se da lungo tempo si costruivano archi, essi tuttavia non avrebbero avuto nulla in comune con i trionfi; solo successivamente gli archi sarebbero serviti da basamenti per statue onorarie; e la sovrapposizione delle basi di statue onorarie all'arco sarebbe avvenuta per la prima volta nella Sicilia o nella Magna Grecia. (Ipotesi, questa, che parrebbe avvalorata dall'attestazione di Cicerone, Verr., II, 2,154, che intorno al 70 a. C. esisteva in Siracusa un arco innalzato in onore di Verre). Rimane infine da accennare all'opinione del Nilsson, il quale, invece di pensare alla sovrapposizione della base all'arco, si spiega la formazione dell'arco attraverso il basamento a colonne abbinate sul tipo di quelli che sono stati trovati a Delfo.
Dopo la minuziosa monografia del Graef, dobbiamo gli studî più notevoli sugli archi trionfali e onorarî agli italiani Spano e Patroni, e al tedesco Noack. Quello, non più recentissimo, dello Spano è anch'esso pur troppo inquinato dal miraggio ellenistico.
L'autore ammette, con il Graef, la derivazione degli archi dalle porte (quelli a due fronti) e dai tetrapili (quelli a quattro fronti); ma l'ammette solo in parte. In special modo s'indugia a porre in vista l'importanza che, nella formazione degli archi trionfali e onorali, avrebbero avuto i propilei ellenistici. Pur non nascondendosi le difficoltà che incontra la teoria della trasformazione del propileo in arco (soprattutto per il fatto della diversità organica di struttura, in quanto i propilei sono generalmente architravati e la trabeazione poggia su colonne o pilastri, mentre negli archi romani l'analoga struttura non è che una soprastruttura, e l'arco vero e proprio non ha nulla in comune con l'architrave e le colonne, e il suo archivolto sta al disotto della trabeazione e le imposte più al di sotto ancora), tuttavia lo Spano riesce a rintracciare esempî di propilei o di analoghe costruzioni, con l'arco impostato sulle colonne o sui pilastri, e vi ravvisa i prototipi genuini dell'arco romano. Anche tra gli archi trionfali e onorarî romani nota un certo tipo rappresentato dall'arco di Saintes, dai due che fiancheggiano il tempio di Giove a Pompei e da quello posto all'ingresso meridionale della città di Thibilis (Annuna), in Algeria; nel qual tipo l'arcuazione è, in realtà, egualmente impostata sui piloni, ma, in apparenza, sulle colonne soprastrutturali. Lo Spano conclude dichiarandosi d'avviso che la trasformazione sia avvenuta nella Siria, senza esclusione di qualche altro luogo.
Le argomentazioni dello Spano sono molte ingegnose, ma non altrettanto convincenti. Egli non si è curato di appurare se per caso l'origine dell'arco trionfale e onorario romano non fosse molto anteriore al tempo in cui sarebbe avvenuta la pretesa evoluzione; non tien conto che l'arco di Saintes è del tempo di Tiberio e che quelli di Pompei e di Thibilis difficilmente possono essere più antichi; parla di certi esempî che offre Pompei, come se questa città non stesse in Italia e nell'ambito della civiltà romana; si riferisce a qualche rilievo cosiddetto ellenistico, che, viceversa, è dell'epoca romana inoltrata e risente dell'influenza dell'architettura romana; e fa troppo assegnamento su qualche costruzione arcuata dell'Oriente ellenico, la quale, dato pure che non ci sia luogo a dubbî sulla cronologia, non manca per questo di essere sporadica e come tale di scarso peso in confronto con la grande massa dei monumenti romani.
La tesi dell'origine ellenistica, in qualunque modo sostenuta, non è passata senza contrasto. Già da tempo si notava qualche reazione; per esempio, da parte della Morpurgo, sebbene della questione relativa all'origine dell'arco trionfale si occupasse solo per incidenza, e poi da parte del Frothimgham, per il quale l'antichissima origine romana dell'arco trionfale evidentemente deve intendersi come assiomatica, se egli pensa che sia derivato dai tanti giani, o archi isolati, che in epoca molto remota sarebbero sorti fuori della cinta di ciascuna tribù e poscia scomparsi, quando con lo stabilirsi dell'unica cinta serviana, l'arco di Roma per eccellenza, cioè la porta triumphalis, collocata - secondo lui - a cavaliere della Via Flaminia, al Campo Marzio, avrebbe sostituito tutti quegli altri. Recentemente si è aggiunto anche il von Gerkan, il quale opportunamente osserva che le grandi porte monumentali arcuate non hanno precedenti nel mondo ellenico, fatta eccezione dell'unico esempio offerto dall'agorà di Priene, che è del sec. II a. C. Ma chi veramente di questa reazione si è fatto strenuo antesignano è il Patroni. Basta considerare che egli non solo fa sua la vecchia idea dell'identità strutturale di arco e di porta, sostenuta anche dal Puchstein, ma aggiunge che, stante la forma arcuata dei fornici negli archi trionfali, il confronto va fatto con le porte analogamente arcuate, che sono una pretta creazione dell'architettura etrusco-romana (o, piuttosto, italica, come genericamente preferiamo dir noi), per comprendere come il Patroni sia un reciso sostenitore dell'assoluta romanità dell'arco trionfale: romanità di sviluppo e romanità anche di origine. E sostanzialmente, pur attraverso una via del tutto diversa, agli stessi risultati è arrivato anche il Noack, il quale, d'accordo con il Rostowzew e con il Domaszewski, ravvisa nella pompa trionfale un carattere religioso, che avrebbe, a suo avviso, lontane radici etrusche, e, contro l'opinione del Hülsen, non concepisce l'arco trionfale distaccato dal trionfo, donde la conclusione che l'origine dell'arco trionfale non può cercarsi che in Roma.
Facciamo le debite riserve sul modo d'intendere le radici etrusche (ripetiamo che è una inesattezza considerare gli Etruschi dell'Etruria come alcunché di etnicamente del tutto diverso dall'insieme delle popolazioni italiche, delle quali facevano parte anche i Romani), e torniamo allo studio del Patroni per dichiarare che non si può non essere, in molti punti, di pieno accordo con lui. Il fatto dell'identità della struttura dell'arco con la porta, e più precisamente con la porta arcuata, è veramente essenziale nella questione dell'origine dell'arco trionfale romano; i trofei, le quadrighe, le statue sono elementi del tutto accessorî, che esulano dal campo strettamente architettonico per entrare in quello della decorazione. Nulla, poi, di più infondato che supporre l'arco trionfale ed onorario romano derivato dai propilei e dai tetrapili delle città ellenistiche. Se i Romani si fossero ispirati ai propilei ellenistici (ingressi monumentali a luoghi chiusi, come l'agorà e simili), difficilmente li avrebbero concepiti come edifici isolati; se si fossero ispirati ai tetrapili (edifici a pianta quadrata, con passaggio incrociato, posti sui crocicchi di due vie intersecantisi ad angolo retto), fin dal principio avrebbero dato agli archi trionfali quella struttura a pianta quadrata e a quattro fornici che vennero usati alquanto più tardi in alcuni casi, di cui ci dànno esempî l'arco di Marco Aurelio a Tripoli, e quello di Caracalla a Tebessa (fig. 35), il cosiddetto Giano quadrifronte al Foro Boario, ecc. Tutt'altro che inattendibile sarebbe l'opinione che l'arco trionfale in pietra sia stato preceduto da una più antica costumanza: quella, cioè, di erigere in occasione di trionfi o di altre solennità armature provvisorie (presumibilmente in legname) a foggia di porte e in un modo o in un altro addobbate. Se non che, anche senza tener conto del significativo silenzio delle fonti antiche in proposito, non abbiamo bisogno di pensare a tutto questo. Se è giusta l'osservazione che l'arco trionfale e onorario, in ultima analisi, non è che una porta, per quanto distaccata dal muro, e se è vero che con l'antico costume romano dei trionfi accordati a generali vincitori si connette strettamente la Porta Trionfale, attraverso cui essi entravano nella città, nulla di più ovvio del supporre che proprio questa porta abbia suggerito l'idea delle prime porte isolate, veramente simboliche, che sono appunto i primi archi trionfali.
Ma, tutto ciò premesso, conviene aggiungere subito che anche il diligente studio dello Spano contiene delle vedute accettabili. Ha ragione l'autore di richiamare l'attenzione sul fatto che il numero degli archi incorporati in mura di cinta (di città e di altri luoghi chiusi) è assai considerevole. Certo bisogna distinguere, poiché non si possono considerare questi casi tutti alla stessa stregua. Sarebbe, per esempio, arrischiato il confronto dell'arco di Augusto a Perugia con l'ingresso monumentale di un'agorà ellenistica, per sostenere che l'arco romano deriva dai propilei ellenistici. Ma diverso è il caso in cui un arco trionfale è posto a far parte integrante di un complesso monumentale a struttura simmetrica e organica, quale è stato, per esempio, il Foro Traiano. In questo caso l'affinità con l'agorà ellenistica sussiste effettivamente. Ma è chiaro che qui (salvo certe forme esteriori sulla cui dipendenza dall'architettura greca non si discute), non è in giuoco la specifica derivazione dell'arco romano dai propilei ellenistici, sibbene tutto un indirizzo dell'arte edilizia determinato dal gusto per le sistemazioni organiche, simmetriche e pittoresche insieme, indirizzo al quale abbiamo dato altrove il nome convenzionale di architettura ippodamea e che rimonta all'Oriente antichissimo. Ma forse ciò non basta. Mentre, fin qui, l'influenza ellenistica si limiterebbe semplicemente alla collocazione, c'è un genere di archi in cui crediamo di poter ammettere quest'influenza anche nella struttura: nei giani quadrifronti. Dalla loro stessa seriorità ci sentiamo autorizzati a pensare che i tetrapili, caratteristici delle città ellenistiche siano stati presi effettivamente a modello, sia pure soltanto nei riguardi della forma generale dell'edificio (a quattro fronti) e dell'idea del passaggio incrociato.
Non sempre si può fare una netta distinzione fra archi trionfali e archi onorarî. Certo è che gli archi di trionfo sono al tempo stesso onorarî, mentre non tutti gli archi onorarî sono di trionfo. Ma, se risponde al vero quanto abbiamo ritenuto essere più probabile rispetto alla loro origine, l'arco di trionfo indubbiamente deve aver preceduto quello semplicemente onorario. L'uso dell'arco di trionfo con ogni probabilità risale a tempi alquanto remoti; ma dall'inizio dell'èra imperiale divenne sempre più frequente. Va poi osservato che, accanto agli archi trionfali e onorarî veri e proprî, si sogliono comprendere nella serie anche talune porte di città, talune arcate di acquedotti, e simili, che a rigore non ne dovrebbero far parte.
Il Graef annovera complessivamente 125 archi in vario stato di conservazione, tuttora esistenti: 10 in Roma, 20 nel resto dell'Italia, 14 in Francia, 1 in Germania, 6 in Spagna, 54 in Africa, 20, complessivamente, distribuiti tra la Grecia (con le regioni circonvicine) e l'Asia. Ora bisogna aggiungerne altri due in Italia e poi quello di Olimpia, un altro a Corinto e i residui di un terzo a Leptis Magna (fig. 36). Noi ci limiteremo a dare un elenco di quelli di Roma, delle altre città d'Italia e dell'Africa italiana.
Gli archi di Roma sono quelli: 1. di Dolabella, 2. di Druso, 3. di Claudio (Porta Maggiore), 4. di Tito, 5. di Settimio Severo al Foro Romano, 6. di Settimio Severo al Foro Boario (detto degli Argentarî), 7. di Gallieno, 8. di Costantino, 9. il Giano quadrifronte al Foro Boario, 10. la Porta Tiburtina. Aggiungiamo anche 11. l'arco di Malborghetto (presso Civita Castellana).
Le altre città d'Italia che si adornano di archi romani sono: Ancona (con l'arco di Traiano), Aosta, Aquino, Benevento (con l'arco di Traiano), Carsoli, Fano, Perugia (che oltre al menzionato arco di Augusto ha pure la Porta Marzia), Pola (con l'arco dei Sergii), Rimini, Spello (che ne possiede due), Pompei (che ne possiede due), Spoleto, Susa, Trieste, Verona (che ne possiede tre: dei Gavii, dei Leoni, dei Borsari).
Nell'Africa italiana si trovano i menzionati residui dell'arco di Settimio Severo a Leptis Magna, e il pure menzionato arco di Marco Aurelio a Tripoli.
Comunemente si sogliono distinguere tre tipi di archi trionfali e onorarî: 1. a un fornice con i piloni stretti; 2. a un fornice con i piloni ampliati; 3. a tre fornici, cioè con quattro piloni.
Questa classificazione, in sostanza, corrisponde allo schema di quella proposta dal Graef; ma la classificazione del Graef in realtà è alquanto più complicata. Infatti egli parla di sistemi, e precisamente di tre sistemi principali, rispettivamente rappresentati: 1. dall'arco di Augusto a Susa; 2. dall'arco di Tito; 3. dall'arco di Costantino; e per stabilire questa triplice partizione si vale di molteplici elementi struttivi. E accanto ai suddetti tre sistemi ne riconosce altri tre collaterali, peculiari dell'Africa e rappresentati rispettivamente: 1. dall'arco di Traiano a Mactar; 2. dall'arco di Marco Aurelio a Marcuna; 3. dall'arco di Caracalla a Zanfur. Quanto poi agli archi a pianta quadrata, il Graef li riferisce al primo o al secondo dei due principali sistemi, a seconda della loro maggiore o minore semplicità o della loro maggiore o minore complessità; cosa, invero, alquanto strana, ma che si spiega col preconcetto della derivazione degli archi dalle porte e dai tetrapili ellenistici.
Noi pensiamo che una prima distinzione degli archi trionfali e onorarî si debba istituire tra quelli a due fronti principali (non importa se le fiancate siano piene o se contengano, come nell'arco dei Gavii a Verona o nell'arco di Settimio Severo al Foro Romano, delle aperture), che sono di origine più antica e sono di gran lunga più numerosi, e quelli a quattro fronti o a pianta quadrata; e ciò tanto più ragionevolmente, in quanto gli archi a quattro fronti rappresentano un tipo di edificio che, nella sua forma, differisce notevolmente dai primi e nel quale, come si è già detto, si può ammettere l'influenza di un tipo esotico. A una successiva suddivisione si presta il primo gruppo, in quanto comprende a sua volta due tipi principali: a un sol fornice e a tre fornici. Un'altra suddivisione ancora è giustificata dall'esistenza di quelli (per quanto poco numerosi) che hanno l'arco o gli archi apparentemente impostati sulle colonne soprastrutturali (tipo Saintes). Tutte le altre specie di archi - a due o a quattro fornici, a due o a più piani, a pianta irregolare, come quello di Palmira, ad apertura architravata - non sono che casi più o meno sporadici, i quali si sottraggono a una classificazione sistematica. Solo in un secondo tempo è opportuno stabilire, in ciascuna categoria, una graduatoria dagli esemplari più semplici ai più complessi, nei riguardi sia delle soprastrutture, sia delle ornamentazioni plastiche.
Nei più semplici, le soprastrutture si riducono al minimo. Se osserviamo, ad esempio, l'arco di Augusto a Perugia, che, per quanto inserito nelle mura di cinta della città (e nonostante la sovrapposizione di un secondo arco, dal quale, per la questione che in questo momento ci interessa, prescindiamo completamente), non manca di essere istruttivo, troviamo che l'arco vero e proprio, costituito da tre filari concentrici di cunei, s'imposta direttamente sui piloni, senza alcuna sagoma sporgente al punto di attacco; le modanature dell'edificio si riducono alla rientranza frontale, a gradini, dei due filari interni per modo che il terzo forma come la cornice dell'archivolto, ma la cui maggiore sporgenza si mantiene sullo stesso piano frontale dei piloni stessi; alla rientranza del campo compreso tra l'intradosso dell'archivolto, le sopraelevazioni dei piloni nelle parti che, a guisa di pilastri, fiancheggiano l'arco vero e proprio, e il fregio di coronamento, che, a guisa di architrave, poggia sulle dette sopraelevazioni pilastriformi e consiste in una serie di tozzi pilastrini e scudi a rilievo, alternati. Quasi altrettanta semplicità presentano l'arco di Traiano ad Alcantara (Spagna) e quello di Lucio Pompeio Campano a Aix-les-Bains (Savoia). Il primo è tutto bugnato ed ha i piedritti ravvivati da sagome sporgenti sotto le imposte; il secondo, oltre alle medesime sagome dei piedritti, ha i piloni inquadrati da pilastri veri e proprî, che sorreggono un'ampia trabeazione, a sua volta sormontata da un attico. Alquanto più ricco è l'arco di Augusto a Rimini. La sua struttura organica è data da due robusti piloni, i quali, internamente, costituiscono i piedritti su cui è impostato l'arco vero e proprio, mentre esternamente (dalla parte delle testate) si sopraelevano fino alla sommità, fondendosi in un sol blocco massiccio al di sopra del vano arcuato. Ma ecco che alla sporgenza dell'archivolto e alle cornici mensoliformi dei quattro spigoli di piedritti, in corrispondenza dell'imposta dell'arco vero e proprio, si aggiungono altre più vistose soprastrutture: una modesta zoccolatura ai piedi dei piloni e due colonne corinzie per ciascuna faccia addossate alle pareti e sorreggenti un frontone triangolare. In questo modo gli archivolti vengono a trovarsi come incorniciati da una ricca soprastruttura architettonica, che non è essenziale, ma che, insieme ai medaglioni che riempiono il campo presso i capitelli e di cui per ora non ci occupiamo, giova a dare maggior decoro all'aspetto esteriore del monumento. Dall'arco di Rimini non molto differisce quello di Augusto a Susa: l'arcata s' imposta su capitelli corinzî, che sormontano veri e proprî pilastri; gli angoli esterni sono ornati da colonne, sui cui capitelli si stende la trabeazione coronata da un attico. Ma queste soprastrutture architettoniche, che negli archi di Rimini e di Susa sono ancora piuttosto sobrie, in alcuni altri sono invece. più fastose e in altri ancora addirittura esuberanti. Nell'arco di Tito i piloni sono ampli e adornati, ciascuno e per ciascuna faccia, da due colonne corinzie. Sulle colonne si allunga la trabeazione e su di questa s'innalza un attico. Inoltre la chiave dell'arco è sporgente e modellata a volute. Nell'arco di Orange alla struttura a tre fornici si aggiungono: i pilastri fiancheggianti i fornici stessi, le semicolonne sulle testate dei piloni interni (fornice centrale), le colonne quasi isolate agli spigoli esterni dell'edificio, le due semicolonne di ciascuna fiancata; e poi: la trabeazione con i due frontoni in corrispondenza del fornice centrale, l'attico e un sistema di basamenti concatenati al di sopra dell'attico. Sotto l'aspetto della struttura architettonica, molto affine all'arco di Orange è quello di Settimio Severo al Foro Romano, nel quale, ai fornici delle due fronti principali, si aggiungono i due delle fiancate. Se poi passiamo al cosiddetto Giano quadrifronte del Foro Boario, troviamo un edificio, come si è detto, a pianta quadrata, i cui piloni presentano in ciascuna delle quattro fronti due ordini di nicchie: tre per parte nel primo e tre per parte nel secondo, tutte con disposizione simmetrica. L'edificio è presentemente molto mutilato; ma a di sopra dello zoccolo, in origine, sorgevano due ordini di colonnati con rispettive trabeazioni, per cui le nicchie si presentavano in corrispondenza degli intercolumnî. Inoltre sembra che l'edificio avesse una maggiore elevazione, costituita per lo meno da un attico; ma, se si suppone, come da taluni si fa, l'esistenza di un terzo colonnato, è chiaro che questo, trovandosi al di sopra degli archivolti dei fornici, dovesse correre ininterrotto per tutta l'estensione di ciascuna fronte.
Come le soprastrutture architettoniche, così variano le ornamentazioni plastiche. Nell'arco di Augusto, a Rimini, abbiamo visto i medaglioni decorare gli angoli nei riquadri che formano i pilastri con la trabeazione. Segnaliamo ora anche la figura che adorna la chiave dell'arco. Ma già nell'arco di St. Remy alla ricca decorazione floreale degli archivolti si erano aggiunte, al luogo dei medaglioni dell'arco di Rimini, due figure di vittorie alate, simmetricamente disposte (secondo un motivo, che divenne poi uno dei più frequenti) e, inoltre, coppie di figure ad altorilievo in ciascun intercolumnio della facciata. Nell'arco di Orange la decorazione plastica è di una straordinaria esuberanza; ma per la maggior parte è composta di trofei d' armi, che occupano quasi tutti gli spazî disponibili: le composizioni figurate si limitano a qualche parte del fregio, della trabeazione e alla parte centrale dell'attico. Una decorazione analoga si trova nel fregio dell'arco di Tito, il quale in tutto il suo insieme presenta un'assai maggiore sobrietà; ma in compenso offre l'esempio di due grandi riquadri figurati a rilievo, che occupano gran parte delle pareti interne del fornice. Riappare una grande esuberanza di decorazioni plastiche sull'arco di Traiano a Benevento: figura ad altorilievo nella chiave dell'arco; le solite vittorie alate al di sopra dell'archivolto; composizioni a rilievo negli intercolumnî (ciascuna campata è divisa in quattro zone); anche il fregio della trabeazione è tutto occupato da composizioni a rilievo; e altri riquadri con analoghe composizioni fiancheggiano, in ciascuna fronte, la grande targa dell'attico. E non minore ricchezza presenta l'arco di Settimio Severo al Foro Romano: di composizioni ad altorilievo sono ornati gli specchi dei piedritti delle colonne; gli spazî che fiancheggiano gli archivolti centrali portano le consuete figure di vittorie alate, ma sotto di queste campeggiano altre piccole figure in piedi, una per parte; personificazioni recumbenti di fiumi risaltano negli spazî attorno agli archivolti minori; e figure a tutto tondo adornano le volute delle chiavi. Ciascuna delle campate, poi, corrispondenti agl'intercolumnî frontali, è divisa in due sezioni: l'inferiore assai ristretta, la superiore molto più ampia, e tutte occupate da più o meno ricche composizioni figurate. E con l'arco di Settimio Severo, in molti elementi, coincide l'arco di Costantino: si corrispondono, infatti, le decorazioni figurate degli specchi nei piedistalli delle colonne (ma non nel numero delle figure); si corrispondono le figure che fiancheggiano gli archivolti dei fornici e quelle che adornano le chiavi; si corrispondono anche le zone strette degli intercolumnî (che, per altro, nell'arco di Costantino sconfinano a destra e a sinistra); ma nelle stesse campate degl'intercolumnî, al posto dei grandi riquadri trovansi due medaglioni per parte, e, come nell'arco di Traiano a Benevento, le grandi targhe dell'attico sono fiancheggiate da composizioni figurate, ma non semplici, bensì disposte a coppie per ogni lato. Ai lati di queste coppie, in corrispondenza delle colonne, sorgono figure statuarie di prigionieri: elementi questi che appartengono alla categoria appunto delle ornamentazioni statuarie di cui abbiamo fatto cenno, ma che sono andate quasi interamente perdute in tutti gli archi trionfali ed onorarî superstiti, e di cui noi per ora possiamo formarci un'idea attraverso le riproduzioni che di simili monumenti si hanno in monete o in qualche opera in rilievo.
Le decorazioni plastiche, e più precisamente quelle a composizioni figurate in rilievo, non sono esclusive, ma sono certo peculiari degli archi trionfali e onorarî. Siccome generalmente avevano lo scopo di rappresentare determinate cerimonie religiose proprie del culto romano o di celebrare determinati avvenimenti, dei quali il personaggio che si voleva onorare era il protagonista, ne è conseguita in questi casi, per l'arte plastica, la necessità di dover assai spesso rinunziare ai consueti motivi stereotipati, che, per i consueti soggetti di maniera, aveva offerto fin qui l'arte greca, e di tentare invece, con insolite composizioni, la rappresentazione di soggetti insoliti.
Per la rappresentazione di questi soggetti non esisteva, dunque, un ricco repertorio di motivi tradizionali. Quello che offriva l'età pre-imperiale era assai modesto; ma aveva il vantaggio di essere un repertorio fatto in gran parte di soggetti relativi alla storia o alla tradizione locale. Ora il campo di azione si allargava. L'arte figurativa doveva adeguarsi alla maggiore grandiosità delle opere architettoniche destinate ad accogliere le sue composizioni plastiche. In questo modo l'arte storica, e particolarmente il rilievo storico, se certo non per la prima volta entra in scena, tuttavia per la prima volta si afferma in modo decisivo. E così all'arco trionfale ed onorario, solenne applicazione della più originale creazione dell'architettura romana, s'innesta quello che, insieme al ritratto, è anche il ramo più spiccatamente originale e di gran lunga il più interessante dell'arte figurativa romana: l'arte a soggetto storico. Essa certamente ha altri campi di applicazione, in particolar modo nelle colonne coclidi, che all'arte narrativa offrono la possibilità di un più ampio svolgimento; ma, per celebrare i trionfi dei principi e per onorare personaggi della casa imperiale, l'arco rimane il monumento preferito. E poiché gli archi decorati con composizioni figurate a rilievo, che tuttora si conservano, si riferiscono a varie epoche, dalla fine della repubblica all'età costantiniana, essi non solo giovano a far conoscere l'aspetto più caratteristico della scultura romana, ma ci mettono in grado di seguirla quasi senza soluzione di continuità attraverso tutta la sua storia.
Bibl.: Per l'arco trionfale e onorario, oltre al Durm, già citato, G. Fabricius, Roma, Basilea 1551; J. Rosinus, Antiq. rom., Basilea 1583; L. Rossini, Gli archi trionfali e funebri degli antichi Romani, ecc., Roma 1836; A. Caristie, Monuments ant. à Orange, Parigi 1856; J. Guadet, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire d. antiq. grecques et rom., I, p. 391 segg.; T. L. Donaldson, Architectura numismatica, Londra 1859; P. Graef, in A. Baumeister, Denkmäler des klass. Altertums, III, Monaco e Lipsia 1888 (s. v. Triumph- und Ehrenbogen); W. Dörpfeld, Athen. Mittheil., XIII (1888), p. 332 segg. (arco di Olimpia); E. Löwy, Zur Herkunft des Triumphbogens, in Festschrift f. O. Hirschfeld, Berlino 1903, p. 417 segg.; id., Die Anfänge des Triumphbogens, in Jahrb. d. Kunst-historischen Samml. in Wien, n. s., Sonderheft 11; Ch. Hülsen, Zu den röm. Ehrenbögen, in Festschrift f. O. Hirschfeld, p. 423 segg.; Puchstein, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, Stoccarda 1895, col. 603 segg.; A. L. Frothimgham, in Revue arch., s. 5ª, II, (1905), p. 216 segg. (cfr. Amer. Journal of Archaeol., XIX, 1915, p. 155 segg.); G. Spano, L'origine degli archi onorari e trionfali romani, in Neapolis, I (1913), p. 159 segg., 350 segg.; E. Courbaud, Le bas-relief romains à represent. historique (Bibl. des Écoles franç. d'Athènes et de Rome, 81), Parigi 1899; L. Morpurgo, La Porta trionfale e la via dei trionfi, in Bull. della Comm. arch. com., XXXVI (1908), p. 108 segg.; M. Rostowzew, in Röm. Mittheil., XXVI (1911), p. 132, n. 3; A. v. Domaszewski, in Arch. f. Rel. Wiss., XII (1909), p. 72; A. v. Gerkan, Griechische Städteanlagen, Berlino e Lipsia 1924; M. P. Nilsson, Les bases votives à double colonne et l'arc de triomphe, in Bull. de corr. hellén., XLIX (1925), p. 143 segg.; G. Patroni, L'origine degli archi trionfali, in Historia, I (1927), n. 3, p. 3 segg.; F. Noack, Triumph und Triumphbogen, in Vorträge der Bibliothek Warburg, V, 1925-26 (pubbl. nel 1928). Per l'arco di Aquino: G. Giovannoni, in Architettura e arti decorative, VII (1928), p. 332 segg.; per l'arco di Malborghetto: Fr. Toebelmann, Der Bogen von Malborghetto, Heidelberg 1915.
Epoca moderna. - Il tema architettonico dell'arco trionfale viene ripreso nelle epoche nelle quali più vivo risorge lo spirito dell'arte classica, e soprattutto quando lo consentono speciali condizioni politiche. Non è sempre facile distinguere tra porte di città e verî archi di trionfo, tanto più che spesso le prime presentano caratteri architettonici, forme decorative e significato commemorativo tali da confondersi assolutamente coi secondi. Ciò che più particolarmente distingue l'arco di trionfo propriamente detto, oltre che il suo carattere votivo o commemorativo, è l'assenza dei modi di chiusura e l'essere un monumento isolato e senza collegamento con mura.
Il Medioevo non ci ha lasciato esempî di archi trionfali, e neanche il Rinascimento, salvo l'arco di Alfonso d'Aragona in Napoli e quello detto delle Scalette in Vicenza. Però gli artisti di quest'epoca, se non ebbero occasione di costruirne di duraturi, ne innalzarono moltissimi di temporanei e posticci; inoltre molti pittori, dal Ghirlandaio al Perugino, dal Botticelli al Mantegna, ne dipinsero a sfondo delle loro composizioni; oppure, come Leon Battista Alberti o Bramante, s'ispirarono alla maestà degli archi antichi nel disegno delle loro architetture e specialmente nelle facciate.
Di quelli costruiti, l'arco napoletano, elevato verso la metà del Quattrocento per celebrare l'ingresso trionfale nella città (1443) di Alfonso I d'Aragona, venne ideato probabilmente dall'architetto dalmata Luciano Laurana (v.); il quale, se per alcune particolarità architettoniche del monumento dovette ispirarsi all'arco romano dei Sergii in Pola, nell'insieme fece opera originale, soprattutto per il motivo delle due arcate sovrapposte. Però questo bel monumento non può considerarsi un vero e proprio arco trionfale; poiché costituisce l'entrata monumentale all'edificio chiamato Castel Nuovo.
L'arco vicentino, elevato nel 1595 in luogo di uno posticcio innalzato per una festa, è a un solo fornice con attico e statue sovrastanti. I suoi piedritti son decorati con otto colonne corinzie: quattro addossate ad essi ad una ad una da tutte e due le faccie, e quattro agli angoli. La sua attribuzione al Palladio, per quanto non suffragata da testimonianze documentarie, può essere confortata, oltre che dalla tradizione, anche da ragioni stilistiche.
In Francia, specialmente durante il regno di Luigi XIV, lo splendore della monarchia vittoriosa e il forte spirito di classicismo dominante nell'arte, specialmente nell'architettura, crearono condizioni favorevoli all'erezione di un certo numero di porte di città dedicate al sovrano, che per il loro carattere e per essere ora isolate possono venire considerate come veri archi trionfali. A Parigi di queste porte trionfali ne vennero elevate parecchie: quella di S. Antonio, che, iniziata da Enrico II, fu fatta aumentare di due archi da Luigi XIV per opera di Francesco Blondel; quelle di S. Bernardo e di S. Dionigi, pure del Blondel; infine quella di S. Martino (1674) di Pietro Bullet, allievo e collaboratore del Blondel. Solo queste due ultime ci sono rimaste, perché le altre vennero demolite negli ampliamenti stradali dei secoli successivi. La porta di S. Martino è a tre arcate decorate con bozze rustiche;, quella di S. Dionigi ha un solo arco, alto ed armonioso, che si apre in una semplice massa senza ordini architettonici, ma decorati dai magnifici rilievi raggruppati a forma piramidale dell'Anguier e del Girardon. In Parigi sarebbe dovuto sorgere, per opera del Perrault e dedicato a Luigi XIV, un arco grandissimo alla Barriera del Trono, ma non andò oltre le fondamenta. In provincia sono da segnalare la porta del Peyrou a Montpellier, innalzata in ricordo della revoca dell'editto di Nantes, e i due archi di Nancy elevati dallo Stanislas sotto il regno di Luigi XV.
Il Settecento ci ha lasciato in Firenze un buon esempio di arco trionfale, quello di S. Gallo, che venne innalzato in onore di Francesco II di Lorena, allorquando egli, come granduca di Toscana, entrò solennemente nella sua nuova capitale nel 1739. Questo monumento, opera dell'architetto lorenese Giovanni Nicola Iadot, riprende lo schema classico dell'arco di Costantino, distaccandosene però in taluni particolari ed arricchendolo con statue ed ornamenti barocchi.
Il tipo di monumento del quale ci occupiamo è fiorito soprattutto nel periodo neoclassico. Infatti allora sorgono gli archi del Carrousel o della barriera dell'Étoile in Parigi, quello del Sempione o della Pace in Milano e la porta di Brandeburgo in Berlino, veri archi trionfali che vengono elevati in mezzo a grandi piazze, o sull'asse di viali, cioè secondo gl'intendimenti dell'edilizia urbanistica che appunto in tale epoca si andava formando. I due archi parigini e quello milanese sono stati iniziati da Napoleone I, ma non vennero terminati se non in epoca assai più tarda, salvo quello del Carrousel. Venne questo infatti finito sotto il dominio del grande imperatore e rimase a glorificazione sua e dei suoi soldati, le statue dei quali ne sono l'ornamento insieme con bassorilievi rappresentanti le Vittorie contro la terza confederazione. Il monumento è opera degli architetti Percier e Fontaine, e rivela l'imitazione dell'arco romano di Costantino. Pure ispirato alle forme degli archi classici è l'arco milanese, opera geniale di Luigi Cagnola, tra le migliori dell'architettura italiana del suo tempo. Iniziato a celebrazione delle glorie napoleoniche, esso, dopo varie traversie dovute ai rivolgimenti politici dell'epoca, venne inaugurato, con epigrafi e sculture mutate, nel 1838 e dedicato a Francesco I d'Austria pacis adsertori. Sorte simile ebbe l'arco parigino della barriera dell'Étoile che, iniziato sotto Napoleone, fu inaugurato sotto Luigi Filippo dopo aver subito cambiamenti di dedica e di forme, pur rimanendo nelle linee fondamentali quale lo aveva immaginato l'architetto Chalgrin. Esso è ad unica arcata su larghi piedritti, attraversati, come anche nell'altro grande arco parigino, da un passaggio trasversale, sul tipo dell'arco di Settimio Severo a Roma. La sua decorazione non è architettonica, ma consiste soprattutto nei grandi gruppi scultorei tra i quali il più celebre è quello del Rude. Questo monumento è notevole anche per le sue enormi dimensioni che lo fanno il più grande fra tutti del suo genere (è alto m. 49,50 e largo m. 45).
In Germania esiste a Berlino la già ricordata porta di Brandeburgo, opera del Langhars, e a Monaco la porta della Vittoria, fredda e povera copia fatta da Federico von Gärtner dell'arco costantiniano. La prima invece, pur ispirandosi ai Propilei, per grandiosità di forme, per la sua posizione all'inizio dell'Unter den Linden e per la bella Vittoria dello Schadow che ne forma il fastigio, riesce uno dei monumenti più insigni dell'architettura neoclassica tedesca.
Non sono da trascurarsi neanche gli archi di trionfo londinesi, cioè l'arco marmoreo di Hyde Park e l'arco dedicato al duca di Wellington, situato in Green Park. Questi due monumenti non sono al loro posto originario: infatti il primo venne elevato dal Nash davanti al palazzo reale di Buckingham, dove restò fino al 1851; mentre il secondo era stato costruito dall'architetto Burton davanti alla casa che a Wellington era stata donata dal governo inglese.
Pochissimi sono gli archi trionfali eretti dopo la recente guerra mondiale. In Italia, Genova sta tuttora elevando, come monumento dedicato ai caduti, un arco trionfale, vasta opera concepita classicamente dall'architetto Marcello Piacentini con la collaborazione degli scultori Giovanni Prini e Arturo Dazzi. Vero arco trionfale è anche il monumento che a ricordo eterno della propria vittoria la nuova Italia inaugurò in Bolzano nel decimo anniversario della morte di Cesare Battisti. Il monumento, pur esso opera del Piacentini, consta di quattordici colonne a fascio littorio che, in parte libere al centro, in parte incastrate nei due sodi laterali decorati da tre ordini di nicchie, reggono un attico della massima semplicità. Il rilievo con la Vittoria del Dazzi, l'altare con la statua del Cristo di Libero Andreotti, le erme coi busti dei martiri trentini scolpiti da Adolfo Wildt e le altre sculture del Prini e di Pietro Canonica formano un degno complemento decorativo.
Vicino a questi monumenti costruiti in modo duraturo converrà accennare anche a quegli archi di trionfo temporanei che, come nella Roma antica, così forse anche nel Medioevo e certamente dal Rinascimento in poi, venivano eretti con materiali posticci per celebrare ingressi di generali vittoriosi, di sovrani, di ambasciatori o in altre simili occasioni. Di questi archi trionfali temporanei abbiamo notizie in diaristi e biografi, riproduzioni in stampe, disegni e quadri. Essi in genere imitavano le forme di quelli costruiti in modo permanente, ma talvolta per lo stesso loro carattere di temporaneità, assumevano speciali aspetti sia nello schema generale, sia in particolari ornamentali, come nella decorazione pittorica.
Tra i primi archi di questo genere, dei quali ci è rimasta notizia, sono quelli che i fiorentini innalzarono per la venuta nella loro città del papa Leone X; celebri sono pure quelli che vennero eretti per onorare l'ingresso di Carlo V in Bologna, in Firenze con l'opera del Vasari e di Baccio d'Agnolo, in Messina su disegno di Polidoro da Caravaggio. Il Vasari ci parla dell'arco che su disegno del Tribolo venne innalzato in Firenze per l'ingresso di Eleonora di Toledo che veniva sposa al duca Cosimo; con maggiori particolari egli descrive gli apparati e gli archi trionfali che, sotto la direzione di Vincenzo Borghini, vennero elevati in varî punti di Firenze in occasione dell'ingresso del principe Francesco con la consorte Giovanna d'Austria.
Di particolare interesse sono le stampe rappresentanti gli archi che venivano innalzati in Roma in occasione delle prese di possesso papali, perché si tratta in genere di opere disegnate dai migliori architetti dell'epoca (figg. 37 e 38).
È da ricordare, per quanto non sia mai stato costruito, l'arco trionfale che Alberto Dürer incise per l'imperatore Massimiliano I in 92 legni secondo l'ispirazione di Giovanni Stabius (anno 1515). Trattasi di una concezione curiosa dove si confondono motivi antichi con alcuni del Rinascimento e altri di carattere nordico, ideata più per essere osservata pezzo per pezzo nel suo aspetto ornamentale che non colta nel suo complesso architettonico.
Giustamente celebri, infine, sono gli archi che la città di Anversa elevò per l'ingresso dell'infante cardinal Ferdinando (17 aprile 1635). Diresse il lavoro Pietro Paolo Rubens che dipinse pure per uno di essi la tela centrale rappresentante il Trionfo di Ferdinando ora agli Uffizî. Dai bozzetti di mano del maestro che ci sono rimasti, si rileva come in questi archi la sua fantasia si sbrigliasse in un'architettura ricca di movimento e di gusto pittorico, adattissima a tal genere di costruzioni effimere e decorative. (V. tavv. XXI a XXXII).
Bibl.: Quatremère de Quincy, diz. stor. d'architettura, trad. it. di A. Mainardi, Mantova 1850, I, p. 137 segg.; I. Durm, Die Baukunst d. Renaissance in Italien, Lipsia 1914, p. 716 segg.; P. Benouville, in P. Planat, Encycl. de l'architecture et de la construction, Parigi 1888, s. v. Arc de Triomphe; P. Mezzanotte, Luigi Cagnola, architetto, in Architettura e arti decorative, VII (1927-1928), p. 337 segg. Cfr. inoltre: G. Vasari, Le opere, ed. curata da G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 86 segg., VIII (1882), p. 254 segg.; V. Scherer, Dürer, Stoccarda e Lipsia 1908, p. 378 e tavv. 269-301; A. Rosemberg e A. Oldenbourg, P. P. Rubens, Stoccarda e Lipsia 1921, pp. xxxv-xxxvi e tavv. 361-375; P. Toesca, Storia dell'arte it., I (Il Medioevo), Torino 1927, p. 84.