EURO, AREA
Cause e conseguenze della nascita di un’unione monetaria. Criticità. Gli effetti della crisi e le politiche di contrasto. Bibliografia. Webgrafia
Cause e conseguenze della nascita di un’unione monetaria. – L’a. e., formalmente definita come Unione economica e monetaria (UEM), ma comunemente nota come Unione monetaria europea, è costituita da quei Paesi dell’Unione Europea (UE) che hanno adottato come valuta comune l’euro. La decisione di creare un’unione monetaria è stata presa dal Consiglio europeo svoltosi a Maastricht nel dicembre 1991, e successivamente sancita dal Trattato sull’Unione Europea, noto come Trattato di Maastricht. L’euro è stato istituito nel 1999 ed è entrato in circolazione nel 2002. Al 2015, fanno parte dell’a. e. 19 dei 28 Paesi che formano la UE. L’UEM comporta, oltre a una moneta unica, anche una politica monetaria comune diretta dalla BCE (Banca Centrale Europea, v.) e un coordinamento europeo delle politiche fiscali, con espressi vincoli al disavanzo e al debito pubblico dei singoli Paesi membri.
In base alla definizione del Rapporto Delors (Report on economic and monetary union in the European community, 1989), può definirsi unione monetaria un sistema caratterizzato da un’unica moneta oppure da piena convertibilità delle valute, tassi di cambio irrevocabilmente fissi e totale libertà di movimento dei capitali tra i Paesi che vi aderiscano. L’istituzione di un’unione monetaria che si approssimi a tale definizione costituisce un evento raro, ma non inedito nella storia delle relazioni economiche internazionali (Bord, Jonung 1999). L’opportunità di tale decisione può essere valutata alla luce di un’analisi economica dei suoi costi e dei suoi benefici. Da un lato, l’adozione di una moneta comune riduce i costi di transazione e l’incertezza associata alle fluttuazioni delle valute nazionali; dall’altro lato, i singoli Paesi rinunciano ad alcuni importanti strumenti di politica macroeconomica, tra cui la politica monetaria e la gestione del tasso di cambio (De Grauwe 2000). La teoria delle aree valutarie ottimali di Robert Mundell (A theory of optimum currency areas, «American economic review», 1961, 51, pp. 657-65), si sofferma principalmente sugli svantaggi dell’unificazione monetaria. Un problema tipico si verifica nel caso di uno spostamento della domanda dai beni prodotti da un Paese ai beni prodotti da un altro. Per fronteggiare la disoccupazione nel primo Paese ed eventuali rischi di inflazione nel secondo, si potrebbe cercare di ripristinare i livelli iniziali di domanda deprezzando la valuta dell’uno rispetto all’altro. Essendo tale opportunità preclusa all’interno di un’unione monetaria, si ritiene che in essa restino due opzioni: un aumento della tassazione nel Paese in cui la domanda è salita per finanziare trasferimenti nel Paese in cui la domanda si è ridotta, oppure migrazioni di lavoratori dal secondo Paese al primo. In base all’idea che in Europa non vi siano condizioni politiche, sociali e culturali favorevoli a tali rimedi alternativi, per lungo tempo si è sostenuto che la costituzione della UEM non potesse esser considerata una scelta ottimale. Questa conclusione è stata tuttavia criticata in base all’idea che i sistemi produttivi dei diversi Paesi europei sono molto simili tra loro, e l’adozione di una moneta comune potrebbe accentuare ulteriormente tali similitudini; pertanto, è improbabile che favorevoli a un Paese e sfavorevoli all’altro, e quindi tali da generare squilibri al suo interno (European commission 1990). D’altro canto, è possibile che l’unificazione monetaria europea favorisca la specializzazione produttiva dei singoli Paesi, in modo analogo a quel che storicamente è avvenuto all’interno degli Stati Uniti. La specializzazione è tanto più accentuata se l’integrazione commerciale e monetaria favorisce lo sfruttamento delle economie di scala e la conseguente concentrazione territoriale delle singole industrie. In tal caso, la moneta unica europea aumenterebbe la probabilità di shock di domanda che colpiscano in modo differenziato le diverse economie (Krugman 1991).
Un modo alternativo di valutare l’adozione dell’euro consiste nel reputarla una logica conseguenza di decisioni precedenti. La moneta unica europea rappresenta la fase più recente di un lungo processo di integrazione economica iniziato con i trattati istitutivi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) del 1951 e della Comunità economica europea (CEE) del 1957, proseguito con il Sistema monetario europeo (SME) del 1979 e ulteriormente avanzato con la progressiva liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali. In tal senso, la nascita dell’euro può essere interpretata come un’evoluzione delle relazioni europee, conseguente alla sempre maggiore libertà degli scambi all’interno dell’Unione. In un contesto di libera circolazione, per evitare fughe di capitale e continue fluttuazioni dei tassi di cambio, la politica monetaria di un Paese deve essere vincolata all’esigenza di tenere i tassi di interesse interni in linea con i tassi prevalenti all’estero. Si viene così a determinare una ‘triade inconciliabile’: la libertà di movimento di merci e capitali e i tassi di cambio fissi risultano incompatibili con l’autonomia della politica monetaria nazionale. L’implicazione è che si creano condizioni favorevoli alla cessione del controllo della moneta a un’autorità sovranazionale che emetta una valuta unica (Padoa Schioppa 2004).
Criticità. – Al di là delle riflessioni circa le cause della sua nascita, l’UEM solleva alcuni interrogativi sulla sostenibilità nel tempo della sua attuale configurazione. Tra le numerose analisi che si occupano della questione, vi sono quelle che rimarcano l’esistenza di differenze consolidate tra i Paesi membri dell’Unione, in particolare tra la Germania da un lato e le cosiddette economie periferiche dall’altro, tra le quali rientrano i Paesi del Sud Europa (Bayoumi, Eichengreen 1997). Alcuni studi si sono soffermati sulle differenze tra gli assetti politico-istituzionali dei vari Paesi europei, con riguardo alle diverse modalità di gestione della politica monetaria e di bilancio e alla diversità di obiettivi in tema di inflazione e disavanzo pubblico. Un’unione monetaria tra Paesi caratterizzati da forti divergenze in tema di strumenti e obiettivi della politica economica rischia a lungo andare di generare contrasti difficilmente superabili. Problemi per certi versi ancor più rilevanti scaturiscono poi da differenze strutturali tra i gradi di sviluppo capitalistico, di organizzazione industriale e di regolamentazione dei mercati del lavoro nei vari Paesi membri dell’UEM. Tali differenze hanno numerose implicazioni, tra cui il fatto che i salari, la produttività del lavoro e i prezzi si muovono a velocità diverse tra i Paesi. All’interno di un’unione economica e monetaria vige libertà di movimento delle merci e dei capitali e inoltre risulta impossibile intervenire sui tassi di cambio. In un simile contesto, sottoposte alla concorrenza degli altri Paesi e impossibilitate a deprezzare la propria valuta, le nazioni caratterizzate da una più rapida crescita dei costi e dei prezzi sono destinate a perdere progressivamente competitività e ad accumulare crescenti disavanzi commerciali e quindi debiti verso l’estero, mentre quelle in grado di contenere tali dinamiche tenderanno ad accumulare surplus commerciali e crediti sull’estero (Graziani 2002).
In effetti, a partire dall’istituzione dell’euro, gli squilibri commerciali tra la Germania da un lato e i Paesi periferici dall’altro sono aumentati in misura considerevole, determinando un’accentuazione degli sbilanciamenti nei rapporti di credito e debito, sia pubblico sia privato, interni all’UEM. Fino a che punto tale sproporzione può ritenersi sostenibile? Una delle interpretazioni è che l’accumulo di disavanzi verso l’estero da parte delle economie periferiche dell’a. e. rifletterebbe il loro forte potenziale di crescita. La maggiore integrazione finanziaria indotta dalla moneta unica permette ai Paesi periferici dell’Unione di sfruttare al meglio il canale del debito estero. Ciò dà luogo a un eccesso di importazioni sulle esportazioni, ma al contempo dovrebbe permettere a tali Paesi di accelerare l’accumulazione di capitale e accrescere quindi la produttività e la competitività. In quest’ottica, si ritiene che i disavanzi esteri saranno ripagati e che quindi non debbano essere considerati un problema per la sostenibilità dell’euro (Blanchard, Giavazzi 2002). In realtà l’evidenza empirica ha mostrato che dalla nascita della moneta unica i Paesi tendenti a registrare disavanzi commerciali sono stati caratterizzati da una crescita della produttività relativamente modesta e da una crescita dei costi di produzione e dei prezzi più accentuata rispetto agli altri Paesi dell’eurozona, con conseguente ampliamento dei deficit verso l’estero. Le divergenze tra i costi di produzione e i relativi squilibri commerciali sono state oltretutto alimentate da una prolungata politica di contenimento dei salari e della domanda interna da parte della Germania (European commission 2010).
Gli effetti della crisi e le politiche di contrasto. – La crisi economica internazionale esplosa nel 2008 e le sue ripercussioni sulle economie europee hanno evidenziato la rilevanza dei problemi di sostenibilità della UEM. Le difficoltà principali si sono registrate nei Paesi accomunati non necessariamente da eccessivi deficit o debiti statali, quanto piuttosto da una tendenza ad accumulare deficit e debiti commerciali verso l’estero. Tra il 2010 e il 2012 i timori di un’uscita di Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia dall’a. e., con conseguente ritorno alle monete nazionali e svalutazione dei rispettivi tassi di cambio, hanno alimentato una crescita eccezionale dei tassi di interesse sui titoli emessi da tali Paesi. In un simile scenario, alcune istituzioni internazionali hanno esplicitamente evocato la possibilità di una ‘rottura dell’euro’, eventualmente indotta da una crisi bancaria (International monetary fund 2012). Per scongiurare questo esito, è stato suggerito, tra l’altro, di attuare una mutualizzazione dei debiti, istituire un’effettiva unione bancaria con assicurazione europea dei depositi, costituire un bilancio federale e un sistema di trasferimenti tra Paesi e stimolare l’inflazione nei Paesi in surplus commerciale verso l’estero; più in generale, è stata evidenziata l’urgenza di accrescere il grado di legittimazione democratica delle istituzioni dell’Unione (Stiglitz 2014). Diverso tuttavia è stato il modo in cui le istituzioni europee hanno affrontato la crisi.
Principalmente, esso è consistito in vari programmi di acquisto di titoli sul mercato da parte della BCE allo scopo di ridurre i tassi di interesse, condizionati all’attuazione da parte dei Paesi beneficiari di una serie di misure fiscali e riforme strutturali tese, rispettivamente, a diminuire i disavanzi pubblici e a liberalizzare i mercati, con particolare riferimento al mercato del lavoro. Imponendo un contenimento della domanda interna e dei salari, tali misure garantirebbero anche un miglioramento del saldo delle importazioni e delle esportazioni verso l’estero; inoltre, vi è chi ritiene che in prospettiva esse favoriscano la crescita economica e la riduzione dei debiti dei Paesi maggiormente in difficoltà (Padoan, Sila, van der Noord 2012; Gros 2013).
In realtà, nonostante una contrazione significativa dei deficit statali e una deflazione dei salari in alcuni casi eccezionale, le attese di ripresa economica e risanamento finanziario dei Paesi periferici dell’UEM non sembrano aver trovato adeguati riscontri. Dopo il 2012 gli interventi della BCE sui mercati hanno in effetti contribuito alla riduzione dei tassi d’interesse in questi Paesi. Tuttavia, tra il 2008 e il 2014 le divergenze macroeconomiche tra essi e il resto dell’Unione sono aumentate, con un declino della produzione, un aumento della disoccupazione, una crescita delle insolvenze delle imprese e delle sofferenze bancarie e un incremento dei rapporti tra debito pubblico e PIL particolarmente accentuati e duraturi nelle economie del Sud Europa. Una delle spiegazioni è che le politiche di riduzione dei disavanzi pubblici hanno determinato un calo della domanda e della produzione più marcato di quanto le previsioni prevalenti lasciassero supporre (Blanchard, Leigh 2013). Inoltre, contrariamente alle attese, la flessibilità dei salari verso il basso non sembra costituire un adeguato fattore di riequilibrio all’interno della UEM (Goodhart 2014); anzi, specialmente se adottata da più Paesi contemporaneamente, la compressione salariale può determinare un calo della domanda interna tale da aggravare la recessione (Stockhammer, Sotiropoulos 2014). In tal senso, la crisi dell’a. e. può essere anche interpretata come un banco di prova fra teorie economiche alternative, con riguardo, tra l’altro, alla rilevanza che le diverse analisi attribuiscono al problema keynesiano della carenza di domanda effettiva e, più in generale, alle differenti visioni dei rapporti che si instaurano tra economie cosiddette centrali e periferiche. Da questo punto di vista, il caso dell’unificazione europea non sembra confermare l’idea convenzionale secondo la quale i processi di liberalizzazione commerciale e finanziaria e di unificazione monetaria favorirebbero la convergenza tra gli andamenti macroeconomici delle nazioni coinvolte. Le dinamiche interne all’Unione, piuttosto, sembrano dare supporto alla visione alternativa secondo cui la progressiva apertura al libero scambio e all’integrazione finanziaria e monetaria genera divergenza, caratterizzata oltretutto da processi di liquidazione e vendita all’estero dei capitali delle periferie. Suggerita nel secolo scorso da Gunnar Myrdal, Nicholas Kaldor e altri, questa chiave di lettura trova pure elementi di affinità con le tesi marxiste di una tendenziale ‘centralizzazione’ dei capitali a livello internazionale.
Il presidente della BCE Mario Draghi ha dichiarato che le politiche condotte dall’autorità monetaria centrale dovrebbero essere ritenute «sufficienti» per «salvare l’euro» (Draghi 2012). Con il prolungarsi della crisi, tuttavia, da più parti è andato diffondendosi un giudizio diverso, secondo cui il complesso delle politiche economiche in atto, anziché stabilizzare l’UEM, starebbe di fatto contribuendo ad aggravare le tensioni tra i suoi Paesi membri, accentuare l’instabilità del quadro geopolitico internazionale e aumentare quindi le probabilità di una deflagrazione dell’attuale assetto dell’a. e. (European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, 2013). È andata così sviluppandosi un’ampia letteratura sull’opportunità di trarre spunto dall’esperienza storica per cercare di analizzare le possibili implicazioni di una crisi dell’unione monetaria (O’Rourke, Taylor 2013; Brancaccio, Garbellini 2015). Peraltro, se da un lato la decisione della BCE di intervenire sui mercati sembra avere allontanato l’eventualità di abbandoni dell’euro indotti da un’esplosione dei tassi d’interesse, dall’altro lato le misure di restrizione dei bilanci pubblici e di riforma strutturale imposte ai Paesi periferici dell’Unione hanno fatto emergere un nuovo rischio: quello dell’aumento delle tensioni sociali e di una crisi generale del consenso politico intorno al progetto complessivo di unificazione europea (De Grauwe 2013).
Bibliografia: Report on Economic and monetary union in the European community, ed. J. Delors, Committee for the study of Economic and monetary union, Commission of the European communities, Brussels 1989; European commission, One market, one money, «European economy», 1990, 44; P. Krugman, Geography and trade, Cambridge (Mass.) 1991, Leuven 19932; T. Bayoumi, B. Eichengreen, Ever closer to heaven? An optimum currency area index for european countries, «European economic review», 1997, 41, pp. 761-70; P. De Grauwe, The economics of monetary union, Oxford-New York 2000; O. Blanchard, F. Giavazzi, Current account deficits in the euro area: the end of Feldestein-Horioka Puzzle?, «Brookings papers on economic activity», 2002, 2, pp. 147-86; A. Graziani, The euro: an italian perspective, «International review of applied economics», 2002, 16, 1, pp. 97-105; T. Padoa Schioppa, L’euro e la sua banca centrale, Bologna 2004; European commission, The impact of the global crisis on competitiveness and current accounts divergences in the euro area, Quarterly report on the euro area, 2010, 9, 1; International monetary fund, World economic outlook. Growth resuming, dangers remain, Whashington (D.C.) 2012; P.C. Padoan, U. Sila, P. van der Noord, Avoiding debt traps: fiscal consolidation, financial backstops and structural reforms, «OECD Journal. Economic studies», 2012, 1; O. Blanchard, D. Leigh, Growth forecast errors and fiscal multipliers, «American economic review», 2013, 103, 3, pp. 117-20; P. De Grauwe, Design failures in the Eurozone: can they be fixed?, «LEQS paper», 2013, 57; K.H. O’Rourke, A.M. Taylor, Cross of Euros, «Journal of economic perspectives», 2013, 27, 3, pp. 167-92; European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, «Financial times», 23 sett. 2013; C.A.E. Goodhart, Lessons for monetary policy from the euro-area crisis, «Journal of macroeconomics», 2014, 39, pp. 378-82; J.E. Stiglitz, Can the euro be saved? An analysis of the future of the currency union, «Rivista di politica economica», 2014, 7-9; E. Stockhammer, D. Sotiropoulos, Rebalancing the euro area: the costs of internal devaluation, «Review of political economy», 2014, 26, 2, pp. 210-33; E. Brancaccio, N. Garbellini, Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production, «European journal of economics and economic policies: Intervention», 2015, 2.
Webgrafia: M.D. Bord, L. Jonung, The future of EMU: What does the history of Monetary unions tell Us?, «National bureau of economic research working papers», 1999, 7365, http://www.nber.org/papers/w7365; M. Draghi, Speech by Mario Draghi, president of the European central bank at the Global investment conference in London, 26 luglio 2012: https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html; D. Gros, Has austerity failed in Europe?, «Centre for European policy studies (CEPS) commentary», Brussels 2013: http://www.ceps.be/system/files/DG%20Has%20austerity%20failed.pdf.
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