ARECHI II
Quindicesimo duca di Benevento, assunse nel 758, per un atto di autorità del re Desiderio, il governo di uno dei più vasti ducati del regno dei Longobardi.
Profittando delle lotte per la conquista dei trono esplose alla morte di Astolfo (fine dei 756), i duchi Alboino di Spoleto e Liutprando di Benevento avevano cercato di svincolarsi dalla pesante tutela regia, chiedendo formalmente, tramite il papa Stefano II, il protettorato del re dei Franchi, Pipino, la cui alta autorità si dichiaravano pronti a riconoscere (757). Non conosciamo la reazione di Pipino a tale richiesta, anche se ci è noto che Alboino ed i suoi grandi giurarono fedeltà al re franco ed a S. Pietro. I due duchi ritenevano vantaggiosa alla loro autonomia la dipendenza col lontano sovrano franco, dipendenza che non sarebbe stata altro che nominale; ma la loro manovra dovette essere stata indubbiamente ispirata dal papa, il quale intendeva indebolire il regno dei Longobardi staccandone i due ducati per farli entrare nella sfera d'influenza di Roma e del suo alleato franco. Tale scopo dovette apparire chiaro anche al nuovo re dei Longobardi, Desiderío, il quale, avuta ragione del suo più diretto e più pericoloso avversario, Ratchis, proprio mercé l'aiuto dei Franchi e del pontefice (cui aveva promesso la restituzione di quelle città che Astolfo non aveva voluto, o non aveva fatto in tempo a consegnare al papa dopo la pace del 756) e dopo essersi rafforzato sul trono, mutò improvvisamente la sua politica nei confronti della Sede apostolica proprio nel 757. Non solo interruppe la restituzione, che pure aveva iniziato, delle città contese, ma, per sventare ogni possibilità di mutamento nelle cose defl'Italia meridionale, non esitò, intervenendovi coi peso della sua forza, a mettersi contro il papa. Nell'invemo 757-758, attraversata e messa al sacco la Pentapoli allora dominio pontificio, entrò con un corpo d'esercito nel territorio spoletino, superando agevolmente ogni resistenza, e si presentò davanti a Spoleto, che cadde in sua mano: Alboino ed i suoi ottimati, fatti prigionìeri, vennero gettati in carcere. Quindi, entrato in territorio beneventano, Desiderio ebbe il ducato senza colpo ferire: Liutprando, infatti, preferì fuggire senz'altro rifugiandosi in Otranto, città forte per posizione ed il cui porto offriva, nel caso, possibilità di scampo, anziché attendere il re e affrontarlo in battaglia campale. Padrone del Sannio, della Lucania, di buona parte della Puglia e dei Bitettii, Desiderio pose l'assedio ad Otranto e, dopo aver invano cercato di trattare, dichiarò deposto il duca ribelle e gli dette un successore, nel marzo o nell'aprile del 758, in Arechi.
Più tardi, non potendo bloccare Otranto con una squadra navale, Desiderio strinse un accordo coi protosecreta Giorgio, che, legato imperiale in Francia, aveva già sollecitato due anni prima la restituzione di Ravenna e dell'Esarcato. L'accordo prevedeva il passaggio di Otranto ai Bizantini, ai quali, come da successiva lettera dello stesso Desiderio a Costantino V, veniva anche promesso aiuto nel recupero delle province già di loro pertinenza. Di Liutprando non si hanno più notizie: ed è solo una ipotesi - per altro fondata - che i Bizantini abbiano in quell'occasione rioccupato Otranto.
Assai giovane quando divenne duca, A. apparteneva a famiglia nobilissima e, con ogni probabilità, beneventana. Sembra difficile ammettere, col Pugliese, che egli fosse parente del primo A. ed originario del Friuli; nulla sta a provarlo, e né Paolo Diacono né Erchemperto fanno allusione ad una sua origine straniera, mentre il Chronicon Salernitanum - anche se il suo leggendario resoconto sia spesso tutt'altro che attendibile - allude in modo inequivocabile come minimo ad una sua fanciullezza trascorsa in Benevento. Più probabile l'altra ipotesi, avanzata dal Poupardin, che A. fosse della stessa famiglia del re Liutprando; di lui, nel celebre epitaffio, Paolo Diacono dice infatti: "Stirpe ducum, regurnque satus ascenderat ipse / nobilior gentis culmina celsa suae", sottolineando la sua appartenenza ad una stirpe di duchi e di re. Il matrimonio, voluto dal re per ragioni di politica interna e celebrato probabilmente intorno al 760, con una delle figlie di Desiderio, Adelperga, valse sicuramente ad aumentare il prestigio ed il favore popolare di cui dovette godere, fin dall'assunzione della dignità ducale, A., proprio grazie a quelle doti che tanto contribuiscono a guadagnare gli animi, doti personali ed umane di simpatia di cui egli fu così fornito e che già venti anni dopo la sua morte avevano fatto di lui un personaggio quasi leggendario. Di nobile spirito, colto e protettore di letterati e di artisti, bello ed aitante, forte e pio, ecco quale ci presentano A. Paolo Diacono, Erchemperto, e l'anonimo autore del Chronicon Salernitanum.
Dei primi sedici anni del governo di A., sino alla caduta cioè del regno dei Longobardi, abbiamo solo poche notizie e tutte frammentarie. Nel 763 inviò a Costantinopoli un'ambasceria, i cui scopi ed i cui risultati ci sono ignoti, condotta dal gastaldo Waltari, il quale dovette assolvere ai suoi compiti con grande bravura, se tornò a Benevento con i resti mortali di s. Eliano, segno tangibile della benevolenza imperiale. Per spiegare tale ambasceria, il Pugliese ha avanzato l'ipotesi che Desiderio, attraverso A. sua creatura e suo familiare, avesse tentato di riannodare coi Bizantini l'accordo del 758 per muovere, forte del loro appoggio, contro i Franchi, approfittando delle difficoltà create loro dalla rivolta di Tassilone, duca di Baviera.
Finché durarono le speranze di una lega con i Bizantini, sembra che A. non facesse valere i suoi motivi di discordia coi Napoletani; ma, dopo il 763, sfumate tali speranze, egli iniziò con loro una guerra che durò, salve brevi interruzioni, sino alla sua morte. È difficile ora stabilire le vere cause e le vicende di questa lotta: probabilmente furono le stesse che, da quando Zottone era sceso con le sue bande nel Sannio, avevano visto contrapposti i Greco-italici delle città marittime dei litorale tirrenico ed i Longobardi dell'intemo, protesi nel tentativo di crearsi uno spazio vitale, nella ricerca di uno sbocco al mare e della supremazia sull'Italia meridionale. Nel 765, disfatti in battaglia campale dai Longobardi, i Napoletani si videro costretti ad accettare una pace, impegnandosi a pagare un tributo annuo, a garanzia dei quale dovettero inviare come ostaggio a Benevento lo stesso figlio del duca Stefano di Napoli, il cinquenne Cesario.
Nei confronti della Sede apostolica A. mantenne sempre una politica di ferma indipendenza, rifiutandosi di rendere le iustitiae richieste dal papa, anche quando il re Desiderio gli impose tassativamente di ottemperare alle preghiere di lui. Tanto che, allentatasi la tensione fra il regno dei Franchi e quello dei Longobardi e migliorati i rapporti fra Desiderio ed il pontefice, venne inviato, nel 770 o nel 771, a Benevento il messo franco Itterio, abate di S. Martino di Tours, col compito di esigere le iustitiae dovute a S. Pietro. È per noi difficile valutare i risultati ottenuti da Itterio in questa sua missione. Da un lato il papa Stefano Il, in una lettera indirizzata a Carlo (che era succeduto al padre Pipino nel 768) ed a sua madre Bertrada, se ne mostra pienamente soddisfatto ed invita i reali a ricompensare degnamente l'abate per il compito così bene assolto; dall'altro, nessun mutamento appare, dopo questa missione, nella politica di A. rispetto alla Sede apostolica ed al suo patrimonium "lllis in partibus situm", nei domini beneventani cioè, tanto che i papi poi continueranno a lamentarsi, fin dopo la morte del duca, per la non avvenuta restituzione di quanto era dovuto a loro ed a S. Pietro.
Alla scomparsa di Desiderio, deposto da Carlo ed esiliato in Francia dopo la presa di Pavia (giugno 774), e di Adelchi, suo figlio e collega, fuggito a Costantinopoli, A. si venne a trovare improvvisamente in una posizione di prinio piano nella politica italiana rispetto agli altri duchi del disfatto regno dei Longobardi: di stirpe nobilissima, genero dell'ultimo re nazionale, alla testa di uno dei più vasti ducati del regno e con una secolare tradizione di autonomia alle spalle, egli si trovava in una situazione ben diversa da quella dei duchi del Friuli e di Spoleto, praticamente ridotti allo stato di vassalli del re franco. Non sappiamo se Carlo abbia esercitato su di lui pressioni di sorta, per costringerlo a seguire l'esempio degli altri duchi longobardi; certo, se pure lo fece, non portò le armi contro di lui per imporgli con la forza la sottomissione. Il Chronicon Salernitanum sottolinea tuttavia il fatto che A., unico fra i signori longobardi, abbia osato rifiutare obbedienza di sorta al nuovo padrone della penisola: "Carolus rex totius Italiae est firmatus. Solus dux Arichis iussa eius contempnens... ". A. infatti approfittò immediatamente della nuova situazione politica creatasi in Italia per manifestare la sua volontà di indipendenza apertamente ed in tutti i modi possibili, atteggiandosi a successore del deposto re Desiderio ed a guida dei resti della nazione longobarda, "suae gentis reliquias rexit nobiliter et honorifice... ", come è detto espressamente nel prologo alle leggi del suo successore Adelchi. Fattosi consacrare dai suoi vescovi, assunse proprio dal 774 il titolo di princeps, aggiungendo alle indicazioni cronologiche dei suoi atti gli anni del suo principato ed usando i titoli di excellentissimus vir, di gloriosissimus dominus, di gloriosus princeps. Aggiunse ai titoli le insegne del potere sovrano - il diadema, lo scettro, il trono dorato -, di cui si arrogò le prerogative, legiferando senza il concorso dell'assemblea ("et sequens vestigia regum", è detto ancora di lui nel prologo ai Capitula di Adelchi, "quaedam capitula in suis decretis sollerter corrigere scu statuere curavit "), concedendo privilegi di tuitio, esercitando la più piena giurisdizione con diritto di grazia, investendo vescovi ed abati, esigendo il servizio militare per suo conto, battendo moneta e manomettendo per impans gli schiavi. La sua dimora divenne il sacrum palatium, cardine dell'amministrazione dello Stato; dal felicissimum palatium nostrum vengono promulgate le sue leggi, e lì si incontrano le tradizionali cariche longobarde, come lo stolesaiz, il marpahis, il referendarius.
E nella più rigida fedeltà alla tradizione nazionale rimane fondato lo Stato. Capo dell'amministrazione, di cui nominava gli organi, è il principe, il consiglio del quale è tutt'ora formato dai suoi gasindii e dai titolari dei ministeri centrali. La suddivisione territoriale continua ad essere per gastaldati (gastaldatus) per contee (comitatus) legate ad una civiltà ad un castrum; ed il comes, i cui compiti erano analoghi a quelli del gastaldus, rimane, nonostante l'influenza franca, un ufficiale del principe senza piena giurisdizione (a differenza del conte franco), spesso chiamato ad assolvere funzioni giudiziarie, ma i cui compiti sono essenzialmente amministrativi, legati alla tutela del fisco.
Con un simile indirizzo politico, la pace tra A. e Carlo, re dei Franchi e dei Longobardi, non poteva durare a lungo. La volontà di indipendenza dimostrata dal principe beneventano era in netto contrasto col nuovo ordine di cose che il re franco nel 774 aveva inteso stabilire nella penisola. Precisa intenzione di Carlo era stata, infatti, quella di apparire e di farsi considerare dai Longobardi come il legittimo successore di quelli che aveva detronizzato. Ogni resistenza alla sua autorità, dunque, non poteva essere considerata da lui che come un atto di ribellione. Questo atteggiamento del re franco ebbe di fatto l'approvazione del pontefice; perciò Adriano I, nelle lettere da lui inviate a Carlo, riconosce ad A. il solo titolo di duca (che viene ripreso con intenzione dagli annalisti franchi) e mostra di credere che il re abbia il diritto di dare ordini ed esigere obbedienza, come da tutti gli altri duchi longobardi, così anche da quello di Benevento (779-780).
A ciò il pontefice dovette probabilmente esser stato spinto da ragioni di interesse particolare: i propositi e la politica del principe non potevano non far paura alle potenze limitrofe, e la Sede apostolica era fra queste; d'altro canto per la questione della Campania il papa si doveva necessariamente trovare in conflitto con Arechi. C'è di più. Con le sue insistenze e le sue informazioni volutamente tendenziose, il papa intendeva provocare finalmente l'intervento di Carlo in Italia meridionale ed ottenere per sé, una volta battuto A., la consegna dell'intero territorio beneventano secondo la promissio donationis del 6 aprile 774.
Già nel 775 Adriano I, preoccupato dall'attività del suo intraprendente ed irrequieto vicino, si affrettava ad avvisare .Carlo di una congiura promossa da A. per rovesciare la dominazione franca e restaurare, nella persona di Adelchi e con l'aiuto militare dei Bizantini, il regno nazionale dei Longobardi. Alla sollevazione avrebbero partecipato, secondo il papa, oltre ad A., anche Rotcauso di Friuli, Reginbaldo di Chiusi ed Ildebrando di Spoleto, nella cui città si sarebbero incontrati i messi dei congiurati.
È assai probabile che, negli ultimi mesi del 778, Rotcauso si sia realmente preparato a quella sollevazione che avrebbe reso necessaria l'anno seguente una spedizione contro di lui, e che egli ne abbia fatto parola a quelli che doveva considerare come i suoi naturali alleati. Non sembra tuttavia che A., proprio così come gli altri due duchi, abbia fornito aiuti consistenti e reali al duca del Friuli, il quale si trovò a dover fronteggiare da solo il corpo di spedizione franco inviato appositamente contro di lui e comandato dallo stesso Carlo. Contemporaneamente alla repressione del moto di Rotcauso, infatti, due inviati franchi in Italia, il vescovo Possessore e l'abate Rabigaudo, si poterono recare tranquillamente a Benevento per una missione del cui scopo non siamo meglio informati. Tale legazione, però, non impedì ad A. di proseguire nella sua politica di espansione ai danni del limitrofo territorio di dominio pontificio, provando con questo la ragionevolezza dei timori del papa.
Il patrizio di Sicilia, che si trovava a Gaeta, era riuscito ad occupare Terracina con la complicità degli stessi abitanti. Nella lettera scritta a Carlo nel maggio 778 il pontefice non parla espressamente della presa della città, ma mette sullo stesso piano, come ormai al di fuori della sua autorità, gli habitatores castri Caietani seu Terracinensium, i quali sarebbero stati convinti a sottrarsi "a nostra dicione" dalle manovre dei Bizantini e del principe di Benevento. Secondo Adriano I, Beneventani e Bizantini si sarebbero coalizzati per sottrarre alla Sede apostolica l'insieme dei patrimonia s. Petri della Campania, che si sarebbero poi spartiti. Il papa rientrò, tuttavia, in possesso della città, ma la tenne per poco, giacché i Napoletani non tardarono ad impadronirsene nuovamente: "I nefandissimi Napoletani", scriveva il pontefice al re dei Franchi nel 779-80, " d'accordo coi Greci a Dio odiosi assalendola all'improvviso, dietro maligno consiglio del duca di Benevento A., si sono impossessati della città di Terracìna, che prima avevamo sottomesso all'autorità di S. Pietro ". Ciò nonostante Adriano I, cui interessava soprattutto rientrare in possesso dei beni del patrimonio di S. Pietro compresi nell'ambito del ducato di Napoli, si mostrò disposto a rappattumarsi coi Bizantini, dichiarandosi pronto a concedere loro Terracina in cambio del patrimonio napoletano. Senonché A. fece di tutto per impedire una composizione amichevole fra Adriano I ed i Greci, composizione che avrebbe non poco nuociuto ai suoi progetti di espansione, proseguendo attivamente i negoziati col patrizio di Sicilia: "ed A. in persona, ricevendo giornalmente i messi del nefandissimo patrizio di Sicilia", proseguiva il papa nella succitata lettera del 779-80, "sol egli fu di impedimento a che noi ricevessimo dai Napoletani gli ostaggi"; e conclude chiedendo che il re dei Franchi mandi in Italia un corpo di spedizione, condotto da persona di fiducia, il quale, con l'aiuto d'un esercito spoletino, costringa A. a mutare atteggiamento e politica, ad osservare la pace, a sostenere, in caso di bisogno, i Franchi contro i Bizantini. In questa lettera dunque il papa torna a ribadire il concetto che il re franco avrebbe avuto sempre a temere difficoltà e lo sforzo combinato dei Longobardi e dei Greci in Italia meridionale nel nome di Adelchi, fino a quando non avesse dato una sistemazione definitiva alla questione beneventana. Tuttavia, quando Carlo venne a Roma nel 780-81, non si occupò minimamente del principe di Benevento. La vasta manovra da cui era stato minacciato - se pure lo era stato - non aveva portato ad alcun risultato concreto. L'alleanza, che il papa aveva mostrato di credere stretta ai suoi danni ed a quelli della Sede apostolica, non tardò a dissolversi e gli alleati a guastarsi tra loro.
Alcuni anni più tardi, malcontento per la politica seguita nei suoi confronti dagli Amalfitani, A. ne invase il territorio mettendolo a sacco e distruggendo colture ed abitazioni poste al di fuori delle mura di Amalfi. Con questa spedizione punitiva provocò la pronta reazione dei Napoletani, i quali accorsero in aiuto dei loro fratelli di sangue e sconfissero in battaglia campale i Longobardi, che si videro costretti a battere in ritirata, lasciando molti dei loro capi nelle mani del nemico. La lotta fra Greco-italici e Longobardi proseguì con alteme vicende, fino a quando non si impose in Italia meridionale una nuova forza: il re dei Franchi Carlo con un corpo d'esercito.
Risolta momentaneamente la guerra sassone con la sottomissione e la conversione di Wíduking, domati i Brettoni in rivolta e disperse le fila di una cospirazione di capi turingi, "perspiciens se ex omni parte Deo largiente pacem habere", Carlo aveva preso, sul finire del 786, la decisione "orationis causae ad limina Apostolorum beatoruni iter peragendi et causas Italicas disponendi". Gli annalisti franchi dicono chiaramente che Carlo Magno ha approfittato di un momento di tranquillità per calare in Italia e risolvere le questioni colà ancora pendenti; quanto agli Annales regni Francorum sottolineano il fatto che Tassilone, duca di Baviera, abbia sfruttato l'assenza del re per insorgere nuovamente. Sembra quindi da scartare la tesi per cui la discesa di Carlo sarebbe stata provocata da quella alleanza dei Longobardi di Benevento con Tassilone di cui si è tanto parlato e di cui nessuna fonte fa menzione. E altrettanto poco probabile è la tesi per cui la spedizione in Italia del 787 sarebbe stata causata dal timore che i Longobardi di Benevento rinnovassero la loro alleanza coi Greci irritati per la rottura delle trattative del matrimonio fra Costantino e Rotrude, la figlia di Carlo; tali trattative nel 787 non erano ancora state interrotte se in quell'anno ambasciatori bizantini si trovavano presso il re franco per occuparsi di quest'affare. Le ostilità di A. contro i Grecoitalici della Campania, inoltre, non terminarono che in seguito all'ingresso del re franco, in Italia.
Carlo, mossosi subito dalla Francia, pur essendo inverno inoltrato, si incontrava sul finire dell'anno a Roma con il papa, che lo accoglieva con ogni onore. A queste notizie A. si affrettò a concludere un trattato di pace coi Napoletani e col loro console Cesario, il quale, come ostaggio, aveva trascorso parecchi anni a Benevento, dove si era creato una certa notorietà fra i Longobardi. Con tale trattato si dette una prima, provvisoria soluzione all'annosa questione della Liburia (odierna Terra di Lavoro), che era stata fino allora fonte di incessanti contrasti fra Napoletani e Longobardi, con l'istituzione di una specie di condominio su quelle terre e con la regolamentazione delle imposte da esigere dai loro coloni. A. volle inoltre dare ai Napoletani una prova tangibile della sincerità della sua rinnovata amicizia; è da attribuirsi infatti a questo periodo di tregua la donazione, ch'egli fece, di alcuni oggetti preziosi e della località Pianura presso Pozzuoli (la quale gli doveva appartenere a titolo di proprietà privata, nonostante si trovasse entro i confini del ducato di Napoli), alla basilica di S. Gennaro.
Copertosi in tal modo le spalle, il principe cercò la via per uscire col minor danno possibile dalle strette in cui lo aveva messo la calata dell'esercito franco. Da un lato inviò a Roma, con ricchi doni per il re, il suo figlio maggiore, Romualdo, giovane colto ed intelligente, che qualche anno prima aveva creato suo collega; dall'altro si preparava alla difesa: raccolse il suo esercito, rafforzò i castelli, munì di nuove fortificazioni la città di Salerno. Romualdo, che aveva ricevuto l'incarico di presentare a Carlo la promessa della più completa sottomissione di A. ("et omnes voluntates praefati domni regis adimplere cupiebat") a patto ch'egli col suo esercito non varcasse i confini beneventani, assolse al suo compito nel miglior modo possibile. Tanto che il re, cui interessava la sottomissione, non la rovina di A., si mostrò in un primo tempo propenso ad intavolare trattative col principe, senza ricorrere alle armi, accettandone le proposte. Ma poi, forse persuaso che una dimostrazione militare avrebbe giovato al suo prestigio in Italia meridionale dove non si era mai recato, si lasciò convincere della necessità di intervenire nel Beneventano. A ciò fu spinto senza dubbio anche dalle pressanti sollecitazioni di quanti, avendo interesse a che la guerra continuasse, mostrarono di non credere assolutamente alla sincerità delle proposte di A.: i nobili franchi, per desiderio di conquista e di bottino, Adriano I per venir liberato una volta per tutte dal suo pericoloso vicino. Il pontefice, inoltre, sperava di rientrare in possesso, una volta fosse stato debellato A., almeno di quei beni che costituivano il patrimonio di S. Pietro nel ducato di Benevento, e dei quali, nonostante le insistenze, egli non era riuscito ad ottenere la restituzione.
Trattenendo presso di sé Romualdo, Carlo si mise in marcia col suo esercito nei primi mesi del 788 e percorse, secondo il Poupardin, ad un dipresso il tracciato dell'antica via Latina, dato che passò per Montecassino e Capua. Qui il corpo di spedizione franco pose i suoi quartieri, preparandosi ad attaccare; e qui, nel marzo, giunse il vescovo di Benevento, Davide, a capo di una nuova ambasceria inviata, per chiedere la pace, da A., il quale, nel frattempo, si era trasferito nella piazzaforte di Salerno e di là seguiva gli sviluppi della situazione. Questa volta Carlo, che doveva aver valutato le possibili conseguenze di una campagna nella quale avrebbe avuto il solo vantaggio d'inizio, in un paese nettamente ostile e che i Franchi consideravano malsano, si convinse a non proseguire nel suo tentativo di conquista e a concedere la pace al principe di Benevento, dopo aver trattato con lui.
Tale pace, tuttavia, fu il riconoscimento della validità delle pretese avanzate da Carlo Magno. Infatti, se A. riuscì ad evitare ai suoi domini le devastazioni e le stragi di una guerra, ed a se stesso l'umiliante obbligo di presentarsi a rendere omaggio al vincitore, dovette però prestare, e far prestare dai suoi sudditi, un giuramento di fedeltà al re franco, impegnarsi a versare un tributo annuo, sull'entità del quale non siamo informati (le fonti che parlano di un tributo di 7.000 solidi annui si riferiscono al rinnovamento del trattato avvenuto sotto Ludovico il Pio), e consegnare, infine, a garanzia dell'osservanza dei trattati, dodici ostaggi, tredici, secondo gli Annales regni Francorum. Tra questi ostaggi i due figli minori di A., Grimoaldo e Adalgisa; e solo quando essi furono giunti a Capua, Romualdo fu lasciato libero di raggiungere il padre.
Le fonti non ci dicono esattamente in quale posizione si venisse a trovare A. nei confronti di Carlo, dopo aver accettato questa pace; i termini di fidelitas e di oboedientiá sembrano comunque indicare soltanto il riconoscimento dell'alta sovranità del re franco sul principato. Era quanto i re longobardi avevano avuto, sino al 774, dai duchi di Benevento, e Carlo, come re dei Longobardi, non potevà esigere di più. Messi franchi vennero inviati nel principato e ricevettero il giuramento di fedeltà di A. e del suo popolo. Sembra tuttavia che Carlo ritenesse, alla maniera franca, il principe di Benevento come tenuto a fornirgli truppa in caso di bisogno; ma, come osserva il Poupardin, tale occasione non si presentò mai. Il re franco inoltre dette assetto anche alla questione del patrimonium beneventano; tra le condizioni imposte al principe, infatti, pare vi sia stata anche quella di cedere alla Chiesa, oltre ai patrimoni di Benevento e di Salemo, le città di Arce, Aquino, Sora, Teano e Capua, alcune delle quali erano state conquistate ottant'anni prima dal duca Gisulfo I. Di quelle terre, se non più dell'intero territorio del principato come voleva la promissio donationis del 774, trovandosi a Roma dove celebrò la Pasqua del 787, Carlo promise di far donazione a S. Pietro; ma tale promessa non fu mantenuta, della qual cosa il pontefice fu assai malcontento e non mancò di lamentarsene successivamente nelle sue lettere.
Il re franco rimase a Capua sino alla fine del mese di marzo, volendo così dimostrare la sua alta autorità sugli stati di A., ed accordando privilegi alla Chiesa di Benevento ed al monastero di S. Vincenzo al Volturno. L'8 aprile, per la Pasqua, era a Roma: il giovane Grimoaldo lo seguì ad Aix insieme agli altri ostaggi beneventani, ma sua sorella fu lasciata libera di tornare dal padre.
Poco dopo la partenza di Carlo, il 26 ag. 787, A. moriva in Salerno a solo un mese di distanza dalla morte del figlio maggiore Romualdo.
Aveva regnato per quasi trent'anni con vigore e accortezza portando il suo Stato ad un grado di splendore quale mai esso aveva conosciuto per l'addietro. Profondamente religioso, manifestò la sua fede sia facendo traslare a Benevento, perché vi avessero degna sepoltura, molte reliquie e corpi di santi, sia curando la costruzione di numerosi edifici religiosi: la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Salemo, quella di S. Salvatore nel territorio di Alife, il monastero femminile di S. Vincenzo al Voltumo, sempre nel territorio di Alife. Ma la sua fama è affidata all'ampliamento, o al completamento, della basilica di S. Sofia in Benevento la cui costruzione era stata iniziata dal duca Gisulfo II (742-751); arricchita dalla sua munificenza, S. Sofia divenne uno dei due santuari nazionali della Langobardia minor. Ma la sua attività edilizia non si arrestò agli edifici religiosi: munì infatti Benevento di mura e vi costruì un palazzo. Quindi, nell'intento di farsi una buona base di operazioni sul mare, fece di Salemo, dove si era costruito un secondo palazzo, una piazzaforte che gli servì da rifugio e che, più tardi, avrebbe sfidato più volte gli assalti dei nemici del principato.
Istruito e conoscitore della cultura letteraria, poeta egli stesso, fece dare a suo figlio Romualdo un'ottima educazione; e la rinascita carolingia, come giustamente sottolinea il Poupardin, gli deve di aver incoraggiato, insieme alla moglie Adelperga, l'arte di Paolo Diacono. Dal 782 il principe promulgò una serie di leggi, capitula, diciassette in tutto, che sono un documento della cultura e della saggezza di chi le ha emanate. In esse, infatti, traspare un sentimento di giustizia assai superiore a quello dei cinque precedenti editti longobardi, quelli di Rotari, di Grimoaldo, di Liutprando, di Ratchis e di Astolfo. Sottolineiamo il fatto che la legislazione che continuò a vigere, anche dopo il 787, nel principato di Benevento, fu quella nazionale longobarda.
A. ebbe dalla moglie Adelperga cinque figli: Romualdo, Grimoaldo, Adalgisa, Teoderada, Alahis, ricordato, quest'ultimo, soltanto in un passo del Chronicon Vulturnense.
Fonti e Bibl.: Annales Laurissenses minores, c. 19, a cura di G. H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptorum I, Hannoverae 1826, v. 140; Annales Laureshamenses (Codex Laureshamensis), a cura di G. H. Pertz, ibid., p. 35; Fragmentum Annalium Chesnii, a cura di G. H. - Pertz, ibid., p. 35; Annales Altahenses maiores, a cura di W. De Giesebrecht - E. L. B. Ab Oefele, in Mon. Ger . Hist, Hannoverae 1868, p. 3; Edictum Arichisi, a cura di F. Bluhme, ibid., Legum IV, Hannoverae 1868, pp. 207 SS.; Capitula domni Adelchisi principis, a cura di F. Bluhtne, ibid., p. 210 e ss.; Pactum Arechisi cum Neapolitanis, a cura di F. Bluhme, ibid., p. 213 e ss.; Pauli continuatio tertia, c. 64, a cura di G. Waim ibid., Scriptores rerum Langobardic. et Italic., Hannoverae 1878, p. 214; Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, ibid., pp. 235-237; Iohannis Gesta episcoporum Neapolitanorm, c. 44, a cura di G. Waitz, ibid., p. 426; Chronica sancti Benedicti Casinensis, a cura di G. Waitz, ibid., pp. 487 s.; Annales aui dicuntur Einhardi, a cura di F. Kurze, ibid., Scriptores rerum Germanic. in usum scholarum, Hannoverae 1895, pp. 73, 75, 83; Annales regni Francorum (Annales Lauri . ssenses maijores), a cura di F. Kurze, ibid. pp. 72, 74, 82; Codex Carolinus, a cura di W. Gundlach, ibid., Epistolarum III (Epistolae Merowingici et Karolini aevt), Berolini 1892, pp. 462-614; Einhardi Vita Karoli Magni, c. 10, a cura di G. H. Pertz - G. Waitz - O. Holder-Egger, ibid., Scriptores rerum, Germanic. in usum scholarum, Hannoverae 1911, pp. 13 s.; Chronicon Vulturnense del monaco Gíovanni, a cura di V. Federici, I, Roma 1925, in Fonti per la Storia d'Italia, LVIII, pp. 153 ss., 170, 180, 192 SS., 202, 216, 239 s., 253 S., 294, 302, 322, 353 s.; II, ibidem, pp. 40 c. 272; III, ibidem,1938, pp. 133 s.; Chronicon Salernitanum, a cura di U. Wersterberg, Stockholm 1956, pp. 10-27.
Per la storia del ducato di Benevento prima e durante il Principato di A., F. Hirsch, Il Ducato di Benevento sino alla caduta del Regno Longobardo, traduzione di M. Schipa, Roma-TormioNapoli 1890; F. P. Pugliese, A. principe di Benevento e i suoi successori, Foggia 1892; R. Poupardin, Etude sur la diPlomatique des princes Lombards de Bénévent, de Capoue et de Salerne, in Mélanges d'archéologie et d'histoine, XXI (1901), pp. 118-138; Id., Etudès sur l'histoire des principautés lombardes de l'Italie meridionale et de leurs rapports avec l'Empire franc, in Mo-ven Age, S. 2, X (1906), pp. 2-26, 245-260, con bibliografia riportata.
Circa la sostanza del Patto di A., la. cui interpretazione presenta non poche difficoltà, vedi: P. Favre, Une hvpothèse sur les territoires de la terre de Labour, in Revue hist. du droit franc. et dtr., XVII (1893), p. 701; M. Schipa, Storia del Ducato napolitano, Napoli 189 s, pp.119 e ss.; G. Racioppi, Il "patto d'Arechi " e i "terziatori" della Liburia, in Arch. stor. per le Prov. napol., XXI (1896), pp. 42 e ss.; G. I. Cassandro, La Liburia ed i suoi "tertiatores" s, ibid., LXV (1940), pp. 198-268. Circa la sovranità sulla Liburia, il Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin, Paris 1904, p. 12, propende a credere che rimanesse ai Longobardi.
Più in generale si veda L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, 1, Gotha 1909, passim; E. Besta, Il diritto italiano, II, Padova 1928, pp. 186-189; G. Romano - A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia (395-888), Milano 1940, pp. 434 ss.; O. Bertolini, Longobardi e Bizantini..., in Atti del III Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1959, pp. 103 ss. Regesti: E. Múhlbacher, Dìé Regesten des Kaiserreichs unter dm Karolingern 751-9.r8, in J. F. Bdhmer, Regesta Imperii, 1, 2 ed., Innsbruck 1899, pp. 60 e ss.