Aree culturali
La nozione di area culturale occupa una posizione di rilievo nel panorama antropologico dei primi decenni del secolo, in particolare negli Stati Uniti e nei paesi di lingua tedesca. Nell'antropologia americana, austriaca e tedesca l'utilizzazione di questo concetto avviene nel contesto di quadri teorici che individuano come problema centrale quello della ricostruzione dei processi storici di diffusione degli elementi culturali e che si pongono come obiettivo la delimitazione geografica della loro espansione. Questo orientamento teorico implica una concezione delle culture umane come inventari o collezioni di elementi, ognuno dei quali, sia esso oggetto, tecnica, pratica sociale o credenza, essendo del tutto autonomo dagli altri e quindi acquisibile separatamente, può passare da un gruppo umano a un altro espandendosi in aree geografiche più o meno lontane da quella d'origine. Ogni area culturale si configura perciò come l'ambito geografico entro il quale i processi di diffusione hanno determinato la presenza di una particolare costellazione di tratti culturali.
La concezione atomistica della cultura implicita nella nozione di area culturale spiega il suo mancato radicamento nell'antropologia britannica, dominata - negli anni venti e trenta - dal funzionalismo di Radcliffe-Brown e Malinowski, da una teoria cioè che concepisce la società e la cultura come un complesso di fenomeni correlati fra loro, un complesso in cui ogni singolo elemento, istituzione o pratica è dotato di una specifica funzione e concorre al mantenimento della coesione complessiva del tutto.
Se il concetto di area culturale trova la sua esplicita formulazione nell'opera di Mason (v., 1895), di Holmes (v., 1914) e soprattutto di Wissler (v., 1917 e 1926), le sue premesse sono già rintracciabili nelle elaborazioni teoriche del fondatore della principale scuola statunitense di antropologia culturale: Franz Boas. La sua avversione per l'evoluzionismo di Morgan lo portò a rifiutarne l'assunto fondamentale, secondo il quale tratti culturali simili presenti presso popoli lontani sarebbero apparsi indipendentemente e non avrebbero un'origine storica comune; questo assunto si basa sul presupposto della sostanziale unità psichica del genere umano e comporta, secondo gli antropologi evoluzionisti ottocenteschi, che ogni fenomeno culturale vada soggetto a uno sviluppo identico in ogni luogo. Boas invece, ostile a ogni tentativo di generalizzazione, riteneva impossibile ricondurre a cause universali l'emergenza di tratti culturali simili in società diverse e sosteneva che la presenza di un medesimo elemento in contesti diversi fosse imputabile prevalentemente a processi storici di diffusione.
Ma la convinzione che un singolo tratto (tecnica, manufatto, modello di comportamento, credenza o mito) possa viaggiare da una cultura all'altra in modo completamente autonomo dagli altri tratti comporta una concezione della cultura come aggregato di elementi diversi e privi di qualsiasi connessione funzionale; questa concezione, comune a tutti gli esponenti della scuola boasiana, individua gli accidenti storici come causa prevalente, se non unica, dell'associazione fra gli elementi costitutivi di una cultura.
Questi presupposti sono alla base della nozione di area culturale quale viene formulata da Clark Wissler nel 1917. L'intento iniziale di Wissler, che per molti anni fu direttore dell'American Museum of Natural History, consisteva nell'elaborazione di una modalità di classificazione dei reperti etnografici che consentisse di identificare le culture in relazione agli ambiti geografici. Agli interessi museografici subentrarono ben presto quelli storici, che si tradussero in una serie di opere (The American Indian, 1917; Man and culture, 1923; The relation of nature to man in aboriginal America, 1926) dedicate non solo all'individuazione e alla classificazione delle aree culturali presenti nel continente americano, ma anche alla definizione dei rapporti che intercorrono fra le tribù presenti in un'area e allo studio dei processi di diffusione e di aggregazione degli elementi culturali.
Nello studio del 1917 (The American Indian) Wissler opera una suddivisione dell'America indigena in quindici aree culturali: eschimese, Mackenzie, pianure, costa settentrionale del Pacifico, altopiano, California, Sud-est, foreste orientali, Sud-ovest, Messico nahua, Chibcha, Perù incaico, Amazzonia, Antille e Guanaco. La netta caratterizzazione geografica delle aree elencate da Wissler sembra suggerire un nesso fra le variabili ambientali e le configurazioni culturali; il tentativo di chiarire la natura di tale relazione pone però immediatamente di fronte a un'alternativa: se si suppone che il substrato geografico abbia una rilevanza tale da modellare le configurazioni culturali, si cade in una sorta di determinismo meccanico; se invece ci si limita a registrare una semplice coincidenza fra variabili ambientali e variabili culturali, l'aggregazione di queste ultime in un complesso organico (l'area culturale) risulta arbitraria.
Wissler tentò di superare queste difficoltà elaborando la nozione di area cronologica: in sostanza un modello teorico della struttura dell'area culturale, al cui interno sarebbe individuabile un nucleo ('centro culturale') caratterizzato dalla presenza di tutti i tratti peculiari dell'area stessa; da questo nucleo - situato nel centro geografico dell'area - i tratti si diffonderebbero per irradiazione: alcuni raggiungerebbero i confini dell'area culturale, mentre altri estenderebbero la loro presenza solo alle popolazioni vicine al punto di partenza. Questa distribuzione irregolare degli elementi culturali comporta che, se tutte le popolazioni di una data area culturale possiedono un certo numero di tratti in comune, esse tuttavia non sono culturalmente identiche, perché mentre le tribù che vivono all'interno o nei pressi del centro culturale e geografico dell'area possiedono tutti i tratti peculiari dell'area stessa (e quindi possono essere considerate 'tipiche'), quelle che vivono fuori da tale centro possiedono un numero inferiore di elementi caratteristici. Poiché tale numero - osserva Wissler - decresce in misura proporzionale alla distanza dal centro culturale, le popolazioni situate ai margini di un'area culturale possiedono un numero limitato di tratti specifici dell'area stessa; esse inoltre sono esposte all'influenza delle aree culturali limitrofe di cui assorbono alcuni elementi, dando vita a culture miste. Questi fenomeni di osmosi rendono ovviamente difficile, se non impossibile, tracciare linee di separazione nette fra un'area e un'altra.
Alla base di questo modello teorico vi è l'ipotesi che i tratti culturali si diffondano in modo omogeneo in tutte le direzioni a partire dal centro culturale; di conseguenza l'estensione dell'area su cui un tratto si è diffuso può essere assunta come indice della sua antichità: le caratteristiche culturali più remote sarebbero quelle che presentano una più vasta distribuzione attorno al centro dell'area. Perciò i tratti riscontrabili ai confini dell'area dovrebbero coincidere con lo strato culturale più antico, mentre quelli più vicini al centro dovrebbero essere apparsi in epoche più recenti.
Questo metodo di ricostruzione storica dei processi culturali è stato sottoposto a numerose critiche da J. H. Steward e da altri antropologi statunitensi, che hanno rilevato come i tratti culturali non si diffondano quasi mai uniformemente in tutte le direzioni né con la medesima rapidità, in quanto i processi di espansione possono essere accelerati o rallentati da variabili ambientali e sociali: la diffusione dell'orticoltura può, ad esempio, essere ostacolata dalla presenza di un clima arido e invece la diffusione di certi tratti culturali può essere resa più rapida dalla presenza di rotte commerciali. Inoltre non solo le componenti materiali della cultura (attrezzi, recipienti, capi di vestiario) vengono acquisite più facilmente delle componenti sociali e simboliche (ad esempio un sistema di clan o di pratiche cerimoniali), ma l'acquisizione di elementi esotici è subordinata alle esigenze della popolazione che li riceve e che può operare una selezione di quelli a essa congeniali. Il grado di ricettività è ovviamente indipendente dalla distanza e rappresenta una variabile che mette seriamente in discussione la validità teorica del concetto di area cronologica.Inoltre le nozioni elaborate da Wissler non permettono di cogliere la complessità della dimensione storica delle culture perché presuppongono l'esistenza, in ogni area, di un centro culturale immutabile e immobile mentre, come gli studi archeologici hanno dimostrato, la dislocazione dei centri è, in alcune aree (come quella del Sud-ovest), soggetta a spostamenti a causa dell'occupazione dell'area da parte di popolazioni (e di culture) diverse.
Nonostante i suoi limiti e le sue incongruenze, la nozione di area culturale ha continuato a esercitare una notevole influenza sull'antropologia statunitense degli anni trenta: in particolare vanno segnalati la sua utilizzazione - nel contesto nordamericano - da parte di A. Kroeber (che giunse a stilare elenchi contenenti migliaia di tratti culturali) e i tentativi compiuti da M. J. Herskovits e R. Linton di estendere la sua applicazione al continente africano e al Madagascar.
La nozione di area culturale occupa un posto rilevante anche nell'apparato teorico della scuola di Vienna, sviluppatasi agli inizi del nostro secolo grazie all'opera di Fritz Graebner prima e di Wilhelm Schmidt poi. Le origini di questa scuola vanno però fatte risalire a Friedrich Ratzel, il quale aveva avversato le posizioni evoluzioniste, e in particolare la tesi dell'unità psichica del genere umano da cui dipende la plausibilità di invenzioni simili e indipendenti in punti diversi del globo. Ratzel invece, convinto della sostanziale sterilità mentale dei popoli 'allo stato di natura' (Naturvölker), attribuiva la presenza di elementi culturali simili o identici in diversi contesti geografici alle migrazioni. L'ipotesi che miti, credenze, manufatti e tecniche possano irradiarsi da un unico centro di invenzione per successive trasmissioni e assimilazioni divenne la base di un metodo tendente a ricostruire la storia dei popoli primitivi attraverso lo studio dei processi di diffusione. Questo metodo, detto storico-culturale, venne poi perfezionato da L. Frobenius, F. Graebner, B. Ankermann e W. Schmidt.
In un'opera del 1911 (Die Methode der Ethnologie) Graebner elaborò - riprendendo e completando i presupposti delle teorizzazioni di Ratzel - i due criteri essenziali per la comprensione della diffusione culturale. Il primo è il criterio di forma (definito da Schmidt "criterio di qualità": Qualitätskriterium), secondo il quale le somiglianze fra due elementi culturali che non derivano automaticamente dal materiale o dalla funzione, cioè da proprietà a essi inerenti, devono essere interpretate come conseguenza di un'origine comune; perciò se i due elementi si trovano in contesti culturali diversi si deve supporre un processo di diffusione. Il secondo è il criterio di quantità, secondo il quale la probabilità dell'esistenza di una relazione fra due elementi simili individuati in due diverse aree geografiche si accresce se si individuano - nelle due aree - altri elementi caratterizzati da somiglianze.
I processi di diffusione, le cui dinamiche Graebner e Schmidt tentano di ricostruire mediante l'applicazione dei due criteri citati, avrebbero avuto origine in un numero limitato di centri. Secondo gli studiosi della scuola austriaca, gli uomini primitivi vivevano in piccoli gruppi situati nel continente asiatico. Isolati e privi di mezzi di trasporto, questi gruppi seguirono distinti processi di sviluppo dando vita a configurazioni culturali diverse (Kulturkreise). In seguito, quando si intensificarono i contatti, l'influenza dei Kulturkreise ('cerchi' o 'complessi culturali') originari cominciò a irradiarsi, determinando la diffusione non tanto di singoli elementi, quanto di aggregati di tratti.
Le migrazioni via terra portarono al popolamento dell'Africa e dell'America, che avvenne per ondate successive: in questo modo le popolazioni portatrici di 'complessi culturali' più antichi furono spinte nei territori più remoti e inospitali dove sono riuscite a sopravvivere fino a oggi benché relegate - geograficamente e culturalmente - in una posizione marginale. Nel corso di migrazioni millenarie i complessi culturali originari dell'Asia si diffusero in tutto il mondo subendo profonde modificazioni e - ovviamente - anche la perdita di molti dei loro tratti; questo processo, tuttavia, non preclude, secondo i diffusionisti austriaci, l'identificazione dei Kulturkreise originari. Graebner, ad esempio, pur essendo consapevole della complessità delle reciproche influenze e degli scambi culturali che si sono verificati nel corso del tempo e che quindi dovrebbero avere progressivamente alterato il quadro dei processi di diffusione originari, ritiene di poter individuare il medesimo 'complesso culturale dell'arco' in Melanesia e nell'Europa centrale neolitica sulla base di una serie di tratti simili (forma delle abitazioni, tecniche di fabbricazione del vasellame, delle stoviglie e delle asce).
Una differenza netta è quindi ravvisabile fra la nozione di 'area culturale' utilizzata dalla scuola americana e quella di 'cerchio' o 'complesso culturale' elaborata dagli etnologi austriaci: mentre la prima consiste nel patrimonio culturale di un gruppo di popolazioni distribuite su un territorio continuo, che rappresenta la porzione più o meno vasta di un continente, la seconda include anche culture prive di contiguità territoriale; perciò se l'area culturale tende a identificarsi con un ambito geografico definito, il Kulturkreis è invece una configurazione priva di tale caratteristica, un "complesso di elementi culturali che costituisce un tutto organico, che comprende tutte le risposte alle necessità della vita" (v. Schmidt, 1937; tr. it., p. 162), ma i cui portatori possono essere gruppi umani dispersi nelle zone più diverse del globo.
Gli esponenti della scuola di Vienna non concordano pienamente nell'identificazione dei Kulturkreise e della loro dislocazione originaria. Ad esempio Graebner, che iniziò le sue ricerche in Oceania, vi individuò sei successivi cerchi o complessi culturali: tasmaniano, paleoaustraliano, totemico, delle metà, dell'arco melanesiano, polinesiano. Di questi solo il primo - il più antico - e l'ultimo - il più recente - coincidono con un'area definita, mentre quelli intermedi non presentano una continuità geografica. Ad esempio il 'cerchio culturale' totemico (i cui tratti distintivi sarebbero: l'astuccio penico, le capanne con tetto conico, i bastoni da scavo, i poggiatesta, le lance con punta di pietra, le sepolture su piattaforme, il totemismo, i riti di iniziazione maschili implicanti la circoncisione, uno stile decorativo caratterizzato da una fascia centrale con bordi a triangoli o semicerchi, e la mitologia astrale), originario dell'area oceaniana, si sarebbe progressivamente diffuso raggiungendo il continente africano dove - secondo Graebner - è ancora riconoscibile nonostante la perdita di molte componenti.
Nell'elenco redatto da Schmidt sono presenti invece nove Kulturkreise suddivisi in fasi storiche (primitiva, primaria, secondaria e terziaria). Alla fase primitiva appartengono: il Kreis delle popolazioni pigmee dell'Asia e dell'Africa (Schmidt, a differenza di Graebner, individuò nei Pigmei e non nei Tasmaniani i portatori del complesso culturale più arcaico), caratterizzato da orde esogamiche e famiglie monogamiche; il Kreis dell'Artico (Algonchini, Eschimesi, Samoiedi); il Kreis dell'Antartico (Boscimani, Australiani, Tasmaniani), caratterizzato dal totemismo. Nella fase primaria sarebbero presenti: il Kreis dei cacciatori, dotati di organizzazione esogamica e patrilineare, nonché di istituzioni totemiche; il Kreis dei nomadi patriarcali allevatori di bestiame; il Kreis degli orticoltori esogamici e matrilineari. La fase secondaria includerebbe numerosi sistemi patrilineari e matrilineari distribuiti su tutto il globo e quella terziaria le prime civiltà asiatiche, europee e amerindiane.
Come dimostra l'elenco dei tratti culturali costitutivi di quello che - secondo Graebner - è il Kulturkreis totemico, l'identificazione di un cerchio culturale avviene attraverso la giustapposizione di elementi della cultura materiale, aspetti dell'organizzazione sociale, credenze e rituali. Robert Lowie (v., 1937) osserva che non risulta chiaro in base a quali criteri è stata operata l'associazione dei tratti che concorrerebbero a identificare i Kulturkreise i quali, di conseguenza, più che come unità organiche, si presentano come aggregati arbitrari.
Questa critica - peraltro fondata - mette seriamente in discussione il fondamento stesso del metodo storico-culturale, che si propone di spiegare le caratteristiche delle diverse culture ricostruendo i processi di diffusione dei loro tratti costitutivi. Infatti l'attendibilità della ricostruzione riposa sul riconoscimento del Kulturkreis originario come una realtà culturale storicamente fondata; ma l'assenza di una dimostrazione convincente della congruenza dei suoi tratti costitutivi trasforma il quadro storico tracciato dai diffusionisti in un castello di illazioni infondate; incapaci di fornire un apparato di prove attestanti l'esistenza originaria dei Kulturkreise come unità organiche, gli esponenti della scuola storico-culturale non possono sottrarre i 'cerchi culturali' all'accusa di essere solo dei postulati arbitrari, delle astrazioni elaborate ad hoc per rendere conto della distribuzione geografica di determinati tratti culturali. Ma un altro elemento concorre a gettare ombra sull'attendibilità del metodo utilizzato dalla scuola di Vienna: la plausibilità dei processi di diffusione ricostruiti da Graebner e Schmidt risulta gravemente inficiata da un eccesso di semplificazione che non tiene conto della complessità delle influenze reciproche e degli scambi culturali che sono continuamente in atto. Il ricorso esclusivo alla diffusione come spiegazione di ogni somiglianza comporta che non venga mai presa in considerazione l'ipotesi dell'invenzione e dello sviluppo indipendente, in culture fra loro lontane, della medesima tecnica o del medesimo tipo di assetto sociale.
È stato osservato da Lowie, e in seguito con maggior forza da Marvin Harris (v., 1968), che gli esponenti della scuola di Vienna, nonostante manifestassero una radicale ostilità nei confronti delle teorie di L. H. Morgan, J. F. McLennan e J. S. Maine, rimasero in realtà ancorati a schemi evoluzionistici ottocenteschi. Schmidt, in particolare, elabora una classificazione in cui i Kulturkreise sono disposti in una sequenza cronologica che richiama gli 'stadi' di Morgan. È vero che l'evoluzionismo di Schmidt non presenta un carattere unilineare, in quanto i tre Kreise della fase primaria - per quanto tutti derivanti dai Kreise della fase primitiva - si sarebbero evoluti separatamente, ma è indubbio che la sequenza, disponendo in successione società di caccia e raccolta, società orticole e pastorali e infine civiltà stratificate, si discosta ben poco dagli schemi morganiani.
Una versione peculiare della nozione di area culturale caratterizza gli orientamenti teorici della scuola etnologica olandese, di cui J.P.B. Josselin de Jong, docente di antropologia culturale presso l'Università di Leida fra il 1935 e il 1956, può essere considerato il fondatore. Nella sua opera e in quelle dei suoi numerosi allievi occupa un posto preminente il concetto di 'campo di studio etnologico' (ethnologisch studieveld, più comunemente noto come field of anthropological study, o FAS) che trova la sua esplicita formulazione nella lezione inaugurale tenuta da Josselin de Jong all'Università di Leida nel 1935.
Questo breve testo costituisce - oltre che un manifesto teorico - anche l'esposizione di un programma di ricerche destinato ad avere nell'arcipelago indonesiano - allora colonia olandese - il suo ambito privilegiato d'indagine. La nascita della scuola olandese ha luogo in un periodo in cui l'antropologia ha ormai accolto la lezione metodologica di Bronislaw Malinowski e l'osservazione partecipante, basata su una pratica di terreno intensiva, condotta in una singola società, ha soppiantato il comparativismo universale degli evoluzionisti angloamericani e dei diffusionisti austrotedeschi. Il funzionalismo malinowskiano, considerando la società e la cultura come un complesso di fenomeni interrelati e incomprensibili se avulsi dal contesto in cui sono inseriti, e attribuendo a ogni elemento culturale una funzione specifica correlata al mantenimento della coesione e della coerenza dell'intero sistema sociale, evidenzia il carattere di unicità di ogni cultura e tende quindi a porre come obiettivo principale della ricerca antropologica lo studio dettagliato e approfondito delle singole società.
Questo atteggiamento si accompagna a un crescente scetticismo nei confronti della comparazione universale: se ogni elemento culturale deriva il proprio significato dal contesto in cui è inserito, la comparazione fra singoli elementi superficialmente simili, appartenenti a culture diverse e isolati arbitrariamente dal loro contesto, risulta impraticabile perché mette a confronto ciò che in realtà non è confrontabile.Alfred R. Radcliffe-Brown (l'altro grande esponente del funzionalismo britannico, oltre a Malinowski) condanna questo tipo di comparazione indiscriminata come scientificamente inconsistente e le contrappone l'elaborazione di generalizzazioni attendibili mediante il ricorso a un metodo induttivo che non pretende di passare direttamente dalle osservazioni empiriche a leggi di ordine generale, ma istituisce un passaggio intermedio fra i due livelli mediante l'individuazione di 'tipi'. Quando un certo numero di tipi è stato adeguatamente definito, si procede alla loro comparazione, compiendo un ulteriore passo nel processo astrattivo.
Radcliffe-Brown sostiene inoltre che le singole culture non possono essere assunte come oggetto di comparazione (perché possono essere simili per un aspetto e differire per altri) e che è necessario individuare preliminarmente le componenti del sistema sociale che sono confrontabili. Alla necessità di procedere gradualmente nella comparazione si aggiunge quindi - per Radcliffe-Brown - l'obbligo di individuare realtà effettivamente comparabili, cioè omogenee. Questa necessità comporta non solo una delimitazione concettuale del procedimento comparativo, ma anche una sua delimitazione geografica. Se è necessario evitare il salto diretto dal piano dell'osservazione empirica a quello delle leggi generali, bisogna anche evitare di allargare indebitamente il campo di osservazione; perciò da un lato Radcliffe-Brown pone l'esigenza di individuare gradi intermedi di astrazione (i tipi) fra i dati etnografici e i principî universali, dall'altro ritiene non meno indispensabile delimitare un'area entro la quale i dati presentino un elevato grado di omogeneità. L'esigenza di delimitare aree culturali come passo preliminare nel processo comparativo emerge nei saggi del 1930-1931 sull'organizzazione sociale delle tribù australiane; in tali saggi le diverse forme che il sistema dei rapporti sociali assume all'interno di un'area delimitata vengono considerate come varianti di un solo tipo generale (v. Radcliffe-Brown, 1930, p. 34).
Notevole fu l'influenza di questo lavoro su Josselin de Jong, che a esso si ispirò nell'elaborazione del suo saggio del 1935, dove si può leggere: "L'Australia, anche se la sua popolazione aborigena è in via di rapida estinzione, è ancora uno dei migliori 'campi di studio' [...]. Specialmente nell'ultimo decennio vi sono state trovate le soluzioni a problemi di grande portata" (v. Josselin de Jong, 1935; tr. ingl., p. 168). L'Australia viene quindi definita da Josselin de Jong come un "campo di studio", espressione con cui egli intende indicare un'area abitata da popolazioni la cui cultura risulta sufficientemente omogenea e di conseguenza può costituire un oggetto separato di studio etnologico, ma che al tempo stesso presenta variazioni locali in misura tale da rendere proficua la ricerca comparativa al suo interno.
Josselin de Jong aggiunge che "l'arcipelago malese [...] costituisce un campo di studio etnologico di importanza non inferiore all'Australia" (ibid.). L'Indonesia viene quindi etichettata come area culturale e individuata come ambito privilegiato di un programma di ricerca destinato a essere realizzato negli anni successivi. Come per Radcliffe-Brown, anche per Josselin de Jong un'area culturale è definibile in base all'individuazione in un ambito geografico determinato di alcuni elementi ricorrenti: se Radcliffe-Brown aveva identificato nella famiglia e nell'orda le caratteristiche strutturali dell'organizzazione sociale australiana, Josselin de Jong individua quattro specifiche caratteristiche che costituirebbero il nocciolo strutturale (structural core) di numerose culture tradizionali presenti all'interno dell'area indonesiana: 1) il connubio asimmetrico; 2) la discendenza unilineare doppia; 3) il dualismo sociale e cosmico; 4) le modalità di reazione alle influenze culturali esterne. Il connubio asimmetrico (1), cioè il matrimonio preferenziale con la figlia del fratello della madre, istituisce un sistema di scambio generalizzato fra gruppi di discendenza in cui le relazioni sono orientate in modo univoco, in cui cioè le donne del gruppo A vengono cedute al gruppo B, il quale cede le proprie a C che a sua volta le offre a un altro gruppo le cui donne sposano uomini del gruppo A saldando una catena che, qualunque sia il numero delle unità coinvolte, presenta sempre la caratteristica di essere chiusa. Questo sistema è basato su un'ideologia dello scambio matrimoniale che assegna al gruppo datore di donne uno status più elevato rispetto a quello prenditore; la superiorità dei datori è espressa dall'obbligo imposto al gruppo prenditore di pagare un prezzo per la sposa costituito da una quantità ingente di beni. Poiché i datori contraccambiano con dei doni, si istituisce uno scambio rituale di beni considerati rispettivamente 'femminili' e 'maschili'.Il matrimonio con la figlia del fratello della madre può essere praticato in presenza sia di un sistema di discendenza patrilineare, sia di un sistema di discendenza matrilineare, sia di un sistema di discendenza doppia (2) in cui entrambe le linee sono riconosciute. Questa divisione dicotomica della società in due linee di discendenza, due fratrie o due gruppi di clan, si ripresenta nella cosmologia, in cui la terra si contrappone al cielo, il mondo celeste a quello infero. In questo modo il dualismo sociale e cosmico (3) forma il nucleo di un sistema di classificazione universale. Nella messa a fuoco dei nessi intercorrenti fra gli elementi del 'nocciolo strutturale' si rivela l'influenza della scuola sociologica francese, in particolare delle tesi di Émile Durkheim e Marcel Mauss, che individuavano nella struttura sociale delle culture primitive l'origine delle loro forme di classificazione simbolica. Infine Josselin de Jong rileva la capacità delle culture dell'area indonesiana di resistere alle influenze esterne (l'induismo prima, e in seguito l'Islam) e di incorporarne selettivamente solo alcuni elementi (4).
Benché Josselin de Jong si limiti ad analizzare in termini di area culturale l'arcipelago indonesiano, la nozione di ethnologisch studieveld è formulata in termini tali da essere applicabile a qualunque altro contesto. Non è da escludere che uno stimolo all'elaborazione di questo concetto sia venuto a Josselin de Jong dalle ricerche condotte fra gli Indiani Blackfeet e Ojibwa fra il 1910 e il 1911. Può sorprendere in proposito che, nonostante le sue indagini nell'America settentrionale fossero di tipo linguistico, Josselin de Jong abbia privilegiato come criteri distintivi dell'area culturale aspetti inerenti all'organizzazione sociale e alla cosmologia, relegando in secondo piano, oltre alle caratteristiche ambientali e geografiche, anche quelle linguistiche.
Se la lezione inaugurale del 1935 delinea un programma di ricerche destinato a svilupparsi nell'arcipelago indonesiano negli anni successivi, la tesi di dottorato discussa nello stesso anno da F.A.E. van Wouden, un allievo di Josselin de Jong, può essere considerata il primo passo nella realizzazione di questo programma. L'opera, dedicata all'analisi dei tipi di struttura sociale presenti nell'Indonesia orientale, ricalca lo schema tracciato da Josselin de Jong, individuando nel connubio asimmetrico, nella discendenza doppia e nei modelli di opposizione dualistica le caratteristiche strutturali di un numero rilevante di culture dell'arcipelago. Il connubio asimmetrico è considerato da van Wouden l'elemento portante dell'organizzazione sociale, il perno intorno al quale ruota l'attività di clan e gruppi di discendenza e che fornisce, con la sua struttura dualistica (datori/prenditori di donne), il modello a tutte le forme di classificazione sociale e simbolica: "Il cosmo e la società - egli scrive - sono organizzati nello stesso modo" (v. van Wouden, 1935; tr. ingl., p. 2). La dimostrazione della sostanziale omogeneità fra assetto sociale, rituali e miti è lo scopo che egli si prefigge, facendo così propria la prospettiva adottata da Josselin de Jong, una prospettiva che, presentando le componenti sociali e simboliche della cultura come saldamente integrate in un tutto al cui interno ogni elemento svolge una funzione specifica, risente sia dell'influsso della scuola britannica di Malinowski e Radcliffe-Brown, sia dell'insegnamento di Durkheim e Mauss.
Van Wouden tenta di dimostrare come la dicotomia si manifesti sul piano sociale nell'aggregazione dei clan in due fratrie e sul piano politico assumendo la forma di una rigorosa divisione dei poteri fra due capi associati alle fratrie: un capo religioso, 'signore della terra', al quale compete l'esecuzione dei rituali che assicurano la fertilità del suolo e la fecondità di uomini e animali, e un capo dotato invece di prerogative politiche e militari. Il primo, benché privo di effettivi poteri di controllo, gode di un prestigio maggiore ed è gerarchicamente superiore al capo secolare. Il dualismo politico si riflette in una categorizzazione diadica sul piano cosmologico (cielo/terra, femminile/maschile) e trova nel mito - che funge da modello ai principî dell'organizzazione sociale - la propria legittimazione.
Analogamente a Josselin de Jong, van Wouden ricorre esclusivamente a criteri di natura sociale e simbolica per definire i limiti dell'area culturale indonesiana e non utilizza lo strumento linguistico. Anche James Fox (v., 1980), nel tentativo di riformulare in termini più aggiornati le caratteristiche comuni alle numerose società dell'Indonesia orientale analizzate da van Wouden, ha privilegiato criteri attinenti alla sfera sociale (il nesso fra l'abitazione, costruita secondo principî che riflettono l'ordine cosmico e sociale, e il gruppo di discendenza che la abita; l'alleanza matrimoniale concepita come 'trasmissione di vita' compiuta tramite le donne; il rapporto fra il fratello della madre e il figlio della sorella). Tuttavia egli ha fatto anche esplicito riferimento all'esistenza di costanti linguistiche, sottolineando che i termini che designano le categorie culturali comuni a molte società indonesiane hanno un'indiscutibile radice comune. Recentemente Robert Barnes (v., 1985) ha sottoposto a una critica stringente quelli che Josselin de Jong e van Wouden indicano come tratti caratteristici dell'area culturale indonesiana, dimostrandone - alla luce delle più recenti acquisizioni etnografiche - la parziale inconsistenza.
Il modello teorico dell'ethnologisch studieveld, elaborato sotto l'influsso del funzionalismo britannico e della scuola sociologica francese, presenta significative differenze rispetto alle nozioni di area culturale e di area cronologica messe a fuoco da Wissler. L'area wissleriana si caratterizza per la presenza di un centro da cui i tratti culturali si diffondono per irradiazione verso la periferia; l'ampiezza dell'estensione territoriale di un tratto è - per Wissler - indice della durata del suo processo di diffusione e quindi prova sicura della sua maggiore o minore antichità. Nell'ethnologisch studieveld invece non è esplicitamente presente alcuna dimensione cronologica. Mentre le culture situate entro l'area wissleriana possiedono, in relazione alla loro distanza dal centro, un diverso numero di tratti distintivi (poiché tale numero decresce in misura proporzionale alla distanza dal centro), la nozione di ethnologisch studieveld implica l'esistenza di un numero limitato di caratteristiche strutturali reperibili in tutte le culture situate entro l'area. Inoltre, mentre Wissler individua come tratti specifici di un'area sia elementi della cultura materiale (manufatti e tecniche), sia elementi attinenti alla sfera sociale e simbolica (pratiche e credenze), per Josselin de Jong gli aspetti caratterizzanti il campo di studio etnologico appartengono esclusivamente all'organizzazione sociale e all'ambito mitico-rituale.
A differenza di Wissler, che distingue le culture in termini quantitativi sulla base di semplici somme o sottrazioni di tratti, Josselin de Jong osserva che la diversa combinazione delle costanti strutturali dà vita a varianti locali fra le quali è possibile operare una fruttuosa comparazione perché l'analisi di ogni variante facilita la comprensione delle altre. Perciò se i modelli teorici di Wissler e dei diffusionisti austrotedeschi appaiono prevalentemente orientati al rilevamento delle somiglianze, la scuola olandese tende piuttosto a privilegiare la nozione di differenza e a focalizzare le variazioni come prodotto della combinazione di un numero limitato di costanti strutturali. Per queste sue caratteristiche la nozione di ethnologisch studieveld appare ormai lontana dagli orizzonti delle scuole antropologiche del primo Novecento e sembra invece prefigurare alcune delle principali tematiche (in particolare il concetto di 'sistema di trasformazioni') dello strutturalismo di Lévi-Strauss. (V. anche Cultura; Geografia umana).
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