AREE VALUTARIE OTTIMALI, Teoria delle
È opportuno premettere che nell'ambito di questa teoria ci si riferisce in generale a una definizione restrittiva di a. v. o monetaria: si considera tale un'Unione doganale (v.) i cui componenti si accordino per garantire la libera circolazione dei prodotti e dei fattori di produzione, la fissità nei tassi di cambio relativi e la piena convertibilità reciproca - cioè l'assenza di ogni restrizione sui cambi all'interno dell'area - e quindi, eventualmente, l'adozione di un'unica moneta. L'analisi teorica svolta nell'ambito di questo approccio si occupa in effetti dei problemi d'integrazione (o disintegrazione) monetaria ottimale delle a. v. esistenti che, in base alla definizione qui adottata, sono generalmente delimitate da frontiere nazionali storicamente determinate e coincidono dunque con stati sovrani. È evidente che l'evoluzione della teoria in questo senso 'è dipesa in parte dall'importanza dei recenti tentativi di pervenire alla costruzione di un'unione monetaria europea. L'accezione comune del termine a. v. è assai meno precisa: generalmente s'intende come tale l'area territoriale comprendente i paesi le cui contrattazioni internazionali vengono di fatto effettuate in termini di una sola valuta, o che, quantomeno, tendono a mantenere rapporti di cambio fissi, o relativamente stabili. Si parla così per es. di area del dollaro, di area della sterlina e, recentemente, di area del marco.
La problematica delle a. monetarie ottimali nella presente e ben precisa accezione è stata posta esplicitamente per la prima volta da R. Mun- dell agl'inizi degli anni Sessanta. Si considerino due paesi, A e B, con monete diverse e inizialmente in equilibrio sia interno che esterno. Si supponga inoltre che entrambi i paesi siano suddivisi in due regioni: Nord e Sud, la prima prevalentemente industriale, la seconda prevalentemente agricola. Ove si verifichi uno spostamento della domanda verso i prodotti industriali, si determineranno tendenze inflazionistiche a nord e recessive a sud. Se si vogliono preservare l'occupazione e la sua localizzazione, le banche centrali dei due paesi finanzieranno il processo inflazionistico nelle regioni settentrionali, in modo che l'aggiustamento abbia essenzialmente luogo in termini di variazioni delle ragioni di scambio e quindi dei redditi reali tra le regioni. L'esempio pone in evidenza che non sempre la flessibilità nei tassi di cambio tra zone valutarie esistenti serve a evitare il dilemma tra inflazione e disoccupazione.
Nel caso considerato le valute nazionali dovrebbero essere sostituite da valute regionali. Ma, in questa prospettiva, qual è la caratteristica che permette di delineare le regioni come unità economiche differenziate? L'esempio sopra considerato si sofferma sulla omogeneità del prodotto, ma, a ben vedere, non è questo un elemento fondamentale: quel che veramente conta è la piena mobilità interna dei fattori di produzione, che permette di trascurare il problema della localizzazione dell'occupazione e cioè quello di squilibri interni della domanda. La conclusione cui si perviene è dunque che la regione, così definita, rappresenta l'a. v. ottimale.
La novità dell'approccio di Mundell non risiede tanto nello schema analitico, quanto nelle ipotesi di base in esso formulate. In effetti, l'assunto che gli economisti classici avevano posto alla base delle teorie del commercio internazionale era che le diverse nazioni fossero appunto caratterizzate da elevata mobilità interna e scarsa mobilità esterna dei fattori. Ipotesi, però, che non sempre trova riscontro nella realtà: per es. l'Irlanda - che da centocinquanta anni è de facto legata al Regno Unito in un'unione monetaria - è caratterizzata da scarsa mobilità interna del lavoro, ma da un'elevata mobilità nei confronti del Regno Unito.
I successivi sviluppi della teoria si sono concentrati sulla ricerca di criteri alternativi per l'identificazione di un'a. monetaria ottimale, seguendo tuttavia l'impostazione di massima data al problema. Si è così indicato come elemento basilare per delimitare un'a. monetaria l'"apertura" del sistema economico a cui essa si dovrebbe riferire - definendo come tale sia un'alta propensione marginale all'importazione, sia un'aliquota elevata di prodotti commerciabili internazionalmente, in condizioni concorrenziali, sul prodotto globale dell'a., sia una stretta integrazione dei mercati monetari e finanziari. In particolare, l'elevata propensione marginale all'importazione - che in generale è associata a una significativa propensione marginale al consumo di prodotti commerciabili - assicura che la correzione di eventuali squilibri esterni tramite il controllo della domanda aggregata comporterà costi relativamente limitati in termini di occupazione interna dei fattori. Il fatto poi che i prodotti commerciabili rappresentino un'aliquota rilevante del prodotto globale e che vi sia una forte concorrenza internazionale comporta che i prezzi di una parte importante del prodotto interno tenderanno a essere fissati sui mercati internazionali; questo di per sé impedisce che possa validamente operare il meccanismo classico delle variazioni nel tasso di cambio, secondo il quale si determinano mutamenti permanenti nei prezzi relativi dei prodotti commerciabili e non commerciabili e, per questo tramite, nel rapporto produzione/assorbimento interno; al limite diventa infatti impossibile influenzare le ragioni di scambio. Gli effetti desiderati sull'equilibrio esterno possono essere raggiunti solo in quanto la manovra del tasso di cambio comporta variazioni nello stock reale di moneta, agendo sul livello generale dei prezzi, ma si ricade così in politiche economiche che influenzano la domanda aggregata. Inoltre la manovra indiretta tramite il tasso di cambio può risultare meno idonea di quella effettuata con interventi diretti: in assenza d'illusione monetaria, le variazioni nei salari reali conseguenti alla modifica del tasso di cambio possono non essere accettate, dando invece origine a richieste compensative, per cui non solo i movimenti nel tasso di cambio diventerebbero inefficaci, ma potrebbero avere effetti perversi sullo squilibrio esterno, ove i volumi del commercio internazionale dimostrassero vischiosità di aggiustamento.
Un approccio in parte diverso ai problemi d'integrazione monetaria ottimale è stato sviluppato partendo dalla constatazione che gli andamenti dei costi all'interno dei vari paesi possono divergere in maniera sistematica a seguito di aspetti strutturali, connessi, per es., a differenze nella spinta salariale e nella forza contrattuale delle unioni sindacali. Ove si riscontri, da un punto di vista empirico, che tali divergenze sono generalmente rilevabili al livello nazionale, tanto da determinare "propensioni nazionali all'inflazione", si perviene alla conclusione che le nazioni tendono a essere a. v. o., e che le variazioni dei tassi di cambio tra le valute esistenti rispondono quindi spesso a una logica ottimale. Le diversità di questo approccio rispetto ai precedenti possono essere tuttavia, sotto certi aspetti, ricondotte agli assunti di partenza. Se infatti s'ipotizza una perfetta mobilità dei fattori nell'ambito di un'area multinazionale, si deve ammettere che sviluppi divergenti nei costi sono difficilmente attribuibili a fattori strutturali o "reali". Occorre osservare inoltre che, anche se tali divergenze dovessero manifestarsi, il perseguimento di una politica di pieno impiego a livello dell'a. comporterebbe solo che i paesi in disavanzo vedrebbero gradatamente diminuire l'occupazione interna, il che, per definizione, non rappresenta un costo. Si ritorna in questo modo all'importanza del criterio della mobilità dei fattori: l'integrazione monetaria trasforma gli squilibri esterni in squilibri regionali, ma, nell'ambito dell'a. v. o., questi sono automaticamente risolti da spostamenti dei fattori.
Ove si consideri che la mobilità dei fattori rappresenta in sé un elemento significativo per valutare l'apertura di un sistema economico, tutti i criteri ora esaminati possono esser considerati come qualificazioni e completamenti dello schema originariamente proposto da Mundell. Affinità si riscontrano anche nel fatto che i diversi approcci servono a porre in evidenza i casi in cui i costi nel fissare il tasso di cambio risultano trascurabili, piuttosto che a enucleare quelle che dovrebbero essere a. monetarie ottimali, nel senso che i costi marginali sociali derivanti dall'adozione di un tasso di cambio immutabile risultano inferiori ai guadagni marginali. Sotto questo punto di vista, i contributi esaminati rappresentano solo elementi costitutivi di una teoria generale delle a. v. o. che tenga esplicitamente conto di questi risultati contrastanti, tanto al livello statico che dinamico.
Un primo passo importante in questo senso consiste nell'identificazione dei costi e dei benefici impliciti nel processo stesso di spostamento dei fattori e in particolare delle forze di lavoro. Mentre si era generalmente ipotizzato che la mobilità dei fattori conducesse a guadagni di benessere e di produttività, in relazione a una più efficiente allocazione delle risorse, recentemente si è cominciato a riconoscere che, nello spostamento dei fattori, le diseconomie esterne possono invece acquistare spesso un peso predominante: per es., in un'ottica statica, a seguito di fenomeni di congestione dei poli di sviluppo esistenti e, a livello dinamico, perché l'emigrazione può influire negativamente sul ritmo di accrescimento dello sviluppo tecnico interno. Si tratta cioè di affrontare esplicitamente la mobilità dei fattori come problema di economia del benessere.
Bisogna poi identificare e valutare i vantaggi che possono derivare dall'adozione di una valuta comune - il che può significare anche il mantenimento di monete formalmente diverse, ma pienamente convertibili e irrevocabilmente legate da cambi fissi nell'ambito di un mercato comune - quali, per es.: 1) riduzione dei costi di transazione, d'informazione e di gestione finanziaria, vantaggi questi sostanzialmente connessi a un uso più completo della moneta e che dipendono quindi, da un punto di vista quantitativo, dalla situazione iniziale delle varie valute considerate, in termni di stabilità di potere d'acquisto rispetto alla spesa nazionale; 2) aggregazione di rischi diversificati e quindi riduzione dell'impatto di scosse destabilizzanti; 3) risparmio nelle riserve ottimali; 4) riduzione dell'incertezza sulle transazioni future anche a seguito dell'eliminazione della speculazione sui tassi di cambio all'interno dell'area.
È infine necessario pervenire a una valutazione globale dei costi e dei ricavi che possono essere ottenuti mediante una politica d'integrazione e disintegrazione valutaria, in modo da disporre di elementi probanti sulla problematica delle a. v. ottimali. Bisogna tuttavia sottolineare al riguardo che le scelte di fondo richieste dalla creazione di a. v. diverse da quelle esistenti comportano la cessione (o la creazione) di prerogative che sono tradizionalmente attribuite a stati sovrani, ed esulano quindi da scelte puramente tecniche.
Bibl.: R. Mundell, A theory of optimum currency areas, in American economic review, 1961; R. McKinnon, Optimum currency area, ibid., 1963; W. Corden, Monetary integration, Princeton essay, in International finance, 1972, n. 93; The economics of common currencies, a cura di H. Johnson e A. Swoboda, Londra 1973; G. Magnifico, European monetary unification, ivi 1973.