ARETINI o ARRETINI, Vasi
La locuzione "vasi aretini" risale già all'antichità. Fra tutti i passi di autori antichi (v.: Thesaurus linguae Latinae: Onomasticon; s. v.: Arretinus), il più esplicito per dimostrare il valore dell'espressione è quello di Isidoro (Etym., xx, 4, 5): Arretina vasa ex Arretio municipio Italiae dicuntur, ubi fiunt; sunt enim rubra. Da aggiungere anche che impresso su alcuni vasi di questa classe ceramica appare, in varia accezione, l'aggettivo Arretinus.
È assai probabile che già in antico, analogamente a quanto avveniva per Samius (v. Sami, vasi), l'attributo Arretinus sia stato usato in riferimento a termini vascolari, in senso lato, dando più le caratteristiche tecnologiche della produzione vascolare che non un'indicazione di provenienza. In epoca recente il termine aretino è stato erroneamente adottato per definire prodotti di tecnica e aspetto similari a quelli dei vasi di Arezzo, ma di produzione non aretina: appunto per evitare confusioni per indicare la ceramica autentica di Arezzo si è usato il termine arretino. Mentre è da escudersi l'estensione del termine alla ceramica delle categorie che vanno sotto il nome di "Terra sigillata" (v. Terra sigillata), il termine aretino può essere accettato per indicare la produzione di fabbriche non ancora ben localizzate della penisola italiana. Per la produzione di Puteoli sarà opportuno usare l'aggettivo puteolano (v. Puteolani, vasi).
I vasi aretini sono di terracotta, assai ben depurata, ben cotta, e coperti da una vernice lucida di color rosso di varie tonalità, spesso anche rossocorallo (da ciò la locuzione "vasi corallini" usata da studiosi locali nel secolo scorso e oggi abbandonata completamente dagli specialisti), che copre con uno strato sottilissimo, molto aderente all'argilla e steso uniformemente, tutta la superficie del vaso. Sulla composizione e sulla preparazione della vernice sono stati compiuti diversi studi (v. bibliografia); tuttavia i tentativi di riprodurre tale vernice hanno sortito esito insufficiente, e le imitazioni sono pertanto facilmente riconoscibili.
Chiaro è il processo di fabbricazione del vaso. Sotto questo punto di vista si soglion distinguere i vasi aretini in tre categorie.
1) Vasi privi di decorazioni a rilievo, detti anche lisci. Ottenuti al tornio, verniciati a tuffo, erano cotti senza subire altre operazioni se si esclude la "rotellatura" e l'applicazione di manici o anse, quando vi sono, operazioni queste fatte sulla creta umida, di solito prima della verniciatura. In tale stadio di fabbricazione era impresso il marchio di fabbrica, una sola volta (all'interno, nel fondo), o più volte. Il marchio ha il nome del proprietario al genitivo, da solo oppure seguito o preceduto da quello del lavorante, generalmente uno schiavo, espresso al nominativo; qualche volta si aggiungono varî simboli (palme, corone, ecc.), qualche altra tali simboli sostituiscono la firma. In alcuni casi l'articolazione della firma è più complessa. I nomi sono racchiusi entro contorni di forma particolare: rettangoli, anche variamente incorniciati, cerchi, mezzelune, ecc.: frequentissima, soprattutto nelle fasi meno antiche, la pianta pedis (di solito del piede destro); più raro, invece, il contorno a forma di mano. Su molti esemplari la marca è assente.
2) Vasi fatti al tornio con decorazione applicata. Il vaso, organicamente fabbricato come quelli della categoria precedente, era decorato, sull'esterno dell'orlo, con motivi a rilievo, qualche volta modellati a mano libera in argilla diluita aggiunta (tecnica à la barbotine), più spesso con applicazioni ottenute da stampi e saldate con poltiglia o colla vernice. Le operazioni successive avvenivano come per i vasi lisci.
3) Vasi con decorazioni a rilievo ottenuti da matrice. È la categoria sulla quale maggiormente si è fermata l'attenzione degli studiosi, in considerazione del maggior interesse dal lato estetico che questa categoria presenta, e anche perché in essa è più agevole studiare certe forme di lavorazione e certi rapporti di lavoro che interessano la storia economica e sociale.
Si preparava al tornio una matrice di argilla, a forma di ciotola nei casi più numerosi, incavandovi all'interno quelle figure e quei segni che si desiderava avere poi in rilievo nel corpo del vaso e viceversa. Tenendo conto del restringimento della creta nell'asciugarsi e nel cuocere, le dimensioni dovevano essere maggiori di quelle che si voleva che risultassero. Per mezzo di punzoni che venivano impressi nella cavità interna della forma, con stampi a cilindretto e con lavoro a mano libera di stecca e di punta, il lavorante componeva la decorazione voluta che, ovviamente, risultava nella faccia interna della matrice, con i valori di rilievo e di incisione invertiti. Durante il lavoro di punzonatura, quando era richiesto, veniva impresso il marchio di fabbrica, unico o doppio, col nome del proprietario e del fabbricante, o ripetuto. Non sempre, però, tale timbro era impresso nella matrice: né in tutti i casi esso contiene, accanto al nome del proprietario, quello dell'esecutore materiale ("lavorante") della decorazione. In certi casi, assai rari, le iscrizioni di fabbrica erano tracciate a mano libera: in altri con lettere isolate o al tratto o punteggiate. Alle volte la matrice, nel fondo, reca graffita una sigla o una cifra, probabilmente riferentesi alla serie affidata al lavorante. In certi casi restano nella matrice residui delle linee di guida che servirono per la punzonatura e altre tracciate per indicare i punti nei quali dovevano essere correttamente saldate parti aggiunte (anse, manici, piedi). Dopo tale lavoro la matrice veniva cotta. Dalla matrice così approntata si poteva ricavare, con semplice procedimento meccanico, un numero imprecisato, ma assai elevato, di vasi fra loro identici nella decorazione e nelle dimensioni, salvo lievissime varianti nel rilievo dovute soprattutto al logorio subìto dalla forma. Per ottenere il vaso, la matrice, ricollocata al centro del tornio, era rivestita all'interno da una sfoglia di argilla che veniva spalmata in maniera omogenea per mezzo del movimento di rotazione del tornio, ottenendo in tal modo anche una pressione uniforme della creta e la levigatezza di essa nella faccia non in contatto con la matrice. Inoltre, sempre tenendo il tornio in movimento, si faceva sporgere sopra l'orlo della matrice un tratto di argilla che, modellata e sagomata con il moto di rotazione, veniva a risultare il labbro del vaso su cui poi si interveniva con la stecca e con rotelle dentate per dare la zigrinatura di certe modanature. Dopo di ciò si lasciava asciugare lo strato di creta così trattato entro la matrice fino a che, contraendosi l'argilla per la perdita di umidità, il vaso crudo poteva esser tolto dalla forma. Al tornio esso era completato con l'aggiunta o la sagomatura del piede: se necessario si applicava il manico o le anse, preventivamente preparati, per lo più in altre forme, ed eventuali applicazioni decorative. È assai raro riscontrare ritocchi sul vaso. Le operazioni successive si svolgevano in maniera identica che per le altre categorie.
Questo procedimento, se esigeva più lunghe e complicate operazioni dalla preparazione dei punzoni all'approntamento della matrice, dal lato industriale aveva il vantaggio di una produzione più numerosa ed intensa di manufatti finiti, col pregio di una decorazione sempre ben riuscita: e tale produzione era tanto facile che poteva esser affidata, per la "tiratura" del vaso, a maestranze prive di doti artistiche e solo sufficientemente specializzate. Inoltre questa tecnica permetteva quella gran cura dei particolari, quella finezza e ricchezza di motivi che sono caratteristiche della ceramica aretina a rilievi senza incorrere, peraltro, in un eccessivo costo di mano d'opera educata e numerosa, permettendo in tal modo una forte diffusione dei prodotti anche presso le classi povere. Si deve pure supporre che la vastissima diffusione geografica dei vasi aretini abbia trovato un elemento favorevole nel basso costo di produzione che permetteva di portare i prodotti su mercati lontani, essendo i noli ripagati da una leggerissima riduzione degli utili, senza dubbio assai forti. La produzione in serie, inoltre, dovette permettere di mantenere i prezzi di vendita entro limiti assai bassi, pur consentendo forti guadagni. Sia perché entrarono in tutti gli strati sociali, sia perché si diffusero in tutto il mondo antico, anche in regioni fuori dell'influenza classica, i vasi aretini a rilievo rappresentarono un veicolo di linguaggio figurativo e di motivi di grande importanza. Accanto all'interesse artistico che essi, a prescindere da ciò, presentano, la loro importanza ai fini della storia civile e sociale non è secondaria.
Le fasi di fabbricazione e la tecnica in generale dei vasi aretini sono state indagate sulla cospicua. massa di materiale che trovamenti e scavi, fin dal Medioevo, ricuperarono dal sottosuolo di Arezzo nei luoghi presso i quali sorgevano le fabbriche oppure dove esse ebbero i loro scarichi. Già ne fa menzione Ristoro d'Arezzo che scrive nel 1282 e che reputa, come più tardi G. Villani nelle sue Cronache, quasi impossibile che essi fossero fattura di mano umana. Se la gran massa di questo materiale, nei secoli addietro, è andata irrimediabilmente perduta, e se buona parte è dispersa in varî musei e collezioni, tuttavia il Museo Civico di Arezzo conserva una cospicua raccolta. Ivi son conservati i reperti degli scavi governativi del 1883 e del 1886-87 a 5. Maria in Gradi, buona parte di quelli provenienti dalle ricerche compiute in varie date del secolo scorso, soprattutto dal Funghini e dal Gamurrini, in altri luoghi, e specialmente a Cincelli. Al museo di Arezzo sono stati destinati anche gli abbondanti frutti degli scavi praticati presso Viale della Chimera (1954-55), che si riferiscono allo scarico dell'officina di Cn. Ateius. Pure il cospicuo materiale di "terra sigillata" della Gall. Gorga è depositato al museo aretino. Buone raccolte di ceramica aretina, frutto degli scavi di Arezzo, sono al Museo Archeologico di Firenze, al Museum of Fine Arts di Boston, al Metropolitan Museum di New York, al museo di Berlino (dove finirono anche i reperti degli scavi di vasellame puteolano), al British Museum, al Louvre, a Tubinga, a Milano, ecc. Una buona raccolta privata fu formata da J. Loeb. Di molte collezioni, compresa quella di Arezzo, non si aveva ancora il catalogo nel 1956.
Nei ritrovamenti di Arezzo si sono ricuperate poche decine di punzoni: si tratta di stampini in terracotta con un'appendice posteriore che ne facilitava il maneggio. Essi potevano esser modellati espressamente oppure con varî semplici procedimenti meccanici esser ricavati da precedenti impronte. Tali derivazioni non sempre sono da interpretarsi come espedienti per risparmiare lavoro, ma come intenzionali sistemi per ridurre di proporzioni determinati tipi, in modo da poterli adattare a vasi di dimensioni e di forme differenti da quelle per cui era stato creato l'archetipo. È probabile che fossero in uso punzoni di altro materiale, legno o metallo; però non ci è pervenuto nessun esempio e dall'esame dei rilievi non si ricava alcun dato. Testimoniati invece, anche se rarissimi, i casi in cui furono utilizzate, in maniera analoga ai punzoni, monete e pietre incise.
Numerosissime le matrici e i frammenti di esse. Ci sono pervenute pure molte matrici a placca con serie di impronte per preparare le applicazioni. Abbiamo anche forme per anse e per manici.
Fra i vasi hanno anche interesse certi scarti e prodotti mal riusciti che validamente ci istruiscono sulle particolarità tecnologiche più minute. Di fronte al materiale ceramico trovato altrove, è da avvertire che la maggior parte dei vasi trovati ad Arezzo appartiene alla produzione difettosa, oppure finì negli scarichi per incidenti subiti.
I vasi aretini sono quasi sempre vasi da mensa: escono da questa categoria soltanto poche forme: il salvadanaio, il calamaio e qualche altro tipo. Da non dimenticare che nelle officine di vasi vennero confezionate anche lucerne. Le dimensioni non sono generalmente quelle, talvolta gigantesche, del coevo vasellame metallico: il più grande vaso aretino che si conosca, e si tratta di un pezzo eccezionale, è una sorta di cratere di circa cm 40 di diametro. Predominano i piatti, fra i quali ben rappresentati sono i vassoi di largo diametro, lisci o con scarsa decorazione applicata, e le tazze da bere, queste per lo più decorate a rilievo. Non mancano craterischi e brocche; molto numerosi sono i vasetti di piccola capienza, di destinazione non sempre precisabile: saliere, salsiere, ecc. Fra i vasi da bere le forme sono svariate: però la tipologia è abbastanza limitata. Le forme sono riducibili a non molti gruppi, omogenei per quanto riguarda l'andamento della parte decorata. Infatti da una matrice si potevano ottenere più tipi di vaso, variando quelle parti che erano plasmate fuori della matrice (tipo del piede, orli variamente sagomati, anse attaccate in maniera diversa, ecc.): si hanno, ad es., brocche ricavate da matrice che solitamente produceva coppe emisferiche, ecc. Da aggiungersi le varianti risultanti dalla diversa configurazione dell'orlo, che in più di un caso dànno luogo a veri e proprî tipi diversi. Ciononostante è più razionale istituire una tipologia dei vasi secondo il loro profilo, basandosi sul tipo che presenta la cavità della matrice. Adottando parzialmente questo criterio, il Dragendorff (Dragendorff-Watzinger, Arr. Reliefkeramik, p. 20 ss., fig. 2) distingue una quindicina di tipi principali nella produzione con rilievi; tale tipologia è però da ritenersi incompleta. Abbiamo calici senza anse, tondeggianti o allungati, tazze emisferiche e carenate, kàntharoi, sköphoi, bicchieri, modioli, piatti svasati, coppette, ecc. Anche i coperchi, di cui manca uno studio, erano il più delle volte ottenuti da matrici: di esse si conservano diversi esemplari, mentre assai rari sono i frammenti appartenenti ai coperchi da esse ottenuti.
Per quello che riguarda la forma, la ceramica aretina è strettamente imparentata con i prodotti contemporanei di eguale natura ma di diverso materiale, come i vasi di vetro, di pietra nobile, di terracotta smaltata e di metallo. Fu soprattutto la toreutica che offrì ai ceramisti aretini (e in genere a tutti i produttori di "terra sigillata") i modelli con i quali i vasi a rilievi hanno tanti altri punti di contatto, non solo nella forma, ma anche nei criteri e nel repertorio decorativi. Le nuove forme che i vasi presentano, se si riannodano fondamentalmente a quelle della ceramica anteriore, tuttavia nel loro insieme, nelle proporzioni, nelle sagome dei profili come nei particolari non trovano riscontri nella ceramica precedente. Concordano invece per caratteristiche decorative e di forma con i vasi aretini gli esemplari della toreutica contemporanea, di cui i "tesori" di argenteria d'età imperiale e i trovamenti delle città vesuviane ci hanno dato un certo numero di esemplari. Anche per la ceramica aretina si può affermare quanto spessissimo vale per tutta la ceramica antica: essa non rappresenta che una produzione più a buon mercato, la quale imitava il vasellame di materia più nobile, soprattutto in metallo. Che in più di un caso si possa parlare di "traduzione" in argilla di motivi di vasi bronzei o argentei pare provato (Frijs Johansen, in Acta Archaeologica, I, 1930, p. 273 ss.); ma non si deve pensare che ogni esemplare in terracotta, e nemmeno che ogni suo motivo, abbia avuto un modello metallico per la decorazione, se non altro per il carattere tecnico delle composizioni, i cui motivi, spesso di fonte diversa e validi per più sequenze e tipi di decorazione, sono accostati in svariate maniere e con effetti profondamente diversi. Ci si deve limitare, perciò, a supporre un parallelismo, non una dipendenza, della ceramica a rilievi rispetto alla toreutica. E nella produzione seriore anche questo parallelismo spesso vien meno e la decorazione si sviluppa secondo la natura e le esigenze tecniche più proprie del materiale che l'artigiano lavora, secondo una mentalità di plasmatore piuttosto che di toreuta. Tuttavia nell'amplissimo panorama figurativo e ornamentale che la ceramica aretina offre è legittimo sentire un'eco non troppo approssimativa del vasellame di metallo per altra causa prezioso che ornava le mense dei ricchi e che a noi non è pervenuto che in misura scarsissima e in esemplari non sempre appartenenti alla produzione più fine. E questo è un altro contributo indiretto che offre il vasellame aretino per la storia delle arti figurative.
Non ancora ben chiara è la soluzione che gli studiosi han dato al problema che riguarda i precedenti dell'industria aretina. È indubbio che le esperienze, spesso anche fortunate, di ceramica a rilievi ottenuta da matrici e da stampi rappresentano uno stadio preparatorio necessario dal lato tecnico ed artistico. Nei vasi "megaresi" delle varie fabbriche in suolo ellenico o ellenizzato o italico (da non dimenticare anche per la vicinanza topografica i vasi megaresi italici fabbricati a Mevania e ad Ocriculum da vasai di nome italico), nei vasi "pergameni" d'Asia Minore sono da vedersi più o meno immediati precedenti alla tecnica e al gusto dei vasi aretini (e alla "terra sigillata" in generale), mentre la produzione della cosiddetta ceramica etrusco-campana, di cui fabbriche sono testimoniate anche per Arretium, formò e mantenne una tradizione di attività ceramica. Se i nomi dei proprietari delle fornaci che appaiono per primi cronologicamente nella onomastica aretina sono italici, quelli dei lavoranti, esecutori materiali dei vasi, sono in principio esclusivamente greci od orientali. Questi dati ed anche altri indizi non valgono tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, a spiegare in maniera esauriente la nascita repentina, proprio in Arretium, e il successo immediato di un'industria già adulta, di un artigianato che, per quanto sappiamo, dimostra di possedere sin dal primo momento un grado di perfezione tecnica ed una coscienza delle possibilità che il procedimento e la materia gli offrono non più superato. Infatti, col progredire della produzione nel tempo, non solo non si possono notare perfezionamenti apportati, ma si assiste ad una degenerazione soprattutto dal lato tecnico.
Se è probabile che la produzione di vasi aretini decorati con rilievi sia stata preceduta di poco da quella di vasi "lisci" a vernice rossa con marca-decorazione che ritorna in esemplari in vernice nera (ma tale punto non è stato ancor indagato con serietà), si deve ritenere, in base ai dati che abbiamo, che il creatore dell'industria sia stato M. Perennius (v.), personalità di grande sensibilità artistica ed abile quanto fortunato uomo d'affari. Lasciando da parte la questione se sia stato lui ad introdurre la produzione di vasi aretini con decorazione a rilievo (ma non si conosce alcun esempio che possa ritenersi anteriore ai primi pezzi creati da Perennius), è a lui che si deve attribuire in pratica la fondazione, non solo della propria industria, ma anche di una tradizione artigiana che ebbe forte vitalità sia nella sua ditta, attraverso più generazioni di maestranze e varie gestioni, sia presso gli imitatori ed i concorrenti.
In passato (ad es. dal Gamurrini e dal Dragendorff nei suoi primi lavori) si poneva l'inizio della produzione aretina nella prima metà del I sec. a. C.: ma ora, in seguito a più precisi studî, tale limite è stato notevolmente abbassato. Lo Hänle pensò al 50 a. C., l'Oxè (Arr. Reliefgefässe von Rhein) e H. Comfort (Pauly-Wissowa, Suppl. vii, s. v.: Terra sigillata) posero l'inizio della fabbricazione dei vasi aretini con rilievi posteriormente al 30 a. C. Il Dragendorff ultimamente (Dragendorff-Watzinger: Arr. Reliefkeramik) asserisce che l'attività delle fabbriche aretine non può esser iniziata prima del 25 a. C. Elementi cronologici specifici risultanti da singoli pezzi sono scarsi e logicamente assai approssimativi: cosi, per es., si può dire che la serie di Eracle con le Muse, della prima fase di Perennius (Cerdo, v.) è posteriore, ma non troppo lontana dalla dedica dell'aedes Herculis Musarum, compiuta da L. Marcius Philippus il 30 giugno del 29 a. C.: una tazza di G. Cispius (già erroneamente attribuita a Rodo P. Corneli, per falso restauro, v.: A. Stenico, in Archeol. Class., vii, 1955, p. 66 ss.) ha, ripetuta, l'impronta di una moneta di Ottaviano non anteriore al 27 a. C., ecc. Anche il repertorio, il gusto e lo stile dei rilievi ci portano all'arte augustea, senza che sia possibile, però, meglio specificare. Dagli scavi di Arezzo nessun elemento è uscito - né poteva uscire - a precisare ulteriormente la cronologia. Qualche elemento più preciso è stato dato dagli scavi e dall'esplorazione del materiale rinvenuto nelle località occupate dalle truppe romane nella Renania e nella Westfalia. Nella stazione militare presso Neusz, che non si data prima del 15 a. C., non furono riscontrati pezzi della prima fase perenniana che, si pensa, doveva esser perciò conclusa antecedentemente a tale data. Nel campo di Oberaden in Westfalia, dell'epoca di Druso, i cui ritrovamenti si datano all'ultimo decennio prima di Cristo, fu trovato un calice firmato da Pantagathus C. Anni, la cui attività viene appunto ad esser datata in questo periodo. Nel "grande accampamento" di Haltern (occupato, secondo alcuni, durante le operazioni di Germanico, 14-16 d. C., oppure già all'epoca della sconfitta di Varo, secondo altri) accanto ai prodotti "gallici" di Cn. Ateius, si son trovati vasi di P. Cornelius, ma scarsi pezzi di C. e L. Annius, di Rasinius e della tarda fase perenniana. Verso la fine del secondo decennio d. C. l'esportazione di ceramica aretina in Germama cessa, sostituita da altri prodotti, soprattutto dalla "terra sigillata" gallica. Anche in altre zone subentrano nuove ceramiche: nel Norico e nella Pannonia prendono il sopravvento prodotti di fabbriche che si sogliono localizzare nell'Italia settentrionale. I ritrovamenti effettuati in Britannia non permettono conclusioni in tale questione cronologica. Da questi dati il Dragendorff (H. Dragendorff-C. Watzinger, Arr. Reliefkeramik, p. 15 ss.) deduce che le officine di ceramica a rilievi di Arezzo abbiano cessato la loro attività verso il 20-25 d. C., mentre lo Hänhle riteneva, per es., che il declino fosse avvenuto alla fine del I sec. d. C. Il procedimento del Dragendorff è troppo rigido in questo punto e si basa eccessivamente su dati ex silentio. Infatti non tutti sono d'accordo sui limiti da lui proposti. Considerando, accanto ad altri indizi, anche la grande massa di prodotti corneliani e delle fasi tarde dell'officina di M. Perennius, nonché gli stretti rapporti tipologici fra la ceramica aretina e la cosiddetta "terra sigillata tardo-italica", pare che si debba ritenere ancora valida la data del 40 d. C. proposta dal Comfort (Pauly-Wissowa, Suppl. vii, c. 1310).
In base ai dati fino ad ora posseduti, pare perciò che fra il 30-25 a. C. e il 40 d. C. sia da comprendersi lo sviluppo dell'industria dei vasi a. decorati, la cui eredità commerciale e spesso anche tipologica fu assunta dalle fabbriche di "terra sigillata" italiche, padane o altrove situate come le "tardo-italiche", per breve tempo, più a lungo da quelle provinciali, soprattutto galliche (v. Terra sigillata).
Sulla scorta dei dati di scavo e valendosi di procedimenti che utilizzano gli elementi tecnologici, tipologici e stilistici, è possibile stabilire con una certa concretezza la cronologia relativa e i rapporti fra le diverse fabbriche. L'officina di M. Perennius ebbe una produzione che comprende tutto il periodo in cui ad Arezzo si fabbricarono vasi con rilievi. È su di essa, distinta nelle sue fasi principali, che si suole distribuire nel tempo la produzione delle altre officine.
Al Dragendorff sono note quattordici ditte, ma tale numero ora dev'essere aumentato di qualche nuovo nome (v. sotto): esistono inoltre molti frammenti che, allo stato dei fatti, non sono ascrivibili ad una o all'altra delle officine note nominativamente e che possono esser stati approntati da officine anonime o, più probabilmente, da altre di cui non ci è pervenuta alcuna firma.
Non sempre è stato localizzato con precisione in Arezzo o nella zona suburbana il luogo dove esistevano le fabbriche. In genere si è messa la mano sullo scarico, che è presumibile non fosse lontano dall'officina. In molti casi, poi, la localizzazione tradizionale è scarsamente documentata.
Gli scavi governativi del 1883 e del 1885-86 a S. Maria in Gradi (nella parte nord-occidentale dell'odierno abitato) hanno appurato l'esistenza nell'orto del convento e presso Piaggia del Murello di una fornace attribuibile per la gran massa del materiale recuperato alla ditta di M. Perennius. Ivi furon trovati anche frammenti di Rasinius e quelli, scarsi, firmati Heracl. Publi. Inoltre di lì provengono varie firme di Vibienus, frammenti con la firma incompleta C. Fast... e altri con la firma, forse acefala, al genitivo Eliaeis. Un'altra zona nella quale, se non altro, erano esistiti scarichi di vasellame aretino è quella che comprende l'area Badia-piazza del Popolo-teatro Petrarca-S. Francesco. Ivi furon rinvenute marche di C. e L. Annius, di L. Avillius Sura, di C. Volusenus, di C. Memmius, di L. Pomponius Pisanus, per citare solo i fabbricanti di vasi con rilievi. Molte di queste firme ed altre provengono però anche da una zona a N della città, fra Fonte Pozzuolo e Oriente: pare che si debba considerare questo deposito solo come uno scarico successivo, un riporto di terreno ricco di materiale archeologico compiuto in età medioevale. Secondo Gamurrini, l'officina di L. Titius, forse diverso da L. Titius Thyrsus, ma anch'egli produttore di vasi a rilievo, era in via dei Cenci (zona meridionale della città). Secondo il C. I. L., nella piazza S. Agostino c'erano diverse figuline, fra cui quella di C. Amurius, testimoniato anche come autore di vasi a rilievo. Recentemente (1954-55) fu scoperto casualmente lo scarico dell'officina di Cn. Ateius, tuttora in corso di scavo. Esso è situato presso l'incrocio di viale della Chimera con via Nardi, ad occidente, non lontano dalle Carciarelle e da Orciolaia dove, secondo vecchie notizie locali, v'erano resti di fornaci e dove sono stati trovati vasi lisci.
Un'altra zona di officine era situata fuori città presso l'Arno, a Ponte a Buriano, dove ebbe l'officina C. Tellius, e a Cincelli. In quest'ultima località furon trovati prodotti di C. Cispius e residui dell'officina con gran massa di materiale di P. Cornelius. Anche di C. Tellius e di C. Gavius furon trovati prodotti a Cincelli. In questa località per un certo momento (fase tarda di Tigranus e forse fase iniziale di Bargathes), ebbe una succursale anche l'officina di M. Perennius. Per le altre fabbriche non è possibile localizzare con precisione la sede, soprattutto se si tratta di officine che produssero esclusivamente vasellame liscio. Avendo esso scarso o nullo valore artistico qui non è trattato (né se ne occupa la bibliografia in calce riportata) il vasellame "liscio". Non appaiono neanche le voci di fabbriche e di lavoranti noti solo attraverso vasi senza decorazioni a rilievo. È tuttavia doveroso ricordare come i vasi "lisci" abbiano avuto una produzione ed una diffusione assai più intensa del vasellame decorato a rilievi ottenuto da matrice. Anche l'onomastica che esso ci conserva è molto più ampia: non insignificante è per questo l'interesse che questa categoria di vasi presenta per l'epigrafia. La frequenza nei ritrovamenti e negli scavi di questo materiale lo rende uno strumento essenziale per la determinazione cronologica degli strati che lo contengono.
Il rilievo che decora i vasi aretini può essere o di carattere narrativo, oppure decorativo. Fra questi predominano le decorazioni a base vegetale, naturalistica oppure stilizzata. In molti casi questa è stata ottenuta con la combinazione di piccoli motivi isolati giustapposti o legati da linee manoscritte, o da segmenti di retta o di cerchio, collocati con una tecnica che ricorda quella delle legature di libri "a piccoli ferri". In altri casi il decoratore palesa maggior libertà ed inventiva, componendo fregi in modo meno miniaturistico e con maggior coscienza degli effetti del rilievo ampio e mosso. Non infrequenti sono gli esempî in cui appare la figura umana combinata con schemi e motivi di derivazione vegetale o altrimenti decorativi. Se in queste composizioni sono frequentissimi le allusioni e gli attributi dionisiaci, nelle serie narrative le scene e le sequenze bacchiche son quelle che predominano: e ciò è naturale dato l'impiego simposiastico del vasellame che portava queste decorazioni. Su sköphoi, la tazza tipica di Heracles, appaiono anche soggetti erculei. Ma gli elementi più frequenti della decorazione dei vasi aretini sono satiri e menadi, vendemmie e riti bacchici, erme e tirsi, maschere e vasi, edera e vite. Altre serie si ispirano alla danza, non sempre orgiastica, e alla musica, alla caccia e al circo; rappresentano atti di culto più generici; simposi e gruppi erotici, serie di numi, scene di gioco o farsesche. Appaiono scheletri in sequenze oppure in scene non esplicate. Non infrequenti sono episodî mitici o epici espliciti o più generici e le allusioni ad essi. Più rari sono invece i soggetti in relazione a qualche evento contemporaneo o di carattere celebrativo.
In linea assai generica si può distinguere nella utilizzazione dei punzoni un passaggio da una loro logica collocazione in sequenze per le quali appositamente furon prodotti, ad uno stadio in cui vengono accostati motivi di serie diverse, ma con analogia più o meno evidente di contenuto. In un primo tempo in queste contaminazioni si bada ad usare motivi che non stonino fra loro per stile e dimensioni: in seguito anche tale preoccupazione vien meno. Col cessare dell'interesse per la precisione narrativa o rappresentativa del fregio e col subentrare di un criterio esclusivamente decorativo, si giunge ad accostare fra loro punzoni di serie diverse senza alcun rapporto contenutistico e motivi di stile e di dimensioni assai diversi. Anche l'intervento a mano libera con l'avviarsi della produzione aretina verso l'epilogo si rarefà e diventa meno fine: ad es. alle "fogliette" subentrano i bottoncini o i tratti pesanti. Assai spesso nella tarda produzione le figure sono spaziate sul fondo liscio e anche per questo risultano assai più plastiche. Molti rilievi nella tarda produzione sono stati ottenuti da punzoni derivati. Col decadere della finezza di esecuzione nelle matrici e coll'affrettato approntamento da esse del positivo, mentre l'argilla usata è meno raffinata, anche la vernice perde molti dei suoi pregi: diventa più cupa di colore, più spessa e più densa e si distende in maniera meno uniforme, con colature e bolle. Frequenti sono nei prodotti seriori le scheggiature e le squamature della vernice, specialmente nelle pieghe dei rilievi. Col procedere delle fasi anche le forme dei vasi si modificano: dall'esile slancio e dall'eleganza fredda dei primi prodotti, si passa a forme più pesanti. Le sagome ottenute al tornio per gli orli diventano più ampie, maggiormente elaborate, spesso "barocche" nella sovrapposizione e nel profilo: si aggiungono decorazioni applicate, le anse e i manici tendono a sparire. Non appare più nella firma il nome del lavorante. Anche nel modo come la marca è tracciata si ha un'evoluzione da forme più fini ad altre di maggior evidenza, mal tracciate e che spesso disturbano la decorazione.
Come per la ceramica decorata a rilievi, anche per quella liscia la variazione delle forme, delle sagome, delle firme, il mutare delle qualità dell'argilla e della vernice permettono di tracciare una cronologia approssimativa.
Tali dati circa la rapidità dell'evoluzione tecnica e formale di questa ceramica e i rapporti che si possono istituire fra ciò e la cronologia relativa spiegano la funzione essenziale che la ceramica aretina può avere in scavi stratigrafici soprattutto in quelli ove è possibile procedere con la maggiore minuzia: lo stesso ausilio, seppur un po' più grossolano, è fornito agli scavatori dalla "terra sigillata" in generale.
La diffusione dei vasi aretini in ogni zona dell'Impero romano e anche fuori dei confini, fu assai vasta. Essa può dare contributi non secondari alla storia economica e sociale, anche se finora non è stata utilizzata ampiamente sotto questo profilo. L'attrezzatura e i sistemi di lavoro, i rapporti fra le officine, la posizione giuridica dei lavoranti e i passaggi di essi da una all'altra, la possibile esistenza di forme associate della produzione e di organizzazione delle maestranze, la potenza economica dei proprietarî e la forma di lotte e di concorrenza per l'acquisto e il mantenimento dei mercati, le linee e i sistemi di trasporti in regioni così periferiche, i sistemi di vendita, i prezzi e i costi, sono dati che attendono di essere esaurientemente investigati ai fini di maggiori informazioni e di più intima conoscenza delle condizioni sociali e di certe consuetudini giuridiche di quel periodo.
Per quello che riguarda la storia delle arti figurative, la ceramica a rilievi di Arezzo (come, d'altra parte, tutta la ceramica decorata di età romana) può aiutarci a comprendere l'aspetto che dovevano avere opere d'arte decorativa non pervenuteci con tanta ampiezza: può darci un'idea dei tesori di vasellame prezioso che erano nelle case dei ricchi e dimostrarci quali motivi, quali sequenze; quali forme di espressione godettero popolarità; essa ci aiuta infine ad intendere ancor meglio il gusto del tempo in cui furono in voga, confermando quanto i monumenti della grande arte già ci dicono circa i fermenti di varie correnti coesistenti o in contrasto in età augustea e postaugustea.
Mentre per le officine meglio note si rimanda alle singole voci relative ai proprietari (v. sotto i richiami), si dà qui qualche cenno di prodotti che per varie ragioni non è possibile trattare separatamente.
Su qualche frammento di una serie più vasta, ma epigraficamente lacunosa, è stata trovata la firma mutila C. FAST... Il motivo decorativo è dato da ghirlande con putti, simili a quelle che appaiono in prodotti di, Tigranus e di Rasinius. C. FA... appare in un frammento di matrice con decorazione ad embricatura simile a quella di certi prodotti di Tigranus, di Rasinius e di Cn. Ateius.
In matrice e in vaso, appare il nome, al genitivo, forse acefalo, ELIAEIS preceduto da Diogenes o CR... . La decorazione è simile a quella che appare in prodotti di C. Memmius. Altri frammenti conservavano poche lettere greche che giravano attorno al vaso, nella decorazione.
Scarsi resti di rilievo conservano frammenti con la marca L. Samia Sariva, che dimostrano tuttavia finezza di esecuzione ed eleganza di disegno. Per i pochi frammenti con marca L. TI. TI. si veda quanto è detto s. v.: Titius Thyrsus, L. Per i pezzi che non sono finora attribuibili ad officine note, mancano i raggruppamenti convenzionalmente denominati.
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Quest'opera è stata oggetto di interessanti studî e recensioni: H. Comfort, in Am. Journ. Arch., LIV, 1950, p. 156 ss.; K. M. Kenjon, in Journ. Rom. Stud., XL, 1950, p. 161 ss.; L. Ohlenroth, in Germania, XXX, 1952, p. 413 ss. e osservazioni: A. Stenico, in Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni, Milano 1955, p. 416 ss., nota 14.
Edizione Archeologica della Carta d'Italia al 100.000; foglio 114 (Arezzo) a cura della Sopr. alle Antichità dell'Etruria: Rilev. e Compil. di F. Rittatore e F. Carpanelli, Firenze 1951.
H. Comfort, in Atti e Memorie dell'Acc. "Petrarca", n. s., XXXV, 1949-1951, p. 81 ss.; A. Stenico, in Atti e Memorie dell'Acc. "Petrarca"; n. s., XXXV, 1949-51, p. 99 ss.; H. Comfort, in Studies Presented to D. M. Robinson, II, 1953, p. 157 ss.; R. J. Charleston, Roman Pottery, Londra, s. a., p. 5 ss.; Th. Kraus, Die Ranken der Ara Pacis, Berlino 1953, p. 60 ss. (decorazione a girali di vasi a.); F. Oberlies-N. Köppen, in Ber. der Deutschen Keram. Gesell., XXX, 1953, p. 102 ss. (questioni tecniche specialmente sulla vernice); A. Stenico, in Archeol. Class., VI, 1954, p. 43 ss. e p. 315 (placche-matrici per applicazioni); id., in Archeol. Class., VII, 1955, p. 66 ss.; A. Winter, in Saalburg-Jahrbuch, XIV, 1955, p. 74 ss. (vernice); A. Stenico, in Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni, Vol. III (Archeol. e Storia dell'Arte Antica), Milano 1956, p. 413 ss. (coll. Pisani-Dossi, Milano); W. L. Westermann, The Slave Sistems of Greek and Roman Antiquity, Filadelfia 1955, p. 91 ss., rapporti e condizioni degli schiavi lavoranti nelle officine di Arezzo e della "terra sigillata"; A. Stenico, in Athenaeum, n. s., XXXIII, 1955, p. 173 ss. (officine "minori"); H. Comfort, in Memoirs of the American Academy in Rome, XXIV, 1956, p. 49 ss. (frammenti dell'Acc. Amer. di Roma).