ARGENTEO (argenteus, sottinteso nummus)
È termine speciale alla monetazione d'argento nel periodo imperiale romano, poiché, durante la repubblica, dal 268 a. C. in poi, (cioè da quando apparve, accanto alla coniazione d'argento dell'officina di Capua, preesistente, quella di Roma; cfr. Plin., Nat. hist., XXXIII, 44; Mommsen-Blacas, Histoire de la monnaie romaine, II, 27), circolavano i tre tipi fondamentali (v. denaro): il nummus denarius (assi 10); il nummus quinarius (assi 5 = ½ denarius), il nummus sestertius (assi 2 ½ = ¼ denarius). Il denaro pesa normalmente grammi 4,55. L'asse non era più l'asse librale, altrimenti avremmo avuto l'equazione 1/72 di libbra d'argento = 10 libbre di rame, equazione affatto insostenibile, ma secondo ogni probabilità l'asse trientale che dà 1/72 di libbre d'argento = 2 ½ libbre di rame.
Argenteus si usava sotto l'impero anche senza l'appellativo denarius, come lo provano gli argentei antoniniani, aureliani, minuti o minutales citati negli autori della Historia Augusta, e nella traduzione dei LXX pei triginta keseph (idest argenteos), per i quali fu venduto Gesù da Giuda Iscariota. La coniazione dei denarii argentei era riservata all'imperatore fin dal 15 a. C., quando Augusto se ne avocò il privilegio, come per l'aureus; essi erano coniati in gran numero nell'Alto Impero, mentre il quinarius argenteus andò diminuendo, e il sestertius fu tolto dalla circolazione sin dalla fine della Repubblica, pur rimanendo l'unità di conto per molto tempo, finché fu sostituito dal sestertius di bronzo, imperiale, equivalente a 4 assi. Così non dura sotto l'impero il victoriatus, in argento, collaterale al denarius, che lo stato romano emise fin dal 228 a. C. per il commercio estero, specialmente dell'Illiria, della Grecia e dell'Asia Minore.
I denarî argentei dell'impero, a differenza di quelli della repubblica, non sono mai dentellati, cioè non presentano l'orlo intaccato tutto all'intorno da piccoli denti a guisa di sega (così che erano detti anche serrati), di cui l'uso frequente, ma non costante, nella monetazione repubblicana delle gentes impedì di dare finora spiegazione esauriente e convincente. La moneta argentea non è mai d'argento puro: la proporzione del rame però nella lega andò gradatamente sempre aumentando da Nerone in poi, fino a ridursi nel terzo secolo a una parvenza superficiale e fino ad un semplice bagno di stagno.
Si dà di solito un gran merito a Caracalla per aver cercato di arrestare il crescente deprezzamento del titolo del denario cosiddetto d'argento con l'introduzione dell'argenteus antoninianus (211-217 d. C.), che è considerato come una specie di doppio denario; esso pesava di fatto poco più di un denario (1 + ½) e circolava come tale nei contratti del sec. III d. C. Lo stesso tipo, che rinnovava la testa radiata, posta da Nerone in poi sul dupondio di bronzo, e aggiungeva per i pezzi con l'imperatrice la mezzaluna reggente il busto dell'Augusta, confermerebbe trattarsi di un tentativo a buon fine; che purtroppo tuttavia durò poco, perché l'antoniniano crebbe nella circolazione sotto Balbino, Pupieno, Gordiano Pio (238-244 a. C.), ma da Traiano Decio a Erennio, Ostiliano, Treboniano Gallo (249-254 d. C.), di argento monetato nell'Impero romano ormai non si parla più fino alla riforma monetaria di Diocleziano. Con tutto ciò, vi furono altri tentativi di difesa e di ripresa dell'argento con l'argenteus aurelianus (Vopisc., Prob., 4) e con l'argenteus minutulus (Vopisc., Aurelian., 9 e 12). Chi, come il Kubitscheck, non dà gran valore agli autori della Historia Augusta, non si fonda molto sull'esattezza di questi nuovi tipi di monete; ma Caracalla, chiamandosi Aurelio Antonino, poteva benissimo aver fatto coniare degli antoniniani e degli aureliani. D'altra parte, la citazione nella vita di Probo (4,5) "aureos antoninianos centum, argenteos aurelianos mille, aereos philippeos decem milia" darebbe la prova che vi fossero delle monete dette argentei aureliani, distinte dagli antoniniani, che potrebbero essere state introdotte da Aureliano (270-75 d. C.). Sotto Claudio II il Gotico circolavano quelle monete che i numismatici chiamarono billioni, contenenti da 8 a soltanto 2 parti d'argento fino in confronto di 86-82 di rame, 6-16 di stagno o piombo su 100 parti. Già sotto Gallieno (254-268) circolava il quaternio, pezzo equivalente a 4 denarî, come si legge su una moneta di billione che presenta i busti affrontati di Valeriano e Gallieno. Aureliano si decise a introdurre l'ἀργύριον νέον di Zosimo (Hist., I, 61), il suo aurelianus argenteus, con 94 parti di rame e 6 di argento, senza piombo né stagno. Questi nel nuovo tipo con le cifre XXI o KA incisa (o XX a Treviri) indicavano un valore di 21, o almeno di 20 assi. Diocleziano, per troncare una confusione deplorevole, abolì l'antoninianus, e ristabilì l'argenteo di Nerone, usando una lega ad altissimo valore di argento che si disse argentum pusulatum. Coniò però anche un billione speciale con 1.50 d'argento e 88.93 di rame, il resto stagno e zinco, su 100 parti, con sopra un bagno d'argento. In tal modo neanche Diocleziano riuscì a rialzare il valore e il prestigio dell'argento. E si giunge alla riforma di Costantino il Grande, del sec. lV, che, rinnovando i rapporti tra l'oro e l'argento e meglio adattandoli ai prezzi correnti, rimise in circolazione un nuovo denarius accanto al communis, cioè il miliarensis o miliaresis. Distinguiamo subito il sottomultiplo del solidus aureus del sec. IV d. C. dalla moneta medievale italianizzata in migliarese o migliorese, limitandoci al miliarese (v.) introdotto da Costantino Magno (Epifan., De pond. et mens., 2) nel periodo dal 274 al 337, e usato fino a Onorio, 384-423 d. C. Il nome è originato dal fatto che esso equivaleva al peso di
della libbra d'oro e al valore di
del solidus d'oro (o bisanzio) secondo alcuni, e di
secondo altri. Equivaleva a due siliquae d'argento e a 24 folles di bronzo. Essendo il solidus d'oro, l'aureo del Basso Impero, equivalente a 72 pezzi per libbra, il miliarese si identificava col solidus argenteus della riforma costantiniana, del peso di gr. 4.55. A parte questa classificazione metrologica, dal sec. IV in poi s'usava parlare nei conti di solidi argentei o ex argento, come fossero denarî argentei, essendovi state varie riduzioni (v. soldo).
La siliqua era un sottomultiplo del soldo: fosse questo d'oro o d'argento. La siliqua d'oro (κεράτιον), usata nei conti, era considerata
di libbra, e
di soldo d'oro di 72 per libbra (v. siliqua). La siliqua d'argento pare sia la sola che sia stata coniata, e corrispondeva a
del solidus argenteus (Isidoro, Orig., XVI, 25, 9: siliqua vigesima quarta pars solidi ab arboris semine vocabulum tenens). È difficile poter fissare il vero peso e valore della siliqua moneta: dovrebbe pesare gr. 2.60 circa, ma trovando spesso monetine d'argento dette siliche o silique di non più di gr. 0.87 circa l'una (con lettera K oppure P), bisognerebbe pensare al pezzo equivalente a
di silica, mentre il Sabatier nota la presenza anche di
silica. Ma, essendo andata decrescendo sempre più da Giustino a Leone III Isaurico, non si può più identificarla con certezza. Tutta la materia del miliarensis, del solidus, della siliqua fu nuovamente trattata, dopo le ricerche del Lenormant e del Kubitschek, del Babelon e del Seek, del nostro Dattari (Boll. di Numism., III, IV; Riv. it. di Num., III, 1905, IV, 1906), secondo il quale la siliqua d'argento avrebbe un peso maggiore di quello datole dagli altri numismatici, cioè di gr. 3.519. L'argomento fu ripreso da L. Cesano a proposito dell'epigrafe latina di Feltre, del 323 d. C., che cita i den(arii) e le siliq(uae) (v. Notizie degli scavi, 1907; G. Ghirardini in Rendic. Accad. Lincei, Sc. morali, 1908, p. 237 e segg.).
Bibl.: Th. Mommsen-Duc de Blacas, Hist. de la monn. rom., Parigi 1865-75; F. Lenormant, La monnaie dans l'antiquité, Parigi 1879; E. Babelon, Traité des monnaies grecques et romaines, I, Parigi 1901; L. S. Cesano, s. v. Denarius, in Dizion. epigraf. di E. De Ruggiero, II, Roma 1909, p. 1623 segg.