argomenti
Non si possono definire gli argomenti senza partire dal predicato, cioè da «quell’elemento linguistico il cui significato descrive una situazione, uno stato di cose, un evento, qualcosa che è, accade o potrebbe accadere volontariamente o involontariamente nel mondo» (Jezek 2005: 54). In moltissime lingue, tra cui l’italiano, tale elemento è rappresentato da un verbo. È invece argomento «l’elemento linguistico che esprime uno dei partecipanti all’evento o alla situazione asserita dal predicato, e che deve obbligatoriamente essere nominato affinché ciò che il predicato descrive abbia un senso» (ivi).
È dunque il verbo che, sulla base della natura del processo che rappresenta, stabilisce il numero e la natura degli argomenti chiamati in causa: ci sono verbi che richiedono un solo argomento, il soggetto (il gatto miagola, è scoppiata una bomba); verbi che richiedono due argomenti (Maria afferra il gatto, Maria si dedica allo studio); verbi che richiedono tre argomenti (la mamma ha regalato un dolcetto ai bambini, Luigi ha spedito il pacco al fratello) e verbi a quattro argomenti (Maria ha tradotto il romanzo dal francese all’italiano, ha trasferito l’ufficio da Milano a Genova). Ci sono anche, ma sono più rari, verbi che non hanno bisogno di argomenti (detti anche verbi impersonali: piove, nevica; ➔ impersonali, verbi).
Dobbiamo questo modello di frase al francese Lucien Tesnière (1959; trad. it. 2001; da cui le citazioni che seguono), che lo ha per primo elaborato in modo organico (nella terminologia originaria gli argomenti sono detti attanti). Scrive Tesnière: «Il verbo esprime il processo […] Gli attanti sono gli esseri o le cose che, a un titolo qualunque e in qualsiasi modo, anche a titolo di semplici figuranti e nel modo più passivo, partecipano al processo» (ivi, p. 73). Altra terminologia alternativa, anch’essa di Tesnière, è quella di «valenza»:
Si può allora paragonare il verbo a una specie di atomo munito di uncini, che può esercitare la sua attrazione su un numero più o meno elevato di attanti, a seconda che esso possieda un numero più o meno elevato di uncini per mantenerli nella sua dipendenza. Il numero di uncini che un verbo presenta, e di conseguenza il numero di attanti che esso può reggere, costituisce ciò che chiameremo la valenza del verbo (ivi, p. 157).
Dunque ogni verbo richiede un contorno sintattico obbligatorio, costituito dagli argomenti necessari a saturare la sua valenza, e che costituiscono la sua struttura argomentale. La frase minima, o nucleare (➔ frasi nucleari), è la più semplice ed elementare, costituita solo dal verbo e dagli argomenti necessariamente richiesti perché il processo venga rappresentato nella frase.
I verbi non sono l’unica classe di parole che abbia una struttura argomentale: anche i nomi e gli aggettivi possono selezionare un certo numero di argomenti. Tuttavia mentre per i verbi è sempre possibile parlare di struttura argomentale, non così per i nomi e gli aggettivi, i quali possono avere o non avere una struttura argomentale, a seconda che possiedano certe caratteristiche (Giorgi 1988; Salvi & Vanelli 2004: 153-162; Fábián 2009: 63-167).
Ci sono frasi sistematicamente prive di argomenti. Sono le frasi generate dai verbi zerovalenti, fondamentalmente i verbi meteorologici piovere, nevicare, lampeggiare, fare caldo, fare freddo (➔ atmosferici, verbi) e pochi altri. Si è discusso se questa descrizione sia corretta, dal momento che esistono lingue – tra cui l’inglese, il francese, il tedesco – in cui anche i verbi meteorologici richiedono un soggetto. E infatti all’italiano piove corrispondono it rains, il pleut, es regnet. Tuttavia in questi casi si tratta di un soggetto grammaticale, non personale, non passibile di variazione, rappresentato dal pronome neutro singolare di terza persona in inglese e tedesco, dal maschile singolare in francese (che non ha il neutro). Insomma, si tratta di un soggetto particolare, privo di referente, che dunque non è un argomento ma, nella terminologia francese (Graffi 1994: 148), un ‘espletivo’, cioè «un ‘riempitivo’, in questo caso di una determinata posizione strutturale, quella di soggetto».
I verbi monovalenti (o a un posto), tradizionalmente ascritti ai verbi intransitivi (➔ transitivi e intransitivi, verbi), hanno bisogno di un solo argomento per rappresentare un evento e dare frasi di senso compiuto. Tale argomento è il soggetto che viene (nella linguistica generativa: vedi Graffi 1994: 146-149; Salvi & Vanelli 2004: 32) definito «argomento esterno» perché ‘esterno’ al sintagma verbale (➔ analisi logica, § 2.2; ➔ soggetto).
Potrebbero essere ascritti a questo sottogruppo anche i verbi copulativi (➔ copulativi, verbi), un gruppo non molto numeroso (tra i più frequenti essere, sembrare, diventare, fare), in frasi come Maria è bella, è diventata avvocato, fa l’estetista, ecc. La parte nominale del predicato, pur obbligatoria ed essenziale a costruire frasi di senso compiuto (da ciò il fatto che * Maria è diventata, fa, sembra siano agrammaticali) non designa un partecipante all’evento, ma una qualità o proprietà dell’argomento soggetto. Non è quindi definita argomento ma ha per lo più mantenuto la denominazione tradizionale di complemento predicativo del soggetto (➔ predicativo, complemento).
I verbi bivalenti richiedono due argomenti: il primo è il soggetto, esterno al sintagma verbale, il secondo, interno al sintagma verbale, può essere un complemento oggetto o diretto (Maria accarezza il cane, Maria studia la storia) o un complemento preposizionale (questo cane appartiene a Maria, la decisione dipende da Maria) (chiamato obliquo da Schwarze 2009: 106). Dunque i verbi del primo sottogruppo sono transitivi e possono avere forma passiva (il cane è accarezzato da Maria, la storia è studiata da Maria); quelli del secondo sottogruppo sono intransitivi, e non possono avere la forma passiva. Inoltre, come fa notare Prandi (2006: 101), la preposizione che introduce il secondo argomento non è scelta «all’interno di un paradigma di preposizioni concorrenti [...] ma imposta dal verbo [...]. La preposizione codifica semplicemente una relazione grammaticale vuota tra il verbo e il suo complemento» (➔ reggenza). Dunque i complementi preposizionali di tipo argomentale hanno la caratteristica di non esprimere un significato sempre prevedibile e di non consentire variazioni nella scelta della preposizione. O almeno questo è certamente il caso più frequente.
Vengono ugualmente considerati bivalenti alcuni verbi che indicano una misura o un costo, e che hanno il secondo argomento espresso da un sintagma nominale non oggetto: così in questa stanza misura tre metri, il libro costa dieci euro, il sacco pesa due quintali. Dunque i verbi misurare, costare, pesare e altri della stessa area semantica non sono transitivi, e infatti non possono avere la forma passiva (* tre metri sono misurati da questa stanza).
Ancora, sono bivalenti alcuni verbi che, oltre al soggetto e all’oggetto, presentano un complemento predicativo (➔ predicativo, complemento), in questo caso riferito all’oggetto, esemplificati da frasi come: i cittadini hanno eletto mio padre sindaco, la luce rende i colori più brillanti, ti trovo ingrassato, ecc.
I verbi trivalenti richiedono, oltre al soggetto, un secondo argomento espresso da un complemento oggetto e un terzo argomento espresso da un complemento indiretto per lo più introdotto dalla preposizione a (Maria ha detto la verità a sua madre, ha regalato i suoi vestiti ai poveri). Prandi (2006: 102) nota come in questo gruppo siano prevalenti i verbi di dire e di dare (➔ verbi), i quali presuppongono sempre un destinatario, e questo potrebbe portare a concludere che «l’oggetto indiretto codifichi non una relazione grammaticale vuota come il soggetto o l’oggetto, ma direttamente un ruolo del processo con il suo contenuto concettuale proprio: il destinatario del messaggio o del dono, visto come se fosse la meta di un movimento». Né mancano i casi in cui il terzo argomento è rappresentato da una meta: Maria ha spedito il pacco a Roma. Anche la storia della costruzione, derivata dalla forma latina ad + accusativo, darebbe ragione a questa interpretazione.
Ma non sempre è questo il caso, visto che ritroviamo la stessa struttura anche «con verbi irriducibili al dire e al dare», con i quali codifica «ruoli completamente diversi dal destinatario, che non possono essere visti come mete di uno spostamento metaforico» (Prandi 2006: 103): così ad esempio in Maria paragona il collega a suo padre o la sarta ha adattato la manica al vestito. La conclusione è che anche l’oggetto indiretto «codifica in realtà una relazione grammaticale vuota, pronta a accogliere il ruolo di volta in volta coerente con il verbo che la occupa» (ivi).
I verbi tetravalenti sono infine un piccolo gruppo di verbi che codificano una scena in cui un agente o uno strumento spostano, anche metaforicamente, una entità da un luogo a un altro: così in Maria ha tradotto la versione dal latino in italiano, il camion ha trasportato la merce da Roma a Milano. Non tutti sono d’accordo sulla esistenza di questo sottogruppo, e infatti molte descrizioni non lo contemplano. Tesnière, ad es., pur parlando di verbi tetravalenti, attribuisce questa possibilità solo a costruzioni causative con verbi trivalenti, esemplificate da Carlo dà il libro a Maria → Franco fa dare il libro a Maria da Carlo. Potrebbero rientrare in questo sottogruppo verbi come tradurre, trasferire, trasportare, traslitterare, che esibiscono tutti i prefissi tra- / tras-, non più produttivi in italiano, di derivazione dal latino trans-, che dà alle formazioni in questione il valore di «al di là, oltre, da un luogo a un altro» (Iacobini 2004: 135; ➔ prefissi). Adotta questa prospettiva il dizionario Sabatini & Coletti (2007), che descrive la struttura argomentale di tutte le voci verbali a lemma.
Questa precisazione aiuta a mettere a fuoco un problema, che riguarda i verbi di movimento (➔ movimento, verbi di), che si comportano diversamente quanto a informazioni obbligatorie sui punti di partenza e arrivo del movimento stesso, con numerose oscillazioni e incertezze anche descrittive (Prandi 2006: 104-107; Schwarze 2009: 114, 116).
Gli argomenti possono essere realizzati da sintagmi nominali, ➔ pronomi liberi (o tonici) e ➔ clitici (o atoni), sintagmi preposizionali, e alcune particolari frasi subordinate (perciò dette anche argomentali).
Più in particolare, l’argomento soggetto può essere espresso da un sintagma nominale per lo più in posizione preverbale (la ragazza sta fumando); da un pronome libero al nominativo (➔ pronomi) (io non fumo); da un costituente interrogativo (chi fuma?, quanti studenti fumano?); da una frase soggettiva (che tu fumi ti fa male alla salute). Può anche essere sottinteso, rivelato dalla morfologia del verbo (fumi?).
L’argomento oggetto è espresso da un costituente nominale (hanno interrotto la trasmissione) o da un pronome libero al caso obliquo (guarda me!), che si trovano per lo più in posizione postverbale; da un clitico all’accusativo in posizione preverbale (mi vedi?) o postverbale (guardalo!); da un costituente interrogativo in posizione preverbale (chi hai incontrato?, quale film preferisci?); da una frase oggettiva (dicono che pioverà) o interrogativa indiretta (ho scoperto chi ha rotto il vaso, Maria ha chiesto al vigile se il museo è aperto).
Gli argomenti rappresentati da complementi preposizionali possono essere espressi da:
(a) sintagmi preposizionali con varie preposizioni (mi fido di Luca, vado a Milano, Lucia ha messo i libri sullo scaffale; ➔ preposizioni);
(b) pronomi liberi, in posizione generalmente postverbale, introdotti da varie preposizioni e in caso obliquo (mi fido di te, conto su di lui);
(c) pronomi clitici in posizione preverbale o postverbale e al dativo (mi dai le chiavi?, dammi le chiavi);
(d) pronomi clitici in posizione preverbale e in caso locativo (ci vai?) o partitivo-genitivo (non me ne pento);
(e) sintagmi interrogativi in posizione preverbale introdotti o meno da preposizioni (a chi hai telefonato?, dove stai andando?);
(f) subordinate oblique (si sono accorti di aver sbagliato, dubito di poter venire).
Nel § 1 gli argomenti sono stati definiti in riferimento al predicato, insieme con il quale costituiscono gli elementi obbligatori facenti parte del nucleo della frase e perciò detti anche elementi nucleari. Ma adesso è arrivato il momento di definirli anche in relazione ad altri elementi che possono occorrere nella frase, elementi facoltativi che per adesso saranno chiamati aggiunti.
Tale termine (ripreso da Schwarze 2009) viene dalla logica (Simone 1990: 360) ed è stato adottato dal modello strutturale:
Nella grammatica strutturale dicesi complemento aggiunto ogni costituente di una frase, strutturalmente non indispensabile, che può essere soppresso senza che il resto della frase (composta da un soggetto e da un predicato) cessi di essere grammaticale; [...] come sinonimo di complemento aggiunto viene usato talvolta il termine di espansione (Dubois et al., 1979: 60; termine alternativo è circostanziale).
In una frase come ieri sera la mamma di Maria ha comprato delle magliette in un negozio del centro diremo che la mamma ha comprato delle magliette è la frase minima o nucleare, generata da un verbo bivalente; tutti gli altri elementi sono aggiunti, dunque facoltativi.
Ma «ci sono diversi strati di espansioni [altro termine per aggiunti]: ci sono espansioni che aggiungono al processo ruoli marginali, e espansioni che rendono più complessa l’espressione di un ruolo» (Prandi 2006: 116). Nell’esempio appena fatto di Maria aggiunge una informazione relativa a un elemento del nucleo, il soggetto; ieri sera e in un negozio del centro aggiungono informazioni ‘marginali’ relative al tempo e al luogo in cui si è consumato l’evento.
La distinzione tra argomenti e aggiunti, centrale nel modello valenziale, non ha alcun riscontro nell’analisi tradizionale della frase (➔ complementi).
La descrizione fin qui fatta potrebbe indurre a credere che ogni voce verbale possegga, in grazia della natura dell’evento che rappresenta, una certa struttura argomentale – altrimenti detta quadro funzionale (Schwarze 2009: 107) o schema di valenza (Prandi 2006: 107) – cioè a dire che il programma semantico del verbo determini il numero e il ruolo degli argomenti nella frase. Ma non è così, o almeno non è sempre così.
Dal momento, infatti, che la polisemia è una condizione abbastanza normale del lessico, ne consegue che è sempre possibile che una voce verbale attivi più scenari e dunque che abbia bisogno, per rappresentarli nelle frasi, di schemi diversificati. Si hanno allora verbi con più strutture argomentali.
Faremo a riguardo un solo esempio: il verbo prendere (assetto della voce e definizioni da Sabatini & Coletti 2007) è bivalente transitivo nel significato di «afferrare, stringere qualcosa o qualcuno con le mani o con uno strumento, per sollevarlo, impossessarsene o spostarlo» (Maria ha preso la valigia); bivalente transitivo con complemento predicativo dell’oggetto nel significato di «scambiare, confondere qualcuno con un altro» (mi hanno preso per un medico); trivalente transitivo nel significato di «pigliare, portare via qualcosa da un luogo; estrarre» (Maria ha preso un cagnolino dal canile); monovalente intransitivo nel significato di «detto di piante, attecchire» (il rampicante non ha preso); bivalente intransitivo nel significato di «dirigersi, andare verso una direzione» (prenda subito a destra).
Questa varietà di scenari riguarda moltissime voci verbali, di cui nessuna grammatica potrà mai dare una descrizione valenziale completa ed esauriente. Una volta individuati i tipi fondamentali, spetta piuttosto ai dizionari fornire una informazione dettagliata delle diverse strutture argomentali che ciascuna voce verbale può presentare (Schwarze 2009: 108). Ed è qui, nei dizionari che hanno assunto a ragion veduta questa tematica, che i lettori troveranno tutte le informazioni del caso.
Gli argomenti, abbiamo detto, sono elementi obbligatori, quindi non possono mancare nella frase. Tuttavia il concetto di obbligatorietà riguarda la struttura logico-semantica del verbo, il particolare tipo di evento da questo evocato, tale per cui l’evento stesso non avrebbe luogo senza il concorso di tutti gli elementi necessariamente chiamati in causa. Così in il professore ha distribuito le pagelle agli alunni l’evento è adeguatamente rappresentato perché tutti gli argomenti sono esplicitati.
Ma nell’uso vivo della lingua è possibile che uno o più degli argomenti siano assenti in superficie. In questi casi deve sempre essere possibile il recupero dell’elemento, o degli elementi mancanti. Ad es., in un dialogo tra studenti, frasi come il professore ha distribuito le pagelle, oppure hai tradotto la versione? sarebbero facilmente interpretate senza bisogno di aggiungere altro. In questi casi è normale fare affidamento sulle conoscenze condivise, ed evitare di nominare tutti i partecipanti all’evento.
Ma non è sempre tutto così semplice e trasparente. In realtà sottintendere gli elementi obbligatori è possibile – a quanto pare – con certi verbi e non con altri, per ragioni non sempre chiare. Tenta, ad es., di esplorare in modo sistematico la possibilità di sottintendere l’argomento rappresentato dal complemento oggetto lo studio di Lo Duca (2003), in cui, sulla base della diversa natura del complemento sottinteso, si individuano gruppi e sottogruppi di verbi (ad es. verbi con oggetto nullo indefinito, verbi con oggetto nullo generalizzato, verbi con oggetto nullo definito). Alla fine comunque, e sulla base di dati quali
(1) le ho fatto una proposta e lei ha rifiutato / * respinto / * scartato / * declinato
(2) avevo prenotato la camera ma poi ho disdetto / * annullato / * cancellato
si conclude che «la possibilità di omettere o meno l’oggetto diretto sembra in questi casi un fatto solo lessicale, nel senso che abbastanza inspiegabilmente riguarda certi verbi e non altri, né sembra al momento possibile individuare ragioni di qualche tipo, semantiche o sintattiche, che giustifichino certe manifeste diversità di comportamento anche da parte di verbi dotati di un forte grado di sinonimia» (p. 24).
Forse è più semplice il caso dei verbi sintagmatici (Simone 1997; ➔ polirematiche, parole; ➔ sintagmatici, verbi) o dei verbi polirematici (Voghera 2004: 65), vale a dire costituiti da una testa verbale cui si accompagna indissolubilmente un certo tipo di complemento, e il cui significato non è del tutto predicibile a partire dagli elementi costitutivi. Rientrano in questo gruppo verbi come andare in porto, andare in onda, dare i numeri, venire meno, piantare in asso, ecc., per i quali non ha senso interrogarsi sullo statuto (argomentale?) dell’elemento, nominale o avverbiale, che accompagna la testa verbale. Si tratta forse di voci verbali che vanno analizzate come un tutt’uno, per cui Maria ha dato i numeri va analizzata come una frase originata da un verbo monovalente (dare i numeri), analogamente a Maria è impazzita o Maria si è addormentata.
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