CARAPELLE, Aristide
Nacque a Napoli il 18 marzo 1878 da Carlo e Ambrogia Lattuada. Laureatosi in giurisprudenza nell'università di Palermo nel 1901, l'anno dopo entrò per concorso nell'amministrazione provinciale degli Interni. Chiamato nel 1907 al ministero degli Interni, vi rimase sino al 1913, quando fu nominato referendario del Consiglio di Stato. Nel luglio 1919 divenne consigliere di Stato e continuò a far parte del Consiglio sino al 1948; dal 1938 ne fu presidente di sezione.
Nel primo dopoguerra venne nominato direttore generale per i servizi amministrativi del ministero della Ricostituzione delle terre liberate, istituito nel gennaio del 1919.
Negli anni successivi fu, inoltre, giudice del Tribunale superiore delle acque e del Tribunale supremo militare, vicepresidente del Comitato per la liquidazione delle pensioni di guerra, membro del Consiglio superiore della marina, consultore del governatorato di Roma (1936-1939). Nell'arco di venti anni ricoprì, insomma, molti e importanti incarichi della burocrazia statale.
Il fatto di essere un alto burocrate dello Stato facilitò indubbiamente al C. la strada della politica nelle file del Partito popolare. Non risulta, infatti, che avesse mai partecipato alla vita politica e di partito prima della sua candidatura nel collegio di Caserta nelle elezioni del 1921.
In quella occasione per far fronte ad una campagna elettorale "chiaramente impostata da Giolitti... come lotta contro i socialisti e contro i popolari" (De Rosa, Storia del mov. catt., p. 178), tramite la costituzione dei blocchi, era necessario per questi ultimi presentare, soprattutto in alcuni collegi dell'Italia meridionale, candidature di prestigio, capaci di mantenere o di migliorare le posizioni raggiunte. Nel collegio di Caserta, anche se la situazione rimase sostanzialmente invariata per quanto attiene alla composizione della rappresentanza - i liberali passarono da otto a sei deputati, i radicali da due a tre, al posto di un liberale venne eletto un fascista, i popolari e i socialisti ebbero lo stesso numero di deputati - il Partito popolare migliorò notevolmente in voti e in percentuale: su 136.991 votanti ottenne 20.952 voti (15,2% dei votanti). Il C., primo eletto della lista popolare, ebbe un successo personale riportando 7.696 preferenze e precedendo il secondo eletto, Clemente Piscitelli, di oltre 3.000 preferenze.
Durante la XXVI legislatura (1921-1924), il C., iscrittosi al gruppo popolare e membro della commissione permanente per gli Affari interni, prese parte attiva ai lavori della Camera, intervenendo nel dibattito su questioni giuridico-amministrative. Fece il primo e sostanzialmente unico ampio intervento - particolarmente seguito perché svolto come intervento programmatico del gruppo popolare - il 31 luglio 1921 nel corso della discussione generale sul disegno di legge, presentato da Giolitti e ripreso da Bonomi, relativo ai "Provvedimenti per la riforma della amministrazione dello Stato, la semplificazione dei servizi e la riduzione del personale".
Due erano le questioni politiche immediate cui la legge doveva far fronte: lo sciopero dei pubblici servizi, il riconoscimento delle associazioni impiegatizie. Con il riconoscimento si sarebbero create le condizioni perché gli impiegati "sentano non essere decoroso per essi scioperare": le proibizioni di legge e le teorie in questo campo non erano evidentemente sufficienti. Ciò era sollecitato anche dalle prospettive più moderne nel campo della pubblica amministrazione, alle quali prospettive esplicitamente il C. si richiamava, sostenendo, nel quadro di una società che cambia, ove "una nuova coscienza... si forma; nuovi diritti sorgono", che la "funzione" doveva spettare ai funzionari. Naturalmente ogni ulteriore considerazione doveva essere compatibile con le necessità del bilancio e con la tutela dell'autorità dello Stato.
Fatta questa premessa, il C. passava ad esaminare due punti specifici della legge. Dal punto di vista economico sosteneva che il rapporto d'impiego era in sostanza un contratto di lavoro e, come tale, doveva fondarsi su basi economiche pena la sottomissione o la ribellione delle categorie impiegatizie. Nel merito, proponeva un aumento delle quote minime e massime delle concessioni mensili temporanee; la graduale eliminazione delle sperequazioni tra funzioni affini per competenza e grado; il sistema percentuale dei compensi; la formazione di tabelle che tenessero conto della diversità di carriera, di categoria e di grado, pronunciandosi contro il livellamento, che avrebbe espulso dalla pubblica amministrazione i migliori, soprattutto nei settori giudiziario, dell'interno, della pubblica sicurezza e scientifico-universitario. Occorreva, inoltre, fare molta attenzione al problema della riduzione del personale: gli impiegati erano molti rispetto all'onere sopportato dallo Stato, e al rendimento del lavoro, ma pochi "rispetto alle esigenze dei servizi"; quindi, prima di parlare di riduzione era necessario attuare la riforma ed individuare quali garanzie in favore degli impiegati avrebbero dovuto presiedere allo sfollamento, tenendo conto che un quinto della ricchezza mobile del paese era data proprio dagli impiegati dello Stato.
Sul secondo punto, relativo alla riforma dell'ordinamento amministrativo, riassunti i difetti più evidenti della pubblica amministrazione, il C. rilevava che per far fronte ai sempre maggiori compiti sociali dello Stato, a causa dell'insufficienza delle forze individuali, era opportuno procedere a decentrare le funzioni, tramite il decentramento istituzionale, oppure il decentramento autarchico, o anche l'assegnazione dei pubblici servizi alle industrie private, senza escludere nessuna delle possibilità. Ad esempio, le aziende ferroviaria, postale, telegrafica e telefonica, "amministrate in forma industriale" tramite la compartecipazione "effettiva" degli impiegati agli utili d'azienda, avrebbero potuto bastare a se stesse, senza dover risolvere il problema del disavanzo o ricorrendo al Tesoro o aumentando le tariffe.
Dedicava, collegandola con il decentramento burocratico, l'ultima parte dell'intervento alla regione, come "circoscrizione avente personalità giuridica". Le obiezioni che venivano fatte al decentramento, burocratico non erano esatte: non si sarebbe trattato soltanto di un mero trasferimento, degli impiegati e degli uffici dal centro alla periferia, ma lo stesso atto amministrativo avrebbe avuto un iter più breve, concorrendo a diminuire spese e lavoro. Su questo punto - riconosceva il C. - sarebbe stato necessario formare la coscienza dei funzionari e dei cittadini. Il decentramento regionale, in quest'ambito, sarebbe stato opportuno soprattutto per la "generosa Sardegna" e "l'operoso Mezzogiorno". Concordando col parere favorevole espresso da Giolitti, assumeva tuttavia sul problema un atteggiamento elastico, dichiarandosi d'accordo anche nello sviluppare, in una prima fase, le funzioni delle province, in quanto allo sviluppo graduale di un paese può giovare più utilizzare gli istituti che vi sono, quando è possibile, che non crearne dei nuovi sempre che la provincia fosse messa in grado di assolvere pienamente alle esigenze richieste dalle mutate condizioni sociali, ai servizi tolti allo Stato. Concludeva, infine, ribadendo che il separatismo irrazionale dei servizi, delle funzioni e degli uffici era il difetto che la legge doveva risolvere, affrontando i problemi reali, per non aumentare "il disordine e la confusione" e "il danno del Paese che nella crisi generale che attraversa sente come la maggior parte di essa sia dovuta appunto alla mancanza di una effettiva, efficace, sincera opera di amministrazione".
All'intervento programmatico del C., i popolari informarono tutta la successiva discussione, pur nei limiti che erano consentiti dalla loro appartenenza alla coalizione di governo. D'altronde il C., congiungendo prospettive programmatiche del Partito popolare e soluzioni contingenti, aveva finito per porre in rilievo la funzione preminente dello Stato nella società e l'importanza della pubblica amministrazione, con un preciso riferimento ai gradi più alti, quale corpo separato, capace nella sua articolazione di garantire efficienza ed ordine. Rispetto a questo indirizzo generale, dovuto alla specifica competenza del C., le soluzioni proposte divenivano strumentali ed intercambiabili, tali comunque da poter essere accolte e distorte da molti settori della Camera, principalmente dai nazionalisti e dai fascisti. Come accadde, infatti, per i reiterati tentativi di inserire nella legge l'istituto regionale, sul quale il C. a sostegno della richiesta dichiarava essersi espressi favorevolmente, oltre a Giolitti, anche Mussolini, Rocco e Orano.
Per meglio comprendere l'attività parlamentare del C. in difesa degli interessi del collegio e la sua sostanziale estraneità al dibattito tra i partiti, è invece illuminante l'interpellanza rivolta per dovere d'ufficio al ministro dell'Interno sulla politica svolta in provincia di Terra di Lavoro e sulle elezioni amministrative di Aversa nel novembre 1921. Non riuscì a controbattere le accuse rivolte dal fascista Greco e dal liberale di destra Buonocore al ministro del Lavoro, Beneduce, e al ministro dell'Agricoltura, Micheli, per le indebite ingerenze e le rappresaglie attuate nei confronti delle amministrazioni locali non favorevoli al governo, facendosi anche rinfacciare e i giudizi avventati espressi su uomini e cose della provincia che egli non sa e non può conoscere".
Anche per quanto concerne le scelte politiche del partito e specialmente del gruppo parlamentare popolare il contributo del C. fu certamente secondario e marginale. Attestato su posizioni di destra, filofasciste e conservatrici, non prese parte attiva ai dibattiti, limitandosi a dare la propria adesione e il proprio voto a quelle iniziative e a quegli uomini che miravano, all'inizio del 1921 pochi mesi dopo la formazione del governo Mussolini, al quale partecipavano ministri popolari, "a mantenere fermamente l'alleanza coi fascisti" (Rossini, p. 30). Così dopo il IV congresso del Partito popolare (Torino, 12-13 apr. 1923), che "disincagliò i popolari dalle secche del collaborazionismo", nella successiva riunione del gruppo parlamentare popolare, il 20 aprile, firmò con Pestalozza, Martire, Padulli e Tommasi, l'ordine del giorno presentato da Tovini, col preventivo assenso di Mussolini, di "piena fiducia nel capo del Governo", in modo da capovolgere "la linea politica uscita dal congresso" trasformando "la collaborazione condizionata in collaborazione incondizionata, in dedizione" al fascismo (De Rosa, Storia del mov. catt., p. 380). Al termine della discussione, tuttavia, grazie all'intervento di Cavazzoni, preferì associarsi all'ordine del giorno del direttorio, poi approvato a larghissima maggioranza, che rappresentava una mediazione tra le richieste della destra del gruppo e i deliberati del congresso popolare.
Il 24 aprile, in concomitanza con la fine della collaborazione popolare al governo Mussolini, aderì al proclama dello sparuto gruppo della Destra nazionale, "che equivaleva ad una aperta scissione dal grosso del partito" (Jacini, p. 216). Con Tovini, Pestalozza e "gli altri pochi" il C. non seppe trovare "l'adeguazione tra il pensiero popolare e la realtà" (Sturzo, II, p. 135); fu quindi tra i primi popolari "tiepidi e timidi" a dare un appoggio incondizionato al governo "o meglio allo stato fascista". Ai primi di giugno, seguendo Tovini, espulso dal partito popolare il 15 maggio, si dimise, con Tommasi, dal partito, "beninteso senza rinunciare alla medaglietta" (Jacini, p. 225).
Il 30 giugno fu tra i firmatari del manifesto dei "cattolici nazionali", nel quale si dichiarava completo consenso al governo fascista, "determinato dal fatto che il fascismo, per mezzo del governo nazionale, che di questo movimento è l'unica espressione autorizzata, riconosce apertamente e onora i valori religiosi e sociali che costituiscono la base di ogni sano reggimento politico, professando, contro le viete ideologie democratiche e settarie, principi di disciplina e di ordine gerarchico nello Stato, in armonia con le dottrine religiose e sociali, affermate sempre dalla Chiesa. La funzione politica dei cattolici italiani deve risolversi nell'orientamento nuovo di tutte le migliori forze nazionali, tese con impeto sicuro, verso la grandezza spirituale e politica, verso la ricostruzione economica della patria". Il 15 luglio votò a favore dell'ordine del giorno di fiducia al governo e di consenso ai principi della riforma elettorale (la legge Acerbo); il 20 rispose negativamente all'emendamento Bonomi, tendente ad elevare il quorum previsto dalla legge dal 25% al 33%.
Ancora, in vista della consultazione elettorale del 1924, nella quale non fu candidato perché non incluso come altri cattolici ex popolari nella lista nazionale, fu tra le 150 "personalità cattoliche rappresentative di ogni regione", che firmarono, il 26 marzo, l'appello agli elettori redatto da Filippo Crispolti - "una vera pugnalata nella schiena di ex-amici e colleghi" (Jacini, p. 250) - nel quale si riconfermava l'appoggio "a quanti sono concordi di collaborare col governo Mussolini alla opera di ricostruzione materiale e morale del Paese". L'appello tentava di spiegare che, nonostante "qualche errore ed atteggiamento discutibile" più forti ragioni di opportunità inducevano a non "trarsi in disparte e peggio ancora ostacolare e combattere un Regime" senza alternative.
Metteva poi in chiaro i motivi di fondo: noi non esitiamo ad affermare che nessun governo fu mai in Italia, il quale, come questo, mostrasse di comprendere e rispettare i principii che ci sono più cari".
Dopo le elezioni, "nella fase di radicalizzazione della lotta politica seguita al delitto Matteotti" (E. A. Rossi, p. 196), con altri qualificati esponenti della destra cattolica, aderì all'iniziativa di Paolo Mattei Gentili di promuovere il Centro nazionale, "un movimento di fiancheggiamento del partito dominante, che intendeva contrapporre alla "profonda deviazione" subita dal Partito popolare con l'adesione all'Aventino e con l'avvicinamento ai socialisti un programma alternativo che si proponesse come obiettivo principale, "la difesa e la valorizzazione sul terreno politico del principio religioso"" (ibid.). Il 12 ag. 1924 nella riunione costitutiva svoltasi a Bologna nella sede de L'Avvenire d'Italia, il C. tenne la relazione introduttiva. Affermò, tra l'altro, che non si poteva "elevare ad espressione di partito o di regime un delitto che era il fatto isolato di alcuni o fanatici o profittatori o traditori del partito fascista" (De Rosa, Storia del movimento cattolico, p. 501) ed accusò il Partito popolare di chiudere "la sua esistenza... con due fatti ignominiosi: la proclamata possibilità di collaborazione col socialismo; la campagna per la cosiddetta questione morale" (ibid.). Fece parte della commissione provvisoria per la costituzione del Centro unitamente a Mattei Gentili, Grosoli, Cavazzoni, Mauro, e successivamente del comitato centrale, con Santucci, Grosoli, Martire, Mauro e il duca di Santa Severina. Per tutta la durata del Centro ne fu segretario, ma svolse soprattutto un ruolo di collegamento e in definitiva notarile, lasciando ad altri, a Mattei Gentili in particolare, l'effettiva direzione politica.
Sulla base della formula "Dio e Patria, la Religione e la Patria, la Chiesa e lo Stato", il C. ritenne che l'associazione, "dando la propria opera, fatta di consenso e di azione al regime", avrebbe potuto svilupparsi e ramificarsi, anche attraverso la fusione con i vari nuclei cattolici attestati su analoghe posizioni programmatiche e d'azione. Di fatto il Centro non ebbe mai un largo seguito, nonostante gli appoggi di Mussolini, il sostegno della stampa cattolica controllata da Grosoli e da Mattei Gentili e le simpatie "in Vaticano". Non rispecchiò tuttavia "le idee e gli orientamenti del papa" (ibid., p. 505), che prese posizione in modo netto e preciso nei confronti dell'associazione filofascista nel marzo 1928, dopo l'unico convegno nazionale che il Centro fu in grado di organizzare.
Sull'associazione il C. scrisse l'opuscolo programmatico Il Centro nazionale italiano, pubblicato nel 1928 e alcune significative considerazioni nel 1955 in una testimonianza sulla figura e l'opera di Stefano Cavazzoni.
Dopo la conciliazione l'attività del Centro nazionale andò rapidamente spegnendosi, per concludersi definitivamente nel luglio 1930, con lo scioglimento dell'associazione deliberato all'unanimità dalla giunta direttiva. Nel trasmettere l'ordine del giorno della giunta, ove, riconosciuti e pienamente raggiunti, nella realizzazione del Duce e del Fascismo, gli scopi originari per i quali... fu costituito il C.N.", ravvisata "ormai superata nella coscienza dei cattolici italiani ogni ragione di riserva" nei confronti del fascismo, si invitavano i soci "a continuare nei ranghi del Regime e nelle file dell'Azione Cattolica ... il compimento di tutti i doveri così della Milizia civile come dell'Apostolato religioso", il C. sottolineava che la determinazione assunta era stata notificata ed approvata da Mussolini e da Augusto Turati, segretario del Partito fascista, e indicava che "per il passaggio al Partito Nazionale Fascista degli iscritti al Centro" si sarebbe dovuto seguire la via del caso per caso.
Si concluse così, nel modo peggiore, l'asservimento dei cattolici del Centro nazionale al fascismo. Il C., tuttavia, aderendo completamente al fascismo, era stato inserito, nel marzo 1929, nella lista dei candidati designati dal Gran Consiglio del fascismo e aveva ritrovato, con la XXVIII legislatura (1929-34) il proprio seggio alla Camera. Nel maggio 1929 prese la parola nel dibattito sui patti lateranensi, gettando "il consueto sasso contro il liberalismo, che, nel suo graduale esaurimento aveva ridotto lo Stato ad una semplice formula, privandolo di ogni contenuto di potenza e di ogni contenuto etico... e quindi era il meno adatto a comprendere e quindi a volere l'importanza sociale della religione" (Jemolo, p. 476). Ligio alle direttive del regime, non ebbe in seguito altre occasioni per intervenire, pur essendo sempre presente ai lavori parlamentari e sollecito nelle commissioni. Nel marzo 1934 fu naturalmente confermato per la XXIX legislatura (1934-39). Il 23 maggio 1939 venne nominato senatore. Al Senato fece parte della commissione di Finanza, della quale fu vicepresidente dal maggio 1943.
In quegli stessi anni il C. rivolse la sua attenzione con continuità e in prevalenza agli studi di diritto amministrativo e, più specificamente, di diritto sanitario e farmaceutico. Degli studi di diritto farmaceutico fu in Italia uno degli iniziatori e dei più convinti sostenitori per oltre cinquanta anni. I risultati raggiunti dal C. in questo campo - connesso alla sua attività burocratica - servono a spiegare e a chiarire le costanti conservatrici delle sue scelte politiche: la preferenza, cioè, per uno Stato burocratico, forte e ordinato secondo la legge, nel quale il pluralismo sociale viene recepito come dato originario, ma senza possibilità di sviluppo dinamico e rappresentato secondo una precisa gerarchia di corpi e di categorie, ognuna delle quali ha il compito di ottemperare a precise, definite funzioni, che sono quelle di conservare la situazione e gli equilibri esistenti, sia politici che sociali ed economici.
Come espresse ed applicò questa concezione nel corso della sua milizia nel Partito popolare, prima, e durante il regime, poi, così il C. continuò a sostenerla sul terreno specifico della legislazione relativa alle farmacie, nel secondo dopoguerra, esercitando una notevole influenza ed ottenendo immediato consenso sia da parte dei farmacisti proprietari, che da parte delle autorità di governo e dei funzionari del ministero della Sanità.
Contribuì per questa via ad affossare o a ritardare ogni tentativo di riforma intrapreso in questo settore.Alla "concretezza", alla "chiarezza" alla "preparazione teorica" unì "una esperienza che fu senza pari" nel settore sanitario e farmaceutico (Papaldo, p. 643). Fece parte, nel 1930, della commissione incaricata di predisporre lo schema del testo unico delle leggi sanitarie (pubblicato nel 1934); dal 1935 al 1943 del Consiglio superiore di Sanità; della commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie; di altre numerose commissioni per la preparazione di disegni di legge e di schemi di regolamento in materia sanitaria.
Autore di un Commento alla legge 22 maggio 1913 n. 468 sulle farmacie, pubblicato nello stesso anno a Roma, poi riordinato e aggiornato con l'aggiunta del commento al regolamento sull'esercizio delle farmacie in una nuova edizione pubblicata a cura del Sindacato nazionale farmacisti, nel 1938; di un Commento al regolamento per la esecuzione della legge comunale e provinciale coordinato al testo unico 1915, nel 1915; di un Commento al nuovo testo unico delle leggi sanitarie (in collaborazione con Alfredo Jannitti Piromallo) nel 1934, fondò e diresse dal 1923 la rivista Il rinnovamento amministrativo; e dal 1928 (con Giovanni Selvaggi) la rivista mensile Il diritto pubblico sanitario.
Nel 1951 ispirò la fondazione della Gazzetta farmaceutica, che ebbe significativamente come programma quello di considerare "la farmacia nel suo aspetto economico, nelle sue esigenze aziendali" (Gazzetta farmaceutica, I [1951], 1, p. 5), al fine di sostenere che "la farmacia, anche come azienda, deve spettare al farmacista", e la trasferibilità di queste soltanto tra farmacisti, creando così uno stacco tra farmacisti proprietari e non proprietari, tra interessi privati e necessità pubbliche.
Collaborò regolarmente alle riviste citate e ad altre, quali, ad esempio, Vita sanitaria, dal 1915, e Rass. ammin. della sanità, dal 1962. Tra i molti articoli d'indole giuridica sono da ricordare: Le riforme nella pubblica amministrazione (in Rass. comun. di pulizia e di igiene, IV [1916], pp. 364 ss.); L'obbligatorietà del prezzo minimo nella vendita dei medicamenti (in Riv. penale, LVII [1930], pp. 1258 ss.); I corsi di prepar. e di perf. per i segretari comunali (in Il rinnov. ammin., XVII [1939], pp. 131 s.); La legge sul nuovo stato giuridico dei segretari comunali e provinciali (in Riv. ammin. d. Regno d'Italia, XLIII [1942], pp. 193 s.); L'ufficiale sanitario (in Riv. amministrativa della Repubb. ital., IX [1954], pp. 685 ss.); Come si provvede a coprire le sedi farmaceutiche di nuova istituzione nei comuni che hanno soprannumero di farmacie (in Rass. di diritto sanitario, III [1957], pp. 316 s.); Sullacommerciabilità delle farmacie (in Il mondo giudiziario, XIII [1958], pp. 82 s.); L'organizzazione sanitaria periferica (in Rass. ammin. della sanità, I [1962], pp. 403 ss.); La farmacia italiana (ibid., II [1963], pp. 73 s.); Sulla legittimità dell'art. 23 del regolamento 30 sett. 1938 n. 1706? (ibid., III [1964], pp. 641 s.); L'autorizzazione all'esercizio di farmacie municipali (ibid., V [1966], pp. 13 s.); Le farmacie rurali (ibid., pp. 713 s.); Per le farmacie rurali (ibid., VI [1967], pp. 643 s.) e i primi Appunti in ordine alle ultime proposte di modifiche alle disposizioni del Testo Unico delle Leggi Sanitarie 27 luglio 1934 (in Gazzetta farmaceutica, XVII [1967], 11, pp. 6-10).
Era cavaliere di gran croce decorato del gran cordone dell'Ordine della Corona d'Italia; cavaliere di gran croce dell'Ordine di S. Silvestro papa; grande ufficiale dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro; grande ufficiale dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia.
Il C. morì a Roma il 19 novembre del 1967.
Fonti e Bibl.: Necr., in Corr. della Sera, 20 nov. 1967; Il farmacista, XX (1967), p. 232; Il diritto sanitario moderno, XV (1967), p. 319; G. Scalari, Lutto di "Gazzetta farmaceutica". È morto A. C., in Gazz. farmaceutica, XVII (1967), 11, pp. 11 s.; G. F., La carriera di A. C., ibid., p. 13; N. Papaldo, A. C., in Rass. ammin. della sanità, VI (1967), pp. 643-47; Atti parlam., Camera,Discussioni, legisl. XXVI, XXVIII, XIX, ad Indices; Senato,Discussioni, legislatura XXX, ad Indices; F. Magri, La democrazia cristiana in Italia, Milano 1954, I, pp. 186 s., 203-06; Stefano Cavazzoni, Milano 1955, pp. 63, 72, 81-84; V. Napoletano, Dizionario bibliografico delle riviste giuridiche ital. su leggi vigenti(1865-1954), Milano 1956 e success. appendici, ad Indices; M. Monaco, La regione. Sintesi storica dell'autonomia regionale in Italia, Roma s.d., p. 54; L. Sturzo, Il partito popolare ital., Bologna 1956-57, I, pp. 196 s.; II, p. 135; III, pp. 11-17; F. L. Ferrari, L'Azione cattolica e il "Regime", Firenze 1957, p. 88; R. Sgarbanti, Ritratto politico di Giovanni Grosoli, Roma 1959. pp. 155-68, 188-99; G. De Rosa, I conservatori nazionali, Brescia 1962, pp. 15, 90 ss., 98; A. C. Jemolo, Chiesa e Statoin Italia negli ultimi cento anni, Torino 1963, p. 476; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il Partito popolare ital., Bari 1966, pp. 442, 501-03; G. Rossini, Il movimento cattolico nel periodo fascista (momenti e problemi), Roma 1966, pp. 29-39, 122-30; P. Scoppola, Coscienza relig. e democrazia nell'Italia contemp., Bologna 1966, p. 357; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere(1921-1925), Torino 1966, p. 658; Id., Mussolini il fascista. L'organizz. dello Stato fascista (1925-1929), Torino 1968, p. 474; P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d'Italia, Bari 1967, pp. 527 s.; E. A. Rossi, Dal Partito popol. alla democrazia cristiana, Bologna 1969, pp. 196 ss.; L. Pierantozzi, I cattolici nella storia d'Italia, Milano 1970, I, pp. 435, 457 8; S. Jacini, Storia del partito popolare ital., Napoli 1971, pp. 216, 225; R. Ruffini, La questione regionale (1862-1942), Milano 1971, p. 291; G. Candeloro, Il movimento cattol. in Italia, Roma 1972, p. 461; S. Tramontin, Cattolici,popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, pp. 60, 152; A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 1975, IV, p. 2433.