ARISTIDE
Celebrato pittore tebano, forse figlio di Nicomaco, sulla cui genealogia e cronologia si mostra confusa la tradizione antica, tanto che è stata supposta dai moderni, oltre alla sua, anche l'esistenza di un altro artista del suo nome, che sarebbe stato suo nonno (cfr. Plin., XXXV, 110, 75, 98). Ad ogni modo l'attività di Aristide deve porsi intorno all'età di Alessandro Magno.
Nei colori appariva un po' duro (Plin., XXXV, 98). Era ritenuto anche l'inventore dell'encausto (Plin., XXXV, 122). Per il primo egli avrebbe espresso nella pittura l'animo e le suggestioni umane, o meglio le emozioni, che i Greci chiamano ἤϑη. (Plin., XXXV, 98). Dunque sua caratteristica principale fu l'espressione del patetico, come per Scopa. Ma, a giudicare dai titoli conservati delle sue opere, egli avrebbe espresso questi stati d'animo attraverso figure senza nome, anziché attraverso personaggi del mito. In qualche caso l'identificazione è stata tentata dalla critica moderna.
Si elogiava di lui il quadro, trasportato poi da Alessandro a Pella (dopo la distruzione di Tebe, 338 a. C.), in cui, sullo sfondo rappresentante la presa di una città, spiccava il gruppo di una madre ferita a morte col figliolino che afferra la mammella, mentre ella sembra accorgersi e temere che, esausto il latte, egli possa bere del sangue (il quadro è descritto anche in un epigramma della Anth. Pal., VIII, 623; lo stesso soggetto fu trattato in scultura da Epigono: Plin., XXXIV, 88).
Dipinse anche una battaglia contro i Persiani: la tavola conteneva cento figure e per ciascuna di esse Mnasone, tiranno di Elateia, pattuì con lui la somma di 10 mine (lire odierne 3500 circa; si è voluto vedere un'eco di quest'opera nel musaico pompeiano di Alessandro, che sarà piuttosto da ricondursi a un quadro del condiscepolo di A., di nome Filosseno; Plin., XXXV, 109). Altre opere: una corsa di quadrighe (forse quadro votivo); un supplicante di cui pareva si udisse la voce; cacciatori con la preda; il ritratto della epicurea Leontion; una ragazza che muore per amore del fratello (forse Kanake che si dette la morte per ordine del padre Eolo a causa dell'amore verso il fratello Macareo; cfr. però anche Anth. Pal., VII, 517); Dioniso e Arianna, opera portata a Roma nel tempio di Cerere (ricordata anche da Strabone, VIII, p. 381, che la vide prima che perisse nell'incendio del tempio, sotto Augusto). Il quadro pare che fosse stato comperato dal re Attalo per 600.000 denari (lire odierne 2.100.000 circa) dopo la distruzione di Corinto, e poi tolto a questo e portato a Roma da L. Mummio (Plin., XXXV, 24,100; VII, 126). Insieme col Dioniso è menzionato da Strabone, l. c., un Eracle straziato dal dolore nella veste donatagli da Deianira, ma non è possibile dire se anche questa pittura fosse di A., quantunque alcuni la vogliano identificare con "l'ammalato" menzionato da Plinio (v. avanti un attore tragico che sta insegnando la parte ad un fanciullo, pure a Roma nel tempio di Apollo (in Campo Flaminio): questa pittura fu rovinata dall'inesperienza dell'artista a cui il pretore M. Giunio l'aveva mandata per farla ripulire in occasione delle feste apollinari; un quadro rappresentante un vecchio con una lira, che insegna ad un fanciullo, poi nel tempio della Fede in Campidoglio; infine un "ammalato", opera lodatissima (per tutte le opere sopraelencate, v. Plin., XXXV, 98-100). Di lui si ricorda anche un'Iside, lavoro non finito (Plinio, XXXV, 145). Infine Polemone, presso Ateneo (XIII, p. 567 β), menziona A. fra i pittori che trattarono anche soggetti licenziosi.
Bibl.: H. Brum, Gesch. d. griech. Künstl., II, pp. 159 segg., 171 segg.; B. Sauer, in Thieme-Becker, Künstler-Lex., II, Lipsia 1908, p. 102 segg.; O. Rossbach, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 897; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichn. d. Griech., II, pp. 814-17.