ARISTOCRAZIA (dal gr. ἀριστοκρατία, da ἄριστος, "ottimo" κρανέω "domino"; fr. aristocratie; sp. aristocracía; ted. Aristokratie; ingl. aristocracy)
Nell'antichità. - L'aristocrazia è per Platone e Aristotele il governo degli intellettualmente e moralmente superiori. Ma per questi stessi filosofi, a raggiungere tale eccellenza è necessario essere liberi dalla preoccupazione del procacciarsi da vivere e specialmente dai lavori manuali. Così anche sui filosofi influisce largamente il modo comune di esprimersi presso i Greci nell'età più antica, corrispondente di necessità ad un analogo modo di pensare, secondo cui gli "ottimi", o anche soltanto i "buoni", sono quelli che appartengono alle classi più elevate della società, e che si segnalano particolarmente per ricchezza ereditata e per nobiltà di nascita, gli eupatridi o "ben nati". Ciò si vede chiaro nella formula arcaica delle elezioni da farsi "per eccellenza e ricchezza" (ἀριστίνδην καὶ πλουτίνδην), dove l'eccellenza è, almeno in origine, soprattutto la nobiltà di nascita, in quanto i varî pregi eccellenti difficilmente possono pensarsi senza di essa. Sicché l'usuale significazione di nobiltà del sangue che si dà nelle lingue moderne alla parola aristocrazia, è bene appropriata, tenendo conto del significato originario della parola, sebbene non sia precisamente quella che essa aveva nella Grecia della età classica.
Come ebbe origine in Grecia questa classe che ha tanta importanza nella vita ellenica durante l'età preclassica e nella prima parte della età classica, fino a tutto il V secolo? Su tale punto le opinioni sono varie. Alcuni opinano che l'aristocrazia sia propriamente il complesso dei veri cittadini, a cui si contrappongono gli indigeni (pregreci) soggiogati e gli stessi Greci ridotti con le guerre in condizione d'inferiorità, oltre ai non cittadini che vengono a stabilirsi in una città o in un cantone diverso da quello d'origine, agli schiavi liberati e simili. Poco diversamente, alcuni critici, tenendo conto del nome di eupatridi, "ben nati", che si davano i nobili, e di quello di omogalatti che i membri delle genti nobili portavano ad Atene, e che s'interpreta "figli di una stessa madre", dànno speciale importanza alla nascita legittima: i nobili sarebbero soprattutto i discendenti dei conquistatori greci della penisola greca e delle loro mogli legittime, in contrapposto ai discendenti delle concubine provenienti in massima dalle stirpi preelleniche soggiogate. Secondo l'una e l'altra di tali ipotesi, che potremmo dire "patriarcali", i nobili sono essenzialmente o esclusivamente i primitivi cittadini, i non nobili, invece, quegli elementi di varia provenienza che si sono raccolti sotto o accanto ai cittadini, e che solo in progresso di tempo hanno costituito la classe inferiore della cittadinanza. Accanto a questa ipotesi, quella che potremmo dire "sociologica" considera la formazione della nobiltà come dovuta al processo essenzialmente economico della differenziazione tra le classi col progredire dello sviluppo civile. La verità è forse che quest'ultimo è veramente in genere il fondamento essenziale della formazione e del progresso delle aristocrazie tra i Greci, sebbene le varie contingenze esteriori di tale formazione e di tale sviluppo nei varî stati non possano ridursi a un unico rigido schema.
L'aristocrazia primitiva in generale ha carattere sacerdotale o guerriero. Come e perché l'elemento sacerdotale non abbia avuto nel formarsi dell'aristocrazia greca che scarsa o nulla importanza, non è qui il luogo d'indagare. Né è il luogo di esaminare le ipotesi alquanto avventate che sono state presentate da alcuni moderni sul fondamento d'iscrizioni da cui ad un primo esame parve risultare la presenza di un'antica aristocrazia sacra, i cosiddetti molpi, in Mileto. L'aristocrazia greca è soprattutto un'aristocrazia guerriera, come si vede anzitutto in Omero. La ricchezza dà al nobile elleno il modo di fornirsi di buone armi di offesa e di difesa; onde il mito, non soltanto greco, celebra le armi poderose degli antichi eroi e le attribuisce persino a fabbri divini. Tali armi mettono i membri dell'aristocrazia in grado di compiere singolari azioni di guerra, che l'epopea celebra coi colori dell'arte. Così pure, la ricchezza permette di far fabbricare il carro da guerra e di allevare i cavalli necessarî per il carro e più tardi per combattere a cavallo. Per tal modo la classe più elevata prende in Grecia il nome di cavalieri (ἱππει0ς) o allevatori di cavalli (ἱπποβόται) accanto all'altro nome, significante ciò in cui soprattutto consisteva la ricchezza del nobile, proprietarî di terre (γεωμόροι, γαμόροι). Forniti di buone armi, esercitati nel maneggiarle, seguiti da un corteggio di clienti che essi armano a proprie spese e di cui si servono come scudieri, palafrenieri o portatori, i nobili arricchiscono col bottino di cui pretendono, come Achille di fronte ad Agamennone, una parte proporzionata ai servigi che rendono al re; e il re è costretto a sua volta, per assicurarsene la fedeltà, a compensarli con donativi presi sui beni della corona, e non può non tener conto dei loro consigli e dei loro propositi. Il progresso dell'arte militare, l'importanza crescente del cavallo da guerra, l'uso sempre più copioso di armi metalliche di difesa dallo scorcio dell'età micenea al X o IX secolo a. C. e oltre, determinano, col favore delle guerre per l'unificazione regionale e per l'espansione nazionale, un incremento sempre maggiore dell'aristocrazia, che finisce col limitare il potere del monarca e poi col rovesciare addirittura la casa reale: sviluppo di cui si seguono abbastanza bene i progressi attraverso le due epopee omeriche. Così agli albori della storia si conserva in generale in Grecia il ricordo della monarchia, ma essa, salvo le regioni più eccentriche e meno civili (Macedonia, Epiro, Cipro, Cirene) e salvo Sparta, dove la particolarissima continuità dello sviluppo costituzionale salvaguarda le famiglie reali, pure privandole a poco a poco di molti dei loro poteri, è dappertutto caduta, cedendo il posto a un'aristocrazia. Tale sostituzione giunse a compimento in generale circa l'800 a. C., o poco più tardi.
Nella lotta tra l'aristocrazia e la monarchia era ovvio che questa, sentendosi più debole, cercasse appoggio nelle masse popolari. Come pure era ovvio che, sia per questo, sia per i difetti inerenti a qualsiasi governo di classe, il governo dell'aristocrazia fosse di regola oppressivo, o almeno fosse generalmente ritenuto tale. L'aristocrazia tendeva a concentrare in sua mano la ricchezza e a ridurre il grosso della popolazione in condizioni di sempre maggiore dipendenza politica ed economica. In Tessaglia essa pervenne a porlo nella condizione di servitù della gleba. Ad Atene l'oppressione economico-politica durò, grave di sofferenze e di pericoli, fino a Solone. Ma, ad arrestare questo processo e a impedire l'incondizionato trionfo dell'aristocrazia, intervennero parecchi fattori. Prima di tutto lo sviluppo dell'industria e del commercio, favorito dalla natura e dal sito della Grecia e dallo svolgersi della colonizzazione ellenica lungo le sponde del Mediterraneo. Esso creò a poco a poco una nuova classe abbiente, il cui titolo di potenza non era la nascita né la ricchezza di proprietà fondiaria, classe la quale, specie nelle regioni coloniali, nell'Attica, nella zona attorno all'istmo di Corinto, s'inserì vigorosamente fra le classi in contesa. Poi l'istituzione della moneta e lo sviluppo, sia pure lentissimo, dell'economia fondata sul denaro e il crescere progressivo del mezzo circolante favorirono il risparmio, agevolarono il credito, migliorarono la sorte dei debitori. Inoltre il progresso dell'arte militare fece sì che il nerbo dell'esercito non fosse più costituito da singoli guerrieri straordinariamente esercitati e prodi e in possesso d'armi eccezionalmente buone, ma da tutta la schiera dei fanti di grave armatura (opliti), formanti una sola unità tattica, che il vecchio carro da guerra non riesce a spezzare e nella quale non hanno importanza le armi di eccezione del singolo, ma bastano armi comuni di ferro, che il progresso della metallurgia mette alla portata di tutti i piccoli proprietarî.
L'assalto contro l'aristocrazia è agevolato dal disgregamento dell'autorità statale, che s'era accompagnato col suo prepotere. Sotto la monarchia i massimi poteri statali, cioè soprattutto il sommo sacerdozio e il comando in guerra, erano in mano del re. Ma l'incremento dei poteri dello stato e specialmente lo sviluppo della giurisdizione civile e penale aveva costretto a creare molteplici magistrature, le quali, prosperando accanto a quelle che si erano divise gli antichi poteri regi, le tenevano in scacco; ciò tanto più in quanto tali magistrature appunto per la rivalità tra le genti aristocratiche, le quali non volevano che una tra esse prendesse stabilmente il posto dell'antica monarchia, erano di regola annue. In tali condizioni mancò allo stato aristocratico un saldo potere centrale che gli desse unità e continuità di governo, e fu quindi tanto più facile alle masse popolari di rovesciarlo. S'intende che a ciò il popolo in Grecia non pervenne quasi mai direttamente e immediatamente, ma solo indirettamente con l'aiuto di capipopolo, anch'essi di regola nobili di nascita, perché solo tra i nobili potevano trovarsi in uno stato aristocratico gli uomini esercitati alla vita politica. Questi, organizzando e dirigendo le masse, se ne servirono per abbattere le aristocrazie e stabilire al posto di esse il proprio predominio (tiranni), ricostituendo l'unità della compagine statale che le aristocrazie avevano lasciato disgregare. L'età della tirannide è in Grecia il secolo VI; le ultime tirannidi sopravvissero fino ai primi decennî del V. Dopo ciò in generale le aristocrazie, colpite a morte dai tiranni e incapaci di risollevarsi per propria forza, declinano politicamente in Grecia e, pur tra le molte varietà di sviluppo, a noi non sempre ben note, dei singoli stati, può dirsi che la nobiltà del sangue cessi di essere un elemento predominante o anche solo di notevole importanza nella vita greca. Vi furono a più riprese, accanto alle democrazie più o meno temperate, governi più o meno ristretti di pochi, ma anche in questi, di regola, il censo (timocrazia) predominò sulla ragione della nobiltà. Peraltro, anche cadute le aristocrazie, le famiglie nobili non solamente conservarono qualche privilegio in particolar modo di carattere religioso, ma continuarono anche a godere tale credito presso il popolo, ché, per esempio, nella più democratica delle città greche, Atene, la maggior parte dei capi partito, anche dei più demagogici, appartenne per tutto il sec. V a famiglie nobili e solo verso la fine del secolo cominciarono a farsi largo nella vita politica, con grande scandalo dei ben pensanti, uomini la cui ricchezza non era ereditata, ma fondata sull'industria, come Cleone e Iperbolo. Scandalo non più di moda nel secolo successivo, quando l'uomo politico predominante fu Demostene, il cui padre s'era arricchito con una fabbrica di spade, mentre egli stesso aveva rimesso ordine nell'eredità paterna dissestata esercitando l'avvocatura.
Per le analogie e per le differeme che la storia dell'aristocrazia presso i Romani presenta con quella dell'aristocrazia greca, v. gli articoli Patriziato e nobiltà.
Bibl.: Lo sviluppo qui sopra delineato è largamente esposto nelle principali storie della Grecia, p. es. G. Busolt, Griechische Geschichte, I, 2ª ed., Gotha 1893, p. 505 segg., 626 segg.; J. Beloch, Griech. Geschichte, 2ª ed., I, i, Strasburgo 1912, pp. 211 segg., 347 segg. Vedi anche E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, Stoccarda 1893, p. 302 segg., 350 segg., 553 segg.; K. Fr. Hermann e H. Swoboda, Lehrbuch der griechischen Staatsaltertümer, 6ª ed., I, iii, Tubinga 1913, p. 31 segg. (con ricca bibliografia); G. Busolt, Griech. Staatskunde, I, 8ª ed., Monaco 1920, p. 341 segg. Quello che sull'aristocrazia greca dice N. D. Fustel de Coulanges nel bellissimo libro La città antica (vedi p. es. la traduzione di G. Perrotta, Firenze 1924), non importa che per la storia della scienza.
La concezione moderna. - Dal Medioevo in poi il termine di aristocrazia fu usato a indicare non tanto, come nell'antichità sulle orme di Aristotele, una forma di governo, quanto piuttosto una classe di cittadini, e precisamente quella che, distinguendosi dal clero, fondato su basi religiose, e dalla borghesia, d'origine mercantile e industriale, era fondata sull'esercizio delle armi e su privilegi familiari (feudi, esenzioni, diritti finanziarî, ecc.), trasmissibili per eredità (v. feudalismo e nobiltà).
A seconda che la classe aristocratica era allora a fondamento di uno stato dinastico, dal quale a sua volta era sostenuta, oppure raccoglieva essa nelle proprie mani la somma del potere, si aveva una aristocrazia monarchica o un'aristocrazia repubblicana: esempî tipici l'aristocrazia francese dei quattro Luigi (Luigi XIII, XIV, XV, XVI), e l'aristocrazia veneziana. Ma quando, dopo la rivoluzione francese, la classe aristocratica, quale storicamente si era costituita in Europa, perdette la propria funzione politica, il termine di aristocrazia fu rivolto a indicare quella classe di cittadini che in un ordinamento ideale della società dovrebbe costituire, per un complesso di doti variamente determinabili, la parte eletta, a cui spetterebbe il governo e la direzione sociale. Si vennero quindi formando nel sec. XIX teorie aristocratiche diverse, le quali, un po' per nostalgia di età lontane, un po' per opposizione alle correnti democratiche, giustificavano con argomenti d'origine storica o scientifica o filosofica il diritto al dominio degli uomini superiori e dei gruppi aristocratici. Analogamente a quanto accade per le teorie anarchiche (v. anarchia), con le quali le aristocratiche hanno qualche tratto comune, in quanto poggiano ambedue su basi individualistiche, si potrebbero distinguere tre specie di teorie aristocratiche: quelle che traggono dal valore della scienza e dallo sviluppo della cultura scientifica in alcune menti superiori il diritto per esse al dominio su tutte le altre e quindi alla direzione della società; quelle che traggono dalla legge stessa di evoluzione, secondo la quale sopravvivono nella lotta per l'esistenza i più adatti, il diritto del forte sul debole; quelle, infine, che traggono dal valore di alcune doti spirituali, come la fantasia, l'impeto passionale, la volontà di potenza, il diritto di coloro che ne sono provvisti a svolgere la propria attività ed energia senza riguardo per gli altri consociati. Ma nel fatto le tre motivazioni o giustificazioni filosofiche fra di loro s'intrecciano e si compongono in dottrine miste. Secondo Ernesto Renan (1823-1892), essendo la scienza, e in genere l'esercizio della ragione, il vero e unico contrassegno della dignità e superiorità dell'uomo, soltanto agli spiriti dotati di cultura scientifica e capaci di proseguire in essa spetta il dominio sociale: all'individualismo democratico e ugualitario di tutti gli uomini considerati come portanti in sé la legge morale e quindi il diritto al rispetto per un lato e alla partecipazione al potere civile per l'altro, si sostituisce l'individualismo aristocratico degli uomini più intellettualmente dotati e più sapienti, per i quali gli altri possono partecipare dei beni superiori; all'uguaglianza ideale, la disuguaglianza creata dal fatto della cultura; all'autonomia individuale e sociale, il dispotismo dei più saggi. Altri poi, come il Haeckel, partendo dalle premesse della dottrina darwiniana della lotta per l'esistenza e della selezione dei più adatti, traeva conclusioni aristocratiche in favore degl'individui meglio dotati; il Gumplowicz fondava sul principio della lotta delle razze il diritto delle minoranze aristocratiche a imporre sui soggetti la propria volontà e il proprio impero; e il conte di Gobineau vedeva nella democrazia l'inizio della degenerazione delle razze e della decadenza delle nazioni. Di diversa ispirazione sono altri teorici dell'aristocrazia.
Secondo il Carlyle (1795-1881), che sentì molto l'influenza della poesia e filosofia idealistica tedesca dello Schiller, del Goethe, del Richter e del Novalis, nei quali (come, in genere, nei romantici) sono le premesse dell'individualismo aristocratico, la vera umanità si manifesta in quegl'individui eccezionali, da lui detti eroi (quali Maometto, Dante, Lutero, Rousseau, Cromwell, Napoleone), i quali nei varî campi della vita (arte, religione, politica, ecc.) sono per la forza della propria genialità i creatori delle grandi opere, i maestri, i duci delle moltitudini. E, secondo l'Emerson (1803-1882), gli uomini rappresentativi son quelli, nei quali più libera e pura si esprime quella voce profonda che attraverso l'intuizione immediata e istintiva traduce l'anima suprema (over soul) del mondo. Un individualismo aristocratico è pure espresso nelle tragedie di Enrico Ibsen. Ma chi svolse con maggiore insistenza e apparato filosofico il principio aristocratico fu Federico Nietzsche (1844-1900), che nelle sue opere migliori (Also sprach Zarathustra, 1883-85; Ienseits von Gut und Böse, 1886; Zur Genealogie der Moral, 1887; Der Wille zur Macht, 1887 segg.) contrappose nettamente al principio cristiano dell'amore quello pagano della forza, al principio democratico dell'uguaglianza quello aristocratico del superuomo, al principio pessimistico del dolore quello ottimistico della gioia vitale, al principio razionalistico dell'autonomia quello volontaristico dell'istinto. Il cristianesimo è per lui la rivolta degli schiavi e imbelli contro i padroni e forti; la morale che subordina l'individuo a una legge universale è stata la Circe dei filosofi e dell'umanità, e la Moralin è stato il veleno che ha attossicato le pure fonti della vita; la filosofia, con il suo dualismo del mondo apparente e del mondo in sé, è stata sempre la grande scuola della calunnia contro la vita presente e la realtà degl'istinti primordiali; la volontà del vero non è che l'impotenza della volontà di creare. Da tutto questo il Nietzsche trae la più schietta affermazione aristocratica: la volontà di potenza, che è la vera espressione della vita, non si celebra che dall'uomo superiore sulla folla degli inferiori; ciò che distingue, egli dice in Al di là del bene e del male una buona e sana aristocrazia è che essa accetta, a cuor leggiero, il sacrificio d'una folla d'uomini che, per essa, devono essere ridotti o diminuiti fino allo stato di uomini incompleti, di schiavi e di strumenti. Chi ha in Italia riecheggiata la teoria del Nietzsche, esprimendola in forma letteraria, è stato Gabriele D'Annunzio, soprattutto in una fase della sua vasta produzione (Il trionfo della morte, 1894; Le vergini delle rocce, 1895; Il fuoco, 1900), e anche nelle tragedie e nel primo libro delle Laudi.
Bibl.: E. Renan, Avenir de la science, pensées de 1848, Parigi 1888; id., Dialogues et fragments philosophiques, Parigi 1876; L. Gumplowicz, Der Rassenkampf, Innsbruck 1883 (trad. franc., Parigi 1893); A. De Gobineau, Essai sur l'inegalité des Races humaines, Parigi 1853-55; Th. Carlyle, On heroes, hero-worship and the heroic in history, in Works, Londra 1904-06 (trad. it., Gli eroi, Firenze 1897); R. W. Emerson, Representative men, Londra 1890 (trad. ital., Torino 1904); F. Nietzsche, Werke, Lipsia 1899 (trad. franc., Parigi 1906 e segg.).
Sull'individualismo aristocratico si vedano: E. Fournière, Essai sur l'individualisme, Parigi 1901; P. R. Troiano, Le basi dell'umanesimo, Torino 1907; G. Vidari, L'individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX, Milano 1909; G. Palante, Combat pour l'individu, Parigi 1904; G. Calò, L'individualismo etico del secolo XIX, Napoli 1906; V. E. Orlando, in Enciclopedia giuridica italiana, Milano 1893. - Per il D'Annunzio: R. Del Re, L'ellenismo nell'opera di G. D'Annunzio, Bologna 1928.