ARISTOFANE ('Αριστωϕάνυς, Aristophănes)
Le notizie intorno alla sua vita sono poche e poco sicure. Nacque intorno al 450 a. C., in Atene, nel demo Cidatenèo. E ateniesi e liberi erano, sembra certo, tanto il padre Filippo, quanto la madre Zenodora. Però, mentre la madre vantava anche progenitori ateniesi, assai meno sicura era la provenienza del padre: tanto che Cleone potè intentare al poeta un processo per indebita appropriazione di cittadinanza; e i grammatici si sbizzarrirono a trovargli varie provenienze, chi da Lindo, chi da Camiro, chi, perfino, da Naucrati d'Egitto.
Non abbiamo notizie dirette intorno alla sua prima educazione; ma che fosse accuratissima risulta, senza possibile equivoco, sia dalla ricchissima cultura, massime letteraria e artistica, che egli sfoggia nelle sue commedie, sia dal superbo disprezzo che mostra ad ogni occasione contro l'ignoranza, la rozzezza e la goffaggine.
In perfetta coerenza con questo suo orientamento spirituale militò nelle interne lotte politiche d'Atene, schierandosi decisamente col partito aristocratico, contro i demagoghi villani rifatti, quali Cleone e Iperbolo, che allora spadroneggiavano in Atene. E specialmente il teatro fu il suo campo di battaglia; e sua arma la commedia. Noi non conosciamo le opere del suo predecessore Cratino e dei suoi emuli - massimo Eupoli -, nè possiamo quindi istituire confronti di nessun genere, ma difficilmente arriviamo ad immaginare che altri abbia saputo impugnare quest'arma con più efficacia, e insieme con più eleganza. E cerchiamo in tutta la letteratura politica del mondo, e non troviamo alcun libello che abbia la virulenza, la ferocia, l'efficacia, e insieme l'arte, e, dunque, la virtù suasiva, dei Cavalieri.
I suoi nemici, naturalmente, non stettero con le mani in mano. Già dopo i Babilonesi, la seconda delle sue commedie (426: la prima era stata i Banchettatori, 427), Cleone gli aveva intentato il processo, che dicemmo, di usurpata cittadinanza. Ma A. riuscì vincitore, e, anziché rimanere intimidito, raddoppiò la dose, sinché non vide il nemico soccombere nell'infida alea politica. Allora lo risparmiò; e di questa sua generosità mena vanto egli stesso, nella parabasi delle Nuvole:
Io son quei che, percosso
Cleone in piena pancia, quand'era un pezzo grosso,
quando lo vidi a terra, più non gli feci offesa.
Da allora in poi, della vita di A. non sappiamo quasi più nulla. La sua attività poetica durò certo ininterrotta. Esaminando, per quanto si può restituire, la cronologia delle sue commedie, troviamo due lacune, una di sette anni, dopo la pace di Nicia (dal 421 al 414); l'altra dal 408 al 405; ma certo in questi periodi andranno collocate le commedie di cui ignoriamo la data.
Verso la fine della guerra del Peloponneso arrivò al potere il partito aristocratico, quello del poeta. Ma proprio allora furono promulgate leggi che limitarono enormemente la libertà, veramente peggio che sfrenata, della commedia; e, d'altra parte, dopo la sconfitta d'Atene e i trenta tiranni, e la guerra civile per la restaurazione della democrazia, la pubblica miseria divenne tale che non si poté più pensare ai larghissimi dispendî che avevano reso possibile l'incomparabile sfarzo della commedia antica.
A. seppe adattarsi al nuovo regime di economia senza libertà e scrisse ancora commedie piacevoli ed interessanti: le Ecclesiazuse e il Pluto, che tuttora possediamo, e il Cócalo e l'Eolosicone, perdute. Il poeta fece rappresentare le ultime due sotto il nome di suo figlio, Araro, al quale, evidentemente, volle spianare la via. Ma il genio raramente si eredita; e non risulta che Araro facesse troppo lungo cammino.
Aristofane scrisse quarantaquattro commedie; ma a noi ne sono pervenute solo undici. Eccone i riassunti, in ordine cronologico.
Gli Acarnesi. - Sono del 425. La guerra durava già da sei anni e al rinnovarsi d'ogni stagione le soldatesche spartane mettevano a ferro e fuoco il territorio attico fin sotto le mura d'Atene. In Atene, affollata di tutta la gente cacciata dai campi, serpeggiava la peste. E, fra le privazioni e i patimenti d'ogni sorta, in molti cuori doveva da lungo tempo covare il desiderio della pace. Negli Acarnesi A. presta la propria voce a questa aspirazione. La tela della commedia è la seguente: Diceopoli, un contadino danneggiato dalla guerra, e costretto all'odiosa vita cittadina, si reca nella Pnice, all'assemblea, per propugnare la pace. Ma, visto che non c'è modo di far intendere ragione ai suoi concittadini, o stolti, o forsennati, o imbroglioni, dà incarico a un certo Anfiteo, suo collega in pacifismo, di recarsi nel campo spartano e di stringere per suo conto una tregua con i nemici. Anfiteo va, consegue l'intento, e torna riportando varî saggi di "tregua", ma è sorpreso da una banda di Acarnesi, che, inferociti per i guasti fatti dal nemico nelle loro terre, lo inseguono a morte, e giungono addosso a lui e a Diceopoli proprio mentre costui sta celebrando un sacrifizio a Bacco, per ringraziarlo della pace ottenuta. E vorrebbero senz'altro lapidarlo; ma il furbo contadino riesce con uno stratagemma a calmarli, a farsi ascoltare; e con una brillante improvvisazione dimostra che i torti della guerra non son tutti dalla parte degli Spartani. Dopo il suo discorso, gli Acarnesi si dividono in due gruppi, uno favorevole a Diceopoli, l'altro che persiste nel volerlo sterminare. E, invocato ad alte grida, giunge, in soccorso del secondo, Lamaco, il duro e valoroso e guerrafondaio generale di Atene. Ma qui fa la parte del citrullo e del pulcinella, e Diceopoli, dopo averlo scorbacchiato in tutti i modi, apre, sempre per proprio conto, un mercato, e invita a trafficarvi gli Spartani, i Beoti, i Megaresi: tutti i nemici e Lamaco no.
Dopo la parabasi, nella quale è beffeggiata la dabbenaggine degli Ateniesi d'oggi, ed esaltata, con gran copia di maschi accenti e di luminose immagini, la gloria dei vecchi maratonomachi adesso vilipesi e tormentati dagl'immemori discendenti, vediamo il nuovo mercato di Diceopoli. Vi accorrono prima un Megarese, che, ridotto dalla guerra all'estrema miseria, porta in un sacco chiuso le due figliuolette, per vedere se gli riesce di gabellarle per porcellini, poi un Beota che porta una soma di salvastrella, uccelletti d'ogni genere, e, innanzi tutto, qualcuna delle anguille di Copaide, famose presso gli Ateniesi assai più che presso noi quelle di Bolsena. Un paio di sicofanti, che si presentano per esercitare anche qui il loro turpe mestiere, sono licenziati a bastonate; e Diceopoli se ne torna a casa, carico d'ogni ben di Dio, a preparare un gran pranzo.
Nella seconda parabasi due vivacissimi quadretti dipingono, a contrasto, gli orrori della guerra e le delizie della pace.
Poi, uno squillo di tromba annunzia la festa dei Boccali. Accorre la gente da ogni parte, per prender parte a quella gara, nella quale riportava la palma chi, a un segno dato, riusciva primo a vedere il fondo d'una coppa ben capace. Diceopoli esce coi suoi servi, e si mette a preparare il suo lauto banchetto davanti a quel consesso d'affamati. Più d'uno si presenta per godere un po' di quella bazza; e poi ecco Lamaco, che, chiamato in fretta e furia, deve mettersi in marcia e affrontare il nemico. Fra il generale che si arma per la guerra, e Diceopoli che impartisce disposizioni culinarie, si svolge un duetto che si deve annoverare tra le scene più spassose del teatro d'Aristofane.
Lamaco va alla guerra, Diceopoli entra in casa a gozzovigliare. Ma, dopo un breve intervallo, colmato da alcuni aggressivi canti satirici (σκώμματα), il povero guerriero torna sconciamente ferito, sostenuto dai suoi commilitoni, e Diceopoli esce tutto allegro, briaco, fra le braccia di due vezzose fanciulle. E con le sue grida di giubilo e le ultime canzonature al guerrafondaio ha termine la commedia.
I Cavalieri. - Furono rappresentati il 424, alle feste Lenee; e sono un attacco a fondo, di ardire e ferocia insuperabili, contro il demagogo Cleone, che dopo l'espugnazione di Sfacteria era giunto al colmo della gloria e del potere. Ma Aristofane, certo giudicando con animo di nemico, opinò che egli avesse raccolto il frutto di quanto avevano seminato e condotto a maturazione i generali Demostene e Nicia. La tela è la seguente: un certo Popolo (Δῆμος simbolo del popolo ateniese) ha comperato un servo, un certo Paflagone (Cleone), che con le sue male arti è riuscito a conquistare interamente il cuore del padrone, e lo induce a ogni sorta di stoltezze e di malvagità, e imperversa sui suoi compagni di servitù. Due di questi cercano il modo di scrollare l'odioso giogo; e apprendono da un oracolo che il Paflagone, conciapelli, cadrà quando si troverà, per stargli a fronte, un uomo più rozzo, più ignorante e più farabutto di lui, di professione salsicciaio. Proprio mentre stanno commentando l'oracolo, un salsicciaio appare; e i due congiurati se ne impadroniscono, e lo inducono alla lotta.
Il salsicciaio, che ignora qual dote preziosa sia, per la vita politica, la perfetta ignoranza, sulle prime si schermisce. Poi, mentre comincia ad abboccare, giunge strepitando il Paflagone, e coi suoi strilli lo mette in fuga. E allora i due congiurati invocano a grandi urla il soccorso dei cavalieri. I cavalieri, l'unica milizia permanente d'Atene, erano mille giovani scelti fra i più prestanti e agiati: aristocratici, e quindi, in genere, nemici a Cleone. E i cavalieri giungono, infatti, rintuzzano l'attacco del Paflagone, e lo costringono a misurarsi a tu per tu col suo rivale, che intanto, ripreso animo, lo affronta arditamente.
Tutto il resto della commedia è costituito dalla loro lotta, lunga e ferocissima, e che comprende più fasi. La prima si svolge, appena arrivato il Paflagone, dinanzi ai cavalieri. La seconda non avviene sulla scena, bensì nel Consiglio, ed è narrata dal salsicciaio. La terza infine, dinanzi a Popolo stesso, che, chiamato fuori dalla sua casa, raduna in fretta e furia l'assemblea. In ciascuno degli attacchi rifulge chiara la superiorità del salsicciaio, che, dimostrandosi più impudente, più attaccabrighe, più calunniatore e più buffone del suo competitore, riesce a sopraffarlo compiutamente. E infine riesce a dargli il colpo di grazia dimostrando come egli s'impadronisca della maggior parte dei quattrini estorti allo stato col pretesto del pubblico interesse. Ottenuto il trionfo, il salsicciaio mette a bollire Popolo in una meravigliosa caldaia, e lo tira fuori tornato a nuova gioventù e floridità, e guarito dalla sua citrullaggine. D'ora in poi non si lascerà più abbindolare da demagoghi furfanti, e reggerà Atene coi principî che un giorno la resero grande.
I varî episodi sono, al solito, intercalati da intermezzi lirici. E in uno di essi, nella prima parabasi, il poeta, tessendo l'elogio prima dei maratonomachi, e poi dei loro cavalli, si leva ad altissimo volo di poesia civile.
Le Nuvole. - Le Nuvole, composte prima per le Dionisie del 423, e accolte assai freddamente, furono rielaborate dal poeta; ma, parrebbe, non mai condotte a termine né più rappresentate. Noi possediamo questa seconda rielaborazione, che ad ogni modo è mirabile opera d'arte, e fra le più geniali e ispirate del poeta.
Strepsiade, un vecchio ateniese, campagnuolo alla buona, che ha fatto la corbelleria di sposare una ragazza della nobiltà, assillato dai debiti contratti da suo figlio Fidippide, fanatico dei cavalli, ha sentito dire che in Atene c'è una scuola di pensatori, diretta da un certo Socrate, che insegna a vincere con la chiacchiera ogni causa, anche la più shallata. E pensa di mandar là il figliuolo, perché impari, e metta nel sacco i fastidiosissimi creditori. Ma Fidippide, che sa come i discepoli di quella scuola si riducano in brev'ora allampanati e straccioni, rifiuta, e il povero vecchio si reca in persona da Socrate, con l'intenzione e la speranza d'imparare egli stesso. Però un breve assaggio dimostra come la sua zucca, troppo indurita dall'età, si ribelli ad apprendere tutte quelle sottigliezze; e allora il brav'omo ricorre alle cattive, e costringe il figliuolo, giovine e intelligente, alla difficile disciplina. Fidippide va, fa miracolosi progressi, e torna scaltrissimo nella nuova arte; ma, prima di rivolgerla contro i creditori, ne fa una pratica applicazione alle spalle del padre, bastonandolo di santa ragione, e dimostrandogli poi a fil di logica che ne ha non solo il diritto, ma quasi il dovere. Il povero Strepsiade cerca di fargli cambiare nuovamente rotta, ma poiché non riesce dà fuoco alla casa di Socrate - il pensatoio - e arrostisce così tutti i filosofi.
Le nuvole, che dànno il nome alla commedia, ne costituiscono il coro. Invocate da Socrate, valgono a simboleggiare l'astruseria e l'inconsistenza di certe elucubrazioni filosofiche; ma nell'ordine artistico offrono al poeta argomento di squisitissimi canti lirici, pittoreschi e musicali, che rivaleggiano, per aerea leggerezza, con alcuni carmi di Shelley. Durante tutta la commedia incorano Strepsiade a dedicarsi e a perseverare nelle perfide astruserie della sofistica; ma nell'ultimo episodio, alla catastrofe, gettano la maschera, e, con repentino inatteso voltafaccia, gli dicono che l'hanno apposta trascinato alla rovina per punirlo del suo peccaminoso proposito d'imbrogliare il prossimo.
Nella parabasi A. dichiara che le Nuvole sono la sua più bella commedia. E i posteri, in genere, hanno ratificato il suo giudizio: tranne che di quando in quando si levano voci di biasimo per l'indegna maniera con cui il poeta tratta Socrate. Ma in realtà il poeta, più che attaccar direttamente il filosofo e la sua dottrina, s'è servito della sua figura, certo popolare in Atene, per simboleggiare tutto il nuovo indirizzo sofistico, del quale egli era ferocemente nemico. E che tra i due non corresse odio mortale, si può anche rilevare dal fatto che Platone ce li mostra insieme, e in contegno amichevole, nel Simposio. Certo, poi, non è il caso di fantasticare un rapporto da causa ad effetto fra gli attacchi del poeta e la morte del filosofo, che seguì dopo un quarto di secolo (399).
Le Vespe. - Furono rappresentate nelle Lenee del 422, poco dopo l'aumento dell'indennità dei giudici da un obolo a tre. Gli Ateniesi, boccapertesi, e fanatici dei processi e della vita di tribunale, si mostravano entusiasti di quel miglioramento; e A. in questa commedia vuol convincerli che i demagoghi, illudendoli con quell'offa, divorano per intero, essi coi loro accoliti, i tributi delle città alleate. La dimostrazione, svolta in un contrasto fra il protagonista e suo figlio, ha l'aridità, ma anche la precisione e l'eloquenza di un'esposizione finanziaria.
Protagonista è Filocleone (il nome vuol dire: amico di Cleone). che, infanatichito del suo ufficio di giudice, conduce una vita grama e strapazzosa, punto confacente alla sua tarda età. Suo figlio Bdelicleone (aborritore di Cleone), per impedirgli di recarsi in tribunale, lo chiude in casa, e lo fa tener d'occhio dai servi. L'azione incomincia coi varî tentativi del vecchio per sfuggire alla loro vigilanza. Tentativi perfettamente vani, sinché al suo soccorso arriva il coro, composto di vecchi giudici suoi amici. Questi sono camuffati da vespe, insetti che ben simboleggiano il loro umore stizzoso e aggressivo. E di qui il nome della commedia; ma vespa in greco è maschile (ὁ σϕήξ); e in italiano si può opportunamente tradurre: I Calabroni.
Tra i calabroni e Bdelicleone spalleggiato dai servi s'impegna una lunga e fierissima lotta; ma infine si sospendono le ostilità e si decide che la questione venga definita mediante un duello oratorio tra padre e figlio. Il figlio stravince, e i calabroni gli dànno ragione, lo acclamano, invidiano a Filocleone un tanto figlio. Ma Filocleone è disperato, e non vul rinunciare ai dolci tribunali. Sicché Bdelicleone gli prepara lì per lì, in famiglia, davanti alla casa, un tribunale in miniatura, dove viene per primo giudicato un cane che ha rubato il cacio. Ma, per un imbroglietto fatto dal figlio, il cane riesce assolto; e Filocleone, che in vita sua non l'ha perdonata a nessuno, cade al suolo per morto.
Alla parabasi, dove fra le solite beffe e le solite digressioni personali rifulge una vivace immaginosa ipotiposi dei maratonomachi, assimigliati a vespe, segue una seconda parte che non ha quasi nessun rapporto con la prima, e sta a sé. Ed è una specie di rivolto del tema delle Nuvole. Filocleone, seguendo i consigli del figliuolo, abbandona i tribunali, e si dà alla gaia vita; ma in un convito d'amici ne fa tante e poi tante, che Bdelicleone deve a forza trascinarlo a casa. Invano, perché poco dopo lo vediamo ricomparire ubriaco fradicio. Balla, e lancia una sfida a tutti i tragediografi a misurarsi con lui nell'arte della danza. Se ne presentano parecchi; e in questa gara, fra salti e alte grida di giubilo, termina la commedia.
La Pace. - Fu rappresentata nelle Dionisie del 421. Da poco tempo erano caduti sotto Anfipoli Brasida e Cleone, i due più accaniti guerrafondai di Sparta e di Atene. La pace era nell'aria; e gaio ne spira il presentimento in tutta questa commedia, degno preludio alla pace reale (pace di Nicia) che fu conclusa pochi giorni dopo la sua rappresentazione.
Il bifolco Trigeo si trova nella medesima condizione e nel medesimo stato d'animo del Diceopoli degli Acarnesi. Tranne che in terra non può più trovare sinceri fautori della pace; e allora imbriglia un gigantesco scarafaggio dell'Etna, gli sale in groppa, e vola in Olimpo, a presentare le sue lagnanze a Giove, ma Giove non c'è. Indignato per la condotta degli uomini s'è andato a rifugiare nel più lontano buco del cielo, e ha lasciato al suo posto il dio Polemos ("la guerra": in greco è maschile), che ha sotterrata la dea Pace in una profondissima caverna, e si prepara a sterminare tutte le città della Grecia in un gran mortaio. Ma il tristo disegno gli va fallito, perché non trova più i due pestelli dell'Ellade (Cleone e Brasida). Rientra in casa per fabbricarsi un nuovo pestello; ma intanto Trigeo chiama al soccorso tutti i contadini di Grecia, che accorrono festosi, e col loro aiuto riesce a disseppellire e ricondurre alla luce Pace, che appare accompagnata dalle sue fide compagne, Pomona e Galloria.
Nella seconda parte Trigeo, tornato in Atene, instaura il regno della pace. E alla festa che celebra accoglie tutti gli uomini pacifici, e discaccia senza misericordia tutti i turbolenti, e tutti quelli che hanno, più o meno direttamente, rapporto con la guerra, a cominciare dai fabbricanti d'armi, e, per giunta, i parassiti e gli scrocconi, a cominciare dagli spacciatori d'oracoli.
Al solito, i varî episodi sono intercalati delle due parabasi e di varî canti lirici. E nella seconda parabasi, come un po' in tutta la commedia, sono profuse pitture ed evocazioni campestri così leggiadre e così sentite, da trovare ben pochi riscontri nella poesia greca e in ogni poesia. La Pace ne riesce tutta profumata d'un aroma soave, freschissimo, inobliabile.
Gli Uccelli. - Sono il capolavoro di Aristofane. Tutti i dati della commedia antica sono qui sfruttati con abilità infinita; e una fervida ispirazione tanto lirica quanto comica sostiene il poeta dalle prime alle ultime battute.
Furono rappresentati nelle Dionisie del 414. La pace, tanto sospirata, era stata infine raggiunta. Ma quanto la realtà fu diversa dal sogno! Non la tranquillità, il benessere, il lavoro tranquillo allietato da feste e gallorie; bensì, fin da principio, i malintesi, i sospetti, i dissapori, che presto dovevano rompere nuovamente in aperte ostilità. E in Atene continuavano gl'intrighi politici; e nella morale, nell'arte, nel costume, prevalevano sempre più le tendenze funeste combattute nelle Nuvole; e sempre più fatui, fantastici, irrequieti, gli umori dei cittadini.
Due bravi vecchiotti ateniesi, Peitètero (Gabbacompagno), ed Euèlpide (Sperabene), deliberano di fuggire a tanto disagio, a tanto ozioso tumulto, e di cercare un soggiorno tranquillo tra gli uccelli. Ma, una volta arrivati fra le nuvole, in Peitetero rinasce l'indole dell'ateniese faccendone e avventuriero; e coi lenocinî d'un'oratoria squisitamente sofistica convince gli uccelli che la signoria dell'universo spetterebbe di buon diritto a essi anziché a Giove, e li persuade a mettersi in guerra coi Numi, per la rivendicazione di tanta sovranità. Del resto il successo è sicuro. I Numi vivono dei fumi dei sacrifici umani. Basta fondare una città fra cielo e terra, e impedire ogni rapporto fra gli uomini e i celesti.
Gli uccelli si lasciano persuadere, e Nubicuculia è fondata. Giove manda prima Iride per intimidire i nuovi signori; ma Peitetero tiene duro, risponde con minacce e discaccia in malo modo l'alata messaggera. Infine Giove, ridotto a mal partito, manda, plenipotenziarî di pace, Posidone, il nume barbaro Triballo, ed Ercole. Gli ambasciatori, affamatissimi, giungono proprio mentre Peitetero sta presiedendo alla cottura di certi gustosissimi uccelletti mandati allo spiedo perché poco ossequenti al nuovo regime. Discutono. Posidone terrebbe duro; ma il ghiottissimo Ercole non sa resistere alla gola, e fa sì che la pace sia conclusa a condizioni rovinose. Gli uccelli, e dunque il faccendiere Peitetero, avranno la sovranità universale.
La vita degli uccelli, esaminata e sfruttata con arguzia infinita, offre argomento a brani lirici squisiti, che rivaleggiano e forse superano anche quelli delle Nuvole.
Lisistrata. - Fu rappresentata alle Lenee del 411. Nomento politicamente tristissimo. Mentre gli animi erano tuttora prostrati dall'orrendo lutto di Sicilia, la guerra del Peloponneso riavvampava furiosa, e le sciagure succedevano alle sciagure. Aristofane spezza, anche una volta, una lancia per la pace; ma, convinto oramai che sugli uomini c'era da far poco conto, affida la sua causa a una donna, Lisistrata (nome che significa la "Scioglieserciti").
Lisistrata, dunque, fa appello a tutte le donne di Grecia. Le fa radunare di buon mattino, e partecipa ad esse il suo alto disegno: il ristabilimento della pace. Per conseguirla, basta una semplice cosa: che esse si rifiutino ai loro mariti finché non si risolvano a deporre le armi. La meta entusiasma, il modo di raggiungerla assai meno. Tuttavia si convincono, e, occupata l'Acropoli, incominciano la nuova guerra di secessione. Gli uomini tentano di scacciarle, ma hanno la peggio; e in un lungo dibattito con un commissario Lisistrata sostiene con grande e arguta eloquenza la sua tesi pacifista. Intanto, a mano a mano, gli uomini si trovano in condizioni tali da dover implorare la pace. Viene dapprima un Ateniese, un certo Cinesia, che rappresenta tutta la cittadinanza; ma poco dopo arrivano prima un araldo e poi dei plenipotenziarî spartani, costretti anch'essi, dall'intransigenza delle loro donne, a domare gli umori bellicosi. Tanto a loro quanto agli Ateniesi Lisistrata rivolge un'orazione, piena di saggezza e di alto senso patrio; e la riconciliazione è celebrata con bellissimi e serî canti di Spartani e di Ateniesi.
In questa commedia il coro è diviso in semicori, di vecchie e di vecchi, sempre in contrasto, sino ad una comica pacificazione. Però dalla Lisistrata comincia lo scadimento della parte corale, che seguiterà sino al Pluto, con la sola eccezione delle Rane.
Le Tesmoforiazuse. - Rappresentate nelle Dionisie del 411. Tesmoforiazuse erano dette le donne che celebravano le Tesmoforie, feste in onore di Demetra, dalle quali erano rigorosamente esclusi gli uomini. A. immagina che le donne adunate per tale celebrazione si siano messe d'accordo per discutere segretamente, e trovare un modo di castigare Euripide che nelle sue tragedie mette continuamente in trista luce il bel sesso. Euripide lo viene a sapere, e corre ai ripari. Cerca prima d'indurre il suo collega Agatone, tanto molle da poter benissimo passare per donna, a recarsi a quelle feste e perorare per lui. Ma Agatone rifiuta, perché, dice, le donne potrebbero accusarlo di concorrenza illecita; e in vece sua si camuffa e va il suocero di Euripide, Mnesiloco, vecchio e brutto, ma pieno di ardimento, di spirito e di buona volontà.
Dopo questa specie di prologo, ci troviamo nel sacro recinto dove si celebrano le feste. Incomincia il dibattito; e, naturalmente, nessuna delle donne s'intenerisce per l'aborrito tragediografo. Infine prende la parola Mnesiloco, e con un'eloquentissima orazione dimostra che le donne sono assai peggiori di come le dipinge Euripide. Le sue argomentazioni provocano lo sdegno dell'assemblea; e tra lui e una delle donne s'impegna una fiera zuffa, quando arriva un certo Clistene, un giovinotto d'Atene più femmina delle femmine, a recar l'annunzio che fra le donne s'è intruso il suocero d'Euripide. Sospetti, perquisizione di Mnesiloco, che è legato ad un palo, e lasciato in custodia a un arciere scita, finché non arrivino i pritani che dovranno infliggergli la debita punizione. Ma allora Euripide accorre in suo soccorso. Due stratagemmi gli vanno a male: un terzo gli riesce, e il povero Mnesiloco può darsela a gambe.
Questa commedia si distacca già molto dal tipo della commedia antica. La parte corale è assai stremata e scolorita. La politica c'entra poco o nulla. Nel complesso le Tesmoforiazuse sono una parodia, in primo luogo dell'arte di Euripide, poi di quella d'Agatone.
Le Rane. - Furono rappresentate alle Lenee del 405; e sono una carica a fondo contro il poeta Euripide, morto l'anno prima; ma l'odio letterario vive anche oltre il rogo.
Aristofane immagina dunque che Dioniso, patrono, fra l'altro, delle rappresentazioni drammatiche, desolato perché in Atene non si trova più alcun tragediografo di valore, decide di scendere all'Averno per ricondurre alla luce il grande Euripide, di cui egli è fanatico. Per incutere terrore ai demoni infernali, si fa prestare da Ercole la clava e la pelle di leone, e, così camuffato, affronta il viaggio. Ma l'abito non fa il monaco; e prima di arrivare al cospetto di Plutone, il povero nume passa di terrore in terrore, con le conseguenze più inattese e grottesche. Giunge nel palazzo del re d'Averno, proprio mentre si sta impegnando una fierissima gara fra Eschilo ed Euripide. Quegli, come riconosciuto principe della tragedia, occupava, secondo il regolamento infernale, un trono accanto a quello di Plutone. Ma Euripide, appena giunto, diede una recita, e tutta la marmaglia lo portò alle stelle; sicché egli scacciò Eschilo e si piantò al suo posto. E Plutone ha indetto una gara per far prova e giudizio dell'arte d'entrambi. E segue, al cospetto di Dioniso, che assume funzione di giudice, una fierissima gara, nella quale ciascuno dei contendenti esalta l'arte propria, deprime quella dell'avversario. Dioniso non sa che pesci pigliare; e infine ricorre a un indice obiettivo: fa portare una bilancia, e invita i due poeti a recitare i loro versi, uno per uno, su ciascun piatto della bilancia. Quelli di Eschilo strapiombano, quelli di Euripide si dimostrano scarsi e di pochissimo peso. Dioniso tentenna ancora un po', e poi si decide per Eschilo.
Le Rane non sono una commedia politica. Gli ultimi avvenimenti politici, p. es. la vittoria riportata alle Arginuse sugli Spartani, la condanna dei generali che avevano comandato la flotta in questa battaglia, il prevalere in Atene del demagogo Archedemo, sono ricordati appena di volo. Per questo lato, dunque, Le Rane apparterrebbero alla commedia nuova. Ma in esse il poeta ha riscosso interamente il suo genio giovanile che si dimostra anche una volta felicissimo sia nelle invenzioni comiche sia nelle parti liriche dalle quali tutta l'azione riesce soffusa di fulgidissima luce.
Le Ecclesiazuse. - Furono rappresentate nell'anno 389 (secondo altri nel 392), e sono una satira del femminismo, e insieme delle utopie socialista e comunista.
L'azione incomincia, come quella della Lisistrata, di notte, avvicinandosi l'alba. Entrano in scena, prima Prassagora, e poi una quantità di donne travestite da uomini. Hanno ordita una congiura: affolleranno, così camuffate, l'agorà, in maniera da non lasciar libero il posto a quasi nessun uomo, e poi voteranno e decreteranno che si affidi alle donne il governo della cosa pubblica. Il disegno riesce pienamente. Agli uomini, che si svegliano e si mettono in moto verso l'assemblea quando le donne hanno già bell'e votato la radicale deliberazione, non rimane che prenderne atto. E lo fanno con la massima buona grazia. In una discussione con suo marito Blèpiro, Prassagora esprime i vantaggi, e insieme le direttive generali del nuovo governo. Che sarà un perfettissimo comunismo: tutti dovranno portare tutti i loro averi in piazza; e dalla massa comune tutti toglieranno la stessa quota. Pane, vesti, amore saranno distribuiti con uguaglianza perfetta. Nell'ultima parte si effettua bonariamente la critica di questa utopia. Un giovanotto, prima di arrivare alla sua bella deve compiacere tre orride megere (se basterà); e il coro, dopo enumerate le infinite ghiottonerie che saranno distribuite a tutti nel banchetto comune, avverte che chi vuole sdigiunare dovrà comprarsi una fetta di polenta.
Leggendo la commedia, vien fatto di pensare alla Repubblica di Platone; ma non è sicuro che fra le due opere esista qualche rapporto. Le parti corali sono nelle Ecclesiazuse ridotte al minimo: di lirismo non c'è più quasi alito. Siamo in piena commedia di mezzo.
Il Pluto. - Un primo Pluto fu rappresentato nel 408; quello che noi possediamo è un rifacimento del 388. Anche più delle Ecclesiazuse si allontana dal tipo della commedia antica: di attacchi personali non esiste più traccia; i cori sono quasi scomparsi; di lirismo neppure l'ombra; il pathos comico ha lasciato luogo al buon senso e alla placidità borghese. Ecco la tela.
Crèmilo, un vecchio ateniese dabbene, visto che a fare il galantuomo si conclude poco, va dall'oracolo a consigliarsi come debba educare suo figlio. L'oracolo gli dice di seguire il primo che incontrerà uscendo dal tempio, di non staccarsene più, e d'indurlo a seguitarlo in casa. Incontra Pluto, il cieco dio della ricchezza. E immagina che, siccome tutti i mali dell'umanità provengono dalla casuale e iniqua distribuzione della ncchezza, se Pluto tornasse a rivederci, e largisse i suoi favori ai soli galantuomini, tutti i mali del mondo sarebbero belli e finiti. Pluto, che sa che razza di bricconi siano gli uomini, sulle prime recalcitra, poi acconsente. Per guarirlo, Cremilo pensa di condurlo al tempio d'Esculapio; ma mentre si accingono all'impresa, si vedono sbarrata la via da un'orribile megera. È la Povertà. Se Cremilo riuscisse, ella sarebbe costretta a esulare dall'Ellade; e perciò tenta ogni via per frastornare il suo disegno. Ma non giovano né le minacce, né gli speciosi argomenti che essa sfoggia, in un lungo contradditorio con Cremilo, per dimostrare la propria eccellenza; e deve battersela con suo grandissimo scorno. La cura della cecità riesce splendidamente: Pluto recupera la vista, Cremilo sguazza nell'abbondanza, rende ricchi tutti gli onesti, caccia a bastonate tutti i furfanti. E così, in gran giubilo, ha fine la commedia.
A parte i suoi grandi predecessori - massimo Cratino - A. ebbe molti commediografi contemporanei emuli o rivali. Di loro ci son rimasti moltissimi frammenti; e questi frammenti presentano fra loro e con la commedia d'A. tali somiglianze nello stile, nelle immagini, nei concetti, nei motivi comici, che, se non conoscessimo i nomi dei singoli poeti, saremmo indotti ad attribuirli tutti ad un solo e medesimo autore.
La stoffa, dunque, da cui erano tagliate le antiche commedie attiche era, su per giù, sempre la medesima. Ma in un vestito c'è qualche cosa che importa anche più della stoffa: ed è il taglio: questo dà il carattere, in questo risiede il pregio artistico. Ora, in che e quanto, A. si distinse fra i suoi contemporanei?
Non è risposta facile; tanto più che alcune delle commedie che a noi sembrano capolavori non piacquero agli spettatori ateniesi. Le Nuvole ebbero un insuccesso, gli Uccelli furono posposti ai Banchettatori di Amipsia. Ebbero torto gli Ateniesi? Oppure i rivali di A. lo uguagliarono, non solo nella scelta della stoffa, bensì anche nella perfezione del taglio?
Ardua risposta, perché degli altri commediografi non possediamo alcuna commedia integra. Dobbiamo quindi limitarci a rilevare il carattere delle commedie di A. Ma se tale carattere fosse proprio della commedia aristofanesca, o comune, su per giù, a tutti i commediografi, e in che limiti, non si può determinare con precisione assoluta.
A nessun lettore può sfuggire la stretta somiglianza che intercede fra i personaggi principali - i protagonisti - delle commedie di A., e che dipende dal costante ricorrere di certi loro caratteri e condizioni comuni. Quasi tutti - Diceopoli, Popolo, Strepsiade, Filocleone, Trigeo, Euelpide, e, certo, il suo compagno Peitetero, Mnesiloco, parrebbe, delle Tesmoforiazuse, e Cremilo del Pluto - sono campagnuoli, e non finiscono mai di esaltare le dolcezze della campagna. Molti dei tratti con cui è dipinta la loro rusticità hanno carattere buffonesco e convenzionale: sbadigliano, si strappano i peli, divorano cipolle, tirano alle fantesche, odorano di lana, d'aglio e di mosto, compiono spesso e volentieri altre prodezze degne di Barbariccia. Sono vecchi, invalidi, rimbambiti per l'età. Per l'età, e per il temperamento: ché dànno prova, spesso e volentieri, d'una ignoranza e d'una stupidità inverosimile, piramidale; tranne che, a tempo e luogo, riacquistano la lucidità e il brio giovanili, e mettono a posto i più giovani, i più dotti, i più spiritosi. Nutrono una sviscerata passione per le beffe, spesso d'infinita goffaggine, e mettono in burletta tutto e tutti. Salaci come mandrilli; golosi come Esaù. E infine, appena se ne offre il destro, ladruncoli. E di quest'ultima dote si compiacciono, e ricordano come prodezze i furterelli compiuti in gioventù.
Il tipo, dunque, che signoreggia le cornmedie di A., è fondamentalmente unico. Ed è, evidentemente, una maschera. Se dovessimo designarla con un nome moderno, la chiameremmo, senza esitazione alcuna, Pulcinella.
Naturalmente, A. non ha inventato questo tipo. Esso era il protagonista della farsa popolare che sin dai tempi più antichi andava in giro per tutta la Grecia, di contrada in contrada. A. lo prende di peso. E altrettanto dobbiamo supporre che facessero i suoi emuli. Quel grosso tipo di beffeggiatore che da secoli era abituato a trionfare sui minuscoli palcoscenici improvvisati per villaggi e per campagne domina anche, nel cuore d'Atene, il solenne teatro di Dioniso. Lo domina al punto di dare l'impronta anche a tutti gli altri personaggi della commedia. Ché tutti sono, qual più o qual meno, pulcinelli sulla cui casacca è infilato questo o quel vestito speciale, per indicare la diversità del personaggio. Mera etichetta.
Ma con ciò si vuol dire che nel teatro d'A. manchino caratteri comici? Non sarebbe giusto, non sarebbe esatto; e per convincersene, basta pensare, per es., al demagogo degli Uccelli, al fanatico delle Vespe, all'entusiasta e allo scettico delle Ecclesiazuse. A. anzi ha occhi acutissimi per togliere i tratti caratteristici dei tipi umani, e inventa felicissimi tocchi per riprodurli in espressive deformazioni comiche. Ma non concepisce la necessità di una riproduzione interamente obiettiva. Qualunque tipo gli esca di mano deve essere intinto del tradizionale pulcinellismo, e deve servire di portavoce a lui, poeta. Non già, imendiamoci, che egli fonda i proprî sentimenti con quelli dei suoi personaggi, per costituirne un tipo omogeneo: ché sarebbe legittimo e abituale; bensì, dopo avviato un tipo su una data linea precisa, fa che di punto in bianco esca da questa linea, esca dal suo tipo, per esprimere i sentimenti suoi di poeta e cittadino. Insomma, il poeta non abbandona mai i suoi personaggi, tiene sempre i fili. Di necessità, riescono un po' burattini. Ma un arguto burattino, pur con i suoi gesti legnosi, sa interessare più d'un mediocre, e sia pur correttissimo, attore di carne e d'ossa.
E qui risiede in gran parte il fascino della commedia d'A. E questa è la via per cui la commedia, la rozza farsa campagnola sboccata e volgare, diviene fattore politico di prim'ordine e alto strumento d'educazione del popolo.
Perché il protagonista è pur sempre, dicemmo, il buffo, il pulcinella delle farse popolari; ma mentre nei panni di quei poveri pulcinella di piazza entrava, come tuttora avviene, qualche povero diavolo, qualche istrione zingaro destituito d'ogni finezza e privo d'ogni cultura, nella commedia aristofanesca entrava un uomo che, pur avendo insite le doti naturali di mimo e di beffeggiatore, possedeva poi qualità poetiche di prim'ordine, e aveva ricevuto una educazione completa, sì nelle arti della parola, sì nelle arti musiche. E le sue bastonate non fioccano sulle spalle di qualche seccatore e di qualche povero diavolo; bensì su tutta la sua città, anzi su tutta la Grecia e su tutto il mondo.
E nel giudice sparisce ogni traccia del pulcinella; e rimane l'uomo di fede, il patriota ardente, che colpisce tutto e tutti, pronto sempre a pagar di persona le audacie della penna.
A tre mire sono specialmente rivolte le sue frecce. Contro la demagogia, che, facendo brillare agli occhi del popolo credenzone le solite lustre di uguaglianza e di felicità universale, lo trascinava alla corruzione e alla dissoluzione; contro la filosofia sofistica, che, riducendo la verità all'oscillante risultato di troppo sottili dialettiche, scalzava i principî grandi e solenni su cui s'era innalzata la grandezza d'Atene; e contro l'arte, maestra una volta di virtù, e ora di corruzione. Si leggano, p. es., la contesa fra il cuoiaio Paflagone e il salsicciaio Agoracrito nei Cavalieri; o nelle Nuvole il contrasto fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto; o nelle Rane il diverbio fra Eschilo ed Euripide; e si vedrà qual polpa generosa sia rinchiusa entro la buccia pulcinellesca.
E analogamente, la speciale indole della commedia, che spesso diguazza a lungo nel brago, non altera menomamente l'immacolata purità delle effusioni liriche più propriamente ornamentali, che, se trovano più ampio sfogo nei canti del coro, si insinuano però in ogni parte delle commedie, e le aureolano di magica fosforescenza. In questo miscuglio di bassa e plateale buffonaggine, di ardente e generosa poesia civile, di lirismo pittoresco, musicale, aereo, consistono il fascino e lo speciale carattere della commedia di A.
E forse, potremo soggiungere, della commedia attica antica, che fu, per tradizione, temprata di questi tre elementi obbligatorî. Ma la lettura di A. insinua nel nostro animo la convinzione che nessun altro commediografo dové possedere al pari di lui le naturali attitudini per portare ciascuno di questi tre elementi al massimo grado della loro efficienza, né il magistero d'arte necessario a compiere la loro fusione mediante trascrizioni così inattese e repentine e insieme così armoniose e affascinanti. In ciò consiste il genio di A.: genio naturalmente simpatico col singolarissimo tipo della commedia quale s'era venuto affermando in una lunga tradizione, e che si muove appunto attraverso una gamma di sfumature innumerevoli, dal più chiassoso colore pulcinellesco al lirismo più squisito ed immateriale. E una luce speciale si diffonde a rialzare ancora d'un tono questa gran varietà di colori; ed è la perenne aspirazione, il desiderio senza speranza del passato grande, sereno, radioso. E per essa, come per l'intimo carattere di serenità e di grazia, come per la immaginosa compostezza della forma, l'opera di A. rifulge ai nostri occhi quasi l'ultima irradiazione della grande arte classica di Grecia.
Di Aristofane esistono circa 200 codici: i due migliori sono il Ravennate del sec. XI, che contiene le undici commedie, e il Veneto 474, che ne contiene sette.
L'edizione principe è la veneziana di Aldo, curata dal Musuro. In essa non appaiono né la Lisistrata né le Tesmoforiazuse. Completa è quella di Basilea del 1532. Fra le altre edizioni le più importanti sono quelle del Küster (1710), del Dindorf (1830-39), del Meineke (Lipsia 1860), del Bergk (1872), del Blaydes (Halle 1880 segg.), del von Velsen (1869-1897) e, in corso di pubblicazione, quella di V. Coulon (Parigi 1923 segg.).
Bibl.: Delle opere esegetiche e illustrative, oltre a quelle generiche sulla commedia greca, si ricordano: Müller-Strübing, Aristophanes und die historische Kritik, Lipsia 1873; T. Zielinski, Die Gliederung der altattischen Komödie, Lipsia 1885; E. Romagnoli, Origine ed elementi della commedia di Aristofane, in St. it. di filol. class., XIII (1905).
Delle traduzioni, è famosa in Germania quella del Droysen. Per l'Italia si ricordano quella di Augusto Franchetti, e l'altra completa di E. Romagnoli, 3ª ed., Bologna 1924.