Aristotele Filosofo (Stagira 384-83 a.C
Calcide 322 a.C.).
Figlio di Nicomaco, medico di Aminta III di Macedonia, A. trascorse i primi anni della sua giovinezza a Pella. Morto il padre, ebbe come tutore un parente di nome Prosseno, di cui poi adottò il figlio. A diciotto anni si trasferì ad Atene ed entrò a far parte dell’Accademia platonica rimanendovi per quasi vent’anni, fino alla morte di Platone, verso il quale nutrì sempre, malgrado tutte le invenzioni e le maldicenze, profonda amicizia e venerazione: basta ad attestarlo il celebre elogio – che certo va riferito a Platone – dell’«uomo che i malvagi non hanno nemmeno il diritto di lodare», contenuto nell’elegia per l’altare dedicato a Eudemo di Cipro. In parte per motivi politici, in parte per i dissensi con Speusippo, il nuovo scolarca dell’Accademia, lasciò quindi Atene, in compagnia di Senocrate, per recarsi in Asia Minore, presso Ermia, tiranno di Atarneo. Nella vicina Troade, a Scepsi e ad Asso, esistevano comunità platoniche, e in esse A. cominciò a svolgere il suo magistero. Vi rimase tre anni ed Ermia gli dette in moglie la nipote e figlia adottiva Pizia. Forse proprio per le insistenze del discepolo Teofrasto si trasferì quindi a Mitilene, dove insegnò fino al 343-42, quando accolse l’invito di recarsi alla corte di Filippo II di Macedonia per occuparsi dell’educazione del principe Alessandro. Salito questi al trono, tornò ad Atene e vi fondò nel 335-34 una scuola che, dalla sua sede, il recinto sacro ad Apollo Liceo, trasse il nome di Liceo, e dal περίπατος, la «passeggiata», che i suoi membri percorrevano discutendo, quello di Peripato, o scuola peripatetica. Dopo circa dodici anni di direzione della scuola, morto Alessandro e prevalso in Atene il partito antimacedonico, A. fu accusato di empietà, ma sfuggì al processo riparando a Calcide nell’Eubea, dove morì l’anno dopo (322) di una malattia di stomaco.
Circa la storia e il carattere degli scritti di A. molta luce è stata fatta nella seconda metà del Novecento: gli antichi conobbero una serie di opere, nella maggior parte dialogiche, pubblicate da A. stesso e lodate anche per i pregi della loro forma letteraria, di cui sono rimasti soltanto pochi frammenti (tra le principali: Grillo, Eudemo, Protreptico, Sulla giustizia, Sulla filosofia, Sulle idee, Politico, Sofista, ecc.). La perdita di queste opere dedicate al pubblico (e perciò dette essoteriche) è certamente dovuta alla pubblicazione, fatta da Andronico da Rodi, degli scritti che A. e alcuni discepoli avevano redatto in funzione dei corsi di lezioni svolti all’interno del Liceo (perciò detti esoterici o, anche, acroamatici, cioè destinati all’ascolto, e costituenti il Corpus aristotelicum da noi attualmente posseduto). Questa pubblicazione che, secondo la tradizione, conclude una storia assai romanzesca di tali scritti, fece con il tempo passare in secondo piano gli scritti essoterici. La ricostruzione delle vicende degli scritti di A. e degli ambienti in cui esse si svolsero ha permesso di comprendere come gradatamente, anzi, gli scritti essoterici venissero nettamente contrapposti a quelli esoterici; e poiché nei primi si scorgevano larghe tracce di dottrine platoniche, si immaginò che in essi A. non avesse svelato il suo vero pensiero (riservato ai discepoli iniziati e alle opere esoteriche), ma avesse solo espresso false opinioni altrui; ciò anche in base all’errata convinzione che A. avesse radicalmente criticato la dottrina platonica fin dal suo primo soggiorno nell’Accademia. Questa tradizione, assieme all’im-magine stereotipa di un A. sistematico, rigido e immutabile, hanno per lungo tempo paralizzato anche la critica moderna, oscillante tra la tendenza a considerare non autentiche le opere essoteriche (W.D. Ross) e quella a espungere da esse ogni traccia di platonismo per salvarne l’autenticità (J. Bernays). È grande merito di W. Jaeger (e in Italia di E. Bignone) aver dato un’impostazione nuova al problema, considerando le opere essoteriche e il platonismo in esse espresso come documento della prima fase dell’evoluzione filosofica di A., evoluzione rintracciabile anche tra i vari strati redazionali riconoscibili nelle stesse opere acroamatiche. Nella loro disposizione sistematica esse sono le seguenti: (1) Opere di logica (in seguito indicate sotto il nome complessivo di Organon): Categorie, Sull’espressione, Analitici primi (2 libri), Analitici posteriori (2 libri) (➔), Topici (8 libri), Elenchi sofistici; (2) Opere di fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e corruzione (2 libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali (10 libri), Parti degli animali (4 libri), Generazione degli animali (5 libri), altre minori, nonché Sull’anima (➔) (3 libri) e una serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia; (3) Scritti di filosofia prima: Metafisica (➔) (14 libri), così chiamata, sembra, perché posta «dopo i libri di fisica», in greco τὰ µετὰ τὰ φυσικά; (4) Opere morali e politiche: Etica Eudemea (7 libri), Grande Etica (2 libri: d’incerta autenticità), Etica Nicomachea (➔) (10 libri), Politica (8 libri), Costituzione degli Ateniesi; (5) Opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica. Di una serie di altri scritti compresi nel corpus (Problemi, Retorica ad Alessandro, Fisionomici, ecc.) è stata messa in dubbio l’autenticità, con numerose ragioni. Le linee dello sviluppo filosofico di Aristotele, quali si sono venute sempre meglio individuando sulla scorta degli studi di Jaeger, consentono di distinguere tre periodi: quello accademico, quello del soggiorno ad Asso, a Mitilene e in Macedonia e, infine, quello dell’insegnamento presso il Liceo. Nel primo periodo, a cui risalgono, tra gli altri, gli scritti Eudemo, Protreptico e Sulla giustizia, A. riprende la dottrina platonica dell’immortalità dell’anima, considerata come «forma determinata», cioè come sostanza (e non ancora, quindi come «forma di qualcosa», cioè del corpo, come sarà più tardi); esalta la vita contemplativa e l’esercizio della φρόνησις (platonicamente intesa come la forma più alta di riflessione e quindi come il più nobile atteggiamento che il filosofo possa assumere, ben diversa, quindi, da quella «prudenza» che A. includerà nella serie delle virtù nell’Etica Nicomachea), considera il bene come il «fine» (τέλος) supremo. Nel secondo periodo, A. porta in primo piano i motivi di divergenza dal platonismo: Platone stesso, nei suoi ultimi dialoghi, aveva sottoposto la sua dottrina delle idee a un potente sforzo di rielaborazione, consapevole delle numerose difficoltà da essa suscitate. Speusippo, d’altra parte, aveva accentuato l’aspetto matematico delle idee e su questa interpretazione si appuntarono dapprima le critiche di A., per estendersi poi gradatamente alla dottrina platonica in generale e soprattutto alla «separazione» delle idee dalle cose. Risalgono a questo periodo, oltre agli scritti Sulla filosofia e Sulle idee, le sezioni più antiche della Fisica, della Metafisica, dell’Etica Eudemea e della Politica, in cui più evidenti sono ancora le tracce del platonismo (Dio, supremo ordinatore e fine di tutte le cose; l’animazione dei cieli; l’etere quinto elemento, ecc.). Nel terzo periodo, infine, in cui va collocata la redazione di quasi tutto il Corpus aristotelicum da noi posseduto, A. raggiunge la piena maturità dottrinale, distaccandosi pienamente dalla filosofia di Platone.
Se le idee hanno un’esistenza assolutamente separata dagli oggetti dell’esperienza sensibile, come possono essere fondamento della realtà delle cose? Per costituirne l’essenza devono essere intrinseche a esse: e se anche questo si ammette, parlando di una «presenza» dell’idea in ciascuno degli individui che ad essa «partecipa», bisogna concludere che la sua esistenza separata e indipendente non aggiunge nulla di essenziale al quadro della realtà, dando anzi luogo a un suo duplicato superfluo (cosiddetto argomento del terzo uomo). L’idea, essenza eterna, universale, dominante l’esistenza transeunte degli individui, si determina nella materia, costituendo la singola e concreta realtà. L’idea platonica si trasforma così nella «forma» aristotelica (µορφή, o ancora, con il vecchio nome, εἶδος), e quell’elemento negativo che nella natura, per Platone, si componeva con il puro essere dell’idea, facendo sì che essa divergesse sempre dalla sua perfezione, diviene la «materia» (ὕλη), che la forma plasma nell’individuo, o «sinolo» (σύνολον, «insieme», dei due elementi). Solo questo individuo è reale, non avendo esistenza autonoma né la forma, né la materia. Ciò poi non toglie che la forma possa essere concepita dal pensiero nella sua pura indipendenza, cioè nella sua universalità scevra di ogni determinazione particolare: da questo punto di vista, la forma costituisce l’universale (καϑόλου), che viene conquistato dal pensiero nelle cose esterne mediante un processo di separazione, o astrazione, dalle particolarità individuali, che fa comprendere il senso della sua posteriore qualificazione come «universale astratto». D’altra parte, la materia non è soltanto un sostrato inerte su cui si imprime la forma, ma di questa forma ha in sé la possibilità; e la forma quindi non la determina estrinsecamente, ma costituisce la traduzione in atto della capacità implicita in quella. Il binomio statico di materia e forma si risolve quindi in quello dinamico di potenza e atto. La «potenza» è la δύναµις, concreta capacità di svilupparsi nel senso di una certa forma. L’«atto» è «energia» (ἐνέργεια), in quanto attiva realizzazione di una data capacità o potenza, ed «entelechìa», in quanto forma, anzi materia formata, attuata realtà individuale (ἐντελέχεια, da ἐν «in», τέλος «fine» e ἔχειν «avere»: realtà che ha il suo fine in sé stessa, avendolo raggiunto con il compimento del suo processo di sviluppo). Questo passaggio dalla potenza all’atto non dev’essere concepito come realizzantesi una volta per sempre; ogni momento del divenire è attuazione di una precedente potenza e costituzione di una potenza che renderà possibile una nuova attuazione. Tutto il mondo è così un processo di crescente determinazione, in cui la perfetta idealità della forma si attua sempre più dall’imperfetta materialità della potenza. Al limite di questo processo, A. pone un ente perfetto che, avendo pienamente attuato la sua natura, è «atto puro», atto del tutto scevro di potenza (Dio). Ciò non toglie però che questo influisca sul mondo come scopo supremo di tutto il suo processo di attuazione: Dio muove come «oggetto dell’amore», muove senza muoversi («motore immobile»: κινοῦν ἀκίνητον). D’altra parte, la sua superiorità a ogni esigenza di attività e di movimento non può concepirsi come assoluta mancanza di vita (ciò che sarebbe inconciliabile con la sua suprema perfezione): quindi la sua vita senza attività non può essere che la contemplazione, non di una verità diversa da sé medesimo (ciò che implicherebbe, non attuale possesso della verità, ma potenza conoscitiva tendente al possesso della verità), bensì della verità che egli stesso costituisce: Dio pensa sé stesso, è «pensiero del pensiero» (νόησις νοήσεως). In ultima analisi, se nella gerarchia cosmica dell’essere non c’è forma o attualità che non sia legata alla materia o potenza, all’estremo suo vertice la forma o attualità torna a sussistere con l’indipendente purezza dell’idea platonica, e solo in tale purezza essa fornisce senso e valore a tutto l’edificio della realtà. Ciò dimostra quanto tenacemente persista nella mente di A., nonostante la sua viva aspirazione all’immanenza, la concezione trascendentistica della realtà, appresa in gioventù alla scuola di Platone.
Anche nell’etica, A. è ben lontano dall’a-scesi platonica, mirante all’assoluta separazione dell’anima dalla schiavitù corporea. La virtù rap-presenta un «abito», un’attitudine del volere a com-portarsi in un certo modo, che non dipende tanto da dottrine e da convinzioni teoretiche quanto da concrete capacità pratiche. In generale, essa consiste nella condizione di equilibrio in cui l’anima viene a trovarsi quando si tiene lontana da entrambi gli estremi della passione: tra il vizio dipendente dal difetto e quello dipendente dall’eccesso, essa occupa il «giusto mezzo». Ma se, in tal modo, le virtù pro-priamente «etiche» si distaccano dalla sfera della scienza e si rinchiudono in quella dell’esperienza pratica o del «costume» (ἔϑος), a queste sovrastano d’altro lato le virtù dianoetiche, o virtù della διάνοια, del retto «esercizio intellettuale». E così, culmine della possibile perfezione e felicità dell’uomo è, anche per A., non l’azione ma la contemplazione, quella vita teoretica, d’impronta platonica, in cui meglio il mortale si avvicina alla soddisfatta beatitudine di Dio. Ciò non toglie che per A. soltanto nella vita sociale l’uomo, che è l’«animale politico» per eccellenza, possa attuare il suo per-fezionamento morale e conseguire la sua felicità. Lo Stato infatti, la più perfetta delle organizzazioni sociali, è l’atto rispetto al quale l’individuo e la famiglia sono la potenza, ed è quindi il fine verso cui tende lo sviluppo dell’uomo.
Anche in tema di teoria dell’anima, l’A. della maturità abbandona la contrapposizione platonica di anima e corpo. L’anima è la forma della materia corporea, costituente con essa il vivente individuo umano. Anche la pianta ha un’anima, che è la stessa sua vitalità di organismo: ma quest’anima è puramente «nutritiva», o «vegetativa», mentre nell’animale essa non è soltanto tale, ma anche «mo-trice» e «senziente», e nell’uomo, infine, anche «pen-sante» (l’Universo essendo per A. un sistema di forme viventi gerarchicamente ordinato, secondo la mag-giore o minore determinazione che l’una presenta rispetto all’altra). Ma sotto ciascuno di questi aspetti l’anima è sempre mortale, perché legata, quale forma, alla sorte della sua materia (il corpo). D’altra parte, però, se l’anima è legata al corpo e lo svilup-po conoscitivo ha il suo primo fondamento negli organi di senso, da essi derivando quelle sensazioni che preparano la conoscenza dei concetti universali, quest’ultima conoscenza è poi considerata come del tutto diversa dalle altre e affatto indipendente dalla sintesi psico-corporea costituente l’organismo umano. La conoscenza intellettuale, o noetica (cioè del νοῦς, dell’«intel-letto»), ha un valore di verità e universalità di tanto superiore alle altre, che va fatta dipendere dall’in-tervento esterno di una divina e universale attività intellettiva, di fronte alla quale non sussiste nell’or-ganismo umano se non la capacità di adeguarsi passivamente a essa. Di qui la distinzione del sopraumano «intelletto agente» (νοῦς ποιητικός: l’espressione, coniata da Alessandro di Afrodisiade, diviene comune nell’aristotelismo medievale; A. parla di un intelletto che è causa agente dell’inten-dere: ὁ νοῦς τῷ πάντα ποιεῖν) dall’umano «intelletto in potenza» (νοῦς δυνατός: spesso dai commentatori confuso col νοῦς παϑητικός o «intelletto passivo», che è invece da identificare con la «fantasia»).
La stessa sopravvalutazione conclusiva, e intrinsecamente platonica, della conoscenza noetica si ha poi anche nella logica, che di tutte le dottrine aristoteliche è la più originale. Da una parte, infatti, essa tende, con motivo immanentistico e antiplatonico, a rendere ragione della realtà individuale, e teorizza il metodo «induttivo» o «epagogico» che, accostando casi simili, trae da essi il tipo comune e fonda così la norma generale sull’accordo dei particolari (metodo specialmente adatto allo studio delle scienze della natura); ma, dall’altra parte, ritiene che tale metodo induttivo non serva per la vera e propria dimostrazione delle verità filosofiche, perché incapace di fondare verità in sé necessarie ed eterne. Per dimostrare con assoluto rigore logico, occorre il metodo apodittico (dimostrativo), o deduttivo, che procede dall’universale al particolare, o dal più universale al meno universale: sua forma tipica è il sillogismo. La ricerca dei vari tipi di sillogismi e la distinzione di quelli validi da quelli non validi occupa la maggior parte degli Analitici primi e costituisce un sistema di logica ‘formale’, in quanto questa determina le forme di cui il pensiero si avvale per dedurre necessariamente verità più particolari da verità più universali, ma non gli fornisce il contenuto con cui riempire le forme, i punti di partenza da cui muovere nel suo metodo deduttivo. A capo di ogni processo apodittico è necessario porre due «premesse immediate», e cioè non dedotte in funzione di un superiore «medio» sillogistico, perché altrimenti si risalirebbe all’infinito dalla conclusione alla premessa, e non vi sarebbe mai un saldo punto di partenza per la deduzione scientifica. Esse debbono venir semplicemente intuite dall’intelletto, dal νοῦς, che non scinde, come fa la διάνοια (facoltà giudicante e sillogizzante), le verità in soggetti e predicati, per riunirle poi nella sintesi affermativa o negativa, ma le appercepisce nella loro immota e perfetta unità. Così, al disopra della logica dianoetica sta la logica noetica: al disopra della realtà, più schiettamente aristotelica, della dimostrazione, la condizione ultima, più propriamente platonica, della contemplazione.
Nella dottrina dell’arte, A. rivaluta il fatto estetico, osservando che l’imitazione artistica non si riferisce alla realtà singola (secondo la tesi che più giustificava la condanna platonica), ma a quella stessa realtà ideale che nel singolo traluce come sua universale forma. Essa inoltre ha un potere catartico, quale particolarmente si constata nel dramma tragico. Rimane però, in questa teoria, immutato il presupposto platonico dell’imitazione, come carattere costitutivo dell’attività artistica, il quale di fatto sottrae a questa attività ogni aspetto di libera creazione. Il tardo sviluppo dell’estetica, nei secoli successivi, avrà tra le sue cause precipue l’influenza negativa di quel concetto della mimesi. Giudicando dalle opere giunteci dalle fonti, la teoria del linguaggio fu toccata da A. sempre in funzione di altri settori di indagine: le dottrine logico-formali e politiche, le teorie dell’arte poetica e della retorica. Tuttavia, per quanto esternamente frammentario, l’insieme delle dottrine linguistiche di A. ha una notevole coerenza interna. Le voci umane si distinguono dalle voci degli animali per essere articolate, cioè composte da una successione di elementi semantici, le parole, a loro volta analizzabili in elementi asemantici, στοίχεια o γράµµατα («elementi» o «lettere»). Le parole si classificano in tre categorie (o quattro, a seconda della lezione seguita dagli interpreti): i nomi, definiti «voci significative senza tempo», i verbi, o «voci significanti con tempo», i legamenti (preposizioni, articoli, ecc.), la cui funzione è quella di collegare gli elementi propriamente semantici. Nomi e verbi hanno la caratteristica della genericità semantica: cadendo nella frase essi si modificano nella forma e e si determinano nel significato. A tale processo di determinazione formale e funzionale A. dà il nome di πτοσίς «caduta, caso» (termine che ha palesemente un’accezione ancora molto più vasta di quella conferitagli dagli stoici). Soltanto quando siano combinate tra loro nella frase le parole possono essere oggetto di un giudizio di verità o falsità: in sé, un nome (o un verbo) non è né vero né falso, ma indica convenzionalmente (κατά συνϑέκεν) un certo significato. Il significato è concepito in termini psicologici come πὰϑος τῆς ψυχῆς «affezione dell’anima», corrispondente a un dato ontologico. Dalle dottrine di A. è dunque assente il riconoscimento della storicità (variabilità etnica e temporale) del mondo dei significati, pur non mancando alcuni cenni alla diversità formale delle lingue e al legame tra usi linguistici e vita associata dei popoli. Agli στοίχεια, cioè, in particolare, ai fonemi costitutivi delle parole greche, A. dedica osservazioni penetranti nella Poetica: a lui risale un primo tentativo di sistemazione della fonologia del greco antico. Questo corpo dottrinale, giudicato dagli studiosi ottocenteschi «ingenuo» (H. Steinthal), appare oggi sorprendentemente moderno: soprattutto le due idee dell’arbitrarietà delle forme linguistiche e del loro articolarsi in unità collocate a distinti livelli sono state decisamente rivalutate dal pensiero linguistico del Novecento.
In A., l’amore dell’assoluto e dell’eterno (che caratterizza la personalità del suo maestro) cede sempre più di fronte all’interesse (che forse meglio esprime il suo spirito) per la ricerca induttiva ed empirica del particolare, indagato nelle sue forme concrete mediante una larga e paziente organizzazione. E ciò appare già nel grande corpus in cui A., che già aveva tentato di stabilire la costituzione dello Stato ideale, passa all’analisi realistica delle varie forme esistenti di costituzioni politiche, raccogliendone ben 158, storicamente sancite in Grecia e altrove. Di tale analisi ci rimangono pochi frammenti e il trattato della Costituzione di Atene, ritrovato da F.G. Kenyon nel 1891 in un papiro in Egitto; ma l’imponenza stessa di questa raccolta ci fa pensare che A. non attendesse da solo a tale lavoro, ma organizzasse e dirigesse ricerche compiute da tutta la sua scuola, che egli indirizzò all’indagine empirica.
In base al concetto di scienza come conoscenza mediante cause di una realtà che «è sempre o per lo più» (escludendo pertanto una scienza del contingente e dell’accidentale), A. aveva distinto tre possibili scienze speculative: matematica, fisica e filosofia prima, assegnando alla fisica come oggetto proprio un particolare aspetto dell’essere, cioè «quella sostanza che ha in se stessa la causa del suo movimento». I principi di questa scienza, attraverso i quali soltanto è concepibile il divenire, sono quelli generalissimi di materia e forma, cui si aggiunge quello di privazione (στήρεσις): in base a essi si effettua la riduzione delle cause a quattro tipi fondamentali (formale, materiale, efficiente, finale), cui tutte le altre possono riportarsi. Conformemente a questa impostazione A. esclude come mezzo di spiegazione qualsiasi elemento di natura casuale o fortuita, in contrapposizione all’atomismo di Democrito, indirizzando quindi finalisticamente l’indagine. La fisica di A. è una fisica essenzialmente qualitativa: in essa si distinguono infatti quattro tipi di movimento (generazione e corruzione, mutamento, aumento e diminuzione, traslazione) – di cui quello di traslazione è il più importante, potendosi gli altri spiegare in base a esso – e si introduce la teoria dei luoghi naturali assoluti, secondo la quale tutti i corpi si muovono di moto rettilineo, verso l’alto quelli leggeri, verso il basso quelli pesanti, in conformità agli elementi che li compongono (in ordine di pesantezza: terra – al centro dell’Universo – acqua, aria, fuoco). Proprio dei soli corpi celesti è invece il moto circolare, moto perfetto che non ammette contrari ed esclude qualsiasi mutamento, sicché essi risultano eterni e incorruttibili; è necessario, di conseguenza, ammettere l’esistenza di un quinto elemento, esclusivo di questi corpi: l’etere. Nella sua teoria del cielo A. riprende il sistema delle sfere omocentriche di Eudosso, modificato da Callippo, aumentandone il numero, e ponendo la Terra al centro di un sistema di sfere cristalline che nel loro movimento di rotazione trascinano gli astri su di esse situati. La finitezza dell’Universo, la negazione del vuoto e dell’infinito attuale – ammesso solo come potenziale riguardo alla divisibilità – rappresentano poi alcune delle principali conseguenze della fisica di A., che per la stretta dipendenza dai principi generali della sua speculazione, per il suo carattere sistematico e il rigore dell’impostazione, esercitò profonda influenza sul pensiero scientifico dei successori. Sembra che ad A. sia dovuto l’uso di rappresentare con lettere le grandezze prese in esame.
Molti furono i ritratti di A. prodotti nell’antichità: Alessandro gli dedicò un’erma ad Atene, un altro ritratto Teofrasto, una statua era a Olimpia; molto diffuse erano nel mondo romano le erme che lo effigiavano. Si conservano varie copie di un tipo, creato forse verso la fine del 4° sec. a.C., di un notevole realismo.
La leggenda medievale di A. rispecchia il fatto storico che Alessandro giovinetto fu allievo di A.; essa è infatti intessuta di diversi racconti sulle materie d’insegnamento, sui consigli preziosi dati all’allievo, e giunge fino a mostrare in A. un infallibile indovino. Alcuni episodi rivelano una vena d’innocente umorismo, come quello in cui il venerando sapiente, avendo disapprovato l’arrendevolezza del discepolo al fascino femminile, è messo alla prova e graziosamente raggirato da una bellissima fanciulla. La scenetta di A. carponi, spesso con il morso fra i denti e le briglie sul collo, è il soggetto di numerose rappresentazioni tardomedievali.
Nasce a Stagira da una famiglia di medici
Si trasferisce ad Atene ed entra nell’Accademia di Platone
Morte di Platone. A. inizia un periodo di viaggi, durante il quale insegna in varie città
Accoglie l’invito di Filippo II di Macedonia di occuparsi a Pella dell’educazione del principe Alessandro
Torna ad Atene e fonda una scuola in un bosco sacro ad Apollo Liceo, detta perciò Liceo (o Peripato dal «viale-passeggiata» che le stava davanti)
Dopo la morte di Alessandro viene accusato di empietà e sfugge al processo riparando a Calcide nell’Eubea
Muore a Calcide