Aristotele (Aristotile, dalla forma latina medievale Aristotiles)
Filosofo greco (Stagira 384-383 a. C. - Calcide 322 a.C.); compì i suoi primi studi di filosofia all'Accademia di Platone ove entrò quasi diciottenne, restandovi per un ventennio circa. Alla morte di Platone, andò ad Asso, nella Troade, ove diresse una comunità platonica; in seguito fu chiamato a Mitilene, presso la corte di Filippo il Macedone, dove funse da precettore di Alessandro Magno finché quest'ultimo salì al trono. Dopo di ciò A. tornò ad Atene, ove fondò (335-334 a.C.) una scuola situata nel recinto sacro ad Apollo Liceo, da cui il nome Liceo preso da essa. L'altro nome di Perìpato o di ‛ peripatetica ' la scuola trasse dalla " passeggiata " o περίπατος, che i suoi membri usavano percorrere discutendo. Dopo quasi dodici anni di direzione della scuola, morto Alessandro, in Atene prevalse il partito antimacedone, sicché A. venne accusato di empietà, ma riuscì a riparare a Calcide nell'Eubea, ove morì nel 322.
Delle sue opere, le ‛ essoteriche ' (cioè quelle destinate al pubblico) sono andate quasi completamente perdute, mentre ci rimangono quasi per intero i corsi di lezioni tenuti al Liceo (scritti ‛ acromatici ' o ‛ esoterici ') sistemati in un corpus e pubblicati, nel I sec. a.C., da Andronico di Rodi (per le opere di A. citate da D. e la loro fortuna nel Medioevo, v. le voci relative).
Le opere di A. (che tranne alcune tradotte in latino da Boezio, vennero tradotte in arabo e in siriaco, rimanendo così sconosciute al Medioevo latino fin quasi al Duecento) nel giro di un secolo circa (tra il XII e il XIII) vennero di nuovo tradotte in latino dal greco e dall'arabo, insieme con alcune parafrasi e commenti (primi per importanza quelli di Averroè tradotti in prevalenza da Michele Scoto). Esse erano divenute, attorno alla metà del XIII secolo, i testi fondamentali e pressoché unici su cui si insegnava la filosofia nelle facoltà delle Arti: anche a Parigi, ove la ‛ lettura ', cioè la spiegazione scolastica degli scritti di A. era stata proibita nel 1210 e nel 1215, questi ebbero egualmente diffusione fino ad essere assunti come libri di testo nello statuto dello Studio parigino del 1255. Sicché l'aristotelismo, dalla metà del secolo, viene a costituire la ‛ filosofia ' per eccellenza e unica, cui tutti i maestri fanno riferimento, anche se per alcuni punti più controversi (ove più netto appariva il contrasto tra aristotelismo e tradizione teologica) se ne davano diverse interpretazioni: diverse in rapporto sia al prevalere dell'interpretazione avicennistica o averroistica, sia ai tentativi di concordia con le auctoritates della tradizione scolastica. Così nella prima metà del secolo XIII l'aristotelismo, penetrato soprattutto con certe accentuazioni platoneggianti date dalle parafrasi di Avicenna, trova negli ambienti agostiniani un meno difficile inserimento, dando origine a quella corrente avicennistico - agostiniana in cui dottrine aristoteliche sembravano potersi saldare con dottrine agostiniane nel comune fondo platonizzante dell'interpretazione di Avicenna. D'altra parte una più complessa, spesso eterogenea, interpretazione di A. si aveva con Alberto Magno che nelle sue parafrasi aristoteliche utilizzava ampiamente fonti greche e arabe, spesso in polemica coi tentativi di concordismo teologico promossi da altri ‛ dottori latini ': Alberto Magno è senza dubbio uno dei veicoli più importanti della diffusione dell'aristotelismo e di certe sue interpretazioni così platoniche come averroistiche. Una più coerente e unitaria interpretazione di A. si sforzarono di dare gli averroisti che, sulla scorta del commentatore di Cordova ( le cui dottrine cominciarono a essere conosciute e discusse poco dopo la metà del secolo) si proponevano di presentare una filosofia aristotelica che fosse scevra da preoccupazioni di concordismo teologico, affermando la legittimità di esporre l'insegnamento di A. anche quando dovevano constatarne il contrasto con gl'insegnamenti teologici. Ancora, diverso l'insegnamento di Tommaso d'Aquino che, se per un lato si proponeva anch'egli di recuperare il ‛ vero ' A., dall'altro si sforzava di mostrarne la concordia con la dottrina cristiana e ne tentava anzi l'utilizzazione a fini apologetici e anche nell'ambito del discorso teologico. Assai più cauto in genere fu l'atteggiamento degli agostiniani che, pur accettando l'aristotelismo per alcune generali strutture, non si stancarono di indicarne i limiti ‛ mondani ' e i contrasti con la tradizione teologica.
L'affermazione dell'aristotelismo non fu senza contrasti e polemiche: anche cessata l'eco delle condanne parigine dell'inizio del secolo, i sempre maggiori progressi dell'aristotelismo averroistico e alcune tesi dell'aristotelismo che Tommaso d'Aquino aveva promulgato suscitarono conflitti vivacissimi e condanne precise: notevoli gli accenti polemici nelle opere degli agostiniani intorno al 1270 e dopo, come pure le condanne parigine di tesi peripatetiche nel 1270 e nel 1277.
Ma al di là delle polemiche, tutta la cultura filosofica europea dalla metà del XIII secolo è profondamente influenzata dall'aristotelismo, e anche gli ambienti che gli si mostrarono più avversi finirono per accoglierne alcune dottrine fondamentali e tutta una terminologia: anzitutto la generale concezione del mondo fisico che si affermò rapidamente colmando un vuoto della cultura altomedievale nella quale non si ritrova alcun coerente sistema del mondo fisico quanto piuttosto una contemplazione simbolico-allegorica del mondo sensibile; quindi fondamentali strutture fisico-metafisiche espresse nella dottrina delle quattro cause, della potenza e dell'atto, della materia e della forma; ancora, una psicologia con la dottrina della sensazione, della fantasia, dell'intelletto agente e possibile; un'etica e una politica (la logica si era da tempo affermata nelle scuole). Si costituisce insomma, nella seconda metà del XIII secolo, un tipo di sapere fisico-metafisico quale resterà nelle scuole per secoli (pur nelle diverse interpretazioni e conciliazioni) e che, penetrando altresì nella cultura comune, ne determinava le fondamentali strutture concettuali e linguistiche.
La filosofia aristotelica è quindi anche quella che costituisce lo sfondo della cultura filosofica di D.: è il suo un aristotelismo di scuola (quello appreso nelle disputazioni de li filosofanti e nei contatti con gli ambienti colti, e anzitutto con il ‛ primo amico ', G. Cavalcanti, averroista), piuttosto eclettico in quanto accoglie interpretazioni e motivi diversi. Nella valutazione di A., l'Alighieri condivide il giudizio dei contemporanei: egli è il maestro di color che sanno, il Filosofo per eccellenza; ne accoglie tutte le fondamentali dottrine, filtrate tuttavia spesso attraverso fonti e interpretazioni diverse e già inserite in una prospettiva che non presenta contrasti aperti con il cristianesimo: cospicua l'influenza di Alberto Magno con il suo caratteristico eclettismo (particolarmente importante per la dottrina dell'origine dell'anima umana), discussa l'influenza dell'averroismo (che sembra soprattutto presente nella Monarchia) e del tomismo.
Ma al di là della possibilità di individuare fonti precise, si dovrà sempre essere estremamente cauti nel riportare le dottrine filosofiche dantesche a questa o quella scuola, mentre sarà spesso più utile tener presente l'orizzonte culturale dell'epoca e il generale aristotelismo che ne costituiva un elemento essenziale, tanto che non sempre le stesse citazioni testuali da opere di A. sono sufficienti a provare la lettura delle opere da cui sono tratte.
Comunque, per D. come per i suoi contemporanei, A. è il Filosofo per antonomasia, colui che nell'ambito della ragione naturale aveva trasceso tutti gli altri (cfr. W. Burley De Vita et moribus philosophorum LII " Trascendit autem Aristotiles in philosophia humana mensuram hominum, nichil diminuens tractando de ea, sed multa ipsi adiciens, et ex sui solercia totam direxit philosophiam. Tractavit enim omnes philosophiae partes et praecepta dedit in singulis, sed prae ceteris sic racionalem redegit in ius suum ut a possessione sua videatur omnes alios exclusisse ita ut commune nomen omnium philosophorum anthonomatice sibi proprium esse meruerit "). E il magistero filosofico di A. è apertamente riconosciuto da D. che lo chiama mio maestro (Cv I IX 9; cfr. Ep XI 11) e maestro de li filosofi (IV VIII 15), in cui la natura aveva posto 'ngegno [ singolare ] e quasi divino (IV VI 15). Come tale egli è maestro e duca de la ragione umana (IV VI 8; cfr. II 16) e maestro de la nostra vita (IV XXIII 8), cioè colui che più di ogni altro indicò il conseguimento della felicità secondo virtù in questa vita, il praeceptor morum (Mn III I 3), cuncta moralia dogmatizans (Ep XI 11). A., dunque, è il filosofo che massimamente limò e recò a perfezione la filosofia morale (Cv IV VI 15, 16), e che combatté per la verità, sopra ogni altro amica (IV Il 16, III XIV 8, Ep XI 11). Su ciò si fonda l' ‛ autorità ' di A. (autoritade del filosofo sommo di cui s'intende sia piena di tutto vigore, IV VI 17), secondo l'analisi che D. conduce in Cv IV VI: A. è dignissimo di fede e d'obedienza, in quanto la sua autorità, fondata sulla fiducia e sulla garanzia della sua dottrina, implica obbedienza (§§ 5, 6 e 7); un'obbedienza che più oltre D. vede basata sull'eccellenza della sua opinione, dove aperse la bocca la divina sentenza d'Aristotile, da lasciare mi pare ogni altrui sentenza (IV XVII 3); in III V 7 A. è il glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti. Se D. dunque accetta il luogo comune di un A. degno sopra ogni altro di fede, tenta però di fondarne l'autorità per via di ragione deducendone il diritto a esercitare il comando e definendone l'ambito (il morale) in correlazione con quello politico dell'imperatore, governatore dei popoli. A. diviene così additatore e conduttore de la gente a questo segno, cioè alla perfezione morale, il cui dominio si estende a tutte le branche del sapere, e tiene questa gente [i Peripatetici ] oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica oppinione (Cv IV VI 16). L'altro ‛ reggimento ', quello politico dell'imperatore, trova in questo non già un ostacolo, ma un necessario complemento: E non repugna [l'autorità di A.] a la imperiale autoritade; ma quella [l'autorità imperiale] sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé, ma per la disordinanza de la gente; sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore (IV VI 17). Reggimento politico e filosofico, ciascuno perfettamente autonomo in sé, vanno dunque uniti nella guida del genere umano.
Alla ‛ supremazia ' filosofica di A. dà consistenza figurativa la rappresentazione del castello del Limbo, ove D. vede A. (e per far questo deve ‛ innalzare ' un poco più le ciglia) al ‛ centro ' della comunità degli antichi filosofi: Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, / vidi 'l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia. / Tutti lo miran, tutti onor li fanno (If IV 131). La stessa eccezionalità nel numero dei versi impiegati (quattro) rispetto agli altri personaggi, e la perifrasi che ne celebra il magistero dottrinale mostrano, anche sotto l'aspetto strutturale, il rilievo dato da D. ad A. personaggio (per la Commedia v. anche Pg III 43; Pd VIII 120, e forse XXVI 38).
Di A. ‛ autore ' D. fa continuo uso, come testimonia la lunga serie di rinvii espliciti e impliciti (per la cui analisi particolare v. le voci delle opere aristoteliche da cui le citazioni dantesche sono tratte). Diamo qui di seguito le citazioni aristoteliche quali appaiono in D. e, tra parentesi, la denominazione con cui è ricordato il filosofo: Cv I I 1 (Filosofo; cfr. III XI 6 e IV XIII 1) Metaph. I 1, 980 a 21; I IX 9 (il mio maestro A.) Eth. Nic. I 6,1098 a 18-19; I XII 3 (Filosofo) Eth. Nic. VIII 1, 1155 a 3 ss. (cfr. anche IX 2, 1164 b 23 ss.); I XII 10 (Filosofo) Eth. Nic. V, secondo l'indicazione di D., il quale tuttavia in questo caso deve aver confuso. Analoga affermazione si trova infatti nel De Offìciis di Cicerone, che D. conosceva bene. Ma cfr. Toynbee, Studies and Researches p. 245; I xill 4 (Filosofo) Phys. II 3, 194 b 16 ss.; II I 13 (Filosofo) Phys. I 1, 184 a 16 ss.; II III 2 (Filosofo) Part. animalium I 5, 644 b 31-33; II III 3 (A.) Coel. II 12, 292 a 10-11, 292 b 35-293 a 3; II III 6 (A.) Coel. II 12, 292 a 3-6; II III 10 (A.) Coel. I 3, 270 b 1-10; II IV 3 (A.) Coel. I 9, 279 a 20-22; II IV 13 (A.) Eth. Nic. X 8, 1178 a 22; II IV 16 (Filosofo) Metaph. II 1, 993 b 9-11; II VIII 9 (A.) Anima III 5, 430 a 23; II VIII 10 (A.) Part. animalium II 10, 656 a 7-8; II IX 7 (Filosofo) Anima II 2, 414 a 11-12; II XIII 18 (A.) Phys. I 5, 188 b 34; II XIII 30 (A.) Anima I 1, 402 a 1; II XIV 5-7 (A.) Meteor. I 8, 345 a 13-346 a 11; II XIV 15 (Filosofo) Eth. Nic. V 3, 1129 b 19-24; II XV 11 (Filosofo) Metaph. I 2, 982 b 12-17; III I 7 (Filosofo) Eth. Nic. IX 1, 1163 b 28; III II 11 (Filosofo) Anima II, 3, 414 a 31 ss.; III II 15 (Filosofo) Eth. Nic. VI, c. 2, 1139 a 11 ss.; III III 11 (Filosofo) Eth. Nic. VIII 3, 1156 b 7 ss.; III IV 6 (Filosofo) Eth. Nic. III 1, 1109 b 30 ss.; III V 7 (Filosofo e A.) Coel. II 14, 296 a 24-297 a 8; III VI 11 (Filosofo) Anima II 4, 415 b 8-15; III VII 7 (A.) Eth. Nic. VII 1, 1145 a 20; III VIII 10 (Filosofo) Reth. II 1, 1378 a 6 ss.; III viri 17 (Filosofo) Eth. Nic. II 1, Comm. di Tommaso lect. 1; III IX 6 (A.) Anima II 6, 418 a 19-20, Sensu et sens. I 437 a 7-9; III IX 10 (Filosofo) Sensu et sens. II, 437 a 11-13, 438a 25-27; III IX 11 Coel. II 7, 289a 13-16 e 13, 270 a 12-14; III X 2 (Filosofo) Gener. et corr. I 6, 322 b 22-25, 9, 326 b 31-4; III XI 1 (Filosofo) Phys. I 1, 184 a 12 ss., cfr. Metaph. IV 7, 1012 a 23-24; III XI 8 (A.) Eth. Nic. VIII 2, 1156 a 2-5; III XI 14 (A.) Eth. Nic. IX 9, 1170 b 10 ss.; III XIV 8 (A., cfr. Cv IV VIII 15) Eth. Nic. 16,1096 a 14-17; III XIV 10 (Filosofo, cfr. Mn I XII 8) Metaph. 12, 982 b 26; III XV 5 (Filosofo) Eth. Nic. X 7, 1177 a 12-17; III XV 12 (A.) Eth. Nic. I 7, 1098 a 16-18; IV II 6 (A.) Phys. IV 11, 219 b 1-2; IV II 16 (lo maestro de l'umana ragione, Aristotile) cfr. Eth. Nic. I 4 ss. 1095 a 20 ss. e Metaph. 13-10; IV III 9 (Filosofo) Eth. Nic. VII 13, 1153 b 27-28 e commento di Tommaso ad l.; IV IV 1 (Filosofo, cfr. Mn I V 5) Pol. I 1,1253 a 2; IV IV 5 (Filosofo) Pol. 13,1254 a 28; IV VI 6 (A.) Eth. Nic. I 1; IV VII 11 (Filosofo) Anima II 4, 415 b 13; IV VII 14 (Filosofo) Anima II 3, 414 a 28-32; IV VIII 6 (Filosofo) Eth. Nic. VII 13, 1153 b 27-28 e commento di Tommaso ad l.; IV VIII 15 (quello maestro de li filosofi, A.) Eth. Nic. I 6, 1096 a 16-17; IV IX 2 Phys. III 5 lect. 8, ma cfr. Coel. 15-7; IV X 8 (Filosofo) Metaph. VII 9, 1034 b 12-16; IV X 9 (Filosofo) Phys. VII 2, 244 b 2-5, cfr. anche Gener. et corrup. I 6, 322 b 21-24; 9, 327 a 14-16; IV XI 9 (A.) Phys. II 5, 197 a 5 ss.; IV XII 12 (Filosofo) Eth. Nic. VI 3, 1139 b 31-32; IV XIII 8 (A.) Eth. Nic. I 3, 1094 b 23-25; IV XV 5-6 (Filosofo) Pol. II 1253 b e Metaph. VII 7, 1032 a 22 ss.; IV XV 6 (A.) cfr. Phys. II 1,193 a 4-5; IV XV 11 (A.) Anima III 6, 430 b 27-29; IV XV 14 (A.) Eth. Nic. I 3; IV XV 16 (Filosofo) Phys. 12, 185 a 5-6; IV XVI 5 (Filosofo) Eth. Nic. I 3, 1095 a 1-13; IV XVI 7 (Filosofo) Phys. VII 3, ed. K. Prantl, Lipsia 1879, 149, 246 b 14 ss.; IV XVII 1 (Filosofo) Eth. Nic. II 6, 1106 b 36; IV XVII 4 (Filosofo) Eth. Nic. II 7; IV XVII 8 (Filosofo) Eth. Nic. I 6, 1098 a 16-18; IV XVII 8 (A.) Eth. Nic. VI 5, 1140 a 24 ss.; IV XVII 9 (Filosofo) Eth. Nic. X 7; IV XIX 9 (Filosofo) Eth. Nic. IV 9, 1128 b 15 ss.; IV XX 4 (A.) Eth. Nic. VII 1, 1145 a 20-22; IV XX 7 (Filosofo, cfr. II 1I 10) Anima II 2, 414 a 11-12; IV XXI 14 (A.) Eth. Nic. II 1; IV XXII 2 (Filosofo) Eth. Nic. I 2, 1094 a 23-24; IV XXII 4 (A.) Eth. Nic. libri I e IX; IV XXIII 8 (lo maestro de la nostra vita A.) Iuvent. et senect. 18, 479 a 30-32; IV XXV 1 (A., cfr. anche III XI 13) Eth. Nic. VIII 1, 1155 a 5; IV XXVII 3 (A.) Pol. 1253 a 2; IV XXVII 5 (Filosofo) Eth. Nic. VI 12, 1144 a 36-1144 b 1, IV XXVII 12 (A.) Eth. Nic. IV 1, 1120 a 4 ss.; IV XXVIII 4 (A.) Iuvent. et senect. 17 479 a 20-21.
Nella Monarchia A. è così ricordato:
I I 4 (A.), con riferimento alla dottrina della felicità, ampiamente svolta dal filosofo soprattutto nel I libro dell'Etica; I III 1 (Philosophus) Eth. Nic. I 7, 1098 b 8; I 111 10 Pol. I 2, 1252 a 31-32; I V 5 (Philosophus, cfr. anche § 2 e Cv IV IV 5) Pol. I 2, 1252 b 20-21; I IX 1 (cfr. anche Cv IV XXI 5) Phys. II 2, 194 b 13; I X 6 (Philosophus) Metaph. XII 10, 1076 a 3-4; I XI 5 (Philosophus) Eth. Nic. V 1, 1129 b 28-29; I XI 11 (A., cfr. Cv IV IV 3) Eth. Nic. V 4, 1131 b 31; I XI 11 (Philosophus) Reth. I 1,1354 a 31 ss.; I XII 8 (Philosophus) Metaph. 12, 982 b 26; I XII 10 (Philosophus, cfr. Cv III XIV 10) Pol. III 4, 1276 b 30; I XII 11 (Philosophus) Pol. IV 1, 1289 a 13-15; I XIII 3 (Philosophus) Metaph. IX 8, 1049 b 24-25; I XIII 4 (Philosophus) Eth. Nic. X 1, 1172 a 34-35; I XIV 5 (Philosophus) Eth. Nic. V 10, 1137 b 26; I XV 2 (Philosophus) cfr. Metaph. X 1-3; I XV 3 Metaph. I 5, 986 a 23-27; I XV 9 (Philosophus, cfr. Cv IV IX 10) Eth. Nic. X 9, 1179 b 31 ss.; II II 7 (Philosophus, cfr. Cv IV XIII 9) Eth. Nic. I 3, 1094 b 23-25; II III 4 (Philosophus, cfr. Cv IV III 6) Pol. IV 8, 1294 a 21-22; II III 9 (Philosophus) Eth. Nic. VII 1, 1145 a 20-22; II V 23 (Philosophus) Eth. Nic. VI 9, 1142 b 23-25; II VI 5 (Philosophus) Phys. II 2, 194 a 28-29, cfr. Generai. et corrup. I 1; II VI 7 (Philosophus) Pol. I 5,1255 a 1-3; II VII 2-3 (Philosophus) Pol. I 2, 1253 a 20 ss.; Eth. Nic. I 2, 1094 b 9-10; III I 3 (praeceptor morum Philosophus, cfr. Cv IV VI 15 e 16) Eth. Nic. I 6, 1096 a 14-15; III IV 4 (Philosophus, cfr. Pd XIII 125-126) Elench. Soph. 18, 176 b 29-30; Phys. I 3, 186 a 7-8; III X 13 (Philosophus) Eth. Nic. IV 1, 1120 a 11-15; III XI 1 (cfr. Cv I I 1 e III XI 17) Metaph. X 1,1052 b 18-19; III XI 8 Eth. Nic. X 2 e 5;III XIII 6 (cfr. Cv IV X 8) Metaph. IX 8, 1049 b 24 ss.; III XIV 2 Phys. II 1, 193 a 28-b 18; III XIV 9 Categ. 12, 14 b 18-22; III XV 4 (Philosophus) Anima II 2, 413 b 26-27. Nel De vulgari Eloquentia A. è citato chiaramente due volte: II VI 2 (A.), X 1 (magister sapientum; cfr. Phys. I 1). Nelle Epistole è detto tre volte Philosophus (XI 11, XIII 14 e 75: cfr. Coel. I 2, 269 b 15-17).
Nella Vita Nuova D. menziona A. due volte con l'appellativo di Filosofo (XXV 2 e XLI 6, Metaph. II 1, 293 b 9-11).
Un esame più particolareggiato dei passi gioverà a palesare la misura in cui D. recepisce A. per via diretta o attraverso i suoi commentatori. Sovente oltre lo scritto aristotelico è possibile vedere una mediazione tomistica. È il caso di Mn I III 1 in cui D., dopo aver ricordato l'Ethica Nicomachea (c. VIII), considera il fine ultimo dell'uomo, inteso come individuo incompleto e insufficiente al di fuori della comunità politica: Et ad evidentiam eius quod quaeritur advertendum quod, quemadmodum est finis aliquis ad quem natura producit pollicem, et alius ab hoc ad quem manum totam..., sic alius est finis ad quem singularem hominem, alius ad quem ordinat domesticam communitatem... et denique optimus ad quem universaliter genus humanum Deus aeternus arte sua, quae natura est, in esse producit (§ 2). Ma un ragionamento analogo fa anche Tommaso nella Sum. theol. I 65 2, dove è detto: " ex omnibus creaturis constituitur totum universum sicut totum ex partibus... Omnes partes sunt propter perfectionem totius... Ulterius autem, totus homo est propter aliquem finem extrinsecum, puta ut fruatur Deo... singulae creaturae sunt propter perfectionem totius universi. Ulterius autem, totum universum, cum singulis suis partibus, ordinatur in Deum sicut in finem ".
Allo stesso modo, quando in Cv I XII 4 D. espone la sua teoria sull'amicizia, si richiama all'insegnamento aristotelico, ma nelle espressioni che seguono c'è un'eco tomistica. Si osservi infatti: Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre, e Tommaso Comm. Eth. VIII, lect. 12 " Filius est quodammodo pars patris ab eo separata. Unde haec amicitia propinquissima est dilectioni qua quis amat seipsum, a quo omnis amicitia derivatur ".
Ancora, se si legge Mn I XII 10 Unde Phylosopbus in suis ‛ Politicis ' ait quod in politia obliqua bonus homo est malus civis, in recta vero bonus homo et civis bonus convertuntur. D. qui vuol significare evidentemente che l'uomo inserito in una politia recta coopera al conseguimento del bene comune, della felicità terrena; e identifica il fine della sua esistenza con quello del buon reggente. Calpesta invece ogni norma morale che regola la sfera religiosa e civile quando si trova a vivere in una politia obliqua in cui il reggente per primo mira più che al bene della comunità al proprio commodum. Ma piuttosto che nella Politica aristotelica (III 4), il Vinay (n. 11 p. 77) crede di scorgere un'identità di concetto nel commento tomistico all'Eth. V 5, n. 926, dove è detto: " in tertio... Politiae ostenditur quod non est idem simpliciter esse virum bonum et esse civem bonum secundum quancumque politiam. Sunt enim quaedam politiae non rectae secundum quas aliquas potest esse civis bonus qui non est vir bonus, sed secundum optimam politiam non est aliquis bonus civis qui non est vir bonus ".
A parte le menzioni esplicite, non è insolito che D. affidi unicamente alla sagacia del lettore l'interpretazione di alcuni passi e tralasci ogni rinvio. Si tratta quasi sempre di nozioni desunte dalla filosofia aristotelica, con sfumature talvolta albertine, tomistiche o anche averroistiche.
Nel primo libro del Convivio (cap. Ir), D. sostiene che l'uomo abbrutito dall'impotenza e dall'ignoranza non è personalmente responsabile del suo stato, perché non sempre il potere e il sapere spettano alla sua elezione. Il concetto è chiaramente di estrazione aristotelica, ed è ampiamente svolto in tutto il terzo libro dell'Ethica.
Così pure il passo di Cv IV IV 4 Il perché, a queste guerre e le loro cagioni torre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l'umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere, è il risultato di reminiscenze della filosofia aristotelica. Lo Stagirita a proposito dell'unità di Dio e dell'Universo nel mi libro della Metaph. (c. 10) afferma infatti: " Et principia multa. Entia vero nolunt disponi male, nec bonum pluralitas principatuum. Unus ergo princeps ". Né il numero di esempi di citazioni aristoteliche in forma implicita finisce qui. Si veda ancora:
Mn I III 3 Coel. I 4; I IV 2 Phys. VII 3; I V 7 Pol. I 2; I VI 1 Eth. I 1; VE I XVI 5 Metaph. I 5; I III 1 Eth. II 6; If XI 80 Eth. VII 1; Pg V 109 Meteor. I 9, II 4; Pg XVIII 55 Anal. Post. II 19; Pg XXV 61 Generat. II 3.
Altrove la fonte implicita è Tommaso: Cv I VI 10 Comm. Eth. IX, lect. 8 e Sum. theol. II II 23 1 ad 2; III VI 10 Cont. Gent. I 93; IV XXIV 9-10 Comm. Eth. I, lect. 9; Mn I V 6 Cont. Gent. III 85; o Averroè: Cv II III 6 Metaphys. I 1; II IX 7 Anima III 3 1; Mn I III 9 e III IV 9 Anima III 1; o Alberto Magno: Cv II II 4 Mem. et remin. I 1; III II 18 Eth. VII I 1; IV XXIV 5 Mort. et vit. II 8; Mn I XIV 6 Nat. Locor. III 38.
Raramente D. rimanda esplicitamente al commento di Tommaso: si pensi a Cv II XIV 14 ché Morale Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo de l'Etica, ordina noi a l'altre scienze. E s. Tommaso all'inizio del secondo libro (lect. 1) dichiara: " Ratio ordinis est, quia virtutes morales sunt magis notae, et per eas disponimur ad intellectuales ".
Facile evincere da siffatto quadro il sostrato aristotelico di buona parte della dottrina filosofica dell'Alighieri. È un aristotelismo, come s'è detto, eclettico, che assume via via sfumature diverse secondo le possibili fonti dirette o indirette utilizzate da Dante.
Un altro problema divenuto centrale, legato spesso a polemiche, è il rapporto di D. con la tradizione averroistica e con l'interpretazione tomistica.
Al razionalismo filosofico cui propende il Gilson, il Nardi pone dei limiti ben precisi e le considerazioni del Gilson lo trovano consenziente solo là dove implicano palesi riserve sul tomismo dantesco. Si irrigidisce e diventa polemico quando l'altro dubita dell'impronta averroistica che traspare a volte dagli scritti di Dante.
È comunemente nota la distinzione che D. fa tra filosofia e teologia, tra ragione e fede, con ciò che implica sul piano del rapporto tra Impero e Chiesa. Ma, mentre il Nardi nell'autarchia della dottrina dantesca vede la spia di una tesi averroistica, con la separazione della fede dalla ragione, il Gilson è più cauto. L'autonomia di due istituzioni infatti non implica necessariamente l'opposizione delle stesse, e l'ordine universale che D. esige, postula l'accordo di teologia e filosofia, a garanzia della politica di cooperazione che Impero e Chiesa dovrebbero perseguire. È azzardato in questa luce, per il Gilson, accostare la posizione di D. a quella degli averroisti, che non solo attribuivano valore dissimile alla fede e alla ragione, poiché l'una e l'altra non insegnano la stessa cosa, ma per i quali esisteva piena antinomia tra i due ordini. L'espressione di Mn I III 8 Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium communitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia haec actuetur, e il ricordo esplicito di Averroè che D. fa seguire, conferma il Nardi nella sua convinzione ed egli non respinge l'accusa di averroismo già mossa all'Alighieri dal Vernani. In più, le parole che D. pone quasi alla fine della Monarchia: Has igitur conclusiones et media, licet ostensa sint nobis... ab humana ratione quae per phylosophos tota nobis innotuit (III XV 9), e che sembrano al Nardi riecheggiare la convinzione dell'averroista Giovanni di Jandun per il quale " il desiderio umano di sapere è soddisfatto in ogni momento dalla collaborazione di tutti gli uomini presi collettivamente ", cancellano infine ogni possibile dubbio. Di ben altro avviso, tuttavia, è il Vinay. Confortato dal giudizio dell'Ercole, del Parodi e del Faggi, egli intende diversamente il pensiero dantesco. Appurato che l'individuo, con i mezzi umani di cui dispone, non potrà mai soddisfare pienamente la capacità conoscitiva preordinata da Dio, si rende necessaria, per l'attuazione del disegno divino, la molteplicità degli individui che tutti insieme potranno realizzare finalmente la virtus intellectiva data da Dio all'uomo. E così che il Vinay intende e giustifica la necessità che in ogni momento l'umanità attui, per mezzo della somma dei suoi individui, quella somma di esperienze conoscitive sensibili e intellettuali quali sono previste nel piano provvidenziale " (Monarchia, p. 25 n. 16). In questo il Vinay non vede nulla di averroistico, ma non riesce a convincere il Nardi che, pur riconoscendo nel Vernani una notevole dose di acrimonia, scorge nelle parole del Vinay un'inesatta interpretazione del pensiero di Dante. La convinzione che tutta la potenza dell'intelletto umano si possa attuare per opera del " genus humanum simul sumptum " è la testimonianza più palese dell'averroismo dantesco. E che il Vinay si adoperi a scagionare D. dall'accusa del Vernani rimane per il Nardi un tentativo inefficace, che non coglie l'intenzione di Dante.
Né sembra meritare più fede, secondo il Nardi, la tesi sostenuta dall'Ercole, di un'ascendenza tomistica relativa al principio dei ‛ due fini ' cui approderebbe Dante. Infatti, se pure è di derivazione aristotelica (Eth. Nic. X 8-10) la teoria per cui la felicità e la perfezione sono conseguibili attraverso l'attività speculativa della mente, Tommaso da buon teologo, al servizio della fede e del papato, soffoca il suo aristotelismo e finisce con il subordinare la ragione alla fede. Per lui la sete natural del conoscere non viene pienamente soddisfatta dalla speculazione filosofica, ma si rende pur sempre necessaria la grazia della visione beatifica (Cont. Gent. III 52). Così, pur partendo da una premessa comune: il fine naturale dell'uomo è da cercarsi nell'attuazione di tutta la potenza dell'intelletto possibile (Mn I III 12-13 e Cont. Gent. III 39), D. e Tommaso approdano a conclusioni divergenti e per le quali D. sembra più vicino ad Averroè. D. infatti ritiene concretamente attuabile il desiderio naturale di conoscenza, ma solo relativamente a quel che fa parte dell'esperienza umana, cui l'individuo può pervenire attraverso la ragione (Mn III XV 8), mentre tutto ciò che rimane al di là delle capacità dell'intelletto umano, è conseguibile mediante la rivelazione e la grazia divina: Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere (Cv IlI XV 10). Tommaso invece, dimenticando il suo A., proclama questo fine irraggiungibile nella vita terrena (Sum. theol. I II 5 3). Egli torna alla tradizione patristica: per lui il fine naturale si confonde con il soprannaturale e l'uomo trova la sua felicità nella contemplazione in Dio (Reg. Princ. I 14). La teoria dantesca dei due fini spiana sì, per il Nardi, il terreno all'infiltrazione di teorie averroistiche, ma non chiude affatto il circolo di influenze filosofiche unicamente nell'averroismo, nei cui confronti D. conserva pur sempre una sua indipendenza, lasciando aperta la via ad altre influenze tra le quali la più evidente è quella di Alberto Magno. Così, nella definizione che D. dà del libero arbitrio (liberum arbitrium esse liberum de voluntate iudicium) in Mn I XII 2 e nella questione che solleva in Pd IV 1-9 il Nardi avverte l'eco dell'insegnamento aristotelico (Eth. Nic. I 5, 1097a 30 ss. e X 7, 1177 b 2 ss.; Metaph. 12, 982b 15-28), ma coglie in pari tempo sfumature di tendenza averroistica. Libero arbitrio infatti è per D., come pure per gli averroisti, " il libero giudizio della ragione, non prevenuta dall'appetito, intorno all'operare " (cfr. anche Cv III XIV 9). Tommaso invece riconosce alla volontà la prerogativa di piegare la ragione al talento (Sum. theol. II I 13 6 ad 3). Si comprende allora perché, mentre D. di fronte a due dubbi che lo assillano con pari intensità (Pd IV 1-4) rimane inerte e afferma: per che, s'i' mi tacea, me non riprendo, / da li miei dubbi d'un modo sospinto, / poi ch'era necessario, né commendo (vv. 7-9), Tommaso, pur ribadendo il concetto secondo cui tra due motivi uguali la volontà non troverebbe la forza di scegliere, ritiene fattibile un'altra alternativa; la ragione può vincere l'incertezza ed essere sollecitata dalla volontà verso una scelta ben precisa, senza però per questo dover parlare di determinismo. Si riscontrerebbe in tal caso quella che D. stesso chiama ‛ sottomissione della ragione al talento ' (If V 39).
Quanto al tomismo dantesco, più vivace e pungente è la polemica con il padre Busnelli, cui il Nardi (Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, 341-380) rimprovera di aver presentato, per confortare la sua tesi sul tomismo di D., come concetti peculiari della dottrina dell'Aquinate, o luoghi comuni a tutti i teologi medievali,
o tesi averroistiche e platonizzanti o, ancora, d'aver forzato gli stessi testi tomistici per dimostrarne l'aderenza con il testo dantesco. Per far ciò il Nardi sottopone a una puntuale analisi lo scritto del Busnelli (Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A. e le sue fonti, Roma 1922).
Che il Busnelli più che fornire una serena interpretazione storica del pensiero di D. si sforzi di attribuirgli in ogni modo ostentazione di nozioni tomistiche e tomisteggianti, lo si deduce anche dal suo modo di intendere la fondamentale dottrina sull'origine dell'anima (Pg XXV 37 ss. e Cv IV XXI 4-5) per la quale anzi, secondo il parere del Nardi, Busnelli si preclude da sé, con i suoi cavilli tomistici, la possibilità di collocare nella giusta luce le parole di D., e pretende di far risalire a Tommaso l'esposizione dantesca relativa alla genesi dell'anima. Per D. la virtù attiva del seme genera dapprima l'anima vegetativa, e poi, quando questa acquista capacità di movimento e di senso, si fa anima sensitiva (Pg XXV 52-57). Quanto all'anima razionale, essa non trae origine dalla virtù attiva del seme, ma, secondo l'opinione più diffusa, si genera attraverso un processo di immissione diretta da parte di Dio, ed è da identificarsi con l'intelletto possibile, che gli averroisti separavano dall'intelletto agente (Sum. theol. I 76 2 e 79 5, ma anche Cont. Gent. II 73). Ed è qui che si determina una frattura tra tomismo ed averroismo. Per quest'ultimo l'intelletto possibile è la facoltà razionale nella sua essenza, che si comunica a ciascun'anima umana, da cui tuttavia è distinta e a cui sopravvive. Ma al Busnelli, che Si ostina a cercare a tutti costi influenze tomistiche, queste sottigliezze sfuggono. Non a Tommaso il Nardi pensa, ma ad Alberto Magno piuttosto (De Natura et origine animae). Mentre infatti gli scolastici in genere consentono nel riconoscere nel seme l'anima, non in atto, ma in potenza, fanno mostra di opinioni discordi invece quando si vuol definire il concetto di ‛ potenza '. Per Tommaso la " virtus activa, agit ad animam producendam " (Cont. Gent. II 83 e Sum. theol. I 118), per altri invece è il principio da cui germoglierà l'anima. Nardi non tace la sua perplessità di fronte al passo tomistico (Pot. III 9 ad 16) impugnato a questo punto da padre Busnelli. Se per Tommaso la " virtus formativa " è di natura corporea, diversa dall'anima, e tale resta fino a quando l'anima non è separata dal corpo, per D. invece sopravvive anche a questa separazione proprio in quanto è forza attiva che si fa poi anima vegetativa e sensitiva. Alla luce di questo presupposto l'argomentazione finale cui perviene il Busnelli è quanto mai arbitraria a giudizio del Nardi, e il Busnelli è nell'errore quando crede che, come l'anima sensitiva succede a quella vegetativa nel momento in cui quest'ultima viene meno, così l'anima razionale succede a quella sensitiva soggetta anch'essa al processo di corruzione: " sia perché in nessun luogo D. accenna a siffatto concetto, sia perché tutto il passo del canto XXV del Purgatorio ne esprime uno agostinianamente opposto ". Lo conferma la teoria sull'origine dell'anima enunciata, sia pure in forma più schematica, in Cv IV XXI 4-5.
S'intuisce facilmente quanto fragili e insicure paiano agli occhi del Nardi le ricerche del Busnelli che egli giudicava " molto sommarie e superficiali ", anche per non tener in debito conto gli scritti di Alberto Magno, cui sicuramente, secondo il Nardi, D. fece ricorso. " Né tomista, né antitomista " per il Nardi D. " prende il materiale della sua informazione filosofica, con largo spirito eclettico, nel ricco arsenale della Scolastica, senza esclusione di Scuole; e quel materiale poi rifonde nel crogiuolo della sua mente, collo sforzo della riflessione personale, in quello ardente crogiuolo da cui escono, temprati di pensiero filosofico, i fantasmi della più alta poesia ". La filosofia dantesca è dunque il risultato di un laborioso sforzo di meditazione personale, e tuttavia se si vogliono isolare ascendenze precise che hanno dato fertile alimento alla cultura filosofica dell'Alighieri, Nardi guarda non tanto a Tommaso, quanto al suo maestro, Alberto Magno, il cui eclettismo filosofico e la cui capacità di larga tolleranza e di conciliazione di elementi eterogenei, aspetti l'uno e l'altro insoliti in un teologo medievale, trovano eccezionale corrispondenza in Dante. Ad Alberto D. si accosta anche per la tecnica che fa uso di frequenti digressiones (si pensi al IV libro del Convivio) e per la suddivisione della trattazione in capitoli per snellire lo schema del lavoro. E le opere di Alberto Magno D. cita esplicitamente, quali ad esempio: De lo intelletto (Cv III VIII 3); De la meteora (Cv II XIII 21, IV XXIII 13); De la natura de' luoghi (Cv III V 12); De le proprietadi de li elementi (Cv III V 12).
A questi il Nardi aggiunge altri ricordi tratti dalla filosofia di Alberto, e latenti negli scritti di D., ricavandone utili paralleli: Cv II VIII 13 (Alb. Magno Nat. et orig. animae II VI, e ancora Somn. et vigil. III I 4 e 8); II XIII 5 e IV XXI 2-3 e 10 (Somn. et vigil. III I 6 e 8, ma anche Intellectu et intel. I I 4 e 5, e ancora Nat. et orig. animae II 8); Pd IV 49-63 (Nat. et orig. animae II 7); Cv IV XXII 4-5 e Pg XXV 37-38 (Nat. et orig. animae I 5). Tali raffronti, che il Nardi fa solo a titolo esemplificativo e che pertanto limita nel numero, valgono però a testimoniare il carattere composito e le molteplici confluenze presenti nell'aristotelismo dantesco.
Bibl. - P. Toynbee, Studies and researches, Londra 1902, 243-247; F. Ercole, Per la genesi del pensiero politico di D. - La base aristotelico-tomistica, Torino 1918; E.G. Parodi, Del concetto dell'Impero in D. e del suo averroismo, in " Bull. " XXVI (1919) 130-136; Id., Note bibliografiche, in " Bull. " XXVII (1920) 84; A. Pelzer, Les versions latines des ouvrages de morale conservés sous le nom d'Aristote en usage au XIIIe siècle, in " Revue philosophique de Louvain " XXIII (1921) 316-400; A. Faggi, Le idee filosofiche di D., in " Atti R. Accad. di Torino " LVII (1921-1922) 250 ss.; M. Grabmann, L'influsso di Alberto Magno sulla vita intellettuale del M.E., in " Rivista filos. neo-scolastica " XXIII (1931), 18-75; A. Passerin D'Entréves, La filosofia politica medievale, Torino 1934; E. Franceschini, A. nel Medioevo latino, in Atti del IX Congr. naz. di filos., Padova 1934, 189-207; M. De Wulf, Histoire de la philosophie médiévale, Lovanio 19366, t. II; M. Grabmann, I divieti ecclesiastici di A. sotto Innocenzo III e Gregorio IX, Monaco 1941; B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; A. Mansion, Les prémices de l'Aristoteles latinus, in " Revue philosophique de Louvain " XLIV (1946); B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 19492; G. Vinay, Introduzione alla " Monarchia ", Firenze 1950, I-XXVII; P. Renucci, L'aventure de l'humanisme européen au moyen-âge, Parigi 1953, 84-93; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 19532; L. Minio Paluello, Aristoteles latinus, Pars posterior, Cambridge 1955, 772-799; F. Van Steenberghen, Aristotle in the West (The origins of latin aristotelism), Lovanio 1955; E. Franceschini, Ricerche e studi su A. nel M.E., in " Rivista di filos. neo-scolastica " XLVIII (1956) 144-166; M.D. Chenu, La théologie comme science au XIIIe siècle, Parigi 19573; B. Nardi, Saggi sull'aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958; Id., Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960; A. Jourdain, Recherches critiques sur l'âge et l'origine des traductions latines d'Aristote, New Jork 1960. Per D. traduttore di A. si veda il lavoro di F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962, 48-49; e per uno schema dei raffronti, che tuttavia non risultano sempre esatti: ibid. 208-211; inoltre A. Pelzer, Études d'histoire littéraire sur la scolastique médiévale, Lovanio-Parigi 1964, 120-187; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966; ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672.