ARISTOTELE ('Αριστοτέλης, Aristotĕles, nel Medioevo latino Aristotiles)
La grandiosa opera filosofica e scientifica di Aristotele segna il punto a cui fa capo il movimento scientifico e speculativo di oltre due secoli della cultura greca, e donde muove tutto un ampio e vario lavoro di studî fisici, storici e matematici dei suoi successori, durante l'età ellenistica (Teofrasto, Eudemo, Aristosseno, Dicearco, Stratone di Lampsaco, ecc.); a cui segue, nella prima età cristiana, la serie dei commentatori aristotelici (Alessandro Afrodisio, Temistio, Simplicio, ecc.), finché l'aristotelismo trionfa nell'Occidente, col Comento arabo prima, con la filosofia scolastica più tardi (sec. XIII), per declinare poi nel Rinascimento della cultura (Umanismo) e quando con la nuova scienza s'inizia l'età moderna.
Aristotele è altresì il primo pensatore che costruisce il suo edificio filosofico giustificandone la posizione storica rispetto alla filosofia precedente. L'opera sua sistematrice della scienza in una vasta enciclopedia e in una sintesi speculativa (nel che ebbe forse un precursore in Democrito) è accompagnata dalla consapevolezza del processo storico e ideale del pensiero che ve l'ha condotto. Ond'egli può dirsi il progenitore della storia della filosofia, in quanto quella storia è diretta ad un intento sistematico. Nato in una regione che si può dire ai margini della vera e propria Ellade, la Macedonia, e insieme educato e fiorito, per i suoi studî e per il suo insegnamento, nel cuore della Grecia, Atene, A. si trovò in una condizione propizia per poter dominare come dal di fuori e abbracciare tutta la vasta sfera dell'antecedente cultura greca, e insieme per mantenere al suo edificio ideale quel carattere essenzialmente ellenico che è impresso in tutta l'opera sua. La quale conclude quello che si può dire il periodo attico della filosofia greca, iniziato da Socrate e culminato in Platone, in un modo analogo a quello con cui Euripide compie il breve e glorioso ciclo del dramma tragico attico di Eschilo e di Sofocle. Se non che, dal libero dialogo socratico-platonico, con A. il pensiero filosofico passa a una forma di trattazione sistematica, comprensiva, in un insieme organico, di ogni parte del sapere scientifico e filosofico. Socrate si sente tanto cittadino ateniese, da non provare il bisogno di uscire dalla sua città natale; Platone è anch'egli ateniese, ma il suo desiderio di sapere lo conduce fuori di Atene, e molte circostanze personali lo pongono in rapporto con altri paesi. A. deve pure ad Atene, in gran parte, la sua educazione scientifica, e quivi svolge l'opera sua. Ma poiché è nativo di una diversa regione, e in Atene stessa vive quasi straniero, né si mescola alla politica ateniese (ancorché vi fosse sospetto d'essere fautore del partito macedone), nessuna ragione personale gl'impedisce di dare al suo pensiero quel carattere teoretico, impersonale, obiettivo, che lo distingue dai suoi predecessori, ed è la ragione principale della universalità storica dell'opera sua, e della importanza e vitalità che essa ha anche per il nostro tempo. Se, difatti, quest'opera appare come obliterata sia nel periodo ellenistico (greco-romano), quando la scuola peripatetica che da lui discende non può competere, per importanza e vitalità con le altre scuole contemporanee (accademica, stoica, ed epicurea), sia durante la prima età cristiana nella quale solo è nota ed elaborata la logica aristotelica, il pensiero d'A. torna poi, per la sua stessa universalità sistematica, a costituire il sostrato e il fondamento della sintesi che del pensiero cristiano occidentale ci dà la scolastica di S. Tomaso e di Dante (che chiama A. "maestro di color che sanno"), e domina, contrastato tuttavia, nel Rinascimento fino al sorgere dell'epoca moderna e delle nuove scienze fisiche, rinnovate dal calcolo e dai metodi sperimentali.
Con A. siamo, pertanto, nel centro vivo del pensiero greco, e insieme in uno dei punti più vitali della storia del pensiero umano. Nella dottrina di lui troviamo mirabilmente associate direzioni speculative che siamo soliti vedere in contrasto lungo le sinuose vie del processo storico. La ricerca di A. muove dal singolo e tende all'universale; parte dall'esperienza come fondamento per salire all'idea; e come in essa l'empirismo di tutti i tempi ha trovato i suoi motivi essenziali, così l'idealismo metafisico ha riconosciuto in A. uno dei suoi massimi rappresentanti dopo Platone, il maestro e sovrano dell'idealismo costruttivo nella storia. A. ricava la prova scientifica dall'analisi del proprio soggetto, non da principî generali.
Ogni singola scienza è trattata da lui come un tutto indipendente, conforme alla natura del suo argomento. Così nella politica esamina le varie costituzioni degli stati, e ne discute i pregi e i difetti; negli scritti psicologici analizza le diverse forme di attività dell'anima; nella logica risolve nei suoi elementi il pensiero e ne indaga la struttura; nella retorica illustra le forme varie dell'oratoria, come nella poetica le forme diverse delle arti. Parimenti, nei diversi ordini della scienza naturale distingue con osservazioni e con largo corredo d'informazioni la grande varietà dei fenomeni; e segnatamente negli scritti sulla vita e la generazione degli animali apre strade ancora percorse dalla moderna biologia. Ma se si addentra nei particolari, egli non perde mai di vista i principî universali, nei quali solo veramente consiste la scienza. Egli volge perciò sempre lo sguardo sicuro alla totalità delle relazioni, alla connessione organica dei fatti, nella quale soltanto il particolare ha il suo posto ed acquista il suo significato. Onde per tutte le scienze speciali che A. abbraccia nella sua vasta enciclopedia, penetra e circola, per così dire, la luce di un'unica concezione del mondo, di cui si sente la presenza e l'efficacia in qualunque campo si muova la sua ricerca. E mentre dà la più gran parte della sua analisi alla discussione astratta dei concetti, che fa di lui il creatore della logica formale per tutti i tempi, non dimentica mai la connessione reale e vitale delle cose a cui quei concetti si riferiscono; ed è quindi alieno da ogni schematismo e formalismo antiscientifico. Onde dei tre tipi mentali che Bacone distinse: l'empirico, rassomigliato da lui alla formica che solo raccoglie e aduna i materiali, lo spirito costruttivo del puro razionalismo e apriorismo che ha la sua imagine nel ragno, tessitore della tenue trama che un alito di vento disperde, e il cauto spirito che procede coll'induzione sintetica, simile all'ape industriosa che elabora la materia e la trasforma, certo è che solo questo terzo tipo mentale conviene pienamente ad Aristotele.
Aristotele e 1 suoi predecessori. - Come nell'opera aristotelica si riuniscono le più diverse tendenze del pensiero, così lo Stagirita è in grado, ben più del suo maestro Platone, di valutare serenamente e liberamente le diverse direzioni a lui precedenti, e di giudicare con obiettiva imparzialità i diversi atteggiamenti delle scuole anteriori. Per essere imparziali non basta, difatti la buona volontà. Occorre la capacità di adunare e armonizzare in sé le varie tendenze unilaterali ed esclusive, con uno spirito largo e comprensivo di ogni diversa manifestazione storica del pensiero scientifico: la virtù sintetica di sollevarsi al di sopra delle opposizioni, e di conciliarle in una verità suprema. Quella stessa equanimità che consente ad A. di ammirare, da un lato, la metafisica, che egli chiama "scienza divina" e fine di tutte le altre, e dall'altro, nello scritto sulle Parti degli animali, di parlare dell'infinito compiacimento che dà lo studio particolareggiato della natura, e di adoperare la parola di Eraclito: "entrate: che anche qui sono gli Dei", gli dà modo altresì di discutere con spregiudicata obiettività ogni questione, e di assidersi arbitro sovrano fra le opposte opinioni estreme; dove la personalità del pensatore sparisce come in un vasto epos ideale, animato da un esemplare amore della verità per sé stessa.
La speculazione aristotelica sorge così, sintesi magistrale, dai sistemi precedenti. Socrate aveva cercato di risolvere le difficoltà delle antiche scuole fisiche, e le nuove aporie elaborate dalla critica sofistica, creando, più che un sistema, un nuovo metodo di ricerca. Platone intese a elevare ad una altezza ideale la ricerca socratica. A. sopravvenne a integrare, col suo spirito realistico, le parti difettive del monumento idealistico socratico-platonico. Nel 1° libro della Metafisica ci dà infatti un quadro sistematico della filosofia precedente, mostrando che gli antichi fisiologi o naturalisti avevano soltanto ricercato la causa o il principio materiale delle cose, e appena intraveduto la causa motrice; che Platone aveva illustrato il principio formale o la causa ideale della realtà: mentre a sé A. attribuisce il merito di avere indagato per primo la natura della causa finale. O sia l'acqua di Talete, o l'aria di Anassimene, o la materia indeterminata primordiale di Anassimandro, o il fuoco di Eraclito, o i quattro elementi di Empedocle, o infine l'atomo di Democrito, la sostanza originale delle cose dagli antichi filosofi ionici era sempre ricercata in un elemento o principio materiale. Solo i filosofi italioti, i Pitagorici, avevano veduto nel numero, cioè nei rapporti quantitativi e misurabili, il vero essere delle cose e la loro espressione e rivelazione. Se non che nel problema dell'essere si venne ad inserire quello del conoscere, sempre però subordinato al primo e più universale. Eraclito aveva insistito sulla fallacia dei sensi, e riposto nel logos (o ragione del mondo) il principio rivelatore del perenne divenire delle cose sensibili; mentre la scuola eleatica, con Parmenide segnatamente, rilevava che dove i sensi ci offrono la molteplicità e mutabilità delle cose, solo la conoscenza razionale ci conduce a scoprire la sostanziale unità e immutabilità dell'essere. E se Empedocle affermava che la verità reale risulta da una affinità o similarità dell'intelletto conoscente con la cosa conosciuta, Anassagora invece concludeva che solo il nous o la ragione, come è il vero principio ordinatore del mondo esterno, così è la facoltà direttiva e normatrice della conoscenza interiore.
Le contraddizioni fra i risultati delle speculazioni dei fisici presocratici non potevano apparire più manifeste; e la discussione passando dall'oggetto al soggetto non approdava a minori incertezze circa gli elementi costitutivi della conoscenza umana e il valore di essa. La illazione critica che ne trassero i Sofisti, relativistica segnatamente con Protagora (homo mensura) e totalmente negativa con Gorgia, metteva in forse ogni distinzione tra vero e falso, diffondeva il dubbio sull'equivalenza delle più opposte opinioni e l'indifferenza circa le più fondamentali credenze intorno al bene e alla giustizia, non lasciando adito se non all'opinabile e alla persuasione conseguita con l'abilità dell'arte oratoria. A fronteggiare questo invadente scetticismo, Socrate si accinse col determinare gli elementi permanenti della conoscenza umana. Nel dialogo socratico, espresso da Senofonte e da Platone, il protagonista vien dimostrando che i concetti non son già fenomeni fluttuanti come li rappresentavano i sofisti, ma che al di sotto delle variazioni nell'uso di un termine vi è un sostrato permanente e comune. Cercare traverso a queste varietà di significati nell'uso popolare e nelle variabili opinioni l'unità soggiacente (τί ἐστι), tale è il metodo dell'induzione socratica, che mira a formare una definizione (del bello, della virtù, della giustizia, ecc.), in cui i collocutori siano costretti a consentire.
Socrate così contrastava all'insegnamento scettico e negativo dei sofisti. Se non che, prima che si chiudesse così eroicamente la sua vita, altre più gravi forme della critica sofistica eran sorte, e il nominalismo e l'individualismo erano divenuti le dottrine correnti: di carattere logico nella scuola megarica, e di opposte applicazioni etiche nella scuola cinica e cirenaica; l'una delle quali riponeva nella virtù personale ed autonoma, l'altra nel piacere individuale il fine proprio della vita. Occorreva elevare perciò il concetto socratico a un valore di realtà obiettiva e sostanziale, e a ciò intese l'opera speculativa di Platone. In un notevole luogo della Metafisica (I, 6,987 a 29 segg.; cfr. Plat., Cratyl., 439 c), A. illustra la genesi della dottrina platonica delle idee. Le conseguenze sensistiche del mobilismo eracliteo indussero Platone a postulare una teoria razionale della conoscenza, in un modo analogo a quello con cui i resultati empirici della critica dell'Hume, svegliando il Kant dal suo "sonno dogmatico", lo persuasero a cercare un fondamento indipendente dall'esperienza onde spiegare l'esperienza medesima. La dottrina di Eraclito può bene applicarsi al mondo sensibile, fenomenico ed instabile. Ma se si dà verità di conoscenza, questa deve riferirsi a una realtà oltresensibile, e non individuale ma universale, ed avente in sé la ragione della propria esistenza e necessità, cioè in qualche cosa di per sé sussistente, e trascendente la mutevole varietà dei fenomeni.
Ora dalla universalità nasce la correlazione delle idee, negata da molte scuole del tempo. La dialettica è appunto quella disciplina che indaga la somiglianza e la differenza fra le cose nei loro esemplari ideali, combinando la sintesi con l'analisi, la definizione con la divisione, ricercando l'unità del molteplice, e accogliendo questo nella sua ideale unità. La quale dottrina di realtà e di conoscenza ha, per Platone, i suoi più varî riflessi nel mondo morale, ch'egli lumeggia variamente nei suoi dialoghi, e segnatamente nella Repubblica e nel Fedone.
Ma quanto Platone insisteva sulla necessità degli universali sì per la conoscenza sì per dar fondamento alla realtà del mondo sensibile, altrettanto lasciò nell'ombra le relazioni che corrono fra i due mondi, l'intelligibile e il reale, l'universale e le cose particolari. A colmare questa lacuna intese principalmente il pensiero di A. Dove Platone si argomenta di interpretare l'individuo per via dell'universale, A. tende a svolgere l'universale dall'individuo concreto, che se non è il primo nella realtà, è il primo e certo per la nostra conoscenza. L'amore di A. per il concreto appare in ogni parte del suo grandioso edificio. Nella scienza egli muove sempre, come avvertimmo, dai principî proprî ad ogni ordine di fatti. Nella logica sillogistica il termine medio congiunge vitalmente l'universale astratto col termine concreto; nella metafisica, è il nodo vitale (σύνολον) della materia di per sè indeterminata, e della forma in sè stessa universale; nella Psicologia, l'anima è considerata non come armonia delle parti o come un'astrazione numerica, bensì come atto vivo del corpo organico; nell'etica, il fine della vita non è né l'idea assoluta del bene, né l'angusto individualismo dei cinici, ma l'attuazione e l'esplicazione della piena natura umana nella sua attinenza con la vita sociale.
Ma se A. si distacca dal maestro circa l'attinenza fra le idee e le cose (e vedremo più oltre i punti essenziali della critica delle idee platoniche), nella sostanza gli è più vicino che non creda. Concorda con Platone nel concetto della scienza, la quale ha per oggetto l'universale, che è il vero essere, e mira in ultimo alla ricerca dei principî o delle cause prime. E poiché ha per contenuto suo il necessario, essa si distingue, come per Platone, dall'opinione la quale versa nell'accidentale e nel mutevole, e dall'esperienza sensibile che si appaga del fatto esistente o del che (ὅτι), dove la scienza ricerca il perche (διότι). Ciò che non toglie, per lui, che ove non sia possibile conseguire il certo, il sapere umano debba contentarsi del probabile (τὸ ὡς ἐπὶ τὸ πολύ ). E anche se il metodo della ricerca aristotelica procede inversamente da quello platonico, cioè induttivamente, e risolvendo l'individuo nell'universale, tuttavia l'opera sua non è se non una vasta e rigorosa applicazione ad ogni ordine di realtà, naturale e umana, dei principî dell'idealismo platonico; perché appunto l'universale o l'idea si avvera e si attua in tutti i fenomeni particolari. Per quanto poi A. si adoperi a ricongiungere la materia e la forma, la potenza e l'atto, il sensibile all'intelligibile mal separati da Platone, gli riesce in ultimo impossibile il raggiungere l'unità reale e vitale dell'idea e del fenomeno. Onde se, da un lato, l'opera di A. si presenta come compimento dell'idealismo platonico, dall'altro ne e anche il termine finale (Zeller); e segna l'ultimo conato del concettualismo ellenico verso quella unità del pensiero e dell'essere, che è il problema ripreso in esame dall'idealismo moderno. Ancorché A. abbia insistito, contro Platone, sull'immanenza dell'idea nelle cose, il suo pensiero, nei risultati finali, non riesce a sciogliersi dalla trascendenza platonica: anche se non si deve credere con qualche critico (Teichmüller) che egli l'abbia piuttosto accentuata che superata. E invero eccede il Goethe quando, pensando senza dubbio alla figurazione della Scuola d'Atene di Raffaello, dove troneggiano i due maestri, con opposti atti significativi delle loro contrarie tendenze spirituali, scrive che Platone accenna al cielo, disdegnoso della terra mutevole, con desiderio appassionato della sua patria di origine, tendendo solo all'eterno, al buono e al vero, mentre A. guarda alla terra, dove opera e crea come un costruttore che raccolga e ordini i materiali per edificare su largo fondamento la sua piramide. Giudizio eccessivo, poiché se per Platone la materia è realtà puramente negativa e assoluta privazione (στέρησις), mentre per A. è disposizione a ricevere l'idea come sua forma, e potenza che si attua, anche per A., non meno che per Platone, la vera e originale essenza delle cose è pur sempre l'universale o l'idea, che è appunto , "prima per natura", cioè in sé stessa, di fronte all'individuo, che è primo solo "per noi". Onde non solo nell'idea è la sostanza vera dell'essere, ma anche il vero termine e valore della scienza; ancorché A. potesse sentirsi proclive per sua natura a riconoscere negl'individui la prima sostanza. Il fondo dell'aristotelismo è, perciò, idealismo costruttivo. E questo spiega perché, se platonismo e aristotelismo prevalsero con alterna vicenda nel pensiero cristiano, l'uno nell'età patristica, l'altro nella scolastica, gli umanisti del Rinascimento, sulle orme dei neoplatonici, mirarono poi a rilevare non tanto il dissenso quanto il consenso, e l'unità essenziale dei principî di quei due sovrani rappresentanti del pensiero classico.
Vita e scritti di Aristotele. - Delle antiche biografie di A. non ci rimangono se non pochi frammenti nelle notizie contenute in Diogene Laerzio (V, 9-10) e nella epistola di Dionisio di Alicarnasso ad Ammeo (I, 5); le quali notizie, poiché risalgono all'attendibile autorità del cronista Apollodoro (II sec. a. C.), ci recano alcuni dati sicuri sulla vita esterna di A. Ma per quel che riguarda più precisi ragguagli su di essa, noi siamo ridotti o a prestar fede a tardi e favolosi aneddoti, o ad accontentarci d'incerte congetture; talché insufficienti informazioni abbiamo sopra eventi importanti di quella ricca vita, come sulle relazioni di A. col suo maestro o col regale suo discepolo Alessandro, sui motivi che lo indussero a lasciare Atene nel 347 dopo la morte di Platone, e a ritornarvi solo dopo dodici anni; e così sopra molti altri punti.
Egli nacque a Stagira (città della Penisola Calcidica dipendente dalla Macedonia, distrutta da Filippo e poi riedificata da lui per consiglio di A.) nell'anno stesso (384 a. C.) in cui nacque Demostene; e morì, come Demostene, nel 322 a. C.: talché queste figure massime della cultura di quel tempo, e forse politicamente avverse (se è vero che A. in Atene appartenesse al partito macedonico), coincidono quanto ai termini cronologici della loro esistenza mortale. Da una famiglia di medici, che si vantava di discendere da Esculapio (Asclepiadi della Scuola di Coo), e dal padre Nicomaco medico di Aminta e di Filippo, gli derivò probabilmente in parte la erudizione naturalistica e biologica, manifesta nei suoi trattati. E certo la professione paterna lo pose in rapporto con la corte macedone: circostanza, questa, di gran momento per la sua sorte futura. Della sua prima educazione, dopo la morte del padre, affidata a un parente, poche e mal sicure notizie ci sono pervenute. Secondo una tradizione attendibile, passò ad Atene ed entrò, diciassettenne, nella scuola di Platone dove rimase venti anni, fino alla morte del maestro (347 a. C.), che usava chiamar lui "intelletto disputativo", e la casa da lui abitata "la casa del lettore (o dell'erudito)". Meno credibili sono altre tarde notizie circa un supposto violento dissidio fra lui e il vecchio capo della scuola, durante il periodo del discepolato e degli studî. Che fra due nature così originali e diverse qualche vivace dissenso si manifestasse, è ben possibile. Ma se A. nei suoi scritti combatte risolutamente, e talora anche ingiustamente, molte dottrine platoniche, la riverente amicizia che egli ha serbato sempre al grande maestro è attestata dal famoso luogo dell'Etica nicomachea (I, 4,1096 a 11 segg.) sull'idea del sommo bene, il cui senso venne compendiato nel motto, passato poi nella tradizione delle scuole: Amicus Plato, sed magis amica veritas. Lo confermano alcuni versi di una sua elegia a Eudemo, che certamente sono un omaggio reso a Platone (cfr. Chiappelli, L'Elegia di A. ad Eudemo, in Filosofia delle scuole italiane, 1884: e von Wilamowitz, A. und Athen, Berlino, 1893, II, p. 413 segg.), e il fatto che egli dopo la morte di Platone si recò, in compagnia di Senocrate, uno dei più fidi condiscepoli, presso Ermia, signore di Atarneo nell'Asia Minore, forse perché era venuta meno per lui la ragione di rimanere in Atene, o per il desiderio, naturale in lui così avido di sapere, di conoscere nuovi paesi e nuove cose. Dopo tre anni di soggiorno presso Ermia, di cui A. sposò la nipote e figlia adottiva, e alla cui memoria poi elevò in Delfi una statua e dedicò un peana, assoggettato Ermia al dominio persiano, A. si ritirò in Mitilene nell'isola di Lesbo. Due anni dopo fu chiamato da Filippo di Macedonia per l'educazione del figlio Alessandro. Sono così dinnanzi, l'uno all'altro, il genio speculativo e il genio operativo e politico più grande del tempo, se non di tutti i tempi. Si è detto che A. preparò l'eroe ai suoi futuri destini: e se il Milton cantò che A. lo sospinse alla conquista del mondo, il Hegel aggiunse che questa opera educativa è l'esempio più atto a confutare l'accusa d'inutilità pratica mossa alla filosofia. Se non che la filosofia sarebbe poco fortunata se non avesse migliore testimonianza della sua efficacia che il carattere di Alessandro. Il Grote ha messo bene in luce, nonostante la tentata difesa dello Zeller, i tratti selvaggi e feroci della sua condotta in Grecia e in Asia. E se il principe macedone poté derivare dal grande maestro il desiderio di cultura letteraria, e specie il culto di Omero, ed anche A., per sua parte, poté riceverne aiuti per le sue vaste ricerche naturali, certo è che negli ultimi anni A. cadde in disgrazia del regale alunno, già asceso al trono; e forse avrebbe corso pericolo se non si fosse già allontanato da Atene, tornandovi poi circa il 335, quando vi aperse una scuola propria e diversa dall'Accademia, nel Liceo, svolgendo insieme una prodigiosa opera di scrittore, dacché i numerosi scritti che di lui ci rimangono sembra siano stati composti, almeno la maggior parte, in questo periodo dell'insegnamento. E composti, si noti bene, con unità sistematica di disegno, e non come gli scritti di Platone, che recano manifeste le tracce dello svolgimento del suo pensiero; nonostante che recentemente lo Jaeger abbia tentato, non senza genialità, di dimostrare uno svolgimento consimile anche in A. I cui scritti ci dànno, quindi, l'impressione di aver servito di guida all'insegnamento, come risulta dalla chiusa dei Topici (184 b 3 segg.); o di esser stati più volte rimaneggiati dagli uditori. Ad ogni modo ci dimostrano che l'insegnamento di A. non ebbe, se non nell'età giovanile di lui, la forma dialogica di Platone: ma che, come avvenne anche al maestro solo nella sua tarda età, ebbe invece il carattere di un'esposizione continuativa e di una trattazione dottrinale. Per dodici anni A. si poté consacrare, favorito dall'aiuto di Alessandro e del suo governatore Antipatro, a questa feconda opera di maestro e di scrittore; quando, nel 323, l'improvvisa morte di Alessandro, suscitando l'ostilità in Atene contro tutti i sospetti di aderire al partito macedone, lo costrinse, in seguito all'accusa mossagli di ἀσεβεια (irreligiosità o empietà), ad esulare a Calcide nell'Eubea, dove morì l'anno appresso; non senza aver provveduto a dividere la successione sua nello scolarcato del Liceo ateniese fra i due prediletti discepoli Teofrasto di Lesbo ed Eudemo di Rodi quando, con graziosa arguzia, fattisi recare, durante l'ultima malattia, due calici, l'uno di vino di Lesbo e l'altro di vino di Rodi, dopo averli assaggiati, esclamò: "Buoni ambedue, ma più dolce è il vino lesbio".
Le opere che ci sono rimaste di A., oltre alle molte perdute di cui si hanno sparse notizie e scarse reliquie, ci fanno fede del largo materiale scientifico, storico e letterario di cui egli poté disporre. Due testi recentemente scoperti, la Costituzione di Atene, pubblicata nel 1891 dal Kenyon e largamente illustrata dal von Wilamowitz, che ci dimostra quale larga conoscenza egli avesse delle leggi delle città greche, e gli 'Ιατρικά di Menone suo discepolo, pubblicati nel 1893 dal Diels, che ci dànno un'idea della scienza medica coltivata nella sua scuola, ne sono un vivo documento. Ma anche la collezione attuale delle opere aristoteliche, ossia il cosiddetto Canone aristotelico nel suo complesso, e specialmente gli scritti sugli animali, bastano a farci comprendere di quanti aiuti egli si dové giovare per estendere le sue osservazioni e la sua erudizione L'ingente mole di questi scritti che costituiscono il Corpus Aristotelicum non comprende una serie di altri scritti di carattere popolare, da A. stesso citati come οἱ ἐξωτερικοὶ λόγοι, o ἐκδεδομένοι λόγοι, che sono andati perduti, salvo alcuni frammenti (raccolti dal Heitz e dal Rose). Ad essi appartenevano i Dialoghi (Diels); e ad essi debbono riferirsi le lodi di Cicerone, che ci parla della incredibilis suavitas dicendi e dell'aureum orationis flumen di A., mentre le opere che ci sono pervenute, salvo alcune poche parti, non presentano affatto questi caratteri d'arte. Sono, invece, composizioni rigidamente scientifiche, spesso aride nella loro brevità talora incisiva ed ellittica, piene di ripetizioni (specialmente la Metafisica), di richiami, di trasposizioni di parti e di lacune. Questa condizione di fatto può in parte derivare dalla loro destinazione (note per le lezioni, appunti di discepoli, testi per uso mnemonico), in parte dalle fortunose vicende che ebbero gli scritti originali del maestro, dopo la morte di Teofrasto, che da lui li aveva ereditati; vicende narrateci da Strabone (XIII,1,54), e, con sostanziale concordia, da Plutarco (Sulla, 26). Che pei due secoli successivi alla morte di Teofrasto (dal 300 al 100 a. C.) si abbiano scarse notizie degli scritti aristotelici, non si può revocare in dubbio. E il tentativo dello Zeller di ricercare le tracce della conoscenza di quegli scritti per parte dei Peripatetici e degli Stoici in quel periodo, prova solo che non mancò anche in quel tempo la conoscenza delle dottrine di A. che si poteva avere o dalle trascrizioni dei testi originali o dai ricordi dell'insegnamento di A. stesso e di Teofrasto. Certo è che in quel periodo le altre scuole rivali prevalsero sulla peripatetica, rimasta quasi nell'oscurità, e che lo stato attuale degli scritti spesso frammentario, lacunoso e incoerente può, almeno in parte, derivare (checché ne dica il Deussen), anche da quelle vicende, e dall'immatura morte del maestro, che ai suoi scritti non poté dare ordine e compimento.
Comunque sia, i quarantasei scritti che compongono la collezione attuale presentano una generale distribuzione e un piano così coordinato di dottrine, che, pur pregiando il tentativo dello Jaeger e dello Stenzel d'una ricostruzione genetica del sistema, ci obbliga a seguire nell'esposizione il disegno, nel suo complesso organico, chiaro e ben delineato, del pensiero aristotelico, quale risulta dalla distribuzione degli scritti; i quali, richiamandosi l'un l'altro, vogliono, per questi medesimi espressi riferimenti, esser considerati parti di un unico tutto. Se potessimo seguire l'ordine cronologico della composizione degli scritti aristotelici, dovremmo, dopo gli scritti giovanili, porre per prime le opere retoriche e le logiche; quindi le morali e politiche; in terzo luogo i trattati fisici, e terminare con la metafisica; sebbene quest'ultima probabilmente fosse stata in formazione lungo tutta la vita di A. Ma, come abbiamo detto, l'unità sistematica che informa tutta l'opera di lui pervenutaci, ci costringe a seguire con l'esposizione le linee organiche del grandioso disegno. Ora, nell'attuale enciclopedia aristotelica, noi possiamo discernere quattro gruppi o punti fondamentali:1. gli scritti e le dottrine logiche che servono come d'introduzione generale a tutto il sistema; 2. la filosofia speculativa, il cui fine è il supremo vero; 3. la filosofia pratica, il cui fine è l'azione (ερξον); 4. la filosofia creativa o poetica, il cui termine è il prodotto artistico (ποίησις). Questo risulta dall'esplicita dichiarazione aristotelica (Met., VI,1,1025 b 25 segg.; II,1,993 b 20; De caelo, III, 7, 306 a, 16). Gli ultimi tre gruppi si ripartiscono così: la filosofia speculativa comprende la filosofia prima (chiamata anche da lui "teologia"), la matematica e la fisica (Met., VI, 1, 1026 a 18 e altrove); la filosofia pratica si distingue in etica, economica e politica (Eth. Nic., VI, 8,1141 b 30; Eth. Eud.,1,8,1218 b 13); la filosofia poetica considera l'arte e le forme specifiche della poesia e della retorica (Rhet., I, 11,1371 b 4).
A questi quattro ordini di scienze, le scienze formali e strumentali, le scienze teoriche, le pratiche e le poetiche, rispondono quattro gruppi di scritti; in primo luogo gli scritti logici, che i tardi commentatori, secondo lo spirito stesso di A., chiamarono l'Organo, ossia lo strumento generale della scienza filosofica, comprendente:1. il libro delle Categorie o predicamenti (apocrifo è quello aggiunto dei Postpredicamenti); 2. il libro De interpetratione (περί ἑρμηνείας), riguardante le proposizioni e i giudizî: forse trascrizione di scolari; 3. i Primi analitici, sul sillogismo (la logica elementare delle scuole); 4. i Secondi analitici, i cui libri corrispondono alla nostra metodologia; 5. otto libri dei Topici o della prova; 6. gli Elenchi sofistici, o le false argomentazioni, che devono servire di appendice al precedente.
Il secondo gruppo comprende la Metafisica, la Fisica e la Psicologia. Quel convoluto di parti non coordinate che costituisce l'opera più grandiosa di A., a cui egli non poté dare l'ultima mano, prese forse il titolo dalla distribuzione dei libri aristotelici fatta da Andronico di Rodi, nella quale quei libri venivan dopo i libri fisici (τὸ μετὰ τὰ ϕυσικὰ sc. βιβλία: vedi fortuna delle parole!). Così come ci è pervenuto il testo, e quale lo conobbero gli antichi, consta di 14 libri, che trattano dei principî universali dell'Essere, di ciò che per A. è πρότερον ϕύσει. Perciò la scienza suprema che ne tratta è la Filosofia prima; ma come quella che ha che fare con ciò che vi è di più divino nel mondo, non solo è la più degna (τιμιωτάτη) fra le scienze, ma si può chiamare Scienza divina (ϑεολογικἠ). Queste varie ma coerenti designazioni rendono vano il tentativo del Natorp, ripreso recentemente dallo Jaeger, di distinguere due parti, o successive redazioni, nella Metafisica, presentata ora come dottrina ontologica, ora come scienza teologica. Ma senza dubbio l'opera come noi l'abbiamo comprende una parte fondamentale, il Libro I, col III e IV, e infine dal VI al IX. Il II libro (α) è una posteriore compilazione; il V, o delle definizioni, è forse un compendio per uso della scuola. Il X libro tratta dell'uno e dei molti, dell'identico e del diverso, e sta da sé: l'XI è per la maggior parte apocrifo. Il XII è la conclusione grandiosa della Metafisica, dove si discorre del supremo e immobile motore, in pagine che hanno avuto lunga eco, e non ancora spenta, nei secoli. Seguono a questo, ma non vi si coordinano, il XIII e XIV, che contengono una critica delle idee platoniche e della dottrina dei numeri, la quale è soltanto una ripetizione, spesso letterale, d'alcuni capitoli del primo libro.
La Fisica, in 8 libri, dopo un'introduzione storica, come suole A., tratta: (I) della natura e del concetto del corpo e del movimento (II-III), dello spazio e del tempo (IV), e delle forme del movimento (V-VIII).
Il Del cielo, in 4 libri, discorre della composizione del mondo, della sua eternità e limitazione, degli astri e loro moti, della terra, della gravità dei corpi, ecc.
Il Della generazione e corruzione, in 2 libri, ragiona dell'origine dei quattro elementi, degli stati diversi della materia (caldo e freddo, umido e secco, ecc.).
La Meteorologia, in 4 libri, si occupa dei pianeti, delle comete, delle meteore, dei metalli, dei minerali. Non aristotelico, ma rivelante dottrine stoiche, è lo scritto περί κόσμου.
Degli scritti sulla vita organica, i 10 libri sulla Storia degli animali, o, meglio, ricerche sugli animali, trattano dell'anatomia e fisiologia comparata delle varie specie animali; a cui si congiungono i 4 libri sulle Parti degli animali, i 5 libri sulla Generazione degli animali, sul Volo degli animali. Apocrifa è la dissertazione sulle Piante.
Ad essi succedono logicamente i 3 libri Sull'anima, il cui testo presenta varie redazioni in alcune parti (Torstrik), e a cui fanno seguito i cosiddetti Parva naturalia, una serie di brevi trattati sulla sensazione, sulla memoria, sulla veglia, sul sonno e i sogni, ecc.
Al terzo gruppo appartengono le opere sulla morale, la politica e l'arte: e cioè i dieci libri dell'Etica Nicomachea (probabilmente perché dedicati al figlio Nicomaco) che trattano della felicità (I), della virtù (II), della libertà volitiva (III), delle virtù morali (III, 8-15, IV), della giustizia (V), delle virtù razionali (VI, VII), dell'amicizia (VIII-IX), della vita contemplativa (X). Elaborazione di questo trattato aristotelico per opera di Eudemo sono i 7 libri dell'Etica Eudemea, di cui i libri IV, V e VI sono identici a Eth. Nic., V, VI e VII. Tardo compendio di questo secondo trattato, e in parte dell'originale aristotelico, sono i due libri della Morale grande; quasi sommi capi della morale, come le Κύριαι δόξα, della scuola epicurea.
Gli otto libri della Politica, opera rimasta incompiuta, trattano della famiglia (I), delle dottrine sullo stato (II), dell'essenza dello stato monarchico (III), delle altre forme di governo (IV-VI), dell'ottimo stato e dell'educazione civile (VII-VIII). Perdute, salvo pochi frammenti e il trattato della Costituzione di Atene, ritrovato, come dicemmo, nel 1891 in un papiro egizio, sono le 158 Costituzioni, cioè la storia delle costituzioni di stati greci e stranieri, che A. aveva compilata (Diog. Laerzio, V, 27).
I tre libri della Retorica (l'ultimo dei quali di dubbia autenticità) trattano del concetto, del fine e delle varie forme dell'eloquenza. Apocrifa è la Retorica ad Alessandro.
Incompiuto è rimasto il trattato dell'Arte poetica, sulla poesia e le sue specie, segnatamente la poesia tragica: opera che poco sembra sia stata conosciuta nella tarda antichità (ma, certo, nota ad Orazio), mentre nel Rinascimento e nell'età moderna ha acquistato una grande importanza nelle questioni letterarie e specie della letteratura drammatica..
Nessuno degli scritti di A. relativi alla storia della filosofia ci è pervenuto; poiché la dissertazione su Senofane, Zenone (o Melisso) e Gorgia non è che un lavoro d'un tardo peripatetico, compilato sopra antichi testi della scuola eleatica.
La logica. - Che A. sia il creatore della logica, o, come dice il Trendelenburg, l'Euclide della logica, è ben noto: ed egli stesso mostra di averne chiara consapevolezza (Soph. el., 34,183 b 16 segg.). La logica, come dice il Kant, dai tempi di A. non ha potuto fare alcun passo né avanti né indietro. Poiché, come essa indaga la congenita costruttività e l'ordine del pensiero, e perciò è una pura scienza a priori, così non abbisogna, come le altre scienze, delle progressive esperienze di molte generazioni; e ben può, al pari della geometria, essere costruita da una sola mente, e condotta a tale perfezione che la logica aristotelica è pressoché identica alla logica formale ancora oggi in uso; onde, salvo qualche parte speciale e qualche correzione, la logica delle scuole odierne è sostanzialmente quella di A., che egli non logica chiamò, ma analitica. Essa è una introduzione alla scienza e un corpo di regole che serve a ogni disciplina (Top., VIII, 14,163 b 11), come quella che esamina dapprima i concetti universalissimi da cui tutti gli altri dipendono, analizza le proposizioni e i giudizî, le forme e i modi del raziocinio o del sillogismo i fondamenti della prova, il ragionamento della probabilità e le fallaci argomentazioni. Analizzando il pensiero nei suoi elementi, cioè nei concetti, incontriamo quelle supreme categorie o predicamenti universali, che A. generalmente riduce a dieci, come termini distinti e presenti in ogni discorso: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il luogo, il tempo, la situazione, la condizione, l'attività, la passività, che si applicano a qualsiasi realtà (Cat., 4,1 b 25), e alle quali si arriva dal concreto per via di continuata astrazione (ἀϕαίρεσισ). Se non che questi generi supremi sono ben più che mere astrazioni. Poiché se l'individuo è il primo per noi, l'universale (τὸ κεαϑόλου) è il primo per natura, e quindi i concetti, specialmente i concetti universali, esprimono la vera essenza della realtà (Met., V, 7,1017 a 22). Questa realtà obiettiva non è propria solo dei concetti, bensì anche dei principî supremi del pensiero, immediatamente conosciuti e perciò indimostrabili, come quelli che sono il fondamento di ogni dimostrazione; il principio d'identità, di contraddizione, del terzo escluso, che costituiscono non solo regole fondamentali del pensiero, ma sono altresì leggi fondamentali della natura.
Non possiamo qui discutere né della riduzione, né della cosiddetta deduzione delle categorie aristoteliche. Quanto alla prima, basti osservare che nelle quattro ultime categorie verbali, la forma copulativa non esprime tanto concetti quanto le relazioni fra di essi, e sono quindi categorie di proprietà: mentre lo spazio e il tempo, come ha dimostrato il Kant, non sono concetti ma intuizioni, poiché le cose non dipendono da essi, ma sono in essi. Rimangono in piedi solo le quattro prime: o meglio, poiché la quantità e la qualità si riducono a proprietà della sostanza, l'essere in universale si determina o come sostanza, o come proprietà, o come relazione. Quanto alla cosiddetta deduzione, il tentativo di deduzione verbale o grammaticale del Trendelenburg e del Biese non esclude la deduzione del Prantl dall'attività varia della sostanza o dell'essere; ma è lecito dubitare se A. abbia o no inteso di darci una deduzione logica delle categorie, come ha fatto il Kant.
Le nozioni prese isolatamente non sono né vere né errate. Solo dalla combinazione delle idee in una proposizione nasce la loro verità o la falsità (De int.,1,16 a 12). Gli elementi di essa sono il nome sostantivo da un lato, e il verbo predicativo dall'altro: il nome esprime l'essere fuori del tempo, il verbo aggiunge la connotazione nel tempo (De int., 3,16 b 6). La combinazione delle parole dà luogo al discorso razionale (λόγος), che ha un significato non solo nel suo insieme ma altresì nelle sue parti. Le forme di esso son varie, ma la logica non considera se non la forma dimostrativa o indicativa, che sola esprime la verità o la falsità (Poet., 20,1457 a 23). Un semplice giudizio esprime quindi l'inerenza di una cosa in un'altra (De int., 5, 17 a 23), perchè la verità o falsità di esso è determinata dall'accordo o disaccordo suo coi fatti che rappresenta, in quanto una falsa proposizione unisce ciò che è diviso, o divide ciò che è realmente unito (ib., 9, 19 a 33). Così il giudizio è o affermativo (κατάϕασισ) o negativo (ἀπόϕασις); ciascuno dei quali può essere universale, o particolare, o indefinito (ib., 5, 17 a 7 segg; Anal. pr., I,1,24 a 16). I giudizî differiscono inoltre per la loro modalità, cioè secondo il grado d'inerenza del predicato nel soggetto, e così divengono o assertorî, o necessarî, o problematici (Anal. pr., I, 2,25 a 1 segg.).
Noi possiamo omettere tutta la teoria delle opposizioni e delle conversioni dei giudizî, perchè oramai nota nella logica comune, in cui essa è passata integralmente, salvo qualche piccola correzione nella dottrina della conversione negativa, portata dalla logica moderna. Giova osservare tuttavia il valore che A. attribuisce sempre all'universale, così nella teoria del giudizio come in quella del ragionamento. Caratteristico è già in questo senso che egli non procede, come noi, dal soggetto al predicato, ma invece dal predicato, come universale, al soggetto: e non dice S è P, ma P comprende S, o si predica di S. Parimenti il sillogismo è un discorso razionale ove, poste alcune premesse, ne segue per necessità, e in forza di quelle, alcunché di diverso o di nuovo (Top., I,1,100 a 25: Anal. pr., I,1,24 b 18); ma in esso l'elemento attivo è il termine medio che collega l'universale al particolare, e secondo la diversa sua posizione rispetto ai due estremi genera le tre ben note figure. La quarta figura, escogitata dal medico Galeno, non ha alcun valore argomentativo ed è, dice lo Schopenhauer, trovata a lume di naso. Al sillogismo che procede dall'universale al particolare, A. contrappone il pensiero inverso, seguito da Socrate ma solo da lui ridotto a forma logica, ascensivo dal particolare all'universale, che chiamò epagoge, da Cicerone non esattamente tradotta con induzione. Il suo valore per A. poggia sulla convertibilità dei termini: mentre per la logica moderna è il fondamento dei metodi sperimentali e acquista il suo valore o dalla convinzione dell'uniformità e costanza delle leggi naturali, o dalla necessità e universalità della sintesi a priori (Kant). Ora il sillogismo (deduttivo) e l'induzione corrispondono ai diversi aspetti dell'esistenza, o ai dwersi modi onde conosciamo le cose. In matematica il punto è assolutamente il primo (ϕυσει πρότερον), mentre la superficie o il solido sono primi rispetto a noi (πρὸς ἡμᾶς). Il sillogismo corrisponde al primo di questi aspetti ed esprime la legge di causa e d'effetto; dove l'induzione muove dai fatti della esperienza personale per risalire al principio (Anal. post., I, 2, 71 b 33; Top., VI, 4,141 b 6). La prova logica (apodissi) e in generale la conoscenza scientifica deve implicare la cognizione delle cause dei fenomeni, cioè delle leggi loro costanti. Perciò la cognizione vera e perfetta è cognizione per via di cause; e per questa sua necessità si distingue dalla mera opinione e dall'empirica, le quali non spiegano i particolari mediante l'universale. La stessa sensazione è circoscritta alle particolari impressioni, all'ubi e al quando: essa si limita al fatto (τὸ ὅτι) mentre la scienza ricerca il perchè (τὸ διόνι) e il che è la cosa (τί ἐστιν: cfr. Anal. post., II,1,89 b 23 segg). Ogni scienza ha tuttavia i suoi principî peculiari, che non si possono applicare ad altre; benché tutte quante esse dipendano dai principî supremi che governano tutto lo scibile. Ma come essi si ottengano, è il problema essenziale della gnoseologia aristotelica, che tuttavia vi rimane irresoluto. A. sembra, difatti, assegnare eguale importanza al senso e alla ragione nell'opera della cognizione. Né la teoria innatistica sull'origine delle idee, né quella che è stata detta poi genetica o empirica esprimono l'intero suo pensiero; e forse la più esatta espressione di questo è nella formula dataci da un peripatetico del Rinascimento, il Patrizi: cognitio omnis a mente primam originem, a sensibus exordium habet primum (cfr. Anal. post., II, 19,99 b 20 segg.). Potrebbe quindi sembrare ch'egli anticipi la sintesi a priori del Kant; se non che il pensiero è sempre per A., come per tutta la filosofia antica, dipendente dalla realtà, e le sue forme corrispondono ai gradi dell'essere. L'assolutezza e la necessità non sono mai creazioni del pensiero, bensì attributi dell'essere colti dal pensiero scientifico, che ha per contenuto suo ciò che non può essere altrimenti. Onde nella sua dottrina gnoseologica vi è quella oscillazione che ritroviamo poi nella sua ontologia o metafisica: poiché, da un lato, il conoscimento si svolge dalle impressioni del senso, che sono il primum per noi, ma non ci dànno mai la vera conoscenza, che è dell'universale; e, dall'altro, se la formazione delle nozioni generali procede dal meno al più estesi, la prova o dimostrazione scientifica non si ha mai, dacché il senso e l'opinione si riferiscono sempre al mutevole e al contingente, se non si procede dall'astratto al concreto, cioè dall'universale al particolare (Anal. poster., I, 13,81 a 38; ibid., 31;87 b 28; II, 19,99 b 32), perché tale è l'ordine obiettivo della realtà, che è l'argomento della metafisica.
La metafisica. - Come già per Platone (Theaet., 155 d), così per Aristotele l'impulso primo alla riflessione filosofica viene dall'ammirazione: cioè da quel sentimento di curiosità a cui il mito poetico dà il primo appagamento (Met., I,1,982 b 12). Se non che la speculazione filosofica propriamente detta comincia dove cessano le immagini e i simboli, e appare la luce dei concetti. I gradi però onde questa speculazione si svolge sono diversi. I primi filosofi furono filosofi della natura, che ricercarono solo le cause o i principî materiali della realtà (ib., 983 b 7 segg.); a essi seguirono i pitagorici che sostituirono le loro astrazioni matematiche, e non cercarono la sostanza delle cose nelle varie loro qualità o elementi, bensì nei loro rapporti quantitativi. Al puro pensiero, come espressione dell'essere, si elevarono gli Eleati e Anassagora; ma ben più compiutamente di essi Socrate, che per via d'induzione e analogia ricercò nei concetti generali la ragione vera ed umana della realtà. Ora la filosofia prima, come la chiama A., che precede ogni indagine fisica, o la integra come suo ultimo compimento (metafisica) è quella disciplina che ricerca i primi principî o le ragioni ultime delle cose; o più propriamente studia l'essere in quanto tale, e nei suoi essenziali attributi; come la matematica, oltrepassando la fisica, considera l'essere nelle sue correlazioni quantitative (numero, linea, e in generale misura). Per il suo carattere universale, quindi, la metafisica si ravvicina alla dialettica e alla sofistica; salvo che differisce dall'una per il metodo, dall'altra per i suoi intenti morali; poiché se la dialettica è una disciplina che tenta (πειραστική), mentre la filosofia definisce e conclude, la sofistica è una parvenza di conoscimento senza vera realtà (Met., III, 2, 1004 b 17 segg.; Rhet., I,1,1355 b 17). La saldezza di questa scienza suprema deriva, quindi, anche da ciò, che gli assiomi più certi della scienza sono da essa riguardati come proprietà di ogni esistenza. Onde A., contro i seguaci di Eraclito e di Protagora, al pari di Platone, difende il principio di contraddizione e del terzo escluso, dimostrando che la loro negazione e la dottrina protagorea della totale relatività è autodistruttiva, in quanto, negando quegli assiomi, si arriverebbe all'identità di tutti i fatti, all'equivalenza di tutti i giudizî, e quindi all'indifferenza nella valutazione dei principî che governano la condotta e la vita.
La questione fondamentale di una scienza suprema dell'essere è questa: che cosa dobbiamo intendere per vera realtà o sostanza? Questo problema si era proposto Platone, e aveva cercato di risolverlo affermando un elemento universale nella conoscenza e nell'esistenza, che è l'idea, la sola e vera e immutabile realtà al di là dei mutevoli fenomeni sensibili. Egli, facendo sua la dottrina eraclitea dell'eterno fluire delle cose sensibili, ne aveva tratto la conseguenza dell'impossibilità di conoscerle. Ora, se non si vuol rinunciare scetticamente a ogni possibilità di conoscere, bisogna pur consentire che la conoscenza razionale è possibile solo in virtù di certi principî permanenti che esprimono l'essere per sé stesso (αὐτὸ καϑ' αὐτό), facendo risalire i concetti socratici alla realtà superiore delle idee che li rendono possibili. Così A. si apre la via a costituire i fondamenti della sua dottrina movendo dall'analisi critica di questa teoria platonica delle idee sostanziali, delle idee ipostasi, sia nel rispetto fisico, sia nel rispetto psicologico, sia, infine, nel rispetto metafisico (Mel., I, 9,991 a 9 segg.; XIII, 5,1079 b 12 segg.).
Le idee platoniche non giovano a spiegare - separate come sono da essa - la vita e i mutamenti della natura; né contribuiscono a illustrare nelle cose sensibili le cagioni del loro movimento e delle loro alterazioni. A ciò non valgono né la partecipazione (μέϑεξις), né la imitazione (μίμεσις), né la somiglianza (ὁμοίωσις), né le altre metafore di cui si vale Platone. Né le idee platoniche meglio valgono a spiegare la conoscenza, la quale si riferisce all'essenza (οὐσία) che è nelle cose, non già al di fuori di esse. E, duplicando le cose nelle idee, non è a credere che quelle si possano meglio conoscere; quasiché si credesse di fare un computo più speditamente, moltiplicando i numeri da calcolare. Infine, poiché le idee debbono rappresentare l'elemento stabile nella conoscenza, si dovrebbero dare idee non solo per quanti sono gli ordini di natura, ma altresì per le opere delle arti, per tutti i minimi e insignificanti oggetti, ciò che i platonici non consentono.
Più gravi sono le difficoltà circa l'incapacità delle idee a spiegare la realtà stessa. Se le idee sono la sostanza vera delle cose, non possono essere separate dalle cose stesse che solo, per Platone, ne sono partecipi. E inoltre, come notammo, le relazioni fra le idee e le cose rimangono inesplicate; perché il designarle quasi loro esemplari o archetipi, se può essere una bella imagine, non giova a spiegarne in concetto la realtà. Che se una idea rispetto a un oggetto è genere, per un altra classe è poi specie, e la stessa idea verrebbe a essere perciò insieme archetipo ed ectipo (cioè modello e copia: Met., I, 9,991 a 20 segg.). E similmente, poiché fra l'idea e la cosa intercede una somiglianza, si viene a formare fra esse un quid intermedio che si può moltiplicare all'infinito: e fra l'uomo individuale e l'idea dell'uomo (o l'uomo in sé) sorgerà sempre un "terzo uomo", e poi un quarto e così via.
Questa critica, che deriva da elementi che A. accoglie anche da scuole contemporanee (il sofista Polisseno, i megarici, i cinici) non rimase ignota a Platone né infruttuosa. Alcuni dialoghi dialettici che sembrano appartenere all'ultimo periodo della sua attività, come il Sofista e il Parmenide, riproducono questa critica aristotelica, e tentano una replica o un'ulteriore dilucidazione, e in ogni modo accennano a una rielaborazione della teoria delle idee-sostanze, che valga meglio a illustrare l'efficienza delle idee rispetto al mondo sensibile. Conviene d'altra parte riconoscere che la critica aristotelica non coglie sempre nel segno: e in ogni modo riesce, come dice il Deussen, piuttosto a una correzione che a una negazione delle idee platoniche. La risposta che A. dà allo stesso quesito fondamentale, che è presupposto dalla costruzione platonica, cioè che cosa è la vera realtà, differisce più formalmeute che sostanzialmente dalla risposta platonica. Il grave difetto che A. vede nelle idee platoniche è la loro trascendenza rispetto al mondo sensibile, che le rende inefficaci a spiegarne la esistenza e la vita. A. ne conclude che se la scienza è diversa dalle cognizioni empiriche in quanto ricerca l'elemento universale e costante in mezzo alla varietà e variabilità innumerevole dei singoli fatti, l'idea unica non deve riporsi al di fuori del molteplice, bensì deve essere presente e immanente nei fenomeni sensibili. Perciò la sostanza reale (οὐσία) non si deve cercare nell'universale astratto, ma nell'individuo concreto (Met., VII, 13,1038 b 9).
Se non che la teoria aristotelica della sostanza non solo è meno distante da quella del maestro di quanto A. crede e vuole, ma non è poi sempre coerente a sé stessa: e mentre la dottrina delle Categorie talora inclina a quello che poi dalle scuole fu detto nominalismo, la dottrina della Metafisica oscilla fra il realismo e il concettualismo (Wallace). Da un lato, la scienza e la definizione mirano all'universale; dall'altro, la sostanza è da cercarsi nel singolo. E questa incertezza non è qui che in parte eliminata se si considera, con A., la sostanza come esistenza concreta (σύνολον) in cui l'universale s'individua, o l'individuo si universalizza per via delle sue molteplici relazioni. Così considerata, la sostanza segna il trapasso dalla materia alla forma, dalla potenza all'attualità. E se la conoscenza scientifica e la dimostrazione procedono dall'universale astratto all'individuale concreto in cui si attuano (Phys., I,1), l'esistenza reale non è che una graduale evoluzione o l'adempimento d'un originale principio astratto (Met., VII 11,1037 a 29; 13, 1038 b 2) da un fondo concreto, che è pur la materia. Ora il termine e il concetto di materia (ὕη) ha per A. quattro principali significati i quali tendono a fondersi l'uno nell'altro. Essa è dapprima il sostrato indeterminato (ὑποκείμενον) di tutte le varie determinazioni del nascimento e della decadenza (De gen. et corr., I, 4,320 a 2: Phys., I, 9,192 a 31); in secondo luogo è la potenza nella sua capacità di tradursi in atto (Met., VIII, 1, 1042 a 27); in terzo luogo esprime una condizione di realtà indeterminata e informe (Met., VII, 3, 1029 a 20); infine, poiché è indefinita e accidentale, la ὕλη è privazione o negazione (στέρησις). Se non che la materia ultima, in quanto è suscettiva di ogni forma (εἷδος), nel suo fondo s'identifica con questa, pur non essendo formata in atto (Met., VIII, 6,1045 a 33). Abbiamo quindi due contrapposti: di materia e di forma (specie), e di potenza e di atto (ἐνέργεια); l'uno dei quali è di natura statica, mentre l'altro ha carattere dinamico e progressivo; finché il processo di attuazione non termina e si conclude in uno stato di perfezione che è l'ἐντελέχεια (Met., IX, 6,1048 a 30 segg.). Distinzione, quest'ultima, più che di natura logica, di ragione sperimentale: poiché l'esperienza ci illustra qual divario corra fra l'architetto (o ideatore) e il costruttore (o esecutore), o quella fra chi dorme e chi è desto. Ma è una dottrina fondamentale per A., questa, del continuo svolgimento dal possibile all'attuale; fra ciò che non è ancora ma ha il potere di divenire, e ciò che realmente è. Con essa egli mirava a risolvere la difficoltà degli antichi fisici circa le origini prime e le relazioni fra l'uno e il molteplice, che avevano condotto la sofistica a negare la possibilità di ogni predicazione. Mentre egli però riconosce la genesi delle cose per via di evoluzione graduale, non mancò di distinguere lo studio di un oggetto dal punto della visuale storica da quello che ne considera la natura costitutiva; poichè mentre nell'ordine del tempo la forma imperfetta precede l'attività realizzata in una condizione di perfezione, in ordine al pensiero e all'esistenza reale (da cui sempre il pensiero dipende, per gli antichi), il perfetto precede sempre l'imperfetto, il tutto è prima della parte, e ciò che è attuato prevale sul possibile. Il che non toglie che nella pienezza dell'essere e del concetto il processo dinamico e genetico non coincida coll'essenza vera della cosa, poiché ogni evoluzione è guidata da un'idea. Tale è, secondo l'interpretazione del Prantl (cfr. Wallace), il significato del così oscuro e discusso termine aristotelico τὸ τί ἦν εἶαι, quasi equivalga a idea originale, creativa, e costitutiva insieme della cosa. A. stesso, difatti (Met.. VII, 7,1032 a 1), lo pone espressamente sulla stessa linea dell'altro: πρώτη οὐσία (essenza originaria).
Questa medesima analisi aristotelica dell'essere è espressa, sotto un altro aspetto, nella dottrina delle quattro cause; cioè dei principî che governano l'esistenza, l'origine, o la cognizione di un oggetto (Met., IV,1,1013 a 18): la causa materiale, o gli elementi ond'è costituita una cosa, la causa efficiente, per opera della quale è costituita; la causa formale, che esprime ciò che la cosa è; la causa finale, cioè quella verso la quale la cosa è volta (Phys., II, 3,194 b 24), ossia l'effetto che diviene causa. Ora, quest'ultima tende a unificarsi con la formale o ideale, e ambedue a identificarsi con la causa efficiente. Se il principio materiale delle cose fu illustrato dai fisici antichi, e la causa formale fu conosciuta da Platone, questi non seppe determinarne l'efficienza. A. riserba poi a sé il merito di avere scoperto l'importanza e il congegno della finalità; la quale illustra la cosa non tanto nelle sue relazioni con noi, quanto nella sua perfezione intrinseca; onde essa non è trascendente ed esterna, ma presente e immanente nella realtà.
Tutta la serie delle sostanze e quella delle cause mette poi capo a una sostanza prima, e prima sorgente del movimento, che è insieme l'ultimo fine dell'universale processo della natura, nella sua costituzione di materie e di forme, e nel suo svolgimento perenne e ascensivo dalla potenza all'atto. Il che non vuol dire già, come si ripete secondo l'opinione tradizionale (Zeller, Gomperz, Siebeck), che la teologia sia soltanto il coronamento del sistema aristotelico, poiché, invece, essa vi ha un'importanza e funzione centlale. I due ordini di pensieri che nella Metafisica (XII, 6-7) e nella Fisica (VIII, 10) conducono A. all'esistenza del principio divino, concordano nel rappresentare Dio quale sostanza motrice del mondo, che è a lui coeterno. E poiché secondo un noto principio aristotelico non è possibile un processo all'infinito (ἀνάγκη δὴ στῆναι: Met., XII, 3,1070 a 4), così il primo motore non può essere che immobile. Ora questa suprema realtà, che può muovere non mossa, è soltanto la natura razionale (νοῦς); perché, in primo luogo, la razionalità sola è atto puro, e perciò vita eterna (ἡ μὲν νοῖ ἐνέργεια ζωή) e perfetta beatitudine nella perpetua contemplazione di sé (sé in sé rigira, come disse Dante). In secondo luogo, un primo motore (immutabile) non può muovere meccanicamente; perché ogni movimento fisico comunicato è trasmissione di un impulso ricevuto dall'esterno. Una sola specie di mutamento noi conosciamo che può essere iniziato, cioè quello che è suscitato per le vie spirituali del desiderio e dell'amore. Così è che il Dio aristotelico opera sul mondo solo come termine di amore (κινεῖ ὡσ ἐρώμενον: Met., XII, 7,1072 b 3). E come l'amore presuppone la conoscenza dell'oggetto amato (ignoti nulla cupido), così Dio attrae come oggetto di conoscenza; e in questo senso il termine κίνησις abbraccia ogni forma di mutamento, e il desiderio e la ragione si fondono in unità. Parimenti (e questo è espresso nella Fisica, dove pure si procede dal mutevole all'immutabile), poiché il movimento è eterno, il motore primo dev'essere capace di determinare un tal movimento. Ora, ogni corpo è limitato nello spazio, e non può avere un'infinita potenza motrice. Perciò il primo motore, o motore eterno, non può essere che immateriale, e l'azione sua non può essere che di natura spirituale.
Certo A. non derivò espressamente da queste premesse le conseguenze logiche che ne trasse il Leibniz. Se è vero che ogni mutamento è determinato da una causa esterna, la quale opera sulla cosa mutevole (p. e. la luce, il calore, l'umidità sullo sviluppo del seme): se, quindi, tutto il processo cosmico non è che una continua attuazione di possibilità preesistenti, cioè l'esplicazione della propria essenza di ciascuna cosa, A. avrebbe dovuto, come il Leibniz, pronunciare: perfectio est essentiae quantitas. Ogni realtà perciò dovrebbe da Dio ripetere la propria perfezione, e Dio esercitare in ciò la propria universale benevolenza, come ne deduce l'Aquinate (Contra Gent., III, 90). E a ciò A. aveva dinnanzi a sé il precedente platonico, poiché nel Timeo (29 A) non solo è detto del demiurgo ἀγαϑὸς ἦν, ma si soggiunge che "Dio, scevro d'ogni invidia, volle che le cose fossero, quanto era possibile, simili a lui". Né mancano veramente luoghi aristotelici dove si accenna a questa beneficenza divina (p. es. De gen. et corrupt., II, 10, 336 b 32). Se non che la nota fondamentale che ritorna pur sempre in A. è che Dio non esercita azione sul mondo (ἅνευ πράξεως: De cael., II, 12,292 a 23), e che egli è impassibile (ἀπαϑής), semplice e perfetto come atto puro, e separato dal mondo come eterno pensiero di pensiero (νόησις νοήσεως: Met., XII, 9,1074 b 34). Onde ogni tentativo (come quello del Brentano, ripreso in parte, in questi ultimi tempi, dal Jaeger e dal von Pauler) d'interpretare il teismo aristotelico in senso creazionistico è necessariamente vano. Non basta, infatti, il dire che la ragione assoluta è principio della sostanza delle cose. Tale può essere formalmente, come le idee platoniche, rispetto al mondo sensibile; non già per diretta efficienza causale, come nel concetto creativo. La sola efficienza del Dio d'A. sul mondo è indiretta, cioè in quanto è fine ultimo e trascendente a cui tendono, per solo loro misterioso impulso, le cose. Anche l'eros platonico è solamente ascensivo dal mondo sensibile all'intelligibile, non mai discensivo da questo a quello. E così è a dire, perché l'idea cristiana della provvidenza divina, anche nella forma in cui traluce dal Timeo platonico, è estranea al pensiero aristotelico. Già importa ricordare che A. chiama "metafore" i miti platonici del Demiurgo ordinatore delle cose. Quell'opera perfezionatrice, che solo per la sua attrazione d'amore il Dio aristotelico dovrebbe esercitare sulle cose, è rimasta in A. una pura e astratta esigenza, senza logico svolgimento; il quale avrebbe altresì implicato che se il mondo tende amorosamente a Dio come a suo ultimo fine, dovrebb'essere in ogni sua parte animato, e cioè in ogni sostanza si dovrebbe avere un minimo di vita spirituale, com'è nella dottrina leibniziana. Ora questo potrebbe, in certa misura, applicarsi alle nature viventi in A., ma non mai sarebbe estensibile alle sostanze materiali e inanimate; per le quali tutt'al più si potrebbe parlare, col Brentano, di un metaforico conato, o, col von Pauler, di una tendenza vaga degli elementi a riposare nella loro propria sfera naturale; immagini, dunque, non concetti.
Il vero è piuttosto che in A. balena qua e là l'idea di un'intima vita divina, che, in certa guisa, lo ravvicina alla concezione biblico-cristiana del Dio vivente di vita eterna; di un'attività che viene pure associata all'idea della immutabilità (ἐνέργεια ἀκιξεσίας); due ordini di concetti, questi, che nei secoli successivi, e specialmente nell'età cristiana, ebbero svolgimenti paralleli e spesso contrastanti tra loro. Ma in sostanza, nel pensiero originale aristotelico, il dualismo platonico che lo Stagirita aveva cercato di superare rifiorisce e in certa guisa si accentua al vertice della metafisica, cioè della dottrina universale dell'essere, considerato in sé stesso e nelle sue condizioni e relazioni. Ma quando dalla considerazione dell'esistenza in sé medesima, e nelle sue determinazioni più universali, passiamo alla realtà concreta e partecipe del movimento e del mutamento, allora dalla metafisica noi discendiamo a quella che si può dire filosofia della natura (ϕυσική), o propriamente afilosofia seconda".
La fisica. - Il contenuto di questa disciplina è l'attuale realtà sensibile in cui l'idea (o il logos) è, per così dire, ravvolta nella materia. Onde lo studioso della natura deve non solo possedere lo spirito di osservazione della materia, ma sapervi scoprire la luce dell'idea che quella materia governa. Nella sua illustrazione della realtà naturale deve aver l'occhio a tutte le quattro cause, che la realtà naturale, come l'opera d'arte, comprende nella sua viva concretezza (Phys., II, 198 a 22 segg.). La ricerca fisica è, dunque, ben diversa dalla ricerca puramente razionale e astratta, che prescinde dai fatti ed è più facilmente disposta a edificare teorie. Considerando tuttavia la realtà naturale e concreta (ηύσις) nei suoi aspetti generali, noi possiamo dire che essa è intrinsecamente spontanea, autonoma, e costante insieme, nei suoi modi di azione. E perciò si contrappone e si oppone alla spontaneità accidentale (τὸ αὐτόματον) e al caso (τύχη), che esprime gli effetti inaspettati che le cose possono produrre in noi. Ma si distingue altresì dall'arte; la quale ha il principio della sua attività fuori di sé (idea esemplare, materia), dove la natura ha in sé il principio del suo movimento, del suo svolgimento, della sua alterazione (Met., XII, 3,1070 a 7 segg.). La natura è, dunque, un'autocreazione: e, come tale, è universalmente insieme l'originale e primordiale sostrato, il principio formale e razionale, e lo stato perfetto (ἐντελέχεια) a cui mette capo ogni svolgimento (Met., IV, 4,1015 a 6 segg.). Ora, il modo onde l'essere potenziale continuamente si attua nel mondo della natura è il movimento (κίνησις), il quale si presenta, nell'aspetto quantitativo, come incremento e diminuzione, nell'aspetto spaziale come locomozione o traslazione. A quest'ultima specie però si riducono le due prime; poiché la genesi e la corruzione si risolvono in un processo di aggregazione e di disgregazione, che è moto essenzialmente spaziale. E, in tal senso, può dirsi che A. è fautore di una concezione meccanica della natura. Se non che A., per un altro verso, si oppone all'atomismo meccanico di Democrito, mantenendo le distinzioni qualitative fra gli elementi primordiali, e insistendo sulla concezione teleologica della natura, che sola ci fa conoscere la vera natura delle cose, e dimostra che quello che è ultimo nel processo di produzione, il fine (τέλος), è il primo per valore di realtà (De part. an., I,1,640 b 22 segg.). Lo spazio stesso è alcunché d'incorporeo, ben distinto dalla materia (questo contro Platone), e nel cui seno, anzi, la materia si compone e si dissolve: ed è il luogo (τόπος), necessario concomitante di ogni realtà sensibile, che rimane inalterato e continuo nelle alterazioni e discontinuità della materia, come primo e immobile limite del suo contenuto (Phys., IV, 4,212 a 15). E poiché lo spazio è limite, è altresì limitato, mentre l'universo, nell'ordine del tempo, è eterno. Posto che l'ammettere uno spazio infinito oltre la sfera cosmica che si estende fino al cielo delle stelle fisse condurrebbe ad inaccettabili conseguenze, A. riconosce, con un curioso ragionamento, che al di fuori dell'universo non si possa dare spazio alcuno.
Analogo allo spazio come concomitante dell'esistenza, ma diverso per il suo carattere e per le sue funzioni, è il tempo. A., come notò lo Schopenhauer, anticipa qui il pensiero del Kant nel concepire il tempo come espressione diretta della successione degli stati di coscienza, o forma del senso interno. Se non che, esso si proietta al di fuori per via del senso della differenza tra i fatti della nostra esperienza, e come tale appare funzione numeratrice del movimento quanto al prima e al poi (Phys., IV, 11,219 b 1): il che necessariamente esige un numeratore, cioè sempre una ragione, e un'anima in atto consapevole (Ib., IV, 14,223 a 25). Ma, poiché senza il prima e il poi non si dà il tempo, né questo è senza il moto, così l'eternità o perpetuità del tempo implica la perpetuità del moto (Ib., VIII,1,251 b 10). La quale risulta poi da altre ragioni; poiché ogni moto ne suppone uno precedente, all'infinito. E come il moto non ha principio né fine, così il mondo, a cui è inerente il moto, è esso pure eterno (De caelo, II,1,283 b 26), quantunque limitato nello spazio. Se tuttavia il movimento per tal rispetto è infinito, per un altro rispetto suppone un principio originale immobile, un'attualità causale che è eterna come il movimento medesimo (Phys., VIII, 5,256 a 13). La causalità, o efficiente o finale, implica sempre una causa prima o un ultimo fine, che è pura attività immateriale, perché solo l'immateriale è invariabile. Lo spirito o la ragione (νοῦς) è, quindi, principio dell'universo, e la natura è un tutto organico in cui ogni cosa attesta un ordine e una legge (τάξις), che non è né assolutamente immanente né totalmente estrinseca, bensì combina in sè i due aspetti, come il capitano rispetto all'ordine dell'esercito (Met., XII, 10, 1075 a 12 segg.). Pure la materia ribelle talora prende la mano, e produce mostri e deformità in gran copia; ma la natura e Dioperano sempre secondo un fine, non mai invano, e mirano alla perfezione (De caelo, I, 4,271 a 33). Quest'ordine appare già nei cinque elementi ond'è costituita la materia corporea, ai quali A. associa (deducendone anzi la varietà stessa dagli elementi) gli stati diversi di caldo e di freddo, d'umido e di secco. E perciò anche quegli elementi presentano diversa tendenza nel movimento loro: la terra tende al basso, il fuoco all'alto, e così relativamente, e in modo vario, gli altri due intermedî stanno alla superficie. Al movimento ascensivo e al discensivo (verso il centro) si aggiunge il circolare, intorno al centro, che è proprio del quinto elemento (o quinta essenza), l'etere, che è la più sottile sostanza. Secondo esso perciò, come movimento più perfetto, si muovono i corpi celesti e le sfere. Gli altri elementi appartengono alla sfera sublunare, e perciò la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco, all'incontro dell'etere semplice e incorruttibile, si trasformano l'uno nell'altro e si scambiano i diversi stati che in ciascuno prevalgono.
Intorno al centro dell'universo, che è la terra, girano così i sette pianeti, e al di fuori di essi il cielo delle stelle fisse. Per spiegare i movimenti irregolari dei pianeti, bisognava perciò riconoscere per ciascuno di essi diverse sfere omocentriche secondo il cui movimento quei corpi si dirigessero; sfere riconosciute, in vario numero, da Eudosso di Cnido e da Callippo, e rettificate, quanto alla loro condizione e funzione astronomica, da A. Mentre però la sfera delle stelle fisse è direttamente ed esteriormente mossa dal primo motore immobile, le sfere planetarie sono guidate nella loro rotazione da altrettante forze spirituali, le intelligenze separate degli scolastici, che sono altrettanti motori immobili di second'ordine; il che, se era una concessione alla mitologia popolare, non ben s'accordava col concetto fondamentale della fisica aristotelica dell'ordine intrinseco della natura e del principio interiore di ogni suo movimento. Dottrina questa delle intelligenze motrici delle sfere, che, incontratasi più tardi con l'angelologia giudaica, riapparirà nelle gerarchie angeliche della mistica teologia dell'Areopagita. Così, se la fisica è, in generale, la "filosofia seconda" rispetto alla metafisica, essa poi si distingue in astronomia (De caelo), che riguarda la regione sopralunare (cielo delle stelle fisse e dei pianeti), e in fisica propriamente detta, che si riferisce alla regione sublunare. La prima regione è di materia eterea e incorruttibile, mossa direttamente dal motore immobile dell'universo, e il suo moto circolare è uniforme ed eterno senza alterazione; mentre la regione sublunare del mondo, composta d'una materia alterabile e corruttibile, è in preda a movimenti irregolari ed incomposti, come sono per natura i quattro elementi inferiori, il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra. A questa sfera propriamente, per A., appartiene la natura, la quale, come entelechia centrale, comprende tutto ciò che è mobile ed alterabile, i quattro elementi, le loro trasformazioni e i loro movimenti rettilinei, e la materia organica ed inorganica, di cui appunto la natura è forza motrice e principio, come il primo motore è principio del movimento rotativo del primo cielo e indirettamente delle altre sfere. Ed è perciò, come avvertimmo, che ogni cosa naturale porta in sé stessa, cioè da natura, il principio del suo movimento e svolgimento (Phys., II,1,199 b 15).
Biologia e psicologia. - Quest'ordine di finalità che appare in tutto l'universo si manifesta tuttavia pienamente, e in forme e modi meravigliosi, negli esseri organici e anche inferiori viventi, dove è più evidente la continuità progressiva dall'uno all'altro (De part. an., IV, 5,681 a 12). In essi il corpo è solo la materia, mentre l'anima è la forma, e come tale, è principio di movimento e insieme il fine alla cui attuazione è diretta l'attività dell'organismo. E perciò nei corpi viventi si manifesta più chiara la legge del naturale perfezionamento (De mot. an., II, 2,704 b 12 segg.). Avendo l'occhio a queste due leggi della continuità e della finalità, A. muove dall'analisi dei fenomeni e delle forme vitali. E se poco conosciamo di quello che aveva detto sulle piante, più largamente ci è noto il suo sapere relativo al mondo animale, segnatamente dalla grande opera sulla Storia degli animali, che offre anche oggi preziosi contributi alla zoologia sistematica e comparata. Non già che possa trovarsi in A., come taluno ha creduto, l'idea evolutiva della trasformazione delle specie viventi. I principî aristotelici conducono invece a quella della loro stabilità: essendo in ciascuna specie solo la potenzialità, non l'attualità, della specie superiore. Ma è ben chiara e rilevata in tutti gli scritti aristotelici sugli esseri viventi la dottrina della loro continuità, e della progressività ascensiva della serie. Le piante sono men perfette degli animali (Phys., II, 8), perché il regno vegetale non ha per suo fine sé medesimo. Questo fine è l'animale, che vive della pianta. E all'anima elementare della pianta risponde un organismo, dove non appaiono i rapporti di destra e di sinistra, d'una parte anteriore e d'una parte tergale, come negli animali. Ma anche fra gli animali si distinguono le forme inferiori, degli animali senza sangue (insetti, crostacei, testacei, molluschi: De part. an., I, 3), dalle forme superiori degli animali sanguigni (mammiferi, uccelli, pesci, anfibî): distinzione che corrisponde alla moderna, da Cuvier in poi, tra invertebrati e vertebrati. Poiché il calore è inseparabile dalla vita, e la quantità di calore inerente a un animale è in ragione diretta della sua perfezione relativa. La quale apparisce altresì nei modi della generazione: poiché mentre i più bassi organismi nascono per una specie di generazione spontanea (De gen. an., II,1; Hist. an., I, 5: generatio aequivoca), gli organismi superiori nascono da organismi congeneri (ἐκ συνωνύμων).
Nel rispetto anatomico codesta distinzione riappare poi sotto altra forma. La complicata costituzione dei corpi organici esige che la distribuzione della materia risulti ora di parti similari, nelle funzioni più semplici, ora di parti eterogenee, quando gli organi appartengono a funzioni più complesse. Così semplice e uniforme è la distribuzione della materia nelle piante, come nei muscoli degli organismi animali che presiedono a funzioni più semplici ed elementari. La natura procede per continuità, dalle piante viventi ma non sensitive, che vivono solo per accrescimento e nutrizione, e consentono certe variazioni artificiali, agli animali sensitivi (De part. an., IV, 5,681 a 12). Questi possiedono la sensitività, e, con essa, una conoscenza elementare (De gen. an., I, 23,731 a 32), cioè delle tracce di carattere mentale e morale, che si adempie nell'uomo (Hist. an., IX,1,608 b 4). Onde l'analisi psicologica non deve riferirsi soltanto all'uomo, ma deve estendersi altresì alle forme elementari della vita psichica negli animali inferiori (De an., I, 1, 402 b 4 segg).
Ora l'anima, in sé considerata e rispetto al corpo che essa inf0rma, non è che l'atto perfetto di un corpo naturale che ha la vita in potenza (De an., II,1,412 a 28). Non è il prodotto delle condizioni fisiologiche ma la verità e l'essenza (οὐσία) del corpo; nella quale soltanto le condizioni di esso acquistano la pienezza del loro valore (ib.,412 b 10). Il che implica lo stretto nesso fra quelli che noi oggi diremmo gli stati psichici e i processi fisiologici, in guisa da potersi dire associati come la cera e la forma che vi s'imprime (412 b 7). Pertanto l'anima dispiega la sua attività in certe facoltà, o parti, che corrispondono ai gradi dello svolgimento vitale: le proprietà nutritive nelle piante, le sensitive e motrici negli animali, le intellettive nell'uomo (ib., II, 2,413 b 12); le quali non sono separate fra loro, bensì congiunte come le figure matematiche, di cui le più complesse includono le più semplici, o come aspetti diversi, quali il concavo e il convesso di una stessa linea (Eth. Nic., I, 13,1102 a 28 segg.); né il desiderare, perciò, si può dividere dal pensiero, né questo da quello, come usavano fare i platonici.
La sensazione è la potenzialità recettiva delle forme degli oggetti esterni, indipendentemente dalla lor varia materia, a quella guisa che lo stesso sigillo s'imprime sulla cera, sull'oro o altro metallo. Ma poiché essa è mutamento, è altresì movimento attivo (De an., II, 5,416 b 33), o, come altrove dice A., è una potenza discriminativa (δύναμις κριτική, Anal. post., II, 19,99 b 35): discriminativa, cioè, delle varie qualità delle cose esterne, ed è perciò un'attività dell'anima per il tramite del corpo (De somno, 2,454 a 7). Essa implica così una normale corrispondenza fra gli oggetti e l'organo sensitivo; come il colore risponde alla vista, il suono all'udito, ovvero come a varî sensi combinati, come il movimento e la figura dei corpi (vista e tatto), o infine è accidentale e inferenziale, se dall'immediata sensazione p. es. del bianco noi possiamo conoscere l'oggetto che è bianco (De an., Il, 6,418 a 10). Con la psicologia moderna, A. riconosce che il tatto è il senso primitivo e universale (De an., II, 3,414 b 3), da cui si svolgono i sensi superiori. Tutti questi sensi specifici s'incontrano poi nel sensorio comune, il quale unificandosi ne porge il prodotto all'intelletto, onde questo possa distinguerne la varia provenienza; analogo al cuore che occupa una posizione centrale nel corpo (De somno, 2,455 a 15).
Ma la successione delle sensazioni sarebbe opera vana, se due facoltà non ne assicurassero gli effetti; una è l'immaginazione (o fantasia), movimento conseguente alla sensazione attuale (De an., III, 3,429 a 1), che ne conserva l'immagine, il fantasma, o, come noi moderni diciamo, la rappresentazione: ed A., al pari di alcuni sensisti dell'età moderna, la designa come sensazione attenuata (ἄσϑησις ἀσϑενής, Rhet., I, 11). L'altra è la memoria (υνήη), che è il permanente possesso di una pittura sensibile, come una copia che rappresenta l'oggetto esemplare (De mem., I, 451 a 15). Il richiamare alla mente i residui della memoria dipende dalle leggi che regolano l'associazione delle nostre idee; nel che A. prepara la psicologia moderna dell'associazione, delineandone le leggi fondamentali: associazione per virtù dell'oggetto attualmente presente al nostro senso, associazione per somiglianza, per opposizione e per contiguità (De mem., 2, 451 b 16).
Al di sopra, se non al di fuori, delle altre attività psichiche, è l'intelletto (νοῦς); sorgente dei primi principî della conoscenza, e superiore al senso di quanto è l'universale all'individuale, l'ideale e l'astratto al concreto e materiale aspetto dei fenomeni. Se non che, l'intelletto contiene le idee universali in potenza, non già in atto, come le tavole cerate prima che vi si scriva (De an., III, 4, 429 a 27; 430 a 1): vale a dire solo per via di un procedimento graduale ed evolutivo che unifica e interpreta i dati offerti dal senso. Or come può il pensiero, che è semplice ed impassibile, accogliere in sé gli elementi delle cose sensibili, poiché il pensare è, in certo modo, ricevere? e se è un operare, non è tale anche il senso che è pure, in certa guisa, attivo? (De an., IIl. 4, 429 b 22). Non per altro modo, crede A., se non per una corrispondenza fra l'intelletto e le cose, a quel modo che il sole, che è luce, "i color vari suscita, ovunque si riposa" (De an., III, 5, 430 a 10 segg.). Al di sopra della ragione potenziale, che accoglie, paragona e combina i varî oggetti del pensiero, bisogna ammettere tuttavia un pensiero o intelletto creativo (meglio che attivo), che rende il mondo intelligibile, come potere costitutivo di quelle supreme categorie che rendono accessibili e illuminano i materiali della conoscenza. E come codesto (intelletto è il sostegno del mondo intelligibile, ancorché A. lo abbia attribuito all'anima umana (e in questo senso interpretarono la psicologia aristotelica il commento greco di Alessandro Afrodisio e nel nostro Rinascimento specialmente il Pomponazzi), pure egli termina col descriverlo come proveniente dal di fuori, e con l'identificarlo col Dio, pensiero eterno e onnipotente, della metafisica (De gen. an., II, 3,736 b 28; Met., XII, 9,1074 b 33) Così è che il pensiero umano realizza in sé qualcuno dei caratteri del pensiero assoluto: e cioè l'unità del pensiero come soggetto e del pensiero come oggetto (De an., III, 4, 430 a 2 segg.; Met., XII, 9, 1074 b 33).
La morale e la politica. - Se la psicologia aristotelica lascia di per sè, e non soltanto per l'imperfezione o insufficienza dei testi in cui ci è pervenuta, non poche oscurità e lacune, l'etica, invece, nonostante che le opere ove è svolta siano incompiute, è forse la parte più viva e vitale dell'opera aristotelica. La schietta umanità della vita morale come A. la intende, fa sì che la dottrina ad essa relativa prescinda da ogni attinenza trascendente e dalle idealità religiose con le quali si presentava complicata nel platonismo; mentre è invece strettamente congiunta alla politica, poiché la pienezza etica dell'uomo è nel cittadino. La finalità morale dev'essere, quindi, cercata entro i termini della natura umana e delle sue tendenze. E poiché l'anima è intimamente unita al corpo e ne è l'atto vivo, la finalità ultima della vita non può essere che la tendenza generale alla felicità (εὐδαιμονία). Non per questo la dottrina aristotelica si risolve in un edonismo come quello di Aristippo. Ricordiamoci che l'anima umana porta pure in sé un elemento divino venutole dal di fuori (ϑνραϑεν), il quale la illumina e la eleva. Ora quella felicità o quel bene supremo a cui l'uomo anela non deve cercarsi in finalità esteriori, come fa il volgo; ma nell'esercizio e nel pieno adempimento dell'attività propria e specifica dell'anima, che è la razionalità, nel che consiste la virtù. La quale è anche, in un senso universale, piacere; perché questo accompagna ogni esercizio delle attività vitali. Non già che gli altri beni della vita siano indifferenti (ἀδιάϕορα), come diranno gli stoici: la salute, la bellezza, la ricchezza, ecc. conferiscono pure alla pienezza della felicità. Ma esse formano il coro la cui direzione (χορηγία) spetta soltanto all'attività razionale dell'anima. Onde occorre che essa non sia impedita da desiderî sensibili, ma fiorisca in un intimo piacere che è la connaturata conseguenza dell'esercizio di una normale attività, come la bellezza che si aggiunge alla giovinezza (Eth. Nic., X, 3,1174 b 31); il qual piacere non è dei sensi soltanto, ma, attraverso all'attività pratica, si adempie più pienamente alle cime dell'attività intellettuale e scientifica (βίος ϑεωρντικός). Le virtù umane (e virtù è in generale la capacità di ogni essere di conseguire il suo fine) si distinguono perciò in virtù pratiche (ibid., III-V) e in virtù intellettuali o dianoetiche (VI).
In generale, la virtù è un abito elettivo (ἕξις προαιρετική); cioè non semplice passione né potenza, ma esercizio continuo: poiché ad esso soltanto è attribuita la lode e il biasimo, che per A. sono il criterio del bene e del male. E come la lode e il biasimo non concernono ciò che è involontario ma solo ciò che è volontario e libero, così la valutazione dell'abito volitivo presuppone la sua libertà. Kant dirà "tu devi, dunque puoi"; ma A. aveva già pronunciato "tu sei libero, perché il giudizio morale e la sanzione sociale accompagnano l'opera tua".
In secondo luogo (Eth. Nic., II, 6,1106 b 36), poiché è esercizio di attività razionale, la virtù si presenta "relativamente a noi" in una certa equilibrata medietà (μεσότης) che dista egualmente da due estremi irrazionali, il difetto e l'eccesso. In medio stat virtus. Ed A., con acuta analisi, giunge ad uno schema di dodici esempî, dai quali apparisce come la virtù stia sempre nel giusto mezzo. Così il valore sta fra la viltà e la temerità, la liberalità sta fra la prodigalità spensierata e l'avarizia, e via discorrendo. Ma poiché l'opinione e la misura sono qui variabili, così non senza qualche ragione il Kant tacciava questa dottrina aristotelica d'instabile relativismo e soggettivismo; al che convien soggiungere tuttavia che nello stabilire il canone morale non si tratta se non di definire la forma generale (come il Kant medesimo fece), mentre il contenuto è via via determinato dalle indagini dell'esperienza, e da quella che il Goethe disse "la necessità del giorno".
Fra tutte le virtù, come espressione più alta di questa razionalità pratica, emerge sovrana, per A., la giustizia (Eth. Nic., V.); come quella che non solo, come per Platone, comprende in sé le altre, ed è forma dell'anima, in cui ciascuna delle varie potenze deve rimanere entro i proprî confini speciali; ma è altresì e principalmente virtù civile. Essa si riferisce, difatti, ai rapporti fra gli uomini e propriamente al debito di attribuire a ciascuno di essi ciò che gli spetta (suum cuique tribuere); e riguarda o la sanzione dell'opera e la compartizione dei beni e degli onori (giustizia distributiva) o l'adeguato compenso negli scambî materiali (giustizia commutativa). A base della giustizia, per la quale la necessità del consorzio sociale è più manifesta che per le altre virtù fondamentali o cardinali, già note a Platone e alla tradizione poetica e popolare, sta una misura di equazione o di proporzionalità. Nella permutazione dei servizi sociali (che suppone, quindi, diversità necessarie di attitudini nei cittadini), nella prestazione d'opere, come negli scambî commerciali, questa eguaglianza o reciprocità può essere espressa e simboleggiata, secondo le norme della legge e del diritto (poiché la giustizia è concepita da A. giuridicamente), da un'unità di misura comune, il denaro (proporzione aritmetica fra il dare e l'avere, riduzione ad un comune denominatore). Ma dove si tratta di meriti da onorare o di violazione di diritti o di danni arrecati altrui da risarcire, non si può applicare cosiffatta rigida misura: e, come si sa, l'onore non ha prezzo, né restaurare l'ordine sociale offeso si può con un'eguale controffensiva. La proporzione è qui non aritmetica, ma geometrica. Qui l'atto che si giudica è inseparabile dalla persona, sì nel merito come nel demerito. E non a torto il Herbart volle ricondurre queste due forme che si comprendono sotto il nome di giustizia a due idee primitive e irreducibili (diritto ed equità). Ma anche ritenendo il nome comune di giustizia, bisogna mantenere con A la differenza profonda fra i due concetti. Storicamente, si sono svolti l'uno dall'altro; e nelle legislazioni antiche il delitto era considerato come danno (l'αντιπεπονϑός, il contrappasso dei Pitagorici, lo ius talionis del Medioevo). A questa specie di compensazione punitiva inclina bensì anche A., ma con evidente incoerenza rispetto alle sue premesse, che distinguevano il danno e l'atto dalle disposizioni morali della persona; le quali si ricongiungono a quelle "leggi non scritte" o di universale umanità (diritto naturale), di cui avevan parlato già i poeti ed alcuni pensatori, e che non possono essere abrogate, come avviene delle leggi positive.
Ma la giustizia, come abito di virtù civile, non sta nella conoscenza di principî astratti e necessariamente universali, quanto nell'esercizio particolare delle azioni, nel fine discernimento delle circostanze varie alle quali debbono applicarsi e adattarsi quei principî. E poiché vi son dei casi che il legislatore non può prevedere, né le leggi contemplare, ecco che a compiere la stretta giustizia (summum mius, summa iniuria) sottentra l'equità (ἐπιείκεια), perché dove non arriva la legge, che è di natura sua universale, deve supplire, nell'applicazione ai singoli casi umani, questa virtù umana e discretiva. La saviezza e la prudenza, difatti, ci dànno sole il giudizio sicuro nello stabilire il giusto mezzo fra i due estremi, per quel senso di equilibrio e di misura che è, anche per A., un senso di bellezza; quasiché questa categoria del bello sia la norma superiore del buono (Eth. Nic., IX, 8,1168 a 33).
Alle virtù morali sovrastano poi le intellettive: l'arte (τέχνη), la saviezza pratica (ϕρόνησις), la scienza (ἐπιστήμη), l'intelletto (νοῦς). Poiché, come avvertimmo, l'attività spirituale dell'uomo è triplice: il creare (ποιεῖν), l'operare (πράσσυιν), il conoscere (ϑεωρεῖν). Ora al creare corrisponde la virtù dell'arte, all'operare la prudenza, al conoscere il sapere e l'intelletto. Il valore dell'arte consiste nell'opera creata, mentre il fine dell'attività pratica è nell'azione medesima e il pregio suo nella retta intenzione, che nell'arte, invece, come dirà lo Schopenhauer, nulla conta (Eth. Nic., VI, 5, 1140 b 6). Se non che, mentre ambedue queste attività tendono a mutare le cose, l'attività teoretica sta nell'accoglierle in sé medesima quali esse sono: la scienza che si riferisce alle verità derivate, l'intelletto che conosce i principî supremi donde esse procedono. L'una e l'altro, la scienza e l'intelletto, compongono pertanto quella che si dice sapienza (σοϕία). ed è la vita contemplativa consacrata alla pura speculazione (βίος ϑεωρητικός), nella quale è il sommo dell'umana felicità, dove l'umana natura si solleva al divino che in lei inabita e pel quale ella s'eterna (ἀϑανατίζει), vivendo in conformità di quello che vi è in noi di più eletto e sovrano (Eth. Nic.. X, 7,1177 b 30). La superiorità della vita teoretica (alla quale è consacrato il X libro dell'Etica Nic.) sulla vita pratica dipende, difatti, da vari ordini di considerazioni. Non solo è privilegiata come funzione rispetto a tutte le altre, ma altresì rispetto all'eccellenza del suo oggetto; meno è soggetta alle contingenze, interruzioni e deviazioni che offre la vita pratica, ed è congiunta al più alto piacere; meno delle altre abbisogna di aiuti esterni, e si esercita con maggiore autonomia dalle necessità della vita. E poiché ogni lavoro anela, come a suo termine, a riposo e alla quiete, come gli elementi fisici tendono per A. alla loro propria sfera, e la quiete è perciò da considerarsi come lo stato più perfetto di ogni essere, così l'attività scientifica, ben più vicina a codesto stato di riposo che non siano le attività della vita pubblica, partecipa anch'essa di codesto privilegio, e si accosta quindi alla vita divina. Mentre nelle virtù morali e pratiche il principio razionale ha che fare con le facoltà irrazionali dell'anima più strettamente congiunte col corpo e col senso, la vita razionale è la più lontana e indipendente dalla vita sensibile, e perciò veramente degna degli dei, e dell'uomo in quanto accoglie in sé un elemento sovrumano.
Ciò non toglie tuttavia che la vita morale che si svolge principalmente nell'individuo non abbia il suo necessario adempimento nella politica, cioè nella vita pubblica: poiché l'uomo è necessariamente cittadino, e il campo ove la sua attività pratica si svolge è la società civile e lo stato. Già nell'Etica (VIII-IX) A. aveva descritto le forme e i pregi dell'amicizia, che è la forma prima ed elementare della virtù sociale. La tendenza connaturata all'uomo, come essere razionale, non è, difatti, il bellum omnium contra omnes, come dirà il Hobbes, ma la socievolezza (ζῷον ϕύσει πολοτικόν): e la forma in cui si manifesta e si afferma, è lo stato. Perché questo è per natura antecedente alla famiglia e all'individuo, ancorché nel processo storico sia successivo (Pol., I, 2.1253 a 18): in quanto il singolo non è che una parte, la quale presuppone il tutto a cui essa appartiene. Lo stato, difatti, promuove e seconda l'adempimento dell'attività etica del cittadino; e non è solo, come ripeterono sofisti antichi e moderni, un male necessario, cioè un istituto atto a proteggere i cittadini dai nemici esterni ed interni. Ma se nasce dalle necessità della vita, è poi in funzione di una vita virtuosa e più perfetta, cioè ha un ufficio essenzialmente educativo (Pol., I, 2,1252 b 29). Funzione educativa codesta, che per A., come già per Platone, e secondo l'ideale greco, accompagna e vigila il cittadino dai suoi primi passi, finché, giunto egli ai sette anni, lo stato ne assume l'educazione fisica e morale, come appare dall'ultimo e incompleto libro della Politica. Il vero cittadino partecipa alla vita pubblica nei suoi aspetti più propriamente civili; mentre l'agricoltura e il commercio sono affidati ai meteci e agli schiavi. La legittimità della schiavitù A. cerca di derivare dalla diversità naturale dei popoli e delle varie civiltà, come di quella esistente tra i Greci e i barbari (Pol., I, 4).
Se lo stato è primo per legge di natura e di ragione rispetto all'individuo, la genesi storica dello stato è inversa al concetto dello stato e al suo intrinseco valore. Muove cioè dall'elementare società domestica, che ha un quadruplice aspetto; cioè rapporto di padrone a servo, rapporto coniugale, filiale, e di proprietà (Pol., I, 3,1253 b 8). Dalle famiglie sorge il villaggio (κώμη); e dall'aggregazione dei villaggi o tribù, la πόλις. Ma già A., concittadino e maestro di Alessandro, intravede la più larga società panellenica che prenuncia la cosmopolitia degli stoici nell'età ellenistica. Onde, come ben dice il Windelband, lo stato aristotelico sta fra l'etica sociale di Platone e l'etica individualistica delle scuole posteriori, che rinunciano allo stato e anelano all'umanità. Ma in quanto A. rimane entro i confini determinati di una πόλις ristretta a un limitato spazio e a una cittadinanza non numerosa, egli distingue quattro forme di costituzione politica, secondo che ai governanti si offrano le condizioni più propizie di produttività del suolo di ricchezze e di bontà dei sudditi, per regger lo stato: indi ricerca come a queste condizioni naturali date, corrisponda la migliore costituzione dello stato; se alle condizioni politiche esso si adatti; e, infine, se sia estensibile ad un maggior numero di città, affini per schiatta e popolazione. In questo A. si distingueva dai suoi predecessori, che avevano edificate astratte teorie, e dallo stesso Platone che aveva delineato uno stato ideale; giacché A., come dicemmo, si era preparato con l'analisi di ben 158 città greche, con quella precisione che appare da quella pervenutaci sulla costituzione di Atene, così dottamente illustrata dal Wilamowitz e dal Ferrini. A ogni modo, le varie forme di costituzione politica non ce ne offrono una che sia di per sé stessa l'ottima: ciascuna di esse in certe condizioni, può essere la migliore, ma può anche degenerare: così la monarchia o principato può divenir tirannide, l'aristocrazia oligarchia, la repubblica demagogia. E se Platone (nel Politico) distingueva i governi legali dagl'illegali, A. soggiunge che i primi son quelli che mirano al bene pubblico, i secondi quelli che ad esso sovrappongono il bene privato. A. è convinto, d'altronde, che superiore a tutte le altre sia la monarchia, ove il sovrano è di tanto superiore per virtù agli altri, da apparire "un dio tra gli uomini", e tale che non abbia bisogno della legge, perché egli stesso impersona la legge (Pol., III, 13,1284 a 13). Ma se migliore è la monarchia, la sua degenerazione in tirannide è la peggiore (corruptio optimi pessima), come quella che implica una maggiore sopraffazione di uno sui più. Meno potente è il regime ove il potere è nelle mani di pochi, come l'oligarchia, che tra le corruttele occupa il posto di mezzo. Dove, invece, tutti i cittadini partecipano al governo, il perseguire il bene privato se non è pienamente identico al conseguimento del bene pubblico, gli è tuttavia molto prossimo, per la ragione numerica dei beneficiati, che, se non tutti, sono i più.
Retorica e teoria dell'arte. - Elemento e strumento della vita pubblica è l'eloquenza, e la dottrina che ne tratta, la retorica, si attiene per una parte, quindi, alla politica, e per un'altra alla dottrina dell'arte: dacché l'eloquenza è pure un'arte, se non di dimostrazione (che è propria della scienza), di persuasione.
Mentre Platone aveva severamente respinto la retorica, figlia della sofistica, come arte perniciosa e fittizia, A. col suo metodo obiettivo e teoricamente sereno applicato all'analisi di ogni ordine reale, giunge a ravvisare nella retorica e nell'eloquenza un elemento di valore per la vita civile. Poiché, se l'eloquenza non ha il rigore della dimostrazione scientifica, e più si avvicina alle scienze pratiche, come l'etica e la politica, è nondimeno un'arte, una tecnica della persuasione. La potenza dell'oratore sta nel convincere altrui (Rhet., I, 2,1355 b, 26), se non della verità, della verosimiglianza, valendosi principalmente di un'argomentazione persuasiva (come l'entimema) confortata da opportuni esempî. Un'altra parte della retorica (esemplare a Cicerone e a Quintiliano) descrive le qualità dell'oratore pubblico, la mozione degli affetti, e così via; e la sua eloquenza, secondo che si riferisce a un soggetto del passato, del presente o del futuro, distingue in tre specie (giudiziaria, probativa, ed esortativa), di cui esempî concreti possiamo trovare nelle orazioni di Lisia, d'Isocrate e di Demostene. L'una ha che fare con l'accusa e la difesa, la seconda con la lode e col biasimo, la terza consiglia in materia legislativa, o d'imprese commerciali o di guerra, ecc., cioè tratta argomenti che attengono al futuro. A questi argomenti, di cui tratta nei due primi libri della Retorica, si aggiunge nel terzo, la cui autenticità è stata rigorosamente difesa, contro lo Zeller, dal Diels e dal Wendland, e il cui fondo è, ad ogni modo, essenzialmente aristotelico, la trattazione della dizione (λέξις) del discorso, e dell'ordine di esso, che comprende quattro parti: l'esordio (o proemio), l'esposizione (protesi), la dimostrazione (apodissi), la perorazione (o epilogo).
Ma se la retorica è pure un'operazione o creazione, questa capacità creatrice (il ποιει0ν) in senso rigoroso è propria solo delle arti (τέχναι), e segnatamente delle arti belle: sia che queste si manifestino nelle forme plastiche o nelle linee e nei colori, nella parola ritmica o nell'armonia delle note musicali. Alla ragione teoretica e alla ragion pratica si aggiunge, così, la ragione poetica, e la dottrina che si riferisce alla creazione artistica. Ma l'esecuzione del vasto disegno più che nelle altre mancò in quest'ultima parte, o almeno è mancata a noi, poiché delle opere aristoteliche sull'arte una sola ne avanza sull'arte poetica, e anche questa incompletissima e mutila; né ad integrarla basta l'ultimo libro (VIII) della Politica, che si riferisce in parte alla musica e alla sua potenza educativa. A. non ha impreso, almeno nella parte della Poetica che abbiamo, un'analisi critica dell'idea del bello (né Platóne l'aveva fatto). Accenna bensì a distinguere dal bello il piacevole e il buono, e riconosce nell'ordine, nella misura e nell'armonia degli elementi il principio sostanziale della bellezza. Ma la sua estetica (e in ciò precede alcuni teorici moderni) non è che una teoria dell'arte; la quale, per quanto incompiuta, contiene talora luminose verità e anticipazioni di concetti venuti in luce in più recenti tempi.
Anche quelle che noi chiamiamo professioni, o abilità tecniche, sono per A. arti (τέχναι), come l'eloquenza, la medicina e le arti meccaniche, ed hanno un lor proprio fine da conseguire (la persuasione, la sanità, o il prodotto del lavoro). Ma arte nel più vero e alto senso della parola è l'arte bella, che è veramente produttiva e creatrice di forme. Certamente per lui, come per Platone, l'arte è essenzialmente imitazione o riproduzione della realtà (μίμησις); e in ciò è figlia della natura: Dante la chiamerà "nipote di Dio". Così da Platone l'arte è chiamata sempre attività imitativa, dallo Ione alle Leggi: e anzi, poiché per Platone la realtà è un'imitazione del mondo ideale, l'arte non è che "imitazione d'imitazione". Ma nell'uno e nell'altro dei due eroi della filosofia antica balena un concetto superiore dell'arte come potenza creatrice (ποιητική), che la ravvicina alla stessa natura, e per certi rispetti la integra e la supera. Come per Platone l'arte è cosa d'ispirazione divina e non sempre si circoscrive ad imitare l'individuo ma può coglier l'universale (Phaedr., 265 b) ed è talora chiamata produttiva (ibid., 219 b; Sympos., 205 b), così, e più, A. - il quale non ripudia, come il suo maestro, l'arte quale pervertitrice del costume, ma ne riconosce il potere salutare e i benefici effetti sull'anima, - ci sa dire che l'arte non rappresenta sempre le cose quali sono; e specialmente la poesia e la musica, che in ciò differiscono dalle arti figurative, più specialmente riproduttrici della realtà. Un'arte veramente degna del suo ufficio raffigura le cose piuttosto quali dovrebbero essere (οἷα ἄν γένοιτο: Poet., 9,14); perché rappresenta specialmente il λόγος o l'universalità umana (ad es. l'eroe nella tragedia); cioè l'uomo idealizzato e il tipo dell'uomo superiore, non il singolo ma l'ideale che vi risplende. Onde la poesia è detta più degna e filosofica della storia (Poet., 9.1451 b), la quale si limita a ripetere i fatti individuali quali avvennero realmente in un momento del tempo, non quali li idealizza il mito e la leggenda (intuizione geniale questa, che la filosofia moderna ha più largamente sviluppata e determinata). La stessa poesia comica, sebbene tratti le accidentalità e le manchevolezze umane, non colpisce le singole persone, ma rappresenta dei tipi e dei caratteri. Non siamo più qui, come si vede, nella commedia antica, ma spunta già il senso e lo spirito della commedia nuova, e siamo più vicini a Menandro che ad Aristofane.
Vero è che il processo artistico si distingue dal processo naturale, secondo A., perché, mentre questo ha in sé il principio attivo (operando per un fine immanente e inconsapevole), l'arte ha invece un termine esterno (esemplare, o materia su cui lavorare). Ma se è vero che l'arte è in universale ποίησις, e se la scienza che dell'arte ragiona si distingue dalle scienze pratiche perché queste si riferiscono al valore intrinseco dell'azione e anche dell'intenzione mentre le scienze poetiche trattano di un'attività costitutiva di un soggetto a sé (l'opera d'arte), tutto questo implica che il carattere mimetico dell'arte si risolve in un potere d'imitare la stessa potenza creativa della natura. In ogni modo, l'attività artistica è, per A., ben superiore all'attività pratica, ché il suo valore è nel produrre un oggetto indipendente, e non già nella sola intenzione (Eth. Nic., VI, 5; cfr. I,1). Essa è, dunque, nelle sue forme superiori (poesia e musica), una vera integrazione della natura, in quanto adempie ciò che la natura non può fare (Phys., II, 8.199 a 15).
Ora in questa sua dignità sta la ragione prima dell'efficacia salutare che A. riconosce all'opera d'arte, e che fu negata invece da Platone. Noi conosciamo bensì quanto egli dice sugli effetti della poesia tragica e della musica; ma è lecito, in certa misura, applicarne estensivamente i criterî alle arti in generale. Ora il fine dell'arte è triplice: essa genera in noi un nobile diletto e conforto (διαγωγή), è un'educazione della mente e dell'animo (παιδεία), è infine una purificazione (κάϑαρσις) del sentimento, se perturbato da violenza di commozioni. Quest'ultima efficacia si manifesta principalmente nella tragedia, dove dominano le passioni della pietà (ὔλεος) e del terrore (ϕόβος: Poet., 6,1449 b 27). Molto si è disputato dalla critica moderna sulla vera natura di questa purificazione degli affetti o delle passioni: a cominciare dal Lessing e dal Goethe fino al Bernays e al Finsler, che ne ha bene indagati i rapporti col platonismo. Certo A. trovava dinnanzi a sé un significato medico e religioso del termine κάϑαρσις (che il Weil e il Doering hanno accuratamente studiato e definito), se non che codesto processo purificatore non può limitarsi, nel concetto aristotelico, a un effetto puramente estetico, né risolversi soltanto, secondo l'espressione dello Zeller, in una specie di "cura omeopatica degli affetti", ma deve avere un più profondo significato etico e spirituale. La commozione profonda, p. es., che le Eumenidi di Eschilo o l'Edipo coloneo di Sofocle producono in noi, col far assistere allo spettacolo di così gravi sciagure e col suscitare nell'animo i problemi dell'umano destino, vien corretta dal sentimento dell'eterna giustizia, che alla fine si desta. Ora codesta liberazione dell'anima, codesta sua restituzione alla normale armonia della vita, che in forma più moderata anticipa l'atarassia epicurea, risponde a quello che nell'ordine delle virtù è per A. la μεσότης o la μετριότης, cioè l'equilibrio, l'accordo intimo dell'anima: condizione prima ed essenziale perché essa si possa elevare e sublimare, per l'efficacia dell'opera d'arte, superando le passioni incomposte e le commozioni transitorie nella contemplazione della pura bellezza, così come la scienza s'innalza alla contemplazione delle universali verità e dei principî supremi. Nella teoria aristotelica sull'efficacia serenatrice dell'arte è così anticipato, e, per così dire, in germe, l'ideale che splenderà nelle mirabili lettere dello Schiller Sulla educazione estetica dell'uomo, e in tutta l'opera umanistica del Goethe, l'ideale dell'anima bella e armoniosa, per la virtù formatrice che l'arte esercita su di essa, elevandola ad una superiore sfera di piena umanità.
Per la tradizione manoscritta di A. cfr. l'apparato critico, con l'elenco dei codici, dato da I. Bekker nell'edizione dell'Accademia di Berlino, e integrato poi nelle altre edizioni singole e specialmente in quelle teubneriane (per tutte le quali v. più oltre). I codici più importanti sono diversi per le singole opere; i migliori sono: il Parigino 1741, del sec. XI, per la Poetica e la Retorica; il Parigino 1853, sec. XII, per la Fisica, il De caelo, il De gener. et corr., il De anima, i Parva naturalia e la Metafisica; il Laurenziano 87,12, sec. XII, pure per la Metafisica; il Marciano 201, sec. X, e l'Urbinate 35, per l'Organo (cfr. per ciò, per un primo orientamento, Christ-Schmid, Gesch. d. griech. Litteratur, I, 6ª ed., Monaco 1912, p. 771). Particolarmente utili anche per la determinazione della storia del testo aristotelico sono stati i commentarî greci (per cui v. più oltre), che ebbero innanzi manoscritti più antichi di quelli a noi pervenuti.
Quanto alle edizioni antiche, la editio princeps latina delle opere complete di A., coi commenti arabi di Averroè, fu pubblicata a Venezia nel 1489 e ripetuta nel 1496 e poi in successive ristampe. La princeps del testo greco fu edita, quasi contemporaneamente, a Venezia, per cura di Aldo Manuzio (1495-1498), e con l'aiuto sagace del card. Bessarione, come suppone il Christ.
Fra le edizioni generali moderne delle opere aristoteliche, classica quella dell'Accademia delle Scienze di Berlino, in cinque volumi (1831-1870): i due primi, curati dal Bekker, contengono il testo greco (che d'allora in poi vien citato secondo questa paginatura); il terzo le traduzioni latine di Pacio, Argiropulo, Bessarione, Teodoro Gaza, Budeo, Lambino, Riccobono, Filelfo; il quarto, curato da C.A. Brandis, gli scolî; il quinto i frammenti nella recensione di V. Rose e il grandioso Index aristotelicus del Bonitz. A questa edizione seguì quella parigina nella collezione Didot in quattro volumi, curata da Duebner, Bussemaker e Heitz (1848-74). Oltre all'edizione stereotipa, in piccolo formato, del Tauchnitz di Lipsia, è degna di essere confrontata, sebbene di valore diverso nelle sue varie parti, l'edizione della maggior parte degli scritti aristotelici nella collezione teubneriana dei classici, curata da Christ, Prantl, Susemihl, Rose, Apelt, Jaeger e altri. Degli scritti perduti di A., sui quali han recato non poca luce gli studî di Brandis, Stahr, Spengel, Bonitz, Bernays, Rose, Heitz e Diels, i frammenti pervenutici sono stati raccolti dal Rose (prima nel V vol. del Corpus berlinese, poi, in 2ª ed., nella collezione teubneriana, Lipsia 1886) e dal Heitz (IV vol. dell'edizione Didot, Parigi 1874). Allo studio diretto dei testi aristotelici sono di necessario sussidio i commentarî antichi delle varie opere d'A., nell'esemplare collezione edita, dal 1882 al 1908, dalla R. Accademia di Berlino (Commentaria in A. Graeca. Grecia, sotto la direzione del Torstrik e poi del Diels, in 23 voll., a cui servono di complemento i tre del Supplementum Aristotelicum (1885-1903).
Una traduzione complessiva delle opere aristoteliche è quella francese, ormai alquanto antiquata, di J. Barthélemy Saint-Hilaire, Parigi 1879-92, con commentario perpetuo; una simile, inglese, si viene ora pubblicando a Oxford sotto la direzione di J.A. Smith e W. D. Ross. In tedesco è tradotta la maggior parte delle opere aristoteliche, specialmente nella Philosophische Bibliothek, edita a Lipsia dal Meiner.
Per ciò che concerne le opere singole, le più importanti edizioni e traduzioni (specialmente italiane) sono le seguenti: Organo: ed. Th. Waitz, in 2 voll., Lipsia 1844-46. Topica ed Elenchi sofistici ed. Strache-Wallies, Lipsia 1923; trad. ted. dell'Organo di E. Rolfes, Lipsia 1918 segg.; ital. degli Elenchi sofistici di E. Nobile, Bari 1923. Metafisica: ed. Brandis, Berlino 1823; ed. Schwegler (con trad. ted.) Tubinga 1847-48; ed. Bonitz, 1848-49; ed. Christ, Lipsia 1886; ed. W. O. Ross, Oxford, 1924 (g una nuova ne prepara W. Jaeger): trad. ted. del Bonitz, Berlino 1890, e di A. Lasson, 2ª ed., Jena 1924; italiana del Bonghi, Napoli 1857, pei primi sei libri, e ora, completa e con ampio commento, di A. Carlini, Bari 1928. De caelo e De generatione et corruptione: edizione C. Prantl, Lipsia 1881. Meteorologica: ed. J. L. Ideler, Lipsia 1834-1836; ed. E. H. Fobes, Cambridge Mass. 1919. De animalibus historia: ed. e trad. ted. di H. Aubert e Fr. Wimmer, Lipsia 1868. De partibus animalium: ed. B. Langkavel, Lipsia 1868; trad. ted. di A. Karsch, Berlino-Schörneberg 1910. De generatione animalium, ed. e trad. ted. di Aubert e Wimmer, Lipsia 1860. De animalium motione et incessu; de spiritu: ed. Jaeger, Lipsia 1913. De plantis, de mirabilibus auscultationibus, mechanica, de lineis insecabilibus, ventorum situs et nomina, de Melisso Xenophane Gorgia: ed. O. Apelt, Lipsia 1888. De coloribus, de audibilibus, physiognomonica: ed. C. Prantl, Lipsia 1881. De anima: ed. commentata Trendelenburg-Belger, Berlino 1877; ed. Biehl-Apelt, Lipsia 1911; ed. e traduzione franc. di G. Rodier, voll. 2, Parigi 1900; trad. e interpr. parziali italiane di G. Barco, Torino 1879 e 1881; passi scelti e commentati da V. Fazio- Allmayer, 2ª ed., Bari 1924. Parva naturalia: ed. Biehl, Lipsia 1898. Problemata: per quelli musicali ed. Jan, in Musici scriptores Graeci, Lipsia 1895, e ed. Gevaert e Vollgraff, Gand 1899-1902; per quelli fisici, ed. Ruelle-Knoellinger-Kleck, Lipsia 1922. Ethica Nicomachea: ed. Ramsauer, Lipsia 1878; ed. Bywater, Oxford 1880; ed. Susemihl-Apelt, 3ª ed., Lipsia 1912; trad. ted. di A. Lasson, Jena 1909 e di E. Rolfes, 3ª ed., Lipsia 1920; trad. parziale italiana, con commento, di A. Carlini, Bari 1924. Ethica Eudemia: ed. Susemihl, Lipsia 1884. Magna moralia: ed. Susemihl Lipsia 1883. Politica: ed. Susemihl-Immisch, Lipsia 1909; ed., con ampio commento, di W.L. Newman, in 4 voll., Oxford 1887-1902, trad. ital. di V. Costanzi, Bari 1925. 'Αϑηναίων πολιτεία: ed. prima di F.G. Kenyon, Londra 1891; ed. Blass-Thalheim, Lipsia 1909; ed. con vers. ital. di C. Ferrini, Milano 1891. Oeconomica: ed. Susemihl, Lipsia 1887. Rhetorica: ed. Roemer, Lipsia 1899; ed. J. E. Sandys, con ampio commento di E. M. Cope, 3 voll., Londra 1877. Poetica: ed. Vahlen, 3ª ed., Lipsia 1885; ed. Bywater, Oxford 1911; ed. Rostagni, con ottimo commento, Torino 1927; traduzione ital. e comm. di M. Valgimigli, Bari 1916.
Bibl.: Sull'opera filosofica di A. in generale, oltre le parti relative nelle storie generali della filosofia antica, del Brandis (Handbuch der Gesch. der griechischröm. Philos., Berlino 1835-60, III, ancora meritevole di essere consultato), dello Zeller (Philos. d. Griechen, II, ii, 4ª ed., Lipsia 1921), del Windelband (Gesch. d. abendl. Philos. im Altertum, 4ª ed. curata dal Goedeckemeyer, Monaco 1923), di Th. Gomperz (Griechische Denker, III, Lipsia 1909), del Doering (Gesch. d. griech. Phil., 1903, II), del Deussen (Die Phil. d. Griechen, Lipsia 1911), del von Arnim (die europäische Phil. d. Altertums, nella collezione Die Kultur der Gegenwart del Hinneberg, 2ª ed., Berlino 1913), di A. W. Benn (The Greek Philosophers, II, Londra 1882; e Hist. of ancient philos., Londra 1912), dell'Ueberweg-Praechter (Gesch. d. Philos. im Altertum, 12ª ed., Berlino 1926, con ricca bibliografia nelle sempre aggiornate ristampe), sono da vedere le caratteristiche del pensiero aristotelico date dall'Eucken (specialmente nell'opera Lebensanchaauung der grossen Denker, Lipsia 1890, 10ª edizione 1912; cfr. la traduzione italiana del Martinetti, Torino 1902), del Brentano, Aristoteles und seine Weltansch., Lipsia 1911, e nella collezione Grosse Denker (I, 1921) e segnatamente i lavori speciali su A., del Biese, Die Phil. des A., voll. 2, Berlino 1835-42; del Rosmini, A. esposto ed esaminato, Torino 1858 (opera ancora utile); del Lewes, Aristotle, a chapter from the hist. of science, Londra 1864; del Grote, Aristotle, edito dal Bain e dal Robertson, voll. 2, 3ª edizione, 1884; di E. Wallace, Outlines of the Phil. of A., 3ª ed., Cambridge 1887; di A. Grant, Aristotle, nella collez. Ancient classics for English readers, Edimburgo 1878; del Piat, Aristotle, Parigi 1903; dell'Alfaric, Aristotle, Parigi 1905; del Siebeck, Aristoteles, nei Klassiker del Frommann, 3ª ed., Stoccarda 1910 (trad. ital. del Codignola, Palermo 1912); di O. Hamelin, Le système d'Aristote, Parigi 1920; di A. v. Pauler, Aristoteles, Budapest 1922; di E. Rolfes, Die Philos. des Aristoteles, Lipsia 1923; oltre gli articoli relativi ad A. di E. Caird nella Encyclopaedia Britannica e del Gercke, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., II, coll. 1012-54.
Un importante tentativo recente di ricostruire nel suo complesso l'evoluzione del pensiero originale di A., circa il quale gli antichi ci offrono così scarse notizie, dopo un saggio di A. Dyroff (Ueber Arist. Entwicklung, nella Festgabe per il von Hertling, Friburgo in B. (1913), è quello di W. Jaeger (Aristoteles: Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlino 1923; cfr. A. von Pauler, in Archiv. f. Gesch. d. Philos., n. s., 1926, pp. 202-10), i cui importanti risultati sono stati confermati e in parte integrati da J. Stenzel, Zahl und Gestalt bei Platon und Arist., Lipsia 1924.
Per la bibliografia speciale, e vastissima, su A., è da ricorrere, oltre che al manuale citato dell'Ueberweg-Praechter (12ª ed., 1926, pp. 347, 353 segg. e 101-122 dell'App.) a M. Schwab, Bibliographie d'Aristote, Parigi 1896 (che contiene 3700 numeri), a Jankelevitch, nei Proceedings of the Arist. Society, n. s., I, 1900-1901, e in Philosophical Review, 1902, pp. 205-15; e, nel Jahresbericht für Altertumswiss., alle rassegne di anno in anno ivi pubblicate dal Susemihl (dal 1876 al 94), e a quelle dello Zeller, nell'Archiv für Gesch. der Philos. dal 1887 al 98, cui seguirono il von Arnim e H. Gomperz fino al 1908. Dovendo qui indicare soltanto le cose più essenziali, si ricordi anzitutto come la maggior parte delle citate edizioni e versioni delle opere aristoteliche contengano anche ampî commenti. Così, tra le versioni complessive, la franese del Barthélemy Saint-Hilaire, la tedesca della Philosophische Bibliothek, l'inglese di Oxford.
In particolare, si vedano: per la logica, oltre ai commenti della cit. edizione dell'Organo del Waitz e versione del Rolfes: C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, I, Lipsia 1851, ult. rist. 1925, p. 87 segg.; H. Maier, Die Syllogistik des Arist., voll. 2, Tubinga 1896-1900; A. Carlini, Aristotele: il principio logico (breve antologia e commento), 2ª ed., Bari 1924; G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, Firenze 1927. Per la metafisica, oltre ai commenti citati dello Schwegler, del Bonitz, del Carlini: Michelet, Examen critique de la Métaph. d'A., Parigi 1836; F. Ravaisson, Essai sur la Mét. d'A., Parigi 1837-46 (parziale trad. ital. di A. Tilgher, Firenze 1922). Sulla composizione della Metafisica v. tra gli altri: P. Natorp, Thema u. Disposition d. arist. Met., in Philos. Monatshefte, XXIV (1888), pp. 37-65, 540-574; J. Zahlfleisch, Die Metaph. d. A., das einh. Werk eines Autors, in Philologus, LV (1896), pp. 123-53, cfr. Archiv f. Gesch. d. Philos., XII (1899), pp. 434-92 (1900), pp. 502-40; O. Apelt, Zur Met. des A., in Beiträge zur Gesch. d. gr. Philos., Lipsia 1891; W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgesch. d. Met. d. A., Berlino 1912 e, più maturatamente, nel cit. Aristoteles.
Per le concezioni naturalistiche (in senso lato), di A., v., oltre ai commenti in molte fra le cit. edizioni delle singole opere: D. Neumark, Materie u. Form bei Arist., Berlino 1913; L. Robin, Sur la conception arist. de la causalité, in Archiv f. Gesch. d. Phil., XXIII (1910); Ch. Lévêque, La physique d'A. et la science contemporaine, Parigi 1863; H. Meyer, Der Entwicklungsgedanke b. A., Bonn 1909; G. Ponchet, La biologie arist., Parigi 1885.
Sulla psicologia: W. F. Volkmann, Die Grundzüge d. arist. Psychologie, in Abhandl. d. böhm. Ges. d. Wiss., s. 5ª, X (1859); A. E. Chaignet, Essai sur la psychologie d'A., Parigi 1883; H. Siebeck, Geschichte d. Psychologie, Gotha, 1880-1884, I, ii, pp. 1-127. Sul problema del νοῦς: B. Kellermann, Das Nusproblem, in Philos. Abh. Herm. Cohen dargebracht, Berlino 1912, pp. 152-69.
Per l'etica, F. M. Zanotti, La filosofia morale di A.; compendio con note, 2ª ed., Torino 1883; M. Wittmann, Die Ethik des A., Ratisbona 1920; A. Goedeckemeyer, A. praktische Philosophie, Lipsia 1922; G. Zuccante, Aristotele e la morale, Firenze [1926]; e le trattazioni concernenti Aristotele nelle storie generali dell'etica, e speciali dell'etica antica, di Denis (Hist. des théories et des idées morales dans l'antiquité, II, Parigi 1852), Ziegler (Die Ethik der Gr. und Römer, Brunswick 1882), Schmidt (Die Ethik der alten Griechen, II, Lipsia 1882), Luthardt (Die antike Ethik, Lipsia 1887), Köstlin (Gesch. d. griech. Ethik, Lipsia 1908-1911, II), H. Gomperz (Die Lebensauffassung d. griech. Philos., Jena 1904); O. Dittrich (Gesch. d. Eth., I, Lipsia 1926).
Per la politica, oltre ai commenti citati, tra cui importantissimo quello del Newman: W. Oncken, Die Staatslehre des A., voll. 2, Lipsia 1870-75; Filomusi-Guelfi, La dottrina dello stato nell'antichità, Napoli 1874; C. Bradley, Über die Staatslehre des A., trad. ted. di J. Imelmann, 2ª ed., Berlino 1886; P. Janet, histoire de la science politique, Parigi 1887, I, p. 165 segg.; R. Pöhlmann, Gesch. d. soz. Frage u. d. Sozialismus i. d. antiken Welt, II, Monaco 1912.
Particolarmente ampia, infine, è la bibliografia concernente la Poetica di Aristotele, e in genere la sua teoria dell'arte: per cui cfr. il cit. Ueberweg, p. 359 segg., e pp. 103 segg. e 120-22, dell'appendice. Oltre alle ricordate edizioni, con commento dello scritto aristotelico, si vedano soprattutto: E. Müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, Breslavia 1834-37, II; A. Döring, Die Kusntlehre d. A., Jena 1876; Walter, Geschichte d. Ästhetik im Altertum, Lipsia 1893; G. Finsler, Platon u. die aristot. Poëtik, Lipsia 1900; Butcher, A. theory of poetry a. fine arts, 3ª ed., Londra 1903; U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Einleitung i. d. griech. Tragödie, Breslavia 1907, pp. 48 segg., 107 segg. E, tra gli scritti italiani: G. Galati Mosella, La genesi e il carattere fondamentale della poetica di A., Palermo 1910; B. Giuliano, Dommatismo e idealismo estetico nella Poetica di A., in Rivista di filosofia, febbraio 1919; A. Rostagni, Aristotele e aristotelismo nella storia dell'estetica antica, in Studî ital. di filol. classica, n. s., II (1921); cfr. Atene e Roma, n. s., I (1920); U. Galli, La mimesi artistica secondo A., in Studî ital. di filol. class., n. s., IV (1926): oltre ai commenti cit. del Valgimigli e del Rostagni. Sul concetto della catarsi, cfr. ancora: N. Festa, Sulle più recenti interpretazioni della teoria aristotelica della catarsi nel dramma, Firenze 1901 (e cfr. La Cultura, I, pp. 241-60); N. Terzaghi, Sulla katharsis di A., in Classici e neolatini, VIII (1912), pp. 384-95.
L'Aristotelismo nel Medioevo e nel Rinascimento.
Fino al secolo IV, la maggior parte degli scrittori cristiani mostrò grande diffidenza verso A., che, ai loro occhi, aveva il torto di somministrare quelle terribili armi dialettiche di cui facevano uso Teodoziani, Ariani ed altri eretici (Tertulliano, De praescr., 7; Eusebio, Hist. eccl., V, 28; Cirillo Aless., Thesaur., XI). Inoltre, si rimproverava ad A. la dottrina dell'eternità del mondo dell'anima concepita come forma del corpo e quindi mortale, e d'aver limitato la provvidenza al solo mondo celeste.
Tuttavia gli scrittori cristiani d'Alessandria, e segnatamente Origene, mostrano di non ignorare le dottrine aristoteliche, di cui si osservano qua e là non poche tracce in essi. E come S. Basilio trae profitto dalle Storie degli animali dello Stagirita, così lo stesso S. Gregorio Nisseno, per quanto disprezzi la κακοτεχνία aristotelica di Aezio ed Eunomio, fa suo il concetto dell'astrazione e quello dell'opposizione fra potenza e atto. Ben più evidenti tracce di dottrine aristoteliche appaiono in Nemesio e in Giovanni Filopono, discepolo di Ammonio d'Ermia e commentatore di non pochi scritti d'A. Ancor più spiccata tendenza verso l'aristotelismo si avverte negli scrittori della scuola antiochena. A Diodoro di Tarso sono stati aggiudicati dal Harnack alcuni scritti già attribuiti a Giustino, nei quali la sorprendente virtuosità dialettica anticipa di nove secoli il metodo della scolastica. Se anche col Funk si dovessero ritenere questi scritti usciti dalla penna d'ignoto autore del sec. V, la loro testimonianza sull'azione che l'aristotelismo cominciava ad esercitare sulla patristica orientale non è meno importante.
Col nestorianismo e col monofisismo, la filosofia aristotelica penetrò in Siria. Fra il sec. V e il VII, le opere dello Stagirita furono tradotte e commentate nelle celebri scuole di Edessa, Nisibi e Gundisapora. Il divampare delle fiere contese cristologiche condusse ad approfondire i concetti di sostanza, natura ed ipostasi, intorno ai quali ardevano le dispute, e ben presto la tendenza aristotelica cominciò a prevalere sul neoplatonismo, dominante ancora nella patristica greca.
Ma non doveva tardar molto a prendere il sopravvento anche in questa, per opera di S. Giovanni Damasceno. Convinto che le scienze profane e la filosofia debbano servire, come ancelle, alla teologia, egli traeva profitto dalle dottrine logiche e metafisiche di A., che riassumeva a mo' d'introduzione alla sua opera sistematica, Πηγη γνώσεως, con la quale si conclude il periodo della patristica greca.
Nello scialbo periodo della speculazione bizantina, col prevalere dello scolasticismo e delle dispute dialettiche, che logoreranno il vigore dello spirito greco dal sec. IX al XIV, A. si dividerà le preferenze delle diverse scuole con Platone. Mentre la mente positiva di Fozio rifugge dalle fantasie platoniche e propende per A., a Platone farà ritorno il suo discepolo Areta. Un po' più tardi Michele Psello rimprovera A., di cui pur aveva commentato le Categorie e il De interpretatione, di "trattare in modo troppo umano delle cose divine e d'esser più versiforme di Proteo". Non è certamente sua la Σύνοψις εἰς τὴν 'Αριστοτέλους λοδγικήνκήν επιστήμην, di cui son traduzione quasi letterale le Summulae logicales di Pietro Ispano. Contemporanei di Psello sono Giovanni Xiphlinos, autore di un trattato filosofico teologico con spiccate tendenze aristoteliche, e Giovanni Italo commentatore degli scritti logici di Aristotele. Michele d'Efeso, Eustazio, Niceforo Blemmides e Giorgio Pachimere scrissero pure commenti e compendî di opere aristoteliche. E dopo di loro lo studio sì di Platone come d'A. fu continuato con fervore, finché gli avvenimenti della penisola balcanica non fecero tacere le dispute dialettiche, costringendo i dotti greci a cercare in Italia, ove recaron seco preziosi manoscritti salvati dall'invasione turca, aure più miti.
Non molto diversa da quella dei padri greci fu l'accoglienza che A. ebbe dai padri latini. Non solo Tertulliano accusava il re "povero Aristotele" d'aver fornito le armi dialettiche agli eretici, ma anche il dottissimo Girolamo metteva in guardia contro i syllogismorum spineta del filosofo greco. Più equanime, S. Agostino riconosce l'"eccellente ingegno" del discepolo di Platone; ma lo ritiene inferiore al maestro, e mostra d'aver ben poca familiarità con le opere di lui.
Quegli che veramente iniziò il pensiero cristiano alla conoscenza d'A., fu Boezio. Prima di lui, Mario Vittorino aveva tradotto le Categorie e il De interpretatione, cui aveva aggiunto un commento. Boezio concepì il vasto disegno di tradurre tutto A. e tutto Platone e di dimostrare la loro concordia. Ma la vita non gli permise di portarlo a compimento. Quello che ci resta non è molto (la traduzione e il commento delle Categorie, la traduzione e il duplice commento del De interpr.). Ma egli stesso c'informa d'aver tradotto anche la Topica e i Primi analitici. Ci restano inoltre scritti intorno a diversi capitoli della logica aristotelica. Filosofo vero, Boezio approfondì molti concetti metafisici dell'aristotelismo e ne fece largo uso nei suoi opuscoli teologici.
Dopo di lui, la dialettica entra fra le artes sermocinales del Trivio che, insieme alle artes reales del Quadrivio, preparavano allo studio della teologia. Si chiamerà più tardi logica vetus il complesso delle traduzioni di Vittorino e di Boezio, cui serviva di avviamento l'Isagoge di Porfirio. Per ben sei secoli non si conobbe altro di A.; ma quello che si conosceva non rimase senza influenza. Sulla soglia stessa della logica vetus, il tentativo di definire il significato metafisico delle quinque voces porfiriane suscitò la questione degli universali, che, dibattuta fin dal sec. IX, entrò nella fase acuta nella seconda metà dell'XI, per l'applicazione delle diverse soluzioni di essa all'interpretazione del dogma. Contro l'invadenza della dialettica nel campo della teologia levarono la voce inascoltata pochi monaci, eredi dello spirito di Tertulliano e di S. Girolamo. Pier Damiani affermò persino che lo stesso principio di contraddizione è soggetto, come le leggi naturali, alla libera volontà di Dio.
Il problema degli universali postulava, per esser risolto, concetti gnoseologici di cui erano sfornite le scuole di dialettica. Abelardo, che più degli altri aveva capito Boezio, intuì la soluzione aristotelica della questione, che fu meglio chiarita appena si conobbero gli altri scritti aristotelici, dopo che le crociate accrebbero i rapporti con bizantini e musulmani. Intorno al 1128, probabilmente, Giacomo da Venezia tradusse dal greco e commentò gli altri libri dell'Organo, che, introdotti a Chartres e da Ottone di Frisinga recati in Germania, formarono la logica nova. Nuove traduzioni si cominciarono a fare sì dal greco e sì dall'arabo.
Il pensiero dell'Islām s'era incontrato con la filosofia greca in Siria e in Persia, quando califfi illuminati, come al-Manṣūr, al-Ma'mūn e al-Mu‛taṣim, si circondarono di dotti siri, armeni e persiani, e affidaron loro importanti cariche. Gli scritti d'A., già tradotti in siriaco, furon voltati in arabo. Al-Ma'mūn fondò a Baghdād, nell'832, un ufficio di traduttori, sotto la guida del nestoriano Ḥunain ibn Isḥāq, noto agli scolastici col nome di Iohannitius, la cui opera fu continuata dal figlio e dal nipote. Intorno al 1000 i musulmani erano in possesso non solo di tutti gli scritti aristotelici tranne la Politica, ma altresì di buon numero di commenti greci. Come i Siri, anche gli Arabi, prima delle dottrine fisiche e metafisiche d'A., ne avevan conosciuto l'Organo; ma ben presto il loro pensiero si volse anche a quelle. Nell'interpretazione del pensiero aristotelico, i primi peripatetici dell'Islām, come al-Kindī, al-Fārābī e gli Ikhwān aṣ-Ṣafā' (Fratelli puri) accentuarono la tendenza dei commenti neo-platonici, riuscendo spesso a ibridi miscugli di dottrine neo-pitagoriche, gnostiche, neo-platoniche e aristoteliche. Contribuì a questo l'attribuzione ad A. della Theologia, che, tradotta dal siriaco verso la metà del sec. IX, altro non era se non un estratto delle Enneadi (IV-VI) di Plotino, come il libretto De causis, spesso creduto d'A., era un estratto dell'Institutio theologica di Proclo.
La più importante sintesi del pensiero aristotelico col neoplatonismo si deve ad Avicenna. Dopo di lui, con al-Ghazālī, prende il sopravvento, nell'Oriente, la reazione teologica e mistica in difesa dei dogmi minacciati dalla filosofia, e il centro della speculazione arabica si sposta in Occidente.
Fra i musulmani della Spagna, il pensiero filosofico comincia a germogliare appena sotto il califfato di al-Ḥakam II, ha tregua per un momento l'intolleranza religiosa dei giureconsulti, e possono diffondersi le eresie mu‛tazilita e bāṭinita. Contro la filosofia ripresero le persecuzioni nella seconda metà del sec. X. Vittima di esse fu il matematico ‛Abd ar-raḥmān, autore di un compendio dell'Organo. Ma le persecuzioni, se ritardarono, non impedirono lo sviluppo del pensiero. Al principio del sec. XI, troviamo un altro compendio, dovuto ad Abū' ṣ-Ṣalt di Denia, della parte principale dell'Organo; e può dirsi che, al principio del secolo seguente, l'aristotelismo si fosse già ben radicato tra i mori spanoli. Avempace (Ibn Bāgiah), Abubacher (Ibn Ṭufail), Averroè, (Ibn Rushd) ed Alpetragio (al-Biṭrūgī) ne approfondirono le dottrine fisiche, metafisiche e psicologiche. Alpetragio tornava alla concezione aristotelica delle sfere concentriche, che opponeva al sistema tolemaico degli eccentrici e degli epicicli; e Averroè, col gran commento e con compendî e trattazioni speciali, si studiava, senza riuscirvi del tutto, di districare il genuino pensiero di A. dall'ibrido connubio neoplatonico. Per lui, A. non solo è il magister primus (De gener. et corr., I, comm. 38) e il sapientissimus graecorum, ma divinus magis quam humanus (Phys., prol.); non solo recò a perfezione tutte le scienze (ib. e De caelo, III, 68), ma fu la regula in natura et exemplar quod natura invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam in materiis (De anima, III, 14).
I problemi intorno ai quali si affannò maggiormente lo spirito filosofico dell'Islām sono quelli dell'eternità del mondo, della necessità e contingenza degli esseri, della conoscenza dei particolari da parte di Dio e quello tormentosissimo del rapporto dell'intelletto separato con l'uomo.
Nella Spagna, ove numerosi ebrei vissero frammisti a musulmani, l'aristotelismo arabico agì sul pensiero giudaico di Abramo ben David di Toledo e di Maimonide. Quest'ultimo ci ha lasciato, nella sua Guida dei dubbiosi, la più importante sintesi della filosofia giudaica con l'aristotelismo. Aristotele è per Maimonide, come per Averroè, il "principe dei filosofi", "colui che, dopo i profeti, ha raggiunto il più alto grado della sapienza umana". Ed egli lo segue per tutto quello che riguarda il mondo infralunare, completandolo, per ciò che concerne il mondo celeste e divino, con al-Fārābī.
Il rifiorire della scolastica e il nuovo impulso aristotelico allo sviluppo del pensiero nell'Occidente cristiano, dopo la metà del sec. XII, è dovuto agli scambî culturali coi musulmani, con gli ebrei e con i bizantini. Mentre si diffondevano le recenti traduzioni di Giacomo da Venezia, a Toledo, per ordine dell'arcivescovo Raimondo un collegio di traduttori attendeva con alacrità a voltare in latino, dall'arabo, i rimanenti scritti aristotelici e quelli dei maggiori interpreti. Domenico Gundisalvo (Gundissalinus) e l'ebreo convertito Giovanni ben David, spesso in collaborazione, tradussero opere di Avicenna, di al-Fārābī e di al-Ghazālī; Gherardo da Cremona, la Fisica, il De caelo, il De generatione et corruptione, i primi tre libri delle Meteore e i secondi Analitici (col commento di Temistio) di A., nonché varî trattati di al-Kindī e di al-Fārābī. Nel 1218, Michele Scoto recatosi a Toledo vi traduceva il Liber de motibus caelorum di Alpetragio, nello stesso torno di tempo il De caelo, il De anima e pare anche il De generatione et corruptione di A. con i relativi commenti d'Averroè, nonché le parafrasi averroistiche del De somno et vigilia, del De sensu et sensato e del De memoria et reminiscentia. Più tardi, recatosi alla corte di Federigo Il, traduceva per lui il compendio De animalibus fatto da Avicenna. La traduzione dei commenti averroistici all'Organo fu compiuta a Napoli, nel 1232, dall'ebreo provenzale Iacob ben Abba Mari, incoraggiatovi dall'imperatore. Poco dopo, un Ermanno Alemanno tradusse il compendio dell'Etica Nicomachea, il commento medio a questa e il compendio della Poetica, dovuti pure ad Averroè. Contemporaneamente a queste traduzioni dall'arabo, altre se ne fecero direttamente dal greco. Non sappiamo chi tradusse la Metafisica (meno i due ultimi libri), nota a Parigi nella seconda metà del sec. XII, il De anima, il De somno et vigilia e il De expirat. et respir. citati intorno al 1215 da Alfredo di Sareshel, su una traduzione greco-latina. Prima del 1162, il siciliano Enrico Aristippo tradusse il quarto libro delle Meteore (meno gli ultimi capitoli); un po' prima del 1250, Roberto Grossatesta, l'Etica Nicomachea e forse i commenti d'Eustazio e di Michele d'Efeso; Bartolomeo da Messina, alla corte di re Manfredi (che aveva tradotto d'arabo in ebraico e poi d'ebraico in latino il pseudo aristotelico De pomo), i Magna Moralia; Ermanno Alemanno, la Retorica, e un ignoto i Problemi falsamente attribuiti ad Aristotele. Nei primi anni dopo il 1260, una nuova traduzione, o almeno una revisione delle vecchie traduzioni sul testo greco, fece alla corte papale, su richiesta di Tommaso d'Aquino, il domenicano belga Guglielmo di Moerbeke, che tradusse altresì il commento di Simplicio alle Categorie e al De caelo. Così i latini, poco dopo la metà del sec. XIII, possedevano tradotte tutte le opere di A., e buona parte di commenti. Sotto il nome d'A. circolavano inoltre, tradotti dall'arabo, gli scritti apocrifi (De causis, Theologia, Problemata, De secretis secretorum, De mundo, De pomo).
L'effetto di queste nuove traduzioni fu sorprendente. Da Toledo e dalla corte di Sicilia, l'aristotelismo si diffuse rapidamente a tutto l'Occidente cristiano. Aveva un bel gridare il monaco Pietro Cellense: Non est nemus aristotelicum plantandum iuxta altare (La Bigne, Bibl. Veter. Patrum, Lione 1677, tav. XXIII, p. 793 C), la sua voce rimase inascoltata. Da ogni parte, sulle questioni dialettiche, presero il sopravvento le dispute fisiche e metafisiche; le vecchie scuole si trasformarono, sorsero le università, e dalle facoltà delle arti, dove aveva la sua roccaforte, l'aristotelismo, più o meno autentico, prese a invadere le scuole di teologia. Fu dato l'allarme. Il concilio provinciale di Parigi del 1210 decretò: nec libri Aristotelis de naturali philosophia nec commenta legantur Parisiis publice vel secreto. La proibizione fu ripetuta, nel 1215, dal legato pontificio Roberto di Courçon per i libri de metaphysica et de naturali philosophia e per le summae de eisdem (Denifle-Chatelain, Chart. univ. Paris, I, 70,78,79). La proibizione non riguardava la logica né l'etica; né se ne tenne conto fuor di Parigi. Nel 1231, Gregorio IX incaricò tre maestri di emendare gli scritti vietati, onde potersene permettere lo studio. L'ordine fu ripetuto da Urbano IV, nel 1263. Nel frattempo le opere vietate non solo erano state lette da scolari e maestri, ma nel 1255 erano entrate a Parigi nel programma ufficiale d'insegnamento e avevano profondamente agito sulla mentalità degli stessi teologi. I commenti che si presero a scrivere sulle opere di A., divenute testo ufficiale nelle scuole delle arti, sono innumerevoli, né li abbiamo tutti. Spiccano su gli altri quelli farraginosi di Alberto Magno, che voleva rendere intelligibile ai suoi contemporanei tutto A., e quelli più sobrî e letterali di Tommaso d'Aquino, che fu detto talora l'expositor, come Averroè era chiamato il commentator per eccellenza.
Quattro tendenze si delineavano ormai tra gli scolastici: l'agostinianismo dei teologi tradizionalisti, i quali usavano A. fin dove lo si poteva in qualche modo conciliare con S. Agostino; il cosiddetto averroismo latino di alcuni maestri delle arti che, come Sigieri di Brabante, accettavano senza riserve la dottrina aristotelica secondo l'interpretazione arabica, anche là dove s'opponeva al dogma, la corrente albertina, che sì larga influenza ebbe su Dante, e che svolgeva il pensiero aristotelico nel senso di un neoplatonismo eclettico; e infine il tomismo, sintesi originale della filosofia aristotelica, liberata dalle influenze arabiche, col pensiero cattolico, che nella Summa theologica dell'Aquinate raggiungeva il punto culminante del suo sviluppo.
Queste tendenze continueranno a intrecciarsi nella scolastica della decadenza, ora attenuandosi ora accentuandosi. Ma mentre lo spirito speculativo del Medioevo si esauriva nelle infeconde dispute tra tomisti, scotisti, occamisti e averroisti, contro il formalismo e le diatribe esegetiche cominciava a reagire la mistica neoplatonica e la nuova filologia degli umanisti. Misticismo e umanesimo spingono il Petrarca a ribellarsi all'autorità di A. e di Averroè e a ridonare a Platone il primato che Dante e gli scolastici avevano assegnato allo Stagirita.
Non tutti gli umanisti si misero contro A. Anzi si può dire che la rappresentazione schematica del mondo rimase in sostanza, anche per essi, quella aristotelica. L'A. che essi combattevano era quello degli scolastici, il cui pensiero sembrava offuscato dalle irte traduzioni e reso irriconoscibile dai commentatori. Il bisogno di conoscere il vero A., da che Emanuele Crisolora s'era fatto ad essi maestro di greco, li spinse alla ricerca del testo originale, che dotti bizantini recavano seco, fuggendo in Italia. Nuove traduzioni da opporre a quelle medievali, sì di A. e sì dei suoi commentatori greci, recarono a termine nel sec. XV Palla Strozzi, Roberto Rossi, Leonardo Bruni, Francesco Filelfo, Lorenzo Valla, Gregorio Tifernate, Teodoro Gaza, Giorgio Trapezunzio, il Bessarione, l'Argiropulo, Giannozzo Manetti e Girolamo Donato. Né si contentarono essi di quest'opera di spolveramento filologico; gli umanisti acquistarono e ricopiarono gli stessi testi greci, che ben presto le stamperie veneziane dovevano diffondere in tutta Europa, insieme alle recenti traduzioni.
Alle quali tennero dietro dotte discussioni critiche e filologiche. La prima sorse a proposito della traduzione dell'Etica Nicomachea fatta dal Bruni. Altre ardenti ne divamparono, appena lo stesso Bruni, il Decembrio, il Cassarino, e Marsilio Ficino ebbero tradotto Platone, intorno al primato da assegnare a questo o ad A., e sulla possibilità o meno di metterli d'accordo. Ma quando Girolamo Donato, patrizio veneto, ebbe tradotto il commento di Alessandro di Afrodisia al De anima (la prima stampa uscì a Brescia nel 1495), una nuova e più rumorosa disputa, l'ultima veramente importante nella storia dell'aristotelismo, fu sollevata da coloro che nell'Afrodisio avevano finalmente trovato un'autorità da opporre a quella di Averroè. E alessandristi e averroisti discussero con accanimento intorno al più difficile problema dell'aristotelismo, quello del rapporto fra l'intelletto e l'anima sensitiva nell'uomo, problema che metteva a nudo l'impossibilità di risolvere il vecchio dualismo platonico-aristotelico fra idea e materia, intelligibile e sensibile. Alla pericolosa contesa tentò invano di por fine, nel 1512, il V concilio lateranense.
Ma ormai la filologia umanistica sboccava, col Cusano, col Telesio e col Bruno, nel naturalismo panteistico, e l'aristotelismo tramontava, come filosofia viva, tra le invettive e i sarcasmi di Lodovico Vives, di Mario Nizzolio, di Pietro Ramo e di Erasmo, mentre Galileo beffeggiava il cocciuto aristotelico nel suo Simplicio.
Bibl.: E. Renan, De philosophia peripatetica apud Syros, Parigi 1852; Baumstark, Aristoteles bei den Syrern, I, Lipsia 1900; G. Furlani, in numerosissime pubblicazioni monografiche, riassunte in meine Arbeiten über die Philosophie bei den Syrern, in Archiv. f. Gesch. d. Philos. u. Sociol., XXXVII (1926); J. B. Chabot, L'école de Nisibe, son histoire, ses statuts, Parigi 1896; Prantl, Gesch. d. Logik im Abendl., passim; Grabmann, Gesch. d. schol. Methode, I, Friburgo in B. 1909, pp. 92-115, 149-159, 215-257; II, 1911, pp. 177-187, 447; S. Munck, Mélanges de philos. juive et arabe, Parigi 1859; Carra de Vaux, Les penseurs de l'Islam, Parigi 1921 segg., voll. 5; Schneid, Arist. in der Scholastik, 1875; S. Talamo, L'Aristotelismo nella Scolastica, 3ª ed., Siena 1900; Ueberweg-Geyer, Grundr. Gesch. d. Philos., II, Die patrist. u. schol. Philos., iiª ed., pp. 92, 135, 145, 283 segg., 293 segg., 343 segg. e la bibliografia a p. 687 segg.; F. Fiorentino, Pomponazzi, Firenze 1868, capp. I-X; id., Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli 1885; id., Studi e ritratti della Rinascenza, n. ed., Bari 1911; G. Gentile, La filosofia italiana, nella collez. vallardiana dei Generi lett., pp. 9, 219 segg.; Ueberveg-Moog, Grundriss, III, Die Philos. der Neuzeit, 12ª ed., 1924, §§ 4-5, e relativa bibliografia.
La leggenda medievale di Aristotele.
A., in quanto, come altri saggi antichi, ebbe la sua leggenda, appartiene al ciclo poetico d'Alessandro. Non c'è una storia fantastica d'A. al di fuori di quella del suo regale allievo. Anche il fatto storico che A. fu maestro d'Alessandro giovinetto si rispecchia nel romanzo dell'eroe, tramandato al Medioevo, non senza confusioni e aggiunte immaginarie. A. viene così mescolato con altri maestri e fatto collega perfino di Nettanebo incantatore. Variano i diversi racconti sulle materie dell'insegnamento: dalle lingue, poniamo, come greco, ebraico, caldaico, latino, all'astronomia o magari all'arte militare e alla cavalleria. Diversi i racconti, anche nel senso geografico ed etnico, per l'universale rinomanza d'Alessandro, e, in conseguenza, del suo maestro, in Oriente e in Occidente. Secondo i più favolosi fra questi racconti, compiuta l'opera di maestro, A. non si stacca da Alessandro, ché anzi l'accompagna nelle spedizioni d'Africa e d'Asia. S'attribuisce, p. es., ad A. il consiglio che Alessandro scegliesse intorno a sé dodici paladini, dove chiaramente si riflette la tradizione dei dodici paladini di Carlomagno. E il sapere del sommo Stagirita si converte addirittura in infallibilità d'indovino; ma nemmeno come tale egli sfugge alle seduzioni femminili. A. aveva biasimato l'allievo, al colmo ormai delle conquiste e della gloria, perché troppo arrendevole al fascino femminile; e la bellissima, cui non aveva resistito Alessandro, volle mettere alla prova il pedagogo austero. Nel lai d'Aristote, Henri d'Andeli (sec. XIII), riecheggiando un racconto orientale, rappresenta costei seducente e abile al punto da indurre il più saggio degli uomini a piegarsi in maniera da servirle di palafreno. Alessandro, non visto dal maestro, vede e sorride. La tradizione di sì mirabile trionfo della donna, perfino su A., fu largamente diffusa nelle letterature e nelle arti figurative del Medioevo.
Bibl.: M. Ch. Gidal, La légende d'Aristote au moyen-âge, in Nouvelles Études sur la litt. grecque mod., Parigi 1878, p. 331 segg.; W. Hertz, Aristoteles in den Alexanderdicht. des Mittelalters, in Abhandl. der Philos.-Philol. Cl. der K. Bayer. Akad. der Wissensch., XIX, i, Monaco 1891, p. 3 segg.; id., in Gesamm. Abhandl., Stoccarda e Berlino 1905, p. i segg.