Aristotele
Il filosofo greco (Stagira 384-383 a.C. - Calcide 322 a.C.) è citato tre volte nell’opera di Machiavelli. Una particolare attenzione al contesto, onde evitare fraintendimenti, richiede la menzione che occorre nella corrispondenza con Francesco Vettori.
Costui, scrivendo all’amico il 20 agosto 1513 a proposito della forza politica e militare degli svizzeri, attribuisce all’A. della Politica (da qui in poi Pol.) una valutazione sulle repubbliche «divulse» (ossia divise), invocata a sostegno, evidentemente, del proprio parere. Piuttosto irritata nel tono la replica di M.: «né so quello si dica Aristotile delle repubbliche divulse; ma io penso bene quello che ragionevolmente potrebbe essere, quello che è e quello che è stato» (lettera a F. Vettori, 26 agosto 1513). La battuta su A. non deve trarre in inganno circa le intenzioni che le sono sottintese, e che in nessun modo autorizzano a leggervi – come non si è mancato di fare (Martelli 1998) – una svalutazione dell’autorità filosofica allegata dall’amico. In effetti, ha ben notato Giorgio Inglese, la battuta non si spiega
se non rammentando che la Politica non tratta mai delle repubbliche “divulse”. Machiavelli non deride dunque la parola degli antichi, ma la vana e superficiale sapienza formulare di politici come il Vettori, usi a citare le auctoritates a casaccio (Inglese 2006, p. 38).
Ancora associata a un luogo della Politica è la menzione di A. che si legge nel capitolo xxvi dei Discorsi («come per cagione di femine si rovina uno stato»): «E Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, con stuprarle o con violarle o con rompere i matrimoni» (III xxvi 10). Senza ombra di dubbio qui M. ha in mente la trattazione sulle cause dei complotti contro il tiranno in Pol. V 10, all’interno della quale A. cita l’oltraggio recato dai Pisistratidi alla sorella di Armodio come tipico esempio di abuso da cui può nascere, per desiderio di vendetta, una congiura (1311a 36-40). E poco più avanti è ricordato il caso della congiura dell’eunuco contro Evagora di Ciro, nata da un’offesa recata dal figlio del tiranno alla moglie dell’eunuco: «siccome il figlio di Evagora gli aveva strappato la moglie, quello, ritenendosi offeso, lo ammazzò» (1311b, trad. it. di R. Laurenti, 1973, e così tutte le successive traduzioni della Politica). Potrebbe invece aver lasciato una traccia nel titolo del capitolo («come per cagione di femine si rovina uno stato») la sentenza di 1314b 27-28: «a causa delle ingiurie delle donne molte tirannidi rovinarono» (nella trad. di Leonardo Bruni: «per contumelias mulierum permultae iam tyrannides perierunt»), all’interno però di un ragionamento tutto diverso. Non richiede un particolare commento, dato il carattere estrinseco del riferimento, la terza e ultima menzione di A., ultima anche in ordine cronologico, rinvenibile negli scritti di Machiavelli. Essa compare in un vibrante passaggio del Discursus florentinarum rerum, ove lo Stagirita assieme con Platone «e molti altri» autori è annoverato tra quegli spiriti grandi che «non avendo possuto fare una repubblica in atto», per la contrarietà dei tempi, «l’hanno fatta in scritto» (SPM, p. 640).
L’innegabile esiguità dei riferimenti diretti ha indotto taluni studiosi a sottostimare la presenza di A. nell’opera di M., ritenendola sostanzialmente incompatibile con il presunto carattere antiteorico ed ‘empirico’ (qualsiasi cosa ciò voglia dire) del pensiero machiavelliano (Guillemain 1976). Un’indagine più accurata, sulla base degli spogli effettuati da Laurence Arthur Burd (1891) per il Principe e da Leslie Joseph Walker (1950) per i Discorsi, rivela al contrario una conoscenza non superficiale, da parte di M., degli scritti morali dello Stagirita, e soprattutto della Politica. La maggior parte delle occorrenze aristoteliche registrabili nel Principe e nei Discorsi proviene in effetti dal libro V di quest’opera, e in particolare dai capitoli 10 e 11, il cui contenuto conviene ora ripercorrere brevemente. Il capitolo 10, che tratta delle cause per cui i regimi monarchici (regno e tirannide) si dissolvono, si apre con una distinzione tra regno e tirannide. Il regno, afferma A., corrisponde all’aristocrazia, mentre la tirannide risulta dalla combinazione di due forme perverse, oligarchia e democrazia, e per questo è più dannosa per i sudditi. Le due forme traggono origine da cause opposte: «il regno – scrive A. – è sorto per la difesa degli uomini eccellenti contro il popolo e il re viene scelto in seno agli uomini eccellenti»; il tiranno, al contrario, viene scelto «in seno al popolo e alla massa del volgo contro gli uomini più elevati, perché il popolo non subisca torti da costoro» (1310b). Il re, si dice poco più oltre, vuole essere un guardiano, in modo che chi possiede le ricchezze non subisca alcuna offesa e il popolo non sia trattato con prepotenza; il tiranno, invece, guarda unicamente al proprio interesse e a questo subordina l’interesse comune. Il re, ne consegue, bada all’onore, il tiranno alle ricchezze. Ecco perché l’uno è benvoluto dal popolo, l’altro odiato. Ed è altresì per questo stesso motivo che la milizia del re è formata da cittadini, laddove quella del tiranno è composta da mercenari. Di qui la conclusione che
la tirannide contiene i mali della democrazia e dell’oligarchia: dall’oligarchia deriva il proporsi come fine le ricchezze […] e il non fidarsi affatto del popolo […]: maltrattare la plebe, cacciarla dalla città, disperderla in vari luoghi è comune ad entrambe, all’oligarchia e alla tirannide: dalla democrazia deriva il muover guerra ai notabili, il distruggerli di nascosto e apertamente, il bandirli come rivali e ostacoli del potere (Pol. V 10, 1311a 9-18).
A questo giudizio segue una trattazione piuttosto dettagliata delle cause per le quali i regimi monarchici si corrompono. Vengono così esaminate, con il ricorso a esempi concreti, varie tipologie di cospirazione e di complotto (tra cui, come si è detto, la congiura che nasce a causa di offese contro le donne). Si elencano quindi altri fattori di disgregazione dei governi monarchici. Per quel che concerne la tirannide, tali fattori possono essere di due tipi, esterni (allorché la tirannide viene abbattuta da uno Stato più forte e con una costituzione a essa contraria) o interni (per es., per divisioni sorte nel gruppo che detiene il comando). La ribellione dei sudditi, motivata da odio e disprezzo nei confronti del tiranno, resta tuttavia il principale agente endogeno di dissoluzione del potere tirannico:
Sono due soprattutto le cause per cui si attenta alla tirannide, l’odio e il disprezzo: la prima, e cioè l’odio, accompagna sempre i tiranni, ma molte distruzioni derivano dal fatto che essi sono oggetto di disprezzo (1312b 19-21).
Se il capitolo 10 affronta il problema della corruzione dei regimi monarchici, l’11 tratta, specularmente, del modo in cui tali regimi si conservano.
Dopo aver dedicato qualche rapida osservazione al regno, A. si sofferma più ampiamente sulle tirannidi.
Queste ultime, afferma lo Stagirita, si conservano in due modi diametralmente opposti: attraverso la repressione cruenta di ogni forma di dissidenza, accompagnata a una politica di rigore e di costante sospetto nei confronti dei sudditi; ovvero con l’adozione di misure volte a creare una base di consenso popolare: ciò favorisce infatti una remissione degli elementi patologici del potere tirannico, temperandone l’originaria licenziosità, e ne determina l’evoluzione verso la forma monarchica non deviata e perciò più solida (il regno): «come un modo per distruggere il regno consiste nel rendere il potere più tirannico, così la salvezza della tirannide consiste nel renderlo più regale» (Pol. V 10, 1314a 33-35). L’adozione di queste misure incontra un limite, evidentemente, nella necessità di non intaccare la forza militare e l’apparato coercitivo che sono a «fondamento» del potere tirannico, e senza i quali il tiranno non sarebbe nelle condizioni di assoggettare i sudditi ribelli al suo dominio; perderebbe cioè la natura di tiranno, che consiste appunto nel governare sia su quelli che lo vogliono sia su quelli che non lo vogliono.
Premesso ciò, A. indica le varie cautele che il tiranno deve assumere se ambisce a ottenere il favore del popolo.
Anzitutto, è essenziale che egli sostenga sempre, e se necessario simuli, la parte del re: gestirà pertanto oculatamente e spenderà con parsimonia il denaro dei sudditi, da amministratore accorto, evitando di sperperarlo in attività licenziose e volgari o di abusarne per sé; deve inoltre curarsi di non apparire mai troppo severo; dovrà anzi sembrare tale che «chi lo incontra provi per lui non paura, ma rispetto», ma per far questo è indispensabile che egli non susciti mai il disprezzo nei sudditi; egli si mostrerà inoltre moderato nell’uso dei piaceri materiali e la stessa moderazione imporrà alla corte, onde evitare che i sudditi lo giudichino vizioso e dissoluto e prendano perciò a disprezzarlo (e di conseguenza a rispettarlo meno). Nelle spese edili, ancora, si comporterà piuttosto come un amministratore che come un tiranno: edificherà dunque nuove città e provvederà ad abbellirle, ma senza sprechi né sfarzo. Quanto poi alla religione, è importante che egli si mostri sempre estremamente zelante del culto divino – in modo che i sudditi, vedendolo pio, non abbiano a temere di subire ingiustizie da lui – ma anche qui sobriamente e senza incorrere in ingenuità. Nella distribuzione degli onori e delle cariche il tiranno si regolerà invece in questo modo: concederà l’adeguato riconoscimento a quanti si siano distinti in qualche campo e a costoro farà credere che non avrebbero ottenuto di più se fossero stati indipendenti.
Osserverà tuttavia la cautela di non concentrare troppi privilegi nelle mani di un solo uomo, tanto più se audace, affinché costui non acquisti un potere che lo renda poi minaccioso. È opportuno inoltre che gli onori e i premi sia lui a concederli, di persona, mentre per le punizioni è bene che si serva di funzionari e di tribunali, in modo da sottrarsi alla taccia di crudele. E in generale si preoccuperà di non apparire mai troppo aspro e vendicativo, astenendosi da soprusi e ribalderie, e mostrerà di infliggere le punizioni con spirito paterno e per il solo desiderio di giustizia e non per odio, o per desiderio di esibire la propria superiorità. Tutte queste misure, conclude A., hanno lo scopo di stabilizzare il regime tirannico creando a protezione di esso una larga fascia di consenso. Di qui l’enfasi, presente nelle ultime battute del capitolo, sulla necessità che il tiranno si procuri il favore della parte più forte e quantitativamente maggiore dello Stato, la parte popolare, garantendole protezione:
Poiché gli stati sono costituiti di due parti, di poveri e di ricchi, è estremamente necessario per entrambi comprendere che la loro esistenza è garantita dal governo e che per opera sua gli uni non ricevano offesa dagli altri: la parte più forte, poi, il tiranno deve renderla quanto mai attaccata al governo, perché, se riesce a porre tale base alla sua azione, non gli sarà più necessario ricorrere all’affrancamento degli schiavi o alla requisizione delle armi: in effetti, una delle due parti aggiunta alla sua forza personale gli sarà sufficiente per superare i ribelli [...]. Lo scopo comunque è chiaro: bisogna ch’egli appaia ai sudditi non un capo tirannico, ma un amministratore e un reggitore regale, non un usurpatore ma un tutore, che segua la moderazione nel modo di vivere e non gli eccessi, che frequenti inoltre le persone ragguardevoli e si concili il favore della massa. Da ciò deriva necessariamente non solo che il suo governo sia più bello e più invidiato perché si esercita su persone migliori e d’animo non abietto e ch’egli viva al riparo da odii e paure, ma anche che il suo governo duri più a lungo e che lui, poi, sia nel suo carattere o ben disposto verso la virtù o buono per metà e non perverso ma solo perverso per metà (Pol. V 11, 1314b 33-1315b 10).
Parte delle cautele prescritte da A. al tiranno che voglia far durare più a lungo il proprio regime si ritrovano nel Principe sotto forma di accorgimenti che M. raccomanda al principe nuovo per conciliarsi il favore del popolo.
In generale, la materia di Politica V 10-11 sembra presupposta in diversi luoghi dell’opuscolo, come documenta questo regesto sommario:
El principato è causato o dal populo o da’ grandi secondo che l’una o l’altra di questa parte ne ha l’occasione:
perché, vedendo e’ grandi non potere [opprim]ere [e]l populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro e fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare il loro appetito; il populo ancora, vedendo non poter resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno e lo fa principe per essere con la sua autorità difeso. Colui che viene al principato con lo aiuto de’grandi si mantiene con più difficoltà di quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si truova principe con molti intorno che gli paiono essere sua equali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare vi si truova solo e ha dintorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a ubbidire (ix 3-5);
Debbe […] el principe farsi temere in modo che, se non acquista lo amore, ch’e’ fugga l’odio: perché e’ può molto bene stare insieme essere temuto e non odiato. Il che farà sempre, quando si astenga da la roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi e da le donne loro, e quando pure gli bisognassi procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia giustificazione conveniente e causa manifesta, ma soprattutto astenersi da la roba d’altri (xvii 12-13);
A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utili: come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso – e essere, ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario […]. Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria, a parere di avere, che questa ultima qualità (xviii 13, 16); el principe pensi […] di fuggire quelle cose che lo faccino odioso e contennendo: e qualunque volta e’ fuggirà questo, arà adempiuto la parte sua e non troverà nelle altre infamie periculo alcuno. Odioso soprattutto lo fa […] essere rapace e usurpatore della roba e delle donne de’ sudditi: da che si debbe astenere […]. Contennendo lo fa essere tenuto vario, leggieri, effeminato, pusillanime, irresoluto […] e ingegnarsi che nelle azioni sua si riconosca grandezza […]. Quel principe che dà di sé questa opinione è reputato assai, e contro a chi è reputato con difficoltà si congiura, con difficoltà è assaltato, purché s’intenda ch’e’ sia eccellente e che sia reverito da’ sua. Perché uno principe debbe avere due paure: una dentro, per conto de’ sudditi: l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni […] circa a’ sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere ch’e’ non coniurino segretamente; di che el principe si assicura assai fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui: il che è necessario conseguire (xix 1-9);
Uno principe debbe tenere delle congiure poco conto qando il populo gli sia benivolo, ma quando gli sia nimico e abbilo in odio debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E gli stati bene ordinati e e’ principi savi hanno con ogni diligenza pensato di non disperare e’ grandi e staisfare al populo e tenerlo contento, perché questa è una delle più importanti materie che abbi uno principe (xix 18); e’ principi le cose di carico debbono fare somministrare a altri, quelli di grazia loro medesimi (xix 23).
Ancorché smembrata e rifusa in un nuovo contesto, la trama logica dei capitoli 10 e soprattutto 11 della Politica è ben riconoscibile in questi passaggi del Principe. Dagli esempi citati, e in modo più evidente dai luoghi estratti dal capitolo xix, il più fitto di rimandi a Pol. V 11, emerge il senso dell’operazione compiuta da M. sul testo aristotelico. La quale consiste essenzialmente nel sagomare sul principe nuovo le regole di condotta politica che A. suggerisce al tiranno ‘mite’. La dottrina machiavelliana del «principato civile», basato sul consenso del popolo, deve molto in effetti alla teoria aristotelica della tirannide temperata. Nel modello antico è cercata così una risposta efficace al problema più angosciante dell’opuscolo: come rendere stabile il governo, di per sé instabile, di un principe nuovo. È esattamente su questo punto che il Principe si separa dalle concezioni ‘etiche’ della trattatistica medievale e quattrocentesca de regimine principum e incontra il realismo della Politica (cfr. Inglese 2006, p. 84).
Che uno dei tratti più originali del Principe consista nell’uso spregiudicato, libero cioè da condizionamenti etici e religiosi, che M. ha fatto dell’autorità aristotelica è un dato di cui si mostrano perfettamente consapevoli già i primi lettori dell’opuscolo. Sul finire del 16° sec. Giovanni Botero, nel trattato Dell’uffitio del cardinale (1599), osserva acutamente che «Machiavelli ha formato un Principe, che non è altro che il tiranno che ha descritto Aristotele nella sua Politica, con uno o due essempi moderni» (commento a N. Machiavelli, Il Principe, a cura di L.A. Burd, 1891, p. 290, nota 7). La coscienza di questo rapporto è alla base della primissima reazione al Principe, testimoniata dalla riscrittura dell’opuscolo compiuta dal filosofo Agostino Nifo (→) nel De regnandi peritia (1523).
Obiettivo di Nifo è denunziare la fisionomia tirannica che si cela sotto il principe machiavelliano. I non rari interventi personali di Nifo rivelano in effetti la preoccupazione di tenere il più possibile distinti l’optimus rex della tradizione aristotelico-cristiana e il principe machiavelliano, indicando l’autentico modello di costui nel tiranno aristotelico. Di qui la neutralizzazione della nozione ibrida di ‘principato civile’, di cui Nifo coglie perfettamente la derivazione dalla tirannide moderata di A., intermedia tra il regno e la tirannide propriamente detta. Il limite di tale nozione, agli occhi di Nifo, sta nel fatto che in essa rischia di offuscarsi il divario tra interessi del popolo e interessi del tiranno sancito dalla tradizione: Tyrannus – così Tommaso d’Aquino – omnia retorquet ad suum commodum, utilitate subiditorum contempta («il tiranno piega ogni cosa a sua personale utilità, disprezzando il bene dei sudditi»: In octo libros Politicorum Aristotelis expositio, II, 7, ed. a cura di R.M. Spiazzi, 1966, p. 79). Significativa in tal senso la precisazione che Nifo aggiunge in fondo alla parafrasi del capitolo ix del De principatibus:
verum non pratermittendum est hunc Principem tyrannicum esse, aut ad tyrannidem tendere, non enim electione legitima aut iure hereditario fit
non va taciuto che il Principe di cui qui si parla è un principe tiranno, o comunque tende alla tirannide, dal momento che costui non ha ricevuto il potere per elezione legittima o per diritto ereditario (De regnandi peritia III 10).
Ancor più che nel De regnandi peritia, la volontà di annullare nella tirannide la specifica fisionomia del principato civile è esplicita nell’opuscolo De rege et tyranno (1526). Il capitolo IV, che tratta della genesi del potere tirannico, è ancora una riscrittura del capitolo ix del Principe: il principe che arriva al principato con l’appoggio del popolo, di cui M. scrive in quel capitolo, è per Nifo l’incarnazione del tyrannus classico e con tale termine, tyrannus, sistematicamente impiegato laddove M. ricorre a ‘principe’, egli è designato infatti in tutto il capitolo (De rege et tyranno IV). Sebbene strumentale, la lettura di Nifo ha il merito di far emergere il rapporto obiettivo tra la dottrina machiavelliana del principato civile e i capitoli sul tiranno della Politica aristotelica. Ragione per cui l’influsso di A. non può considerarsi limitato, come vorrebbe Bernard Guillemain (1976), ad aspetti estrinseci del pensiero machiavelliano. Che questo influsso raggiunga viceversa un punto vitale della riflessione di M. è stato ben compreso, tra gli studiosi moderni, da Arthur Burd: «l’originalità di Machiavelli – scrive Burd nelle note al xvi del Principe – consiste nell’aver ripreso la concezione tradizionale del tiranno greco e di averne fatto il modello del principe nuovo» (commento a Il Principe, a cura di L.A. Burd, cit., p. 289, nota 7).
Un discreto numero di allusioni e rinvii alla Politica si rinviene anche nei Discorsi. L’accurato spoglio eseguito da Leslie J. Walker (ma non tutti i raffronti proposti appaiono persuasivi) conferma una lettura ‘selettiva’ da parte di Machiavelli. Anche in questo caso il grosso dei prelievi è infatti dai capitoli 10 e 11 del libro V. Si riportano qui di seguito i riscontri più significativi.
Dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de’ tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati e Popolare [...]. Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni sono e soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri i quali da questi tre dipendano e ciascuno d’essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall’uno all’altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte (Discorsi I ii 10-13).
La tripartizione machiavelliana delle costituzioni rette e delle corrispondenti forme degenerate riprende l’analoga classificazione contenuta in Pol. III 7 (ma va anche segnalato il luogo parallelo di Etica Nicomachea VIII 12), correggendola però e integrandola, nel seguito del ragionamento, con materiale polibiano.
Quelli principi o quelle republiche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino (Discorsi I xii 2).
Il concetto, ripreso ai §§ 8 e 9, riecheggia Pol. V 11 sull’opportunità che il tiranno mostri di avere cura del culto divino, onde non attirarsi il disprezzo e quindi l’odio del popolo.
Chi prende a governare una moltitudine, o per via di libertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che a quell’ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che per assicurarare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine; perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli si assicura, ma chi ha per nimico l’universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa, tanto più debole diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia è cercare di farsi il popolo amico (Discorsi I xvi 12-16).
La sostanza di questo giudizio deriva da Pol. V 11, 1315a, sull’opportunità che il tiranno che voglia durare ricerchi il consenso della «parte più forte», ossia il popolo.
Volendo pertanto uno principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli che sono diventati della loro patria tiranni, dico ch’ei debbe esaminare prima quello che ’l popolo desidera, e troverrà sempre ch’ei desidera due cose: l’una, venidicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l’altra di riavere la sua liberà (Discorsi I xvi 16 e segg).
Il passo prende spunto da Pol. V 11 sulle misure filopopolari che il tiranno deve assumere per consolidare il proprio potere.
Nel capitolo xxiv, intitolato Le repubbliche bene ordinate costituiscono premii e pene a’ loro cittadini, né compensono mai l’uno con l’altro, M. scrive:
se a uno cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e una confidenza di poter sanza temere pena fare qualche opera non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si risolverà ogni civiltà (Discorsi I xxiv 6).
Si tratta della reinterpretazione e dell’adattamento di un passaggio di Pol. V 11, 1315a, in cui al tiranno si suggerisce di non accrescere con premi e ricompense il potere dei sudditi audaci, i quali potrebbero rappresentare una minaccia per la stabilità del regime.
In Discorsi I xxv 6 compare una definizione della tirannide («una potestà assoluta, la quale dagli scrittori è chiamata tirannide»), la quale, per quanto generica, potrebbe presupporre le definizioni del potere tirannico in Pol. III 6, 1279b 15 e IV, 1295a 6.
Nel capitolo xlvi dei Discorsi si dice: «una pubblica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i suoi cittadini sotto ombra di bene non possino fare male, e ch’egli abbino quella riputazione che giovi e non nuoca alla libertà» (I xlvi 12), passo che è utilmente confrontabile con Pol. V 8, 1308b:
è accorgimento comune alla democrazia, all’oligarchia, alla monarchia e a ogni forma di costituzione non esaltare troppo qualcuno oltre le debite proporzioni, bensì cercare di assegnare onori modesti e di lunga durata più che grandi e di poca durata [...] soprattutto bisogna cercare per mezzo delle leggi di regolare le cose in modo che nessuno riesca a raggiungere una posizione troppo preminente per aderenze di amici e possibilità di ricchezze, se no, si devono allontanare costoro, mediante l’espulsione.
Nel capitolo xxviii (Discorsi II xxviii 10), l’esempio di Filippo il Macedone potrebbe essere stato suggerito da Pol. V 10, 1311a. Il vi capitolo del III libro dei Discorsi, il capitolo «delle congiure», riprende diversi elementi della trattazione sulle congiure contro i regimi monarchici e sul modo per prevenirle svolta da A. in Pol. V 10-11: il principe deve evitare l’odio della massa (§ 10); le ingiurie più odiose ai sudditi sono quelle «nella roba, nel sangue o nell’onore», e di queste ultime maggiormente quelle contro le donne (§§ 14-19); pochi sono coloro che effettivamente attentano alla vita del principe, perché il più delle volte ciò li espone a una morte certa (§ 34, che rielabora uno spunto offerto da Pol. V 11, 1315b sul disprezzo della vita da parte dei congiurati).
Il capitolo xxvi del III libro, infine, rinvia a un passaggio di Pol. V 10, sulle offese contro le donne come causa comune di congiura contro re e tiranni (cfr. sopra):
si vede come le donne sono state cagione di molte rovine, e hanno fatti gran danni a quegli che governano una città, e hanno causato di molte divisioni in quelle [...]. E Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, con stuprarle o con violarle o con rompere i matrimoni (III xxvi 9-10).
In aggiunta a questi riferimenti si segnala il suggestivo accordo tra un luogo del commento di Tommaso d’Aquino al II libro della Politica e l’argomentazione che sorregge il capitolo v del libro II («che la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l’accidente de’ diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose»), la quale implica la tesi aristotelica dell’eternità del mondo (→). Commentando un accenno di A. alla variazione delle leggi da un’epoca all’altra, Tommaso scrive infatti:
Ad cuius intellectum considerandum est, quod Aristoteles opinatus fuit mundum ab aeterno fuisse, ut patet in VIII Physicorum et in I De coelo: et tamen manifestum est per antiquas historias, quod ab aliquo certo tempore incoeperunt regiones habitari: quod videtur contrariari aeternitati mundi. Sed ad hoc solvendum inducebat Aristoteles quod multoties factae sunt desolationes generales terrarum per aliqua diluvia vel per quascumque corruptiones; quibus cessantibus incoeperunt de novo regiones habitari [...]. Potuit contingere quod in generali corruptione aliqui homines conservarentur vel in montibus vel per aliquem alium modum [...]. Videtur quod primi homines fuerint imprudentes et ignari, idest non excellentes [...] unde inconveniens videtur quod aliquis permaneat in legibus et statutis ipsorum.
In merito a ciò, è da tener presente che Aristotele professò la tesi che il mondo fosse eterno, come attestano l’ottavo libro della Fisica e il primo libro del De coelo: e tuttavia dalle antiche storie risulta evidente che le regioni della terra cominciarono a essere popolate da un certo tempo in poi, il che pare contraddire alla tesi dell’eternità del mondo. Ma a questa obiezione Aristotele rispondeva che molte volte le terre furono devastate da catastrofi come i diluvii o le pestilenze, cessate le quali le varie zone della terra venivano ripopolate. [...]. E può essere accaduto che dalla devastazione generale alcuni uomini si salvassero o rifugiandosi sui monti o in qualche altro modo […]. E poiché gli uomini sopravvissuti erano privi di discernimento e ignoranti […] è evidente che quanti vennero dopo rifiutarono di mantenere le stesse leggi e gli stessi statuti (In octo libros Politicorum Aristotelis expositio, II, 12, cit., p. 95).
Scarni i riferimenti alla Politica nelle opere minori e nelle Istorie fiorentine. A parte qualche allusione nell’Arte della guerra (per es., in I 80, ove la sottolineatura del comando esclusivo nelle operazioni militari quale unica prerogativa residua della monarchia assoluta parrebbe tener presente Pol. III, 1285b), un’eco dal III della Politica è avvertibile nella prima delle Sentenze diverse, là dove è menzionata l’esclusione dei lavoratori manuali dal comando dello Stato (cfr. F. Grazzini, Nota introduttiva a N. Machiavelli, Sentenze diverse, in N. Machiavelli, Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino et al., 2013, pp. 380-81).
Benché sia l’opera più frequentemente citata, la Politica di certo non è l’unica opera di A. conosciuta da Machiavelli. In considerazione della straordinaria diffusione dell’Etica Nicomachea tra Quattro e Cinquecento, la conoscenza di questo testo deve essere data per sicura, per quanto sia difficile determinarne l’estensione. Più che fornire un regesto dei possibili rinvii, conta rilevare come alcuni aspetti della riflessione machiavelliana si pongano in oggettivo contrasto
con norme riconducibili all’Etica, alcune delle quali divenute luoghi comuni. Così, per es., per la svalutazione delle «vie di mezzo», giudicate «dannosissime», con cui M. deplora l’incapacità degli uomini a essere, se necessario, «tutti cattivi» o «tutti buoni» (Discorsi I xxvi 5), in contrasto con la sentenza «in medio stat virtus», con la quale è vulgariter riassunta (e tradita) la dottrina aristotelica della virtù. Allo stesso modo, l’idea che il principe debba saper atteggiare variamente la propria fisionomia morale secondo il variare delle circostanze, e così saper trascorrere dalla virtù al vizio o da questo a quella, se ciò è necessario a evitare la rovina dello Stato, come afferma il capitolo xv del Principe, si oppone a un insegnamento basilare dell’Etica, ossia che la virtù (come il vizio) è un abito acquisito e come tale difficilmente modificabile.
Nella stessa prospettiva va vista la raccomandazione al principe, nel capitolo xvi, affinché si astenga dalla liberalità, che a lungo andare può causare il dissesto delle finanze pubbliche, e usi piuttosto la parsimonia, senza timore di apparire «misero» (‘taccagno’).
Quella che per A. è la virtù che regola il nostro uso delle ricchezze (Etica Nicomachea IV 2-3), in M. è un vizio e somiglia piuttosto alla prodigalità. Il punto fu ben compreso da Nifo, che intervenne a difesa dell’ortodossia aristotelica. Nel capitolo i del IV libro del De regnandi peritia, egli avverte di non confondere tra loro prodigalità e liberalità. Solo la prima, che consiste nello scialacquare le proprie sostanze, va evitata dal principe; la liberalità, che consiste «nel donare a quelli ai quali si deve, quanto e come si deve» (Etica Nicomachea IV 2, 1120a), è invece una virtù di cui il sovrano non può fare a meno, e che anzi conferisce lustro alla sua figura, procurandogli il favore del popolo e della corte. La medesima argomentazione è ribadita nel De rege et tyranno.
Un aspetto non secondario della presenza di A. in M. si esprime infine sul piano linguistico, come già rilevato nel commento di Burd (cit., p. 289, nota 7). Numerosi, negli scritti di M., i termini che hanno un’ascendenza aristotelica (materia forma accidenti, suggetto, sostanza, umori, effetto, disposizione, generazione corruzione elezione [nel senso di ‘scelta deliberata’] ecc.). Un campione abbastanza rappresentativo si ha in Discorsi I xviii 22 (da confrontare con Principe vi 9):
Era necessario […] a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l’avesse fatto nuovi ordini; perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo che in uno buono, né può essere la forma simile in una materia al tutto contraria.
La familiarità di M. con le forme tipiche del linguaggio scolastico è comprovata del resto dal fatto che nella Mandragola esse caratterizzano linguisticamente, con intenti parodistici, il personaggio di frate Timoteo (cfr. L. Huovinen, Der Einfluss des theologischen Denkens der Renaissancezeit auf Machiavelli: Mandragola, die Scholastiker und Savonarola, «Neufilologische Mitteilungen», 1956, 57, pp. 1-13). Più in generale, un elemento di forte continuità fra scrittura machiavelliana e ‘metodo scolastico’ è dato dalla conservazione delle tecniche proprie dell’argomentazione medievale, in buona parte derivate dalla logica aristotelica. Il genere scolastico della quaestio, articolata nella elencazione degli argomenti pro e contra una certa tesi, seguita dalla soluzione (responsio o solutio) del magister e quindi dalla replica alle singole obiezioni, rappresenta un modello non trascurabile, in effetti, della prosa teorica machiavelliana.
Bibliografia: Per studi sull’aristotelismo in età umanistica e rinascimentale, si rimanda alla bibliografia raccolta in C. Lohr, Latin Aristotle commentaries, 5° vol., Bibliography of secondary lit - erature, Firenze 2005. Sulla tradizione della Politica, si veda nello specifico G. Besso, B. Guagliumi, F. Pezzoli, Accademia e politica attiva: le edizioni, le traduzioni e i commenti alla Politica di Aristotele in Italia nei secoli XV-XVI, «Respublica litterarum», 2007, 30, pp. 3-19.
Per un censimento delle occorrenze aristoteliche negli scritti maggiori di M. si vedano: L.A. Burd, commento a N. Machiavelli, Il Principe, ed. L.A. Burd, Oxford 1891; L.J. Walker, commento ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in The Discourses of Niccolò Machiavelli, ed. L.J. Walker, 2° vol., London 1950, pp. 273-77.
Tra gli studi che toccano la questione delle fonti aristoteliche di M. si vedano in particolare: B. Guillemain, Machiavel, lecteur d’Aristote, in Platon et Aristote à la Renaissance, Actes du XVIe Colloque international, Tours 1973, Paris 1976, pp. 163-71; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1988-1997, ad indicem; M. Martelli, Machiavelli e i classici (1998), in Id., Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma 2009; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 38, 84, 108. Per le notizie sugli scritti di A. Nifo da noi citati, si rimanda al repertorio a cura di E. De Bellis, Bibliografia di Agostino Nifo, Firenze 2005, ad vocem. Cfr. inoltre G. Pedullà, Disputare con il Principe, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto, G. Pedullà, 1° vol.,Torino 2010, pp. 796-803.