Aristotele
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Aristotele è l’autore del primo sistema filosofico-scientifico elaborato nella storia della cultura occidentale, cioè del primo complesso di nozioni filosofiche e scientifiche tra loro collegate e articolate in una molteplicità di discipline, la maggior parte delle quali hanno conservato la loro denominazione nei secoli successivi sino al tempo presente. Le principali fra queste discipline sono la logica, che Aristotele chiama “dialettica”; la fisica, che per Aristotele comprende lo studio della natura terrestre e celeste (quest’ultima oggi si chiama cosmologia); la psicologia, che riguarda le funzioni vitali degli animali e degli esseri umani; la metafisica, scienza delle cause prime, che Aristotele chiama “filosofia prima”; l’etica, scienza del bene individuale; la politica, scienza del bene della polis; la retorica, scienza delle diverse forme di discorso; la poetica, studio della poesia, soprattutto epica e tragica.
Aristotele nasce a Stagira, nella Grecia settentrionale, nel 384 a.C. da Nicomaco, medico del re di Macedonia Aminta III. Nel 367 a.C., all’età di 17 anni, entra nell’Accademia di Platone, ad Atene, dove rimane per vent’anni. In questo periodo scrive, a imitazione dei dialoghi platonici, dei dialoghi che secondo la testimonianza di Cicerone sono di notevole valore letterario, ma che purtroppo sono andati perduti.
I più famosi tra questi sono l’Eudemo, sull’immortalità dell’anima, il Protreptico, discorso o forse dialogo di esortazione alla filosofia, e il dialogo Sulla filosofia, che tratta dei principi primi di tutte le cose. Nello stesso periodo Aristotele scrive anche un trattato Sul bene, in cui riferisce la dottrina dei principi insegnata oralmente da Platone nell’Accademia, e un trattato Sulle idee, in cui espone e critica la dottrina platonica delle idee. Di queste opere si conservano solo frammenti, costituiti da citazioni fatte da autori più tardi o da estratti da loro riportati. Probabilmente Aristotele tiene nell’Accademia dei corsi di retorica e di dialettica, dei quali rimane traccia nelle parti più antiche delle sue opere conservate. Alla morte di Platone (347 a.C.) lascia l’Accademia e si reca ad Asso, città greca dell’Asia Minore, ospite di Ermia, signore di Atarneo, di cui sposa la nipote Pizia e in onore del quale scrive l’Inno alla virtù quando, nel 345 a.C., Ermia è catturato e ucciso dai Persiani. Lasciata per questo motivo Asso, Aristotele si reca a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove si dedica, col discepolo Teofrasto, a ricerche sugli animali, specialmente marini. Nel 343 a.C. è chiamato dal re Filippo II di Macedonia a fare da precettore a suo figlio Alessandro, per il quale scrive i dialoghi Sul regno e Alessandro o sulle colonie, entrambi perduti. Probabilmente egli ottiene dai re macedoni dei favori per la città di Atene, per cui in seguito gli Ateniesi erigono una stele in suo onore.
Alla morte di Filippo, quando Alessandro, succeduto al padre, decide la spedizione contro la Persia che gli guadagna il titolo di Alessandro il Grande, Aristotele torna ad Atene (334 a.C.), dove fonda una sua scuola nel giardino dedicato ad Apollo Licio, detto perciò il Liceo. La scuola comprende anche un luogo per passeggiare, detto “peripato”, per cui è chiamata in seguito “peripatetica”. Nella sua scuola Aristotele tiene corsi di dialettica, fisica, filosofia prima, etica, politica, retorica, poetica; inoltre promuove una raccolta di 158 costituzioni e raccolte di altro materiale (proverbi, elenchi dei vincitori dei giochi, tavole anatomiche). Nel 323 a.C., alla notizia della morte di Alessandro a Babilonia, Aristotele è accusato di empietà dal partito ateniese antimacedone. Il pretesto è l’Inno alla virtù da lui scritto in onore di Ermia, ma il vero motivo dell’accusa è di ordine politico, cioè la sua amicizia per Antipatro, governatore macedone della Grecia, che Aristotele nomina poi suo esecutore testamentario. Prevedendo l’esito del processo, egli lascia Atene recandosi a Calcide, nell’isola di Eubea, dove muore l’anno dopo, nel 322 a.C.
I testi dei corsi tenuti da Aristotele nella scuola, da lui non pubblicati e quindi rimasti per alcuni secoli poco noti, furono editi, cioè trascritti in varie copie e messi in circolazione, soltanto più tardi dal peripatetico Andronico di Rodi, probabilmente a Roma nella seconda metà del I secolo a.C. Essi costituiscono il corpus aristotelicum a noi pervenuto attraverso la tradizione manoscritta. Questo comprende opere di logica (Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi sofistici), di fisica (Fisica, De caelo, De generatione et corruptione, Meteorologica), di psicologia (De anima, Parva naturalia), di zoologia (Historia animalium, De motu animalium, De incessu animalium, De partibus animalium, De generatione animalium), di filosofia prima (Metafisica), di etica (Etica Nicomachea, Etica Eudemea, Grande etica), e inoltre Politica, Retorica, Poetica. In un papiro ci è pervenuta, sempre di Aristotele, la Costituzione degli Ateniesi. Altre opere contenute nel corpus perché attribuite ad Aristotele, quali De mundo, Physiognomica, De plantis, Mechanica, Problemata, De lineis insecabilibus, Oeconomica, Rhetorica ad Alexandrum, sono ritenute apocrife.
Aristotele è considerato l’inventore della logica, cioè della scienza che studia le leggi del pensiero espresso nel discorso (logos). Così viene chiamata infatti la dottrina da lui esposta nelle opere che la tradizione ha riunito sotto il nome di Organon, cioè “strumento”, ritenendo che la logica sia uno strumento di cui si servono le varie scienze.
La prima di queste opere, cioè il trattato intitolato Categorie, distingue gli enti che esistono in sé, per esempio un uomo, dagli enti che esistono in altro, per esempio il colore bianco, chiamando i primi “sostanze” e i secondi “accidenti”. Essa distingue poi gli aspetti degli enti che si “predicano” di un soggetto, cioè che ne costituiscono le caratteristiche generali, i quali sono universali, dagli enti che non si predicano di nulla, i quali sono individuali. Tra le sostanze, cioè tra gli enti che esistono in sé, Aristotele distingue le “sostanze prime”, che sono i soggetti individuali, per esempio “un certo uomo”, Socrate, o Callia, dalle “sostanze seconde”, che sono le specie universali predicate dei soggetti individuali, quali appunto “uomo”, o i generi in cui rientrano tali specie, quali per esempio “animale”. Le sostanze prime sono la condizione dell’esistenza di tutte le altre cose, cioè sia delle sostanze seconde che degli accidenti. Esse non hanno contrario, né grado, ma possono accogliere in sé predicati contrari, in momenti diversi. Anche negli accidenti vi sono individui, per esempio “un certo bianco”, e universali, per esempio il bianco in generale o il colore. Mentre le sostanze rientrano nel genere supremo denominato appunto sostanza (ousía), gli accidenti rientrano in altri nove generi, che sono la quantità, la qualità, la relazione, il dove, il quando, lo stare, l’avere, l’agire e il patire. Questi generi supremi, a volte indicati in numero di dieci, a volte in numero di otto, di sei, o di quattro, sono detti “categorie”, cioè tipi di predicati.
Nel De interpretatione (Sull’enunciazione) Aristotele afferma che le parole, di cui è formato il linguaggio, sono segni convenzionali dei concetti o in genere dei contenuti psichici, i quali a loro volta sono immagini delle cose: tra linguaggio, pensiero e realtà c’è dunque un rapporto di significazione o, come si dice oggi, di semanticità. Le principali parole sono i nomi e i verbi, la cui unione, col nome che funge da soggetto e il verbo che funge da predicato, forma la proposizione o “discorso” (logos). Questo può essere enunciativo di uno stato di cose (apofantico), o semplicemente dotato di significato (semantico), come per esempio la preghiera.
Il discorso enunciativo può essere un’affermazione, quando unisce un nome a un verbo o a un altro nome, per esempio “Socrate cammina”, oppure una negazione, quando li divide, per esempio “Socrate non vola”. Esso può essere inoltre vero o falso: è vero quando unisce parole che significano cose realmente unite o divide parole che significano cose realmente divise, falso quando fa il contrario. L’affermazione e la negazione dello stesso predicato a proposito dello stesso soggetto, riferite ad uno stesso momento e ad un medesimo aspetto, formano la contraddizione: esse non possono essere vere entrambe (principio di non contraddizione), ma è necessario che una delle due sia vera e l’altra falsa (principio del terzo escluso). Le proposizioni possono essere inoltre universali, quando hanno un soggetto universale (per esempio “tutti gli uomini”), o particolari, quando hanno un soggetto particolare (per esempio “qualche uomo”).
Negli Analitici primi Aristotele espone la famosa scoperta del “sillogismo” (syllogismós) o deduzione: questo è il ragionamento in cui da due proposizioni universali, dette “premesse”, consegue necessariamente una terza proposizione, detta “conclusione”. Per esempio, se tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore, cioè più universale) e tutti gli Ateniesi sono uomini (premessa minore), allora tutti gli Ateniesi sono mortali (conclusione). Come si vede, le due premesse hanno in comune un termine, detto “medio”, cioè “uomini”, che nella figura più semplice di sillogismo occupa la posizione di soggetto nella premessa maggiore e di predicato nella premessa minore. Gli altri due termini, detti “estremi”, cioè “Ateniesi” e “mortali”, formano invece la conclusione. Se le premesse sono particolari e la conclusione è universale, non si ha deduzione, ma induzione (epagogé); in questo caso tuttavia la conclusione non consegue necessariamente dalle premesse. Per esempio, se l’uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza bile (prima premessa particolare), e l’uomo, il cavallo e il mulo sono longevi (seconda premessa particolare), allora tutti gli animali senza bile sono longevi (conclusione universale).
Negli Analitici secondi Aristotele illustra un tipo particolare di sillogismo, detto sillogismo scientifico o dimostrazione. Esso ha luogo quando le premesse sono vere, per cui la conclusione, che ne deriva necessariamente, è necessariamente vera. Quando le premesse della dimostrazione sono prime, cioè non sono la conclusione di altre dimostrazioni, si chiamano “principi”. I principi possono essere propri, quando riguardano un genere particolare di enti, che forma l’oggetto di una scienza particolare, per esempio i numeri nel caso dell’aritmetica e le grandezze nel caso della geometria. I principi propri di tali enti sono l’assunzione della loro esistenza e la loro definizione. Oppure i principi possono essere comuni, quando riguardano più generi di oggetti, come per esempio “sottraendo uguali da uguali si ottengono uguali”. Questi ultimi – dice Aristotele – sono chiamati dai matematici “assiomi”. I principi comuni a tutte le scienze sono il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso. La dimostrazione di una tesi si può ottenere anche deducendo da premesse vere una conclusione che contraddice la proposizione opposta a quella che si vuole dimostrare, cioè la fa risultare assurda. In tal caso si ha una dimostrazione per assurdo o “riduzione all’impossibile”.
Nei Topici Aristotele illustra un altro tipo di sillogismo, detto sillogismo dialettico, le cui premesse sono “endossali” (endoxa, il contrario di “paradossali”, paradoxa), cioè ammesse da tutti, o dalla maggior parte, o dagli esperti, o dalla maggior parte degli esperti. Tali premesse non sono sempre vere, ma lo sono nella maggior parte dei casi, ovvero, come dice Aristotele, “per lo più”. Il sillogismo dialettico è chiamato così perché è il tipo di argomentazione che si usa nelle discussioni dialettiche, quelle cioè in cui due interlocutori discutono su un problema, cioè su una domanda che ammette risposte opposte, e l’uno tenta di confutare la tesi sostenuta dall’altro. La confutazione (elenchos) è un sillogismo dialettico la cui conclusione contraddice, cioè nega, una determinata tesi. In genere colui che confuta una tesi si fa concedere dal suo interlocutore, mediante opportune domande, premesse endossali, dalle quali sia possibile dedurre la conclusione che nega la tesi sostenuta dall’interlocutore. I modi per ottenere tali premesse sono i “luoghi” (topoi, da cui il nome del trattato), cioè schemi di argomentazione ammessi da tutti. Infine negli Elenchi sofistici Aristotele insegna a smascherare le confutazioni apparenti, cioè basate non su autentici sillogismi dialettici, ma su sillogismi eristici, o sofistici, che sembrano muovere da premesse endossali, o che sembrano essere sillogismi, mentre in realtà contengono un inganno (per esempio un’omonimia, cioè un riferimento a cose che hanno lo stesso nome, ma definizioni diverse).
Aristotele
La sostanza
Categorie
Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo.
Invece sono dette sostanze seconde le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste e i generi di queste specie. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che son dette sostanze seconde: ad esempio uomo e animale.
È chiaro da quello che si è detto che anche il nome e la definizione delle cose che sono dette di un soggetto è necessario che siano predicati del soggetto. Ad esempio, uomo è detto di un soggetto, di un certo uomo: in verità e gli è predicato il nome – infatti predicherai uomo di un certo uomo – e la definizione di uomo sarà predicata di un certo uomo – infatti un certo uomo è anche l’uomo. Di conseguenza anche il nome e la definizione saranno predicati del soggetto.
Invece delle cose che sono in un soggetto, per la massima parte né il nome né la definizione saranno predicati del soggetto; ma per alcune nulla vieta che il nome sia predicato del soggetto, la definizione invece è impossibile. Ad esempio bianco, che è in un soggetto, nel corpo, è predicato del soggetto – infatti un corpo si dice bianco –, ma la definizione di bianco non sarà mai predicata del corpo.
Tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime assunte come soggetti o sono in esse come in soggetti. Questo è chiaro dai singoli casi che ci si presentano. Ad esempio, animale si predica di uomo, dunque anche di un certo uomo – se infatti non si predicasse di nessuno degli uomini, non si predicherebbe neppure di uomo in generale –; ancora, il colore è in un corpo, dunque anche in un certo corpo ché, se non fosse in qualcuno dei singoli corpi, non sarebbe neppure in un corpo in generale. Di conseguenza tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime [assunte come] soggetti, o sono in esse [come] soggetti.
Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Infatti tutte le altre cose o sono dette di queste (assunte come) soggetti, o sono in esse (come) soggetti; cosicché, se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose.
Aristotele, Categorie, trad. it. di M. Zanatta, Milano, Rizzoli, 1989
La prima forma di conoscenza che l’uomo possiede, secondo Aristotele, è la percezione degli oggetti sensibili, da cui si forma il ricordo e, attraverso molti ricordi dello stesso oggetto, nasce l’esperienza. Questa è conoscenza del “che”, cioè di come stanno le cose. La scienza, o filosofia, è invece conoscenza del “perché”, ovvero delle cause per cui le cose stanno in un certo modo, necessariamente o “per lo più”. Per “causa” Aristotele intende, come vedremo, qualunque tipo di spiegazione, a cui tuttavia corrisponde sempre un oggetto reale.
Il primo oggetto, o complesso di enti, del quale Aristotele ha cercato di avere scienza è la natura (physis), cioè l’insieme dei corpi in divenire, che divengono da sé e in ciò si distinguono dai prodotti dell’arte umana, cioè dagli enti artificiali, i quali vengono all’essere ad opera dell’uomo. Della natura, per Aristotele, fanno parte sia i corpi terrestri che i corpi celesti, cioè gli astri, sia i corpi inerti che i corpi viventi e, tra questi, sia le piante che gli animali, compresi gli esseri umani. Essi sono caratterizzati tutti dal fatto di avere in sé il principio del proprio movimento, cioè dal fatto di muoversi “da sé”, per esempio di generarsi, di crescere e di deperire appunto da sé.
Le cause, cioè le spiegazioni che si possono dare degli enti, secondo Aristotele, possono essere di quattro tipi: (1) cause materiali, ossia la materia (hyle) di cui un oggetto è costituito, per esempio la carne e le ossa nel caso di un animale, il bronzo o il marmo nel caso di una statua; (2) cause formali, ossia la forma (eidos o morphé), intesa nel senso dell’organizzazione o della struttura dinamica di un oggetto, per esempio il modo in cui i vari organi sono collegati e funzionano, nel caso di un animale, o il rapporto in cui stanno le diverse parti di un insieme, per esempio il rapporto di 2 a 1 nel caso dell’ottava musicale (oggi diremmo la “formula” nel caso delle sostanze chimiche); (3) cause motrici, o efficienti, ossia tutto ciò che produce il mutamento di un oggetto, di qualunque tipo esso sia, per esempio il genitore rispetto al figlio, l’artefice rispetto a un artefatto, colui che agisce rispetto ad un’azione; e (4) cause finali, ossia il fine (télos) in vista del quale un oggetto esiste o diviene, per esempio la salute come spiegazione del camminare o del curarsi, o la riproduzione come spiegazione del fatto che gli animali si accoppiano.
Nella Fisica Aristotele mostra che è possibile determinare le cause della natura, e quindi avere una scienza della natura, quale è appunto la fisica. Le cause materiali degli enti naturali sono, in ultima analisi, i quattro elementi dei corpi terrestri, acqua, aria, terra e fuoco, mescolati in vari modi secondo le forme degli enti di cui sono materia. Le cause formali sono appunto tali forme, cioè il modo in cui sono mescolati gli elementi e il rapporto in cui si trovano tra di loro; nel caso dei corpi viventi (piante e animali) la forma è la loro “anima” (psyche), termine col quale Aristotele non intende una sostanza immateriale, separata dal corpo, ma intende l’organizzazione che rende i corpi viventi capaci di vivere, cioè la disposizione e la funzionalità dei loro organi. Le cause finali sono, per gli enti inanimati, il loro “luogo naturale” (la terra per corpi pesanti, il cielo per i corpi leggeri), e per gli enti animati la realizzazione completa della loro forma, cioè la crescita sino all’età adulta, e la riproduzione, cioè la generazione di un vivente della stessa specie. Le cause motrici immediate dei corpi naturali sono diverse secondo il tipo di mutamento a cui questi sono soggetti. Aristotele distingue infatti quattro tipi di mutamento: (1) il mutamento di luogo, o traslazione, (2) il mutamento di qualità o alterazione, (3) il mutamento di quantità, o aumento e diminuzione, e (4) il mutamento di sostanza, o generazione e corruzione. In genere la causa di questi mutamenti è la natura stessa, intesa come principio interno di moto e di quiete, ma la natura a sua volta è soggetta all’azione motrice prodotta dal movimento dei cieli (soprattutto del Sole, che determina l’alternarsi delle stagioni, quindi il caldo e il freddo).
Ogni mutamento presuppone un sostrato, cioè una materia soggiacente, che passa dalla mancanza di una certa forma (stato di “privazione”) al possesso di essa, sia che si tratti di un luogo (movimento locale o traslazione), o di una qualità (alterazione), o di una dimensione (aumento e diminuzione), o della forma di una nuova sostanza (generazione e corruzione). La condizione in cui si trova il sostrato privo di forma, quando esistono le condizioni per cui esso possa acquistarla, è detta da Aristotele “potenza” (dynamis), cioè capacità di assumere una determinata forma, mentre la condizione in cui esso si trova quando ha assunto la forma è detta “atto” (energeia o entelecheia), per cui il mutamento si definisce anche come attuazione, cioè passaggio all’atto, di una potenza. Per esempio il seme, quando sia deposto nella terra e sia adeguatamente innaffiato, è una pianta in potenza, mentre la pianta cresciuta dal seme e pienamente sviluppata è una pianta in atto. Oppure il marmo, quando sia a disposizione di uno scultore che intende trarne una statua, è statua in potenza, mentre la statua già scolpita, per esempio la statua del dio Ermes, è una statua in atto.
Aristotele
I quattro tipi di cause
Fisica, Libro II, 3
Ciò stabilito, bisogna indagar sulle cause, quali e quante di numero esse siano. Poiché, invero, la nostra ricerca ha per fine la conoscenza e, d’altra parte, noi crediamo di non conoscer nulla se prima non abbiamo posto il perché di ciascuna cosa (e ciò significa porre la causa prima), è ovvio che noi dobbiamo fare la medesima indagine anche a proposito del nascere e del perire e di ogni cangiamento fisico, affinché, sapendo i principi di queste cose, noi possiamo tentare di ricondurre ad essi ogni nostra ricerca.
Pertanto, in un senso si dice causa ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente, come il bronzo alla statua o l’argento alla coppa, o anche i vari generi del bronzo o dell’argento. In un altro senso sono causa la forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa (come del diapason il rapporto di due a uno e, insomma, il numero) e le parti inerenti alla definizione. Inoltre, è causa ciò donde è il primo inizio del cangiamento o della quiete, come è causa chi dà un precetto o come il padre è causa del figlio o come in generale chi fa è causa del fatto, chi muta del mutato. Inoltre, la causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute. Se ci si domanda, infatti: “Perché quel tale passeggia?”, rispondiamo: “Per star bene”; e così dicendo noi crediamo di averne data la causa. E della causa finale fan parte tutte le altre cose le quali, anche se mosse da altri, si trovano in mezzo tra il motore e il fine, come per la salute il dimagrire o il purgante o i farmaci o gli attrezzi ginnici: tutte queste cose sono in virtù del fine e differiscono tra loro solo in quanto alcune sono azioni, altre sono strumenti.
Se tante sono, in linea di massima, le cause, accade d’altra parte che, siccome si parla di cause in molti sensi, vi siano anche molte cause di un medesimo oggetto, non per accidente; così, ad esempio, la statuaria e il bronzo sono cause della statua non per qualche altra ragione, ma sol perché la statua è statua, quantunque il modo sia diverso, per il fatto che il bronzo è materia, la statuaria, invece, è principio di movimento.
Aristotele, Fisica, trad. it. di A. Russo, Roma- Bari, Laterza, 1973
Nel De caelo è descritta la struttura dell’universo. Questo è formato, per Aristotele come per tutti i filosofi precedenti, di cielo e terra. La Terra, intesa non come elemento, ma come l’insieme di tutti i corpi terrestri, è una sfera, collocata al centro dell’universo e immobile. Il cielo è a sua volta una sfera, che contiene in sé la Terra, i pianeti e gli astri, cioè il Sole e le stelle. Mentre la Terra comprende tutti i corpi terrestri, composti dai quattro elementi tradizionali (acqua, aria, terra intesa come elemento e fuoco), il cielo comprende tutti i corpi celesti, i quali sono costituiti, secondo Aristotele, da un elemento diverso da quelli terrestri, che li rende ingenerabili e incorruttibili, cioè eterni: l’etere. Questo è anch’esso una materia, ma di un tipo speciale, cioè non soggetto ad alterazione, né a generazione e corruzione, ma soltanto a moto locale. I corpi celesti infatti, secondo Aristotele, si muovono di moto circolare, cioè ruotano intorno alla Terra. Ciascun corpo celeste è trasportato da una sfera, la quale ha come suo centro la Terra e ruota intorno a questa. Il cielo nel suo complesso comprende dunque molte sfere concentriche, di cui quella estrema, che contiene in sé l’intero universo, sarà poi chiamata sfera delle stelle fisse, perché trasporta le stelle, le quali, restando sempre alla stessa distanza le une dalle altre, sembrano infisse in essa.
Il movimento apparentemente irregolare dei pianeti, i quali mutano di posizione tra di loro e rispetto alle stelle, e talora sembrano perfino retrocedere (planetai significa infatti astri “erranti”), si spiega – secondo la teoria dell’astronomo Eudosso di Cnido, fatta propria con alcune correzioni dallo stesso Aristotele – come la risultante dei moti di gruppi di sfere concentriche tra loro unite per i poli, ma con assi diversi. Ciascun pianeta, secondo tale ipotesi, è trasportato da una sfera che fa parte di un sistema di tre o quattro sfere, contenute le une nelle altre, ciascuna con i poli infissi nella sfera superiore, ma ruotante su un asse diverso da quello delle altre. Tutte queste sfere sono poi coinvolte nella rotazione della sfera estrema, contenente in sé l’intero universo. Ciascun moto rotatorio, in quanto eterno, richiede – secondo Aristotele – una causa motrice sempre in atto, cioè costituita di solo atto, senza alcuna potenza, e quindi immobile: esistono pertanto tanti motori immobili, cioè tante sostanze immateriali esterne alle stesse sfere celesti, quante sono queste ultime. Il motore immobile della sfera estrema è il primo motore immobile, il quale per mezzo della sfera delle stelle fisse muove l’intero universo.
Nel De generatione et corruptione Aristotele descrive la formazione dei corpi terrestri a partire dagli elementi, cioè la generazione e la corruzione dovuta all’azione motrice del Sole. Questo, girando intorno alla Terra su di un piano inclinato rispetto all’equatore, il cosiddetto “cerchio obliquo”, o cerchio dell’eclittica, determina l’alternarsi delle stagioni e quindi la successione del caldo e del freddo nelle diverse zone della Terra. L’alternarsi delle stagioni a sua volta determina la generazione e la corruzione delle piante e degli animali. Ma anche gli elementi terrestri, per l’azione del caldo e del freddo, si trasformano l’uno nell’altro, cioè l’acqua per l’azione del caldo si trasforma in aria (evaporazione), l’aria per l’azione del freddo si trasforma in acqua (condensazione) e questa a sua volta si trasforma in terra (congelamento), e la terra per l’azione del caldo si trasforma in fuoco (combustione). Ciò significa che c’è una materia comune ai quattro elementi terrestri, la cosiddetta materia prima, che tuttavia non esiste mai separata da essi.
Non esiste invece, secondo Aristotele, una forma unica a cui si riducano tutte le altre, né un fine unico a cui tutti gli enti tendano. Ogni essere vivente tende a realizzare pienamente la propria forma, cioè a crescere, divenire adulto e riprodursi, generando un altro essere della sua stessa specie, cioè avente la sua stessa forma, per cui la forma, negli esseri viventi, funge anche da fine. La concezione complessiva che Aristotele ha della natura si può dunque considerare finalistica, o teleologica, ma si tratta di un finalismo particolare, non dovuto all’azione di un’intelligenza esterna e non implicante un fine unico ed esterno. Il finalismo di Aristotele suppone l’esistenza di un principio inconscio ed interno ai corpi naturali, quale è appunto la natura (physis): è il finalismo che si manifesta nella tendenza di ciascun individuo vivente a nutrirsi e a riprodursi, assicurando in tal modo l’eternità della propria specie. È invece cosciente il finalismo che si esprime nell’arte (techne), la quale per Aristotele è un’imitazione della natura o un aiuto alla natura: l’artista infatti ha come suo fine la realizzazione nella materia della forma che egli concepisce nella sua mente, per esempio l’architetto ha come fine la realizzazione del suo progetto di casa in una materia, che in tal caso è costituita dai mattoni, dalle travi e da quant’altro serve per costruire la casa.
La parte della natura che è stata più studiata da Aristotele è quella formata dagli esseri viventi, piante, animali ed esseri umani. Questi hanno tutti in comune l’anima, per cui la scienza dell’anima, che noi chiamiamo “psicologia” e che Aristotele espone nel De anima, fa parte della fisica.
L’anima per Aristotele non è una realtà separata dal corpo vivente, ma è la stessa capacità di vivere propria di tale corpo, cioè la sua forma di essere vivente: egli la definisce anche come l’“atto primo” di un corpo organico capace di vivere, cioè il possesso effettivo di tale capacità da parte di un corpo, il suo essere vivo, che lo distingue da un corpo morto. Il vivere si realizza attraverso diversi livelli di attività (che sarà detta poi “atto secondo”), i quali nelle piante sono la nutrizione e la riproduzione, negli animali comprendono anche il movimento e la percezione e infine negli esseri umani comprendono anche il pensiero e le attività ad esso connesse. Ci sono dunque tre tipi di anima, vegetativa, sensitiva e intellettiva, ma quello superiore contiene sempre in sé, potenzialmente, quello inferiore, per cui in ciascun essere vivente c’è una sola anima, vegetativa nelle piante, sensitiva (comprendente le funzioni della vegetativa) negli animali, intellettiva (comprendente le funzioni della vegetativa e della sensitiva) negli esseri umani.
Negli animali in generale, sub-umani ed umani, la percezione (aisthesis), o conoscenza sensitiva, è la prima forma di conoscenza possibile e consiste nell’attuazione simultanea della capacità di percepire, propria dell’organo di senso, e della possibilità di essere percepito, propria dell’oggetto sensibile. Tale attuazione è prodotta dall’azione di una causa già in atto, quale ad esempio la luce per la vista o la vibrazione dell’aria per l’udito. Per mezzo della percezione l’organo di senso assume la forma sensibile dell’oggetto senza assumerne la materia. Dalla percezione, in virtù dell’immaginazione (phantasia), si forma l’immagine (phantasma), che viene conservata nella memoria come ricordo. Negli esseri umani dall’immagine, o dal ricordo, l’intelletto (nous) ricava la forma intelligibile dell’oggetto, espressa dalla definizione, formandosene il concetto. In tal modo l’anima intellettiva viene ad essere il luogo metaforico di tutte le forme intelligibili, cioè il contenitore di tutti i concetti.
Anche in tal caso l’assunzione della forma, cioè l’intellezione, è l’attuazione simultanea della capacità di comprendere, propria dell’intelletto, che perciò è detto potenziale o passivo (pathetikos), e della capacità di essere compresa, propria della forma. E anche in tal caso l’attuazione deve essere prodotta da una causa già in atto, detta da Aristotele intelletto attivo, o produttivo (poietikos), il quale, essendo sempre in atto, sembra essere separato dall’anima umana ed essere eterno. Le poche righe che nel De anima Aristotele dedica all’intelletto attivo (III 5) hanno dato adito a interpretazioni diverse. Alcuni interpreti di Aristotele, come Temistio nella tarda Antichità e Tommaso d’Aquino nel Medioevo, hanno ritenuto che l’intelletto attivo, di cui parla Aristotele, sia individuale, cioè sia l’intelletto dell’anima umana, la quale perciò sarebbe immortale. Altri invece, come Alessandro di Afrodisia nell’antichità e Pietro Pomponazzi nel Rinascimento, hanno ritenuto che l’intelletto attivo, essendo eterno, non possa essere l’intelletto umano, ma sia un intelletto divino, e che quindi l’anima umana, possedendo il solo intelletto passivo, sia mortale. Altri infine, come l’arabo Averroè, hanno ritenuto che entrambi gli intelletti, sia quello attivo che quello passivo, siano universali, e quindi non coincidano con l’intelletto del singolo individuo, ma costituiscano il patrimonio di verità eterne di cui l’individuo umano verrebbe ad essere partecipe nel momento in cui apprende una scienza.
Oltre alla capacità di conoscere, l’anima ha la capacità di desiderare, o desiderio (orexis), che ha per oggetto un bene; questo può essere sensibile, cioè particolare, o intelligibile, cioè universale. Quando un bene intelligibile è riconosciuto come tale dall’intelletto, il desiderio di esso prende il nome di “volontà” e induce l’uomo alla realizzazione di tale bene, che è l’azione (praxis), perciò l’intelletto in questo suo uso è detto “pratico”. L’azione non va confusa con la produzione (poiesis), perché l’azione è fine a se stessa, cioè è di per se stessa la realizzazione di un bene, mentre la produzione ha come suo fine un oggetto diverso da sé, cioè l’oggetto prodotto. Nel caso dell’azione l’oggetto del desiderio, per esempio la salute o la felicità, agisce come un motore immobile, perché è causa dell’azione, che si esprime in un movimento del corpo, ma non è coinvolto nell’azione stessa. Esso muove la facoltà di desiderare, cioè il desiderio, o la volontà, la quale a sua volta muove il corpo, e dunque agisce come un motore mosso.
Aristotele
L’anima
Sull’anima, Libro II, 1
Ora sostanze sembrano essere soprattutto i corpi e tra essi specialmente quelli naturali, giacché questi sono i principi di tutti gli altri. Tra i corpi naturali, poi, alcuni possiedono la vita e altri no; chiamiamo vita la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di deperire. Di conseguenza ogni corpo naturale dotato di vita sarà sostanza, e lo sarà precisamente nel senso di sostanza composta. Ma poiché si tratta proprio di un corpo di una determinata specie, e cioè che ha la vita, l’anima non è il corpo, giacché il corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso soggetto e materia. Necessariamente dunque l’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto. Atto, poi, si dice in due sensi, o come la conoscenza o come l’esercizio di essa, ed è chiaro che l’anima è atto nel senso in cui lo è la conoscenza. Difatti l’esistenza sia del sonno che della veglia implica quella dell’anima. Ora la veglia è analoga all’uso della conoscenza, mentre il sonno al suo possesso e non all’uso, e primo nell’ordine del divenire rispetto al medesimo individuo è il possesso della conoscenza. Perciò l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma tale corpo è quello che è dotato di organi. (Organi sono anche le parti delle piante, ma estremamente semplici. Ad esempio la foglia è la protezione del pericarpo e il pericarpo del frutto, mentre le radici corrispondono alla bocca, in quanto l’una e le altre prendono il nutrimento.) Se dunque si deve indicare una caratteristica comune a ogni specie di anima, si dirà che essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi. Pertanto non c’è bisogno di cercare se l’anima e il corpo formano un’unità, allo stesso modo che non v’è da chiedersi se formano un’unità la cera e la figura né, in generale, la materia di una data cosa e ciò che ha per sostrato tale materia. Se infatti l’uno e l’essere hanno molti significati, quello principale è l’atto.
S’è dunque detto, in generale, che cos’è l’anima: essa è sostanza nel senso di forma, ovvero è l’essenza di un determinato corpo. Così se uno strumento, ad esempio una scure, fosse un corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la sua anima. Tolta questa essenza, la scure non esisterebbe più se non per omonimia. Nel nostro esempio si tratta però soltanto di una scure. In effetti l’anima non è la forma e l’essenza di un corpo di quella specie, ma di un determinato corpo naturale, che ha in se stesso il principio del movimento e delle quiete. Ciò che s’è detto si deve applicare anche alle parti corporee. Se infatti l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista, giacché questa è la sostanza dell’occhio, sostanza in quanto forma (mentre l’occhio è la materia della vista). Se quest’essenza viene meno, non c’è più l’occhio se non per omonimia, come l’occhio di pietra o dipinto. Ora ciò che vale per una parte bisogna estenderlo all’intero corpo vivente. Difatti la relazione esistente tra parte e parte è analoga a quella che intercorre tra l’intera facoltà sensitiva e l’intero corpo senziente in quanto tale.
Aristotele, Sull’anima, trad. it. di G. Movia, Napoli, Loffredo, 1979
Particolare attenzione Aristotele ha dedicato agli animali, descrivendo l’anatomia e la fisiologia di circa 500 specie zoologiche nella Historia animalium, analizzandone le varie parti nel De partibus animalium e studiandone la riproduzione nel De generatione animalium, per cui può essere considerato il fondatore della zoologia (che per lui fa parte della fisica). In base alla diversa anatomia e fisiologia egli ha classificato gli animali in sanguigni e privi di sangue, e quelli sanguigni in vivipari ed ovipari. Tra le parti di cui è composto l’organismo animale Aristotele distingue quelle “omeomere”, cioè omogenee, quali i tessuti, e quelle “anomeoemere”, cioè eterogenee, quali gli organi, e analizza le funzioni di ciascun organo. Il tipo di spiegazione a cui egli ricorre più frequentemente è la spiegazione di tipo finalistico, per cui il tessuto è in vista dell’organo, l’organo in vista della funzione e la funzione in vista della vita complessiva dell’organismo. Per comprendere l’anatomia e la fisiologia degli animali Aristotele si serve spesso dell’analogia, notando che organi diversi svolgono in animali diversi le stesse funzioni, per esempio i polmoni nei mammiferi e le branchie nei pesci.
La riproduzione degli animali è stata da lui spiegata come trasmissione dell’anima, cioè della forma, da parte del genitore maschile, a una materia, costituita dal sangue mestruale, fornita dal genitore femminile. Il tramite della forma è il cosiddetto pneuma (soffio), contenuto nel seme, il quale trasmette alla materia il calore vitale e, attraverso una serie di successivi impulsi meccanici, la organizza in modo da formare l’embrione, cioè un nuovo individuo dotato di una propria forma, specificamente identica a quella del genitore. Dall’embrione si formano uno dopo l’altro i vari organi, secondo il processo che sarà chiamato più tardi “epigenesi”, a cominciare dal cuore, secondo quello che può sembrare un piano prestabilito, cioè un programma, costituito dalla forma. Il termine, e il fine, dell’intero processo è l’individuo pienamente formato. Aristotele ha elaborato questa teoria osservando lo sviluppo del pulcino nell’uovo di gallina e non disponendo di alcuno strumento per percepire l’esistenza degli spermatozoi, scoperti solo nel XVIII secolo grazie al microscopio. La sua teoria dell’epigenesi – termine coniato dall’aristotelico William Harvey – si impone tuttavia su quella della preformazione, secondo la quale tutti gli organi sono contenuti in miniatura nell’embrione sin dall’inizio del suo sviluppo.
Nella Metafisica – titolo attribuito all’opera dagli editori per indicare la sua collocazione dopo le opere di fisica – Aristotele espone la sua “filosofia prima”, da lui così chiamata perché ricerca le cause prime dell’intera realtà. Nel primo libro dell’opera egli mette alla prova la sua teoria dei quattro tipi di causa, confrontandola con le cause prime indicate dai filosofi precedenti. In tal modo, pur senza averne l’intenzione, egli costruisce di fatto la prima storia della filosofia, una storia interamente finalizzata alla convalida della sua stessa filosofia, ma divenuta la fonte di tutte le storie della filosofia successive. Essendo infatti state perdute le opere dei cosiddetti presocratici, alle quali Aristotele poteva almeno in parte ancora attingere, le notizie di cui egli si serve sono divenute la principale fonte di conoscenza del pensiero di tali filosofi. Ma anche l’organizzazione che Aristotele ha dato alla sua esposizione, cioè la determinazione del suo inizio e la scelta dei filosofi da prendere in considerazione, ha determinato la struttura di tutte le storie della filosofia successive.
Secondo Aristotele la causa materiale sarebbe stata scoperta da Talete, che pertanto verrebbe ad essere l’iniziatore di questo tipo di filosofia, ossia della filosofia prima intesa come ricerca delle cause prime, perché l’acqua indicata da Talete come principio di tutte le cose, così come l’aria indicata da Anassimene, il fuoco indicato da Eraclito, i quattro elementi indicati da Empedocle, cioè acqua, aria, fuoco e terra, i “semi” indicati da Anassagora, gli atomi indicati da Leucippo e Democrito, dal punto di vista della distinzione aristotelica sono materia, e quindi causa materiale. La causa motrice sarebbe poi stata scoperta da Empedocle mediante l’indicazione dell’Amicizia e della Discordia e da Anassagora mediante l’indicazione dell’Intelletto come cause dell’aggregazione e della disgregazione dei corpi. La causa formale sarebbe stata accennata dai pitagorici mediante l’indicazione dei numeri e soprattutto da Platone mediante l’indicazione delle idee come cause delle cose sensibili. Nessun filosofo precedente avrebbe invece indicato con chiarezza la causa finale. Pertanto, secondo questa rassegna, l’intera filosofia precedente confermerebbe che i tipi di cause sono quelli, e solo quelli, distinti da Aristotele.
Particolarmente interessante è l’esposizione e la critica che Aristotele fa della filosofia di Platone, perché essa trova un riscontro solo parziale nei dialoghi platonici e dunque solleva il problema dell’esistenza di un insegnamento soltanto orale di Platone, di cui Aristotele sarebbe stato a conoscenza frequentando l’Accademia (lui stesso allude ai cosiddetti ágrapha dogmata, “dottrine non scritte”, del suo maestro). Secondo Aristotele infatti Platone avrebbe ammesso non solo l’esistenza delle idee immateriali ed eterne come cause delle cose sensibili, intendendole come “separate” da queste, ma avrebbe identificato, o ridotto, le idee ai numeri, numeri ideali, non combinabili tra loro, ed avrebbe fatto derivare questi numeri da due principi opposti, l’Uno, inteso come causa formale, e il “Grande e piccolo”, o Diade indefinita, intesa come causa materiale.
Aristotele critica la dottrina delle idee, osservando che queste, essendo universali, come voleva Platone, non possono essere “separate”, perché solo le sostanze individuali, secondo Aristotele, possono esistere separatamente. Le idee, secondo Platone, dovrebbero esprimere l’essenza, cioè la risposta alla domanda “che cos’è?”, delle cose sensibili, ma proprio per questo, secondo Aristotele, non possono essere fuori dalle cose di cui sono l’essenza, cioè devono essere forme immanenti alle cose, come l’anima, secondo Aristotele, è immanente al corpo dei viventi. Inoltre le idee separate non spiegano il divenire delle cose, cioè il movimento dell’intero universo. E i due principi delle idee, o dei numeri ideali, cioè l’Uno e la Diade indefinita, hanno anzitutto il difetto di essere solo due contrari, mentre per spiegare il divenire è necessario ammettere anche un sostrato, e inoltre hanno il difetto di essere gli stessi per tutti le cose, mentre secondo Aristotele ogni cosa ha dei principi suoi propri, che sono gli stessi solo per analogia, cioè perché svolgono la stessa funzione.
Passando poi a esporre la sua filosofia prima, Aristotele spiega anzitutto che in tutti e quattro i generi di cause vi devono essere delle cause prime, altrimenti si procederebbe all’infinito nella ricerca di una spiegazione sufficiente della realtà, senza mai trovarla, cioè in definitiva senza darne una spiegazione (Metaph. II). Poi spiega che il modo di procedere di questa scienza è il metodo aporetico, consistente nel porre “aporie”, cioè problemi, nel prospettare per ciascuno di essi ipotesi di soluzioni opposte, nell’esaminare le conseguenze di tali ipotesi e nell’accettare quelle che resistono meglio alle obiezioni (Metaph. III). Alcune di queste aporie vertono sull’unità della filosofia prima, cioè chiedono come questa possa essere un’unica scienza dovendo cercare tipi diversi di cause, dovendo occuparsi sia delle sostanze che degli accidenti e dovendo trattare anche dei principi di tutte le dimostrazioni, cioè il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso.
Per assicurare l’unità della filosofia prima e la sua distinzione dalle scienze particolari, Aristotele osserva che tutte le cause da essa ricercate sono cause dell’essere considerato in quanto essere, cioè in universale, mentre le altre scienze cercano le cause o i principi di un genere di enti particolare. È vero che l’essere si dice in molti sensi, cioè non è un genere unico, ma è costituito da molti generi tra loro irriducibili, quali sono le categorie. Ma è anche vero che tra le categorie ce n’è una, la sostanza, che è condizione dell’essere e della definizione di tutte le altre categorie, quindi costituisce un’unità di riferimento (pròs hén), se non di genere, sufficiente ad assicurare l’unità della filosofia prima, la quale pertanto sarà anzitutto ricerca delle cause prime delle sostanze.
All’essere in quanto essere, cioè a tutti gli enti, si applicano i principi di tutte le dimostrazioni, cioè il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso, che perciò spetta alla filosofia prima mettere in discussione. Questi due principi non possono essere dimostrati, proprio perché sono loro la condizione di tutte le dimostrazioni, ma possono essere difesi mediante la confutazione delle loro negazioni, cioè possono essere “dimostrati per via di confutazione” (Metaph. IV). Il principio di non contraddizione viene formulato così: “è impossibile che allo stesso oggetto appartenga e insieme non appartenga la stessa proprietà nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto”, ovvero è impossibile affermare e negare la stessa cosa nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto. La dimostrazione per confutazione di tale principio richiede che qualcuno lo neghi, cioè richiede l’instaurarsi di una discussione dialettica. Infatti, per poterlo negare, l’interlocutore dovrà dire qualcosa, cioè pronunciare almeno una parola, per esempio “uomo”, dando a questa parola un significato determinato, per esempio “animale razionale”. Ma, nel momento in cui farà questo, egli avrà escluso che la parola in questione abbia il significato opposto a quello ad essa attribuito, e quindi avrà ammesso il principio di non contraddizione. Se invece l’interlocutore si rifiuterà di parlare, o di dare un significato determinato a quello che dice, non negherà un bel niente e quindi sarà come una pianta, cioè un vivente che non parla, per cui non ci sarà nemmeno bisogno di confutarlo.
Quando Aristotele afferma che l’essere si dice in molti sensi, prima ancora di alludere alla differenza tra la sostanza e le altre categorie, allude ai tipi di essere corrispondenti ai molti modi in cui può essere usato il verbo “essere”, i quali sono fondamentalmente quattro: (1) l’essere “per accidente”, cioè l’essere corrispondente al verbo “essere" usato per indicare un semplice “accadere”, ossia un’unione accidentale, vale a dire casuale, tra due cose, per esempio “il bianco è musico”; (2) l’essere “per sé”, cioè l’essere corrispondente al verbo “essere” usato per indicare un vero e proprio modo di essere di qualcosa, come sostanza o come accidente, per esempio “Socrate è uomo” o “Socrate è bianco”. Poiché tutti i discorsi, in quanto costituiti di nome e verbo, possono essere convertiti in discorsi fatti col verbo “essere”, per esempio “uomo cammina” può essere convertito in “uomo è camminante”, senza mutare di significato, il verbo “essere”, usato “per sé”, risulta avere tanti significati quanti sono i tipi di predicazione, cioè quante sono le categorie; (3) l’essere come vero, cioè l’essere corrispondente al verbo “essere” usato per dire “è vero”, come quando diciamo “è così”, a cui si oppone il non-essere corrispondente alla negazione del verbo “essere” usata per dire “è falso”, come quando diciamo “non è così”; (4) l’essere come potenza e l’essere come atto, cioè l’essere corrispondente al verbo “essere” usato per dire che una cosa è qualcosa in potenza, per esempio “Ermes è nel marmo", o per dire che una cosa è in atto, per esempio “questa statua è Ermes” (Metaph. V 7).
L’essere per accidente, secondo Aristotele, non è oggetto di scienza, proprio perché coincide con l’accadere, che non si verifica né sempre né “per lo più” (Metaph. VI 2-3). L’essere come vero, invece, non è altro che la conformità tra una connessione o una divisione di un nome e di un verbo, o di un nome e un altro nome – noi diremmo un “giudizio” –, e una connessione o una divisione di cose esistente nella realtà: per esempio l’affermazione “Socrate è bianco” è vera se nella realtà Socrate è unito all’essere bianco, e la negazione “Socrate non è musico” è vera se nella realtà Socrate è diviso dall’essere musico. La non conformità tra queste enunciazioni e la realtà è il non essere come falso. Dunque il vero e il falso, come conformità o non conformità del pensiero all’essere, sono proprietà del pensiero, o del discorso, perciò non sono oggetto della scienza dell’essere (Metaph. VI 4). Aristotele menziona infine un essere vero che non è nemmeno nel discorso inteso come connessione o divisione, cioè come giudizio, ma è solo nel discorso inteso come definizione, cioè come discorso che dice “che cos’è” una cosa. Questo essere vero non ha come suo opposto il falso, ma soltanto l’ignoranza della definizione (Metaph. IX 10).
Resta allora che la scienza dell’essere in quanto essere si occupi dell’essere per sé, cioè dell’essere delle categorie, di cui è prima la sostanza, e dell’essere come potenza e atto. La filosofia prima pertanto dovrà cercare anzitutto le cause prime delle sostanze. Poiché alcune tra le sostanze, cioè i corpi celesti, in quanto sono eterni, sono comunemente considerati divini, a maggior ragione – dice Aristotele – saranno divine le loro cause, quindi la filosofia prima potrà essere detta anche scienza “teologica” (Metaph. VI 1). Ma ciò non significa che la filosofia prima sia una “teologia”, sia pure razionale, perché il divino, ovvero – come vedremo – le cause motrici dei corpi celesti, è solo uno dei generi di cause prime, mentre la filosofia prima deve cercare tutti e quattro i generi di cause prime delle sostanze, cioè di cause prime dell’essere in quanto essere. In quanto ricerca di tutte le cause prime dell’essere in quanto essere, essa è dunque una scienza universale.
La sostanza è prima, cioè anteriore, rispetto alle altre categorie (1) sia dal punto di vista dell’essere, perché nessun ente appartenente alle altre categorie (qualità, quantità, relazione) può esistere separatamente dalla sostanza, cioè senza inerire a una sostanza; (2) sia dal punto di vista della nozione, perché nella definizione degli enti appartenenti alle altre categorie è sempre contenuto un riferimento alla sostanza; (3) sia dal punto di vista della conoscenza, perché la vera conoscenza di un ente è conoscenza, prima che dei suoi accidenti, della sua sostanza. Dunque la filosofia prima, o scienza dell’essere, è fondamentalmente scienza della sostanza, per cui la domanda “che cos’è l’ente?”, che la filosofia si è sempre posta, deve d’ora in poi – secondo Aristotele – convertirsi nella domanda “che cos’è la sostanza?” (Metaph. VII 1).
Per rispondere a questa domanda si possono prendere in considerazione tre tipi di realtà: (1) il sostrato materiale, che costituiva la sostanza, cioè la realtà prima, per filosofi presocratici, (2) gli universali, che intesi come idee separate costituivano la sostanza per Platone e i platonici, (3) la forma, cioè l’essenza, ciò che risponde alla domanda “che cos’è?”, e (4) il “sinolo”, cioè l’intero, composto di materia e forma. I requisiti necessari per essere sostanza, secondo Aristotele, sono la capacità di esistere separatamente, cioè senza appartenere ad altro, e la determinatezza, cioè l’essere “un questo” (tode ti), per esempio “un certo uomo”. Ebbene, il sostrato materiale possiede il primo requisito, perché è soggetto di vari possibili predicati, ma non il secondo, perché, preso da solo, senza una forma, non è una realtà determinata. Gli universali possiedono il secondo requisito, cioè sono realtà determinate, ma non il primo, perché sono sempre predicati di un soggetto, cioè sono generi e specie, quindi “sostanze seconde”, non “sostanze prime”. Il “sinolo” e la forma, intesa come forma di una materia, possiedono entrambi i requisiti, perciò possono essere considerati autentiche sostanze.
Tuttavia, tra il sinolo e la forma, il primato nell’essere sostanza spetta alla forma, perché questa, essendo la causa per cui un sinolo, per esempio “un certo uomo”, è quello che è, cioè è un uomo, è anche la causa del suo essere sostanza, quindi il titolo di “sostanza prima” spetta alla forma, ovvero all’essenza, che Aristotele indica anche con l’espressione “che cos’era essere” (to ti en einai). Questa costituisce la risposta alla domanda “che cos’è?” e dunque dice ciò che la cosa “era”, dove l’imperfetto indica sia una precedenza nel tempo, e quindi la permanenza, la stabilità della forma, sia la precedenza logica della domanda rispetto alla risposta. Naturalmente la forma in questione è sempre la forma di una materia, non una forma che si pretende separata, come le idee ammesse da Platone, ed è quindi una forma individuata, non un universale come le idee. Essa è la causa formale delle sostanze materiali, per esempio l’anima nel caso degli esseri viventi. In tal modo si è già determinata una delle cause prime delle sostanze, la causa prima formale (Metaph. VII 17).
Dal punto di vista della causa materiale, la causa delle sostanze è la materia sensibile, cioè, come abbiamo visto, i quattro elementi per i corpi terrestri e l’etere per i corpi celesti. Aristotele parla anche di una materia intelligibile, che è presumibilmente lo spazio, come materia degli oggetti della matematica, i quali tuttavia non sono sostanze (lo erano invece per i platonici). Nel caso delle sostanze viventi la forma, cioè l’anima, è anche la causa finale delle sostanze, poiché ciascuna di queste tende a realizzare pienamente la propria forma e a esercitare le funzioni di cui essa è principio. La materia e la forma sono identificate da Aristotele con la potenza e l’atto, perché il mutamento consiste nell’assunzione da parte della materia, che è in potenza, della forma in atto (Metaph. VIII).
In tal modo Aristotele viene a trattare anche dell’essere inteso come potenza e atto, cioè del quarto significato fondamentale dell’essere. La potenza e l’atto hanno un primo significato relativo al movimento, il quale domina nel linguaggio comune, per cui la potenza indica il principio del movimento in altro o in sé in quanto altro, cioè la capacità di muovere altro o di muovere se stesso, e l’atto indica questo stesso movimento. Ma questi due termini hanno anche un altro significato, relativo all’essere, il quale interessa la filosofia prima in quanto scienza dell’essere. In base a quest’ultimo significato la potenza non è altro che la possibilità reale, propria di una materia, di assumere una determinata forma, possibilità destinata a realizzarsi qualora non intervengano impedimenti, e l’atto è il sussistere di questa determinata forma in una materia, cioè la piena realizzazione della sua potenzialità (Metaph. IX). Questo atto può essere anche un’attività, quando si tratta di attività che non comportano movimento, cioè che hanno in se stesse il proprio fine, come nel caso del vedere e del pensare, che sono pertanto azioni perfette.
Come la sostanza è anteriore alle altre categorie, così l’atto è anteriore alla potenza (1) dal punto di vista della nozione, perché l’ente in potenza si definisce per la sua capacità di passare all’atto; (2) dal punto di vista del tempo, se non nel singolo individuo, dove la potenza precede l’atto, per esempio il seme precede l’individuo adulto, certamente nella specie, dove l’individuo in atto precede, come causa motrice, l’individuo in potenza, per esempio il genitore precede il generato; (3) dal punto di vista dell’essere, perché gli esseri eterni, che sono sempre in atto, precedono gli esseri corruttibili, che passano dalla potenza all’atto, in quanto sono causa del movimento di questi, per esempio i corpi celesti, come il Sole e i cieli che lo trasportano, sono causa della generazione e della corruzione delle piante e degli animali sulla Terra.
Oltre a trattare dell’essere nei suoi significati fondamentali, cioè la sostanza e la potenza e l’atto, la filosofia prima tratta anche di due proprietà universali dell’essere, cioè l’uno e i molti, che appartengono a tutti gli enti in quanto sono enti. Ogni ente, infatti, è uno, cioè è determinato, identico a se stesso; ma in quanto identico a se stesso, è anche diverso dagli altri, per cui fa parte di una molteplicità. Perciò si può dire che l’essere è uno e anche molteplice. L’uno e il molteplice, dunque, non sono due principi, come sostenevano i platonici, identificandoli con l’Uno e il Grande e piccolo (Platone), o con l’Uno e il Molteplice (Speusippo), o con l’Uno e la Diade indefinita (Senocrate). Essi cioè non sono sostanze, non esistono separatamente dagli enti, ma sono proprietà universali degli enti. L’uno poi è anche unità di misura, cioè indica, in ogni gruppo di enti divisibili in unità, l’unità indivisibile; come tale, esso ha tanti significati quanti sono i tipi di oggetti che esso serve a misurare: per esempio nel caso degli uomini è un uomo, nel caso dei cavalli è un cavallo (Metaph. X).
Resta da determinare, a proposito delle sostanze, quale sia la prima tra le cause motrici o efficienti di esse. Per quanto riguarda le sostanze sensibili e corruttibili, cioè i corpi terrestri, le cause motrici sono le rispettive cause efficienti terrestri, per esempio i genitori (“causa di Achille è Peleo, di te tuo padre”), nonché i corpi celesti, in particolare il Sole e – aggiunge Aristotele – “il cerchio obliquo”, cioè l’inclinazione dell’orbita del Sole rispetto all’equatore terrestre, che determina l’alternarsi delle stagioni (Metaph. XII 5). Cause motrici dei corpi celesti, infine, sono i motori delle sfere che li trasportano, i quali, per produrre movimenti eterni e continui, quali i movimenti circolari, devono essere sempre in atto, ovvero tutto atto, cioè devono essere immobili. Questi motori sono certamente sostanze, perché sono cause del movimento di sostanze quali i corpi celesti, ma in quanto immobili sono immateriali, perché sono solo atto, senza potenza, mentre la materia è potenza (Metaph. XII 6). Essi si differenziano dalle idee ammesse da Platone perché sono individui, quali secondo Aristotele devono sempre essere le sostanze, e sono capaci di muovere, cioè sono attivi, svolgono un’attività, mentre le idee sono inerti.
Non è chiaro in quale modo, secondo Aristotele, un motore immobile muova la rispettiva sfera: esso la muove, dice Aristotele, allo stesso modo in cui un oggetto di desiderio e di intellezione muove il desiderio e l’intelletto, cioè restando immobile. Ma non è chiaro se il motore immobile sia realmente oggetto di desiderio e di intellezione da parte del cielo, o se questo sia soltanto un paragone. L’interpretazione più tradizionale, secondo cui il motore immobile sarebbe realmente oggetto di amore da parte del cielo, suppone che questo amore si esprima in una imitazione del motore immobile mediante il movimento che più assomiglia all’immobilità, cioè il movimento circolare. Ma si tratta di un’interpretazione di origine platonizzante, nel senso che probabilmente fu introdotta da interpreti platonici, come attesta già Teofrasto, discepolo diretto di Aristotele. Sempre secondo l’interpretazione più tradizionale, il primo motore immobile, cioè il motore del primo cielo, muoverebbe il cielo come sua causa finale. In realtà il cielo, come ogni altro ente, ha come fine ultimo il proprio bene, che esso realizza mediante un unico movimento, la rotazione su se stesso. Tutti gli altri enti hanno come causa finale la piena realizzazione della propria forma, quindi la causa finale prima non è la stessa per tutti e non è unica.
Poiché la sola attività che non comporti movimento è il pensiero, ciascun motore immobile è una sostanza che pensa, e poiché il pensiero è una forma di vita, egli è un vivente. Come vivente eterno e beato, ciascun motore immobile possiede tutti i requisiti che gli antichi Greci attribuivano agli dèi, quindi si può dire che è un dio (Metaph. XII 7). Perciò la filosofia prima, che dimostra l’esistenza di questi dèi, è una scienza anche “teologica”. Il primo di tali motori, cioè il motore della sfera estrema, ovvero del primo cielo, dovendo pensare la cosa migliore che ci sia, come si addice a un dio, e non avendo nulla al di sopra di sé a cui pensare, non può pensare che se stesso, cioè è “pensiero di pensiero” (Metaph. XII 9). Egli è anche il bene supremo, che muove l’intero universo come un generale mette in ordine l’esercito, o come un padrone organizza l’intera sua casa, o come un re governa il suo regno, dunque come causa efficiente, non come causa finale (Metaph. XII 10). Come tale, pensando se stesso egli pensa la causa di tutto, per cui in un certo senso ha scienza di tutte le cose, cioè possiede in grado supremo quella “filosofia prima” a cui ogni sapiente, secondo Aristotele, aspira.
I motori immobili dei cieli, per Aristotele, sono le sole sostanze immobili esistenti, mentre le idee ammesse da Platone non esistono come sostanze, perché gli universali sono solo predicati, e gli enti matematici, cioè i numeri e le grandezze, ugualmente considerati dai platonici come sostanze, esistono solo nei corpi, di cui costituiscono gli aspetti quantitativi, cioè i limiti (Metaph. XIII). I principi di tutte le cose non sono dunque l’Uno e la Diade indefinita, ma la materia e la forma, cioè la potenza e l’atto, e i motori immobili, cioè il puro atto (Metaph. XIV).
Aristotele
Il motore immobile
Metafisica, Libro XII, 6
Poiché si è sopra detto che le sostanze sono tre, due fisiche ed una immobile: ebbene, dobbiamo parlare di questa e dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero tutte corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il movimento si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il tempo, perché non potrebbero esserci il prima e il poi se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti, il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. E non c’è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare.
Se, poi, esistesse un principio motore ed efficiente, ma che non fosse in atto, non ci sarebbe movimento; infatti è possibile che ciò che ha potenza non passi all’atto. (Pertanto non avremo alcun vantaggio se introdurremo sostanze eterne, come fanno i sostenitori della teoria delle Forme, se non è presente in esse un principio capace di produrre mutamento; dunque, non è sufficiente questo tipo di sostanza, né l’altra sostanza che essi introducono oltre le Idee; se queste sostanze non saranno attive, non esisterà movimento). Ancora, non basta neppure che esso sia in atto, se la sua sostanza implica potenza: infatti, in tal caso, potrebbe non esserci un movimento eterno, perché è possibile che ciò che è in potenza non passi all’atto. È dunque necessario che ci sia un Principio, la cui sostanza sia l’atto stesso. Pertanto, è anche necessario che queste sostanze siano scevre di materia, perché devono essere eterne, se mai esiste qualcosa di eterno. Dunque, devono essere atto.
Aristotele, Metafisica, trad. it. di G. Reale, Milano, Vita e pensiero, 1993
Fisica e filosofia prima sono scienze “teoretiche”, cioè aventi per fine, come la matematica, la pura conoscenza (theoria), ma esistono per Aristotele anche le scienze “pratiche”, cioè aventi per fine l’azione (praxis), ovvero l’agire bene, il bene.
Poiché il bene del singolo è parte del bene della città (polis), la scienza, o filosofia, pratica che le comprende tutte è la “scienza politica”, esposta nelle Etiche (Nicomachea e Eudemea), riguardanti il bene del singolo, e nella Politica, riguardante il bene della famiglia e della città. La scienza del bene della famiglia si chiama anche scienza economica (da oikia, casa o famiglia), ma l’opera ad essa dedicata nel corpus aristotelicum, cioè l’Oeconomica, è probabilmente spuria. Il bene supremo, sia del singolo che della città, è per Aristotele la felicità (eudaimonia), la quale consiste nell’esercizio, compiuto nel modo migliore possibile, delle capacità proprie dell’uomo, cioè nella virtù (areté), o eccellenza. Poiché nell’uomo non c’è solo la ragione (dianoia), ma ci sono anche altre capacità che, una volta abituate ad esercitarsi nel modo migliore, formano il carattere (ethos), le virtù saranno dianoetiche (eccellenze della ragione) ed etiche (eccellenze del carattere).
Le virtù etiche consistono nel giusto mezzo, determinato dalla ragione, tra due vizi opposti, per esempio il coraggio è il giusto mezzo tra viltà e temerarietà, la temperanza lo è tra intemperanza e insensibilità, la liberalità tra avarizia e prodigalità, e così via. Tra le virtù etiche ha particolare importanza la giustizia, che riguarda i rapporti con gli altri. Quando concerne la distribuzione degli onori, o dei poteri, la giustizia, cioè il giusto mezzo, consiste nella proporzione tra onori e meriti (giustizia distributiva), mentre quando riguarda lo scambio di beni o di mali, essa consiste nell’uguaglianza della retribuzione (giustizia retributiva o commutativa).
Le virtù dianoetiche sono l’eccellenza della ragione “scientifica”, cioè teoretica, ossia la sapienza (sophia), che assomma in sé l’intelletto (nous), conoscenza dei principi, e la scienza (episteme), capacità di dimostrare a partire dai principi, e l’eccellenza della ragione “calcolatrice”, cioè pratica, ossia la saggezza o prudenza (phronesis), capacità di deliberare bene, cioè di individuare il modo di agire bene per sé, per la propria famiglia e per la propria città. La saggezza è superiore all’arte (techne), che è capacità di produrre bene, perché l’azione è superiore alla produzione (poiesis), in quanto quest’ultima non ha il suo fine in sé, ma nel suo prodotto. La saggezza tuttavia è inferiore alla sapienza, che è la virtù della parte più alta dell’uomo, quindi la saggezza prescrive quali azioni compiere e quali non compiere per raggiungere la sapienza.
La felicità, secondo Aristotele, comprende anche il piacere, che non è il sommo bene, ma consegue al raggiungimento di questo, cioè all’esercizio dell’attività perfetta, e inoltre comprende l’amicizia, la quale, quando è affetto tra persone virtuose, è essa stessa una virtù. Ma, pur presupponendo tutte le virtù, e anche alcuni beni del corpo, come la salute e un aspetto gradevole, e alcuni beni esterni, come una certa ricchezza, una buona famiglia, dei buoni amici, la felicità per Aristotele consiste essenzialmente nella “vita teoretica”, cioè in un’intera vita dedita alla ricerca, allo studio e ad attività aventi per fine la conoscenza. Questo tipo di vita infatti è fine a se stesso, è autosufficiente ed è simile a quello condotto dagli dèi. Alcuni studiosi ritengono che per Aristotele la felicità sia limitata alla sola vita teoretica, altri che essa comprenda l’esercizio di tutte le virtù. In realtà la vita teoretica non sarebbe possibile senza le altre virtù e i beni esterni, indispensabili alla felicità, possono essere assicurati solo da buone leggi. Per questo il filosofo deve anche indicare agli uomini politici il modo per realizzare il bene della città, cioè la costituzione migliore, il che conferma che la felicità è comprensiva di tutte le virtù e di tutti i beni.
La città è la società perfetta, cioè autosufficiente, avente per fine non il semplice vivere, che è il fine della famiglia, ma il “vivere bene”, cioè la felicità. Essa comprende in sé la famiglia, società naturale costituita da marito e moglie, genitori e figli, padroni e schiavi. Anche la città è una società naturale, perché l’uomo è per natura “animale politico”, cioè fatto per vivere nella polis. Il segno di questa natura politica dell’uomo è il possesso della parola (logos), in virtù della quale l’uomo può discutere con gli altri su ciò che è utile e ciò che è giusto. La sua “natura” tuttavia non è la sua condizione di nascita, ma il suo fine, la sua perfezione, cioè la sua felicità. Solo nella polis, infatti, l’uomo può realizzare la felicità.
Nella famiglia si realizzano le condizioni necessarie per vivere, che comprendono la presenza di schiavi, condizione inevitabile in un’economia preindustriale quale era propria della società antica, che Aristotele esprime affermando: “se le spole tessessero da sé, non ci sarebbe bisogno di schiavi”. Non tutti coloro che sono schiavi di fatto, però, lo sono anche per natura, ma sono tali solo quelli che non sanno provvedere a se stessi e perciò hanno bisogno, per vivere, di un padrone. In tal modo Aristotele assume una posizione intermedia tra quanti consideravano la schiavitù come totalmente naturale (quasi tutti i filosofi precedenti) e quanti la consideravano del tutto innaturale (il sofista Alcidamante, da lui stesso segnalato). Un’altra condizione necessaria per vivere, che riguarda la famiglia, è il procacciamento di ricchezze, detto “crematistica”, a proposito della quale Aristotele distingue tra una crematistica naturale, quindi buona, che si limita a procurare le ricchezze necessarie al soddisfacimento dei bisogni, e una crematistica innaturale, che aspira all’aumento indefinito delle ricchezze, trasformando in tal modo in un fine quello che deve essere soltanto un mezzo.
Nella città, società di liberi ed uguali, si realizza invece il vivere bene, cioè la felicità. La condizione di tale realizzazione è una buona costituzione, cioè un buon ordinamento delle magistrature, ovvero una buona distribuzione delle funzioni di governo. Fra le sei costituzioni tradizionali, tre buone (regno, aristocrazia e politia) e tre degeneri (tirannide, oligarchia e democrazia), Aristotele esprime la sua preferenza per la politia (per la quale non dispone di un nome particolare e dunque la indica col nome generale di costituzione, cioè politeia), perché più consona di tutte a una società di liberi ed uguali. Di fatto la politia viene ad essere il giusto mezzo tra due vizi opposti, cioè oligarchia e democrazia, perciò è detta anche costituzione “media”, in cui il governo è esercitato dal ceto medio. Poiché, tuttavia, non tutti possono governare ed essere governati contemporaneamente, è giusto che tutti governino e siano governati “a turno”, mettendosi al servizio degli altri quando governano, e godendo dei servizi derivanti dal governo altrui quando sono governati. In tal modo la città può assicurare a tutti la possibilità di dedicarsi, per un certo periodo della vita, alle attività fini a se stesse, quali la musica, la poesia e la filosofia.
Aristotele
La felicità
Etica Nicomachea, Libro I, 7
Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe meglio se si cogliesse la funzione dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una sua funzione propria. Forse, dunque ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure, come c’è, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita.
Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta.
Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice.
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1979
Aristotele
La città
Politica, Libro I, 2
La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine; cioè diciamo che la natura di ciascuna cosa è quello che essa è quando si è conclusa la sua generazione, come avviene per l’uomo, il cavallo, la casa. Ora, lo scopo e il fine sono ciò che vi è di meglio; e l’autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio.
Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo: è il caso di chi Omero chiama con scherno “senza parenti, senza leggi e senza focolare”. E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quanto non ha legami ed è come una pedina isolata. Perciò è chiaro che l’uomo è animale più socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così via. È proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la città.
Aristotele, Politica, trad. it. di C. A. Viano, Milano, Rizzoli, 2003
Le ultime due opere del corpus aristotelicum, la Retorica e la Poetica, sono dedicate all’esposizione di due “arti” o tecniche, rispettivamente l’arte di produrre discorsi persuasivi e l’arte di fare poesia. La retorica insegna a trovare strumenti di persuasione (pisteis) di tipo tecnico, cioè argomentazioni. Per questo essa è “speculare” (antistrophos) alla dialettica, che è la tecnica di argomentare in generale, con la quale ha in comune il fatto di argomentare su tutto e da punti di vista opposti, mentre se ne differenzia per il fatto di rivolgersi a un uditorio che tace, ma tuttavia giudica. Aristotele distingue tre generi di argomentazioni retoriche, quelle deliberative, miranti a persuadere un’assemblea politica a deliberare pro o contro una certa decisione, quelle giudiziarie, miranti a difendere o ad accusare un imputato, e quelle epidittiche, miranti a elogiare o a biasimare un personaggio pubblico.
L’argomentazione retorica è chiamata da Aristotele “entimema” (enthymema), forse perché agisce anche sull’animo (thymos), ed è definita come un sillogismo, cioè una deduzione, che muove da premesse verosimili (eikota), cioè condivise dall’uditorio, come gli endoxa, e valide non sempre, ma “per lo più”. Essa può muovere anche da “segni”, i quali possono essere necessari, nel qual caso sono “prove”, o non necessari, nel qual caso sono solo verosimili. L’entimema deve inoltre essere più conciso dei sillogismi dialettici, cioè deve omettere le premesse più scontate, per non stancare l’uditorio. L’arte retorica insegna inoltre a tenere conto di altri fattori di persuasione, quali il carattere (ethos) dell’oratore, che deve risultare credibile, e le passioni (pathe) degli ascoltatori, che li inclinano a un certo tipo di giudizio. Per questo essa è detta da Aristotele “propaggine” della scienza politica, che si occupa appunto di caratteri e passioni. Importante infine per la retorica è l’elocuzione (lexis), cioè il modo di parlare, lo stile dell’oratore.
La poesia per Aristotele è mimesis, che non significa imitazione passiva, ma rappresentazione, capacità di far vivere una vicenda fittizia come se fosse reale. Essa può avere per oggetto personaggi nobili, nel qual caso è poesia epica o tragica, o personaggi ridicoli, nel qual caso è poesia comica. L’epica e la tragedia si distinguono perché la prima narra una vicenda, mentre la seconda la rappresenta drammaticamente. Quest’ultimo carattere è proprio anche della commedia. La celebre definizione della tragedia data nella Poetica dice che essa è “imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una certa grandezza, in forma non narrativa ma drammatica, la quale porta a compimento, mediante pietà e terrore, la purificazione di questo genere di passioni”. L’elemento più famoso di questa definizione è il concetto di “purificazione” (katharsis), la quale sembra consistere nel liberare passioni come la pietà e il terrore dall’aspetto doloroso che hanno nella realtà, facendo sì che esse risultino piacevoli. Il piacere connesso a tale imitazione è, come sempre per Aristotele, il piacere di conoscere, cioè di apprendere. Mentre la “catarsi” prodotta dal canto, come si dice nella Politica, educa i giovani alle virtù etiche, quella prodotta dalla tragedia educa gli adulti alle virtù dianoetiche, cioè alla saggezza.
Se la “catarsi” è lo scopo della tragedia, il suo oggetto ed elemento più importante è il “mito”, cioè la vicenda rappresentata, il quale deve contenere ciò che può accadere secondo necessità o verosimiglianza, cioè sempre o nella maggior parte dei casi. Per questo la poesia è detta da Aristotele “più filosofica”, cioè più capace di far conoscere, della storia, perché la storia narra il caso particolare, mentre la poesia, rappresentando il verosimile, fa conoscere l’universale. Nella Poetica Aristotele illustra anche gli altri elementi della tragedia e dell’epica (catastrofi, peripezie, riconoscimenti, nodi e scioglimenti, caratteri ed altro), mentre non tratta altrettanto ampiamente della commedia, forse perché a questa era dedicato il II libro dell’opera, che non ci è pervenuto.
Sia il valore positivo attribuito da Aristotele all’imitazione, che per lui è occasione di apprendimento e quindi di conoscenza, sia il concetto di catarsi, che ha indubbiamente un valore anche morale, sia infine il carattere “filosofico” attribuito alla poesia, costituiscono una chiara rivalutazione dell’arte compiuta da Aristotele in polemica con la svalutazione di essa operata da Platone nella Repubblica.
I trattati di Aristotele sono poco conosciuti nell’età ellenistica, forse perché rimasti all’interno della scuola – Strabone racconta che rimangono sepolti in una cantina –, quando invece hanno fortuna soprattutto i suoi dialoghi. Dopo la pubblicazione dei trattati i dialoghi vengono invece progressivamente trascurati fino ad essere perduti.
Nell’età imperiale ha inizio l’epoca dei commentatori, durante la quale i trattati di Aristotele sono oggetto di dettagliati commenti prima ad opera di interpreti peripatetici, quali Aspasio e Alessandro di Afrodisia, poi di interpreti neoplatonizzanti, quali Porfirio, Siriano, Ammonio, Asclepio, Simplicio, Filopono, in genere di lingua greca (ad Atene e ad Alessandria). Nel mondo latino le opere di Aristotele, soprattutto quelle di logica, sono tradotte e commentate da Severino Boezio.
Nel VII secolo gli Arabi, divenuti musulmani in seguito alla fondazione dell’Islam da parte di Maometto, invadono la Siria e l’Egitto, entrano in contatto con le opere di Aristotele tradotte in siriaco e ne promuovono, a loro volta, la traduzione dal siriaco e dal greco in arabo, ad opera di traduttori in genere cristiani. Nel IX secolo a Bagdad, divenuta capitale del califfato degli Abassidi, per opera di Al-Kindi si registra una rinascita dell’interesse per Aristotele, nella cui filosofia i musulmani vedono un forte sostegno alla religione monoteistica. Nascono così numerose opere in arabo ispirate alla filosofia di Aristotele, sia in Oriente (Mesopotamia, Persia) con Al-Farabi, Avicenna e altri, sia in Occidente (Marocco e Andalusia, nel frattempo conquistati dagli Arabi) con Avempace, Averroè ed altri.
Averroè scrive ben tre commenti alle opere di Aristotele, uno breve, detto epitome, uno medio e uno detto “grande”. Aristotele diviene così il filosofo greco più ammirato dagli Arabi, come Platone lo era stato dai primi filosofi cristiani. Sempre in Spagna egli è oggetto di attenzione anche da parte di filosofi ebrei quali Avicebron e Mosè Maimonide. Anche nell’Impero bizantino Aristotele è studiato e commentato, ad esempio ad opera di Eustrazio di Nicea e Michele di Efeso.
Il mondo latino, che per tutto il Medioevo ha conosciuto solo poche opere di Aristotele, prevalentemente di logica, scopre il corpus aristotelicum attraverso i contatti con gli Arabi in Sicilia e in Spagna, e con i Bizantini, tramite Venezia. Opere di Aristotele sono così tradotte, nel XII secolo, dall’arabo al latino da traduttori in genere ebrei (che conoscono le due lingue) a Toledo (Giovanni Ibn Daud, Domenico Gundisalvi) e a Palermo (Michele Scoto, Bartolomeo da Messina); contemporaneamente si registrano anche traduzioni dal greco al latino ad opera di traduttori veneziani (Giacomo Veneto). La filosofia di Aristotele, considerata molto più “scientifica” di quella di Platone, ma anche più difficile da conciliare col cristianesimo, per l’affermazione dell’eternità del mondo e della mortalità dell’anima, viene dapprima vietata nelle università europee (Parigi, Oxford) dalle autorità ecclesiastiche, ma poi accolta e assunta quale base della nuova filosofia scolastica, soprattutto ad opera di filosofi quali Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo promuove, per mano del suo confratello domenicano Guglielmo di Moerbeke, una nuova traduzione dal greco in latino di tutte le opere di Aristotele, a cui seguono successivi e numerosi commenti.
Nel XIV secolo le principali università europee (Parigi, Oxford, Padova) sono totalmente influenzate dalla filosofia aristotelica, soprattutto dalla logica e dalla fisica, che si impone anche in altri ambienti, con pensatori quali Dante Alighieri, Nicola di Oresme, Giovanni Buridano, Marsilio da Padova. Allo stesso tempo fuori dall’ambiente universitario va sviluppandosi una nuova opposizione ad Aristotele, giudicato nemico del cristianesimo (per esempio da Francesco Petrarca). Il XV secolo conosce la nascita dell’Umanesimo e la riscoperta dei classici greci e latini, tra i quali trova il suo posto anche Aristotele, la cui filosofia diviene oggetto di nuove traduzioni, più eleganti di quelle medievali, nonostante l’interesse prevalente sia riservato soprattutto al platonismo e al neoplatonismo (a Firenze con Marsilio Ficino e l’Accademia platonica). Aristotele resta dominante nelle università, soprattutto a Padova, con Paolo Veneto, Nicoletto Vernia e altri. Anche a Costantinopoli si ha una contrapposizione tra platonici, come Gemisto Pletone, e aristotelici, come Giorgio Trapezunzio. Aldo Manuzio pubblica a Venezia la prima edizione a stampa di tutte le opere di Aristotele.
Nel Cinquecento Aristotele mantiene il suo dominio nella cultura universitaria, ancora soprattutto a Padova, dove si distinguono per fama europea Pietro Pomponazzi e Giacomo Zabarella, ma penetra nel pensiero politico, ad esempio a Firenze con Machiavelli e soprattutto nel mondo letterario, grazie alla fortuna della Poetica. Al tempo stesso è oggetto di duri attacchi nel mondo protestante, soprattutto da parte di Martin Lutero, che vede in Aristotele il padre della scolastica e quindi di quella che per lui è la degenerazione della Chiesa romana, mentre è in gran parte riabilitato da Filippo Melantone. Erasmo da Rotterdam cura una nuova edizione a stampa di tutte le opere di Aristotele. Il Cinquecento vede una forte ripresa di Aristotele, in particolare della sua metafisica e della sua filosofia pratica, in Spagna, ad opera di domenicani come Francisco de Vitoria – specialmente l’etica e la politica – e di gesuiti come Francisco Suarez, e in Portogallo ad opera dei commentatori dell’Università di Coimbra (Pedro de Fonseca).
Ma con l’avvento della rivoluzione scientifica moderna, ad opera di Galileo Galilei e Renè Descartes, la fisica di Aristotele viene abbandonata, mentre la logica e la filosofia pratica continuano ad essere coltivate nelle università europee, specialmente in Germania. La fisica e la metafisica aristoteliche conoscono una ripresa nel Seicento con Gottfried Wilhelm Leibniz, mentre la filosofia pratica, sia pure nella forma di dottrina del diritto naturale, è ripresa nel Settecento da Thomasius e da Christian Wolff, per essere sostituita alla fine del secolo dalla filosofia pratica di Immanuel Kant. Malgrado la critica di quest’ultimo alla metafisica speciale (psicologia razionale, cosmologia razionale, teologia razionale), solo in parte riconducibile ad Aristotele, l’intera filosofia aristotelica è apprezzata nell’Ottocento da Georg Wilhelm Hegel, che considera Aristotele il più grande filosofo di tutti i tempi, e dall’ultimo Friedrich Wilhelm Schelling, nonché da Ludwing Andreas Feuerbach, Karl Marx e Soren Kierkegaard.
All’inizio dell’Ottocento la nascita della filologia moderna porta alla prima edizione critica di tutte le opere di Aristotele, promossa dall’Accademia delle Scienze di Berlino e realizzata da Immanuel Bekker, la quale dà origine a una fioritura di studi senza precedenti, in Francia ad opera di Félix Ravaisson, in Germania ad opera di Christian August Brandis, Friedrich Adolf Trendelenburg, Hermann Bonitz, Franz Brentano e in Inghilterra ad opera di John Cook Wilson, Ingram Bywater, Henry Jackson.
All’inizio del Novecento le opere di Aristotele sono state edite e commentate da grandi filologi quali Werner Jaeger in Germania e William David Ross in Inghilterra. L’intera filosofia del Novecento è stata poi caratterizzata da una forte influenza di Aristotele, sia nel filone ermeneutico, iniziato da Martin Heidegger e proseguito da Hans Georg Gadamer e Joachim Ritter in Germania, e da Pierre Aubenque in Francia, sia nel filone analitico, rappresentato da John Langshaw Austin, Gilbert Ryle, Peter Frederick Strawson, Gertrude E. M. Anscombe in Inghilterra. Ancora alla fine del Novecento si richiamano ad Aristotele filosofi americani come Alasdair MacIntyre, Martha C. Nussbaum, Hilary Putnam.