ARISTOTELE (IV, p. 346)
La fisionomia storica dell'opera di Aristotele si è nell'ultimo quindicennio venuta notevolmente modificando, grazie ai risultati degli studî diretti a ricostruire il processo della sua formazione spirituale. Ricerche di filologi e di storici della filosofia hanno fatto rivivere fasi dell'evoluzione del pensiero aristotelico di cui si era perduta memoria nella tradizione storico-filosofica per lo smarrimento dei documenti che le attestavano, e hanno distinto i varî strati genetici ancora individuabili nelle opere superstiti: cosicché nessuna esposizione e interpretazione del pensiero dello Stagirita, che continui a basarsi sul complesso dei suoi scritti, o anche soltanto su uno di essi, come se fosse documento di un unitario e contemporaneo sistema dottrinale, può oggi più valere come scientificamente adeguata.
Al tema dell'evoluzione del pensiero aristotelico si era già rivolta l'attenzione di qualche filologo (da ricordare, p. es., il saggio di A. Dyroff, Ueber A.s Entwicklung, in Festgabe für Georg von Hertling, Friburgo in B. 1913, e la dissertazione di A. Keil, in Diss. phil. Vindobon., XI, 67); ma il problema fu posto per la prima volta in tutta la sua complessità - e risolto in forma che nell'essenziale può dirsi definitiva, per modificabili che possano esserne i risultati particolari - da W. Jaeger nel suo Aristoteles, Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlino 1923 (traduz. ital. di G. Calogero, con aggiunte dell'autore, Firenze 1935). Lo Jaeger aveva del resto, indipendentemente dal Dyroff e dal Keil, già chiarito l'evoluzione della Metafisica aristotelica, nel suo contenuto di pensiero e nella sua composizione letteraria, con le Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles (Berlino 1912). Ai risultati ottenuti dallo Jaeger nell'Aristoteles vennero incontro, quasi contemporaneamente, quelli raggiunti da J. Stenzel in Zahl und Gestalt bei Platon und Aristoteles (Berlino 1924). Posto e risolto in tal modo il problema nei suoi termini generali, s'iniziò il lavoro di approfondimento delle questioni singole: così (per ricordar qui solo gli esempî più cospicui) alla dimostrazione jaegeriana dell'autenticità dell'Ethica Eudemea, già considerata spuria e ora invece riconosciuta quale redazione più giovanile, a paragone della Nicomachea, del pensiero etico di A., seguì il tentativo di H. von Arnim (Die drei aristotelischen Ethiken, in Sitzungsberichten d. Wiener Akad., 1924, n. 2), diretto a dimostrare autentica anche la Grande Etica (Magna Moralia) e ad assegnarle, nell'evoluzione del pensiero aristotelico, un posto ancora anteriore a quello occupato dall'Eudemea. La tesi dell'Arnim è stata però contestata, tra gli altri, da E. Kapp (in Gnomon, 1927), il quale aveva del resto (nella sua dissertazione Das Verhältnis der eudemischen zur nikomachischen Ethik, Friburgo in B. 1912: e cfr. anche P. von der Mühll, De Arist. ethicae Eudemeae auctoritate, Diss., Gottinga 1909) preceduto lo Jaeger nella dimostrazione dell'autenticità e priorità dell'Eudemea. E al von Arnim si sono opposti tanto lo Jaeger (Über Ursprung und Kreislauf des philosoph. Lebensideals, in Sitzungsber. d. Berl. Akad., 1928, pp. 403-04 n.: e cfr. ora Aristotele, trad. ital. cit., pp. 583-85 n.) quanto due suoi scolari, che ampiamente sono tornati sul tema (R. Walzer, Magna Moralia und Aristotelische Ethik, vol. VII delle Neue Philologische Untersuchungen dirette dallo Jaeger, Berlino 1929; K.O. Brink, Stil und Form der pseudaristotelischen Magna Moralia, Diss., Berlino 1931, pubbl. a Ohlau 1933: il primo esamina soprattutto il contenuto teorico, il secondo la forma e lo stile dell'opera). Il von Arnim ha anche riesaminato il problema dell'evoluzione del pensiero politico di A. (Zur Entstehungsgeschichte der aristotelischen Politik, in Sitzungsber. d. Wiener Akademie, Phil.-hist. Klasse, 1924, p. 1 segg.), contestando la tesi dello Jaeger e considerando recenti gli ultimi due libri dell'opera, dallo Jaeger invece ascritti alla redazione primitiva (v. su ciò più oltre; e cfr., per il problema dell'evoluzione della Politica, K. Praechter in Ueberweg-Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 371-72). Tra gli scritti di scolari dello Jaeger, che abbiano lavorato sul tema dell'evoluzione del pensiero di A. va inoltre ricordato quello di F. Solmsen (Die Entwicklung der aristot. Logik und Rhetorik, vol. IV delle già citate Neue philol. Untersuchungen, Berlino 1929), il quale, indagando la genesi delle dottrine logiche e retoriche di A., studia un argomento che era rimasto escluso dall'indagine ricostruttiva compiuta dal suo maestro.
Un nuovo contributo ed impulso allo studio dell'evoluzione del pensiero aristotelico, che per originalità d'impostazione metodologica e fecondità di risultati non è inferiore a quello fondamentale dello Jaeger, è stato d'altronde fornito, in tempi assai recenti, da E. Bignone, nei varî saggi ora raccolti ed integrati nel volume L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro (voll. 2, Firenze 1936: tra le discussioni cui l'opera ha dato origine v. specialmente quella di M. Pohlenz, in Götting. gelehrte Anzeiger, 1936, pp. 514-531, e la replica del Bignone, Chiarimenti e aggiunte all'"Aristotele perduto", in Atene e Roma, XXXIX, 1937, pp. 119-29. E si veda ancora, del Bignone stesso, Importanti conferme all'"Aristotele perduto", in Atene e Roma, XXXIX, 1937, pp. 217-239, e Conferme all'"Aristotele perduto" dalla meteorologia dell'epistola a Pitocle di Epicuro, in Mélanges Boisacq, 1938. Una continuazione delle ricerche del Bignone è infine il libro di G. Lazzati, L'Aristotele perduto e gli scrittori cristiani, Milano 1938). L'originalità del metodo del Bignone consiste nel ricollegamento del problema dell'evoluzione di A. a quello della ricostruzione e interpretazione del pensiero posteriore, in quanto determinato dall'influsso esercitato su di esso dalla filosofia dello Stagirita. Il Bignone muove dal dato di fatto (già noto alla tradizione, e insieme presupposto e confermato dalla ricostruzione dello Jaeger) della diversità di natura e di fortuna che distingue le opere pubblicate da A. nella prima fase della sua attività (e perciò dette "essoteriche", in quanto destinate all'"esterno", al pubblico) da quelle che si vennero formando nella scuola nel periodo del suo insegnamento (e che si dissero quindi "acroamatiche" dal greco akroama, "audizione", "lezione"). Mentre queste ultime, infatti, non divennero veramente di pubblico dominio che con l'edizione che ne fece Andronico di Rodi nella prima metà del sec. I a. C., le altre, apprezzatissime anche per la loro forma letteraria, esercitarono larghissimo influsso sulla cultura dei secoli immediatamente successivi alla morte di A. Per questi vale quindi esattamente il contrario di quel che vale per la tradizione più tarda, poi divenuta esclusiva: in questa prima età l'A. noto e operante è quello dei dialoghi e in generale degli scritti "essoterici", mentre ignoto o mal noto è l'altro e maggiore, quello dei trattati dottrinali, sorti nell'ambito della scuola; nell'età posteriore questi prendono invece il sopravvento, e fanno cadere nell'oblio i primi, che perciò vanno perduti o sopravvivono soltanto in frammenti. Valendosi di questo criterio, il Bignone, specialista di studî epicurei, ha potuto mostrare come, da un lato, molti testi di Epicuro e di suoi seguaci s'interpretino meglio nella loro genesi e nel loro significato in funzione del loro contrapporsi polemico all'A. degli scritti essoterici, e come, d'altro lato, tante testimonianze di postaristotelici tradizionalmente considerate come errori circa il pensiero dello Stagirita riacquistino aspetto di attestazioni validissime quando siano commisurate non più alla fase terminale, ma bensì a quella giovanile, ed "essotericamente" manifestata, della sua evoluzione speculativa. Ovvio, poi, è che l'utilità e la fecondità di questo criterio di ricostruzione storica non si esauriscono nello studio dei rapporti tra aristotelismo ed epicureismo: esso apre infatti una nuova prospettiva per l'indagine di tutto il pensiero postaristotelico, e insieme fornisce la possibilità di ulteriori conferme della ricostruzione, compiuta dallo Jaeger, della mentalità dell'A. "essoterico". (E a questo proposito cfr. ora anche quanto circa la fortuna di A. nella scuola e fuori della scuola nota K. O. Brink in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Alteriumswiss., Stoccarda 1936, s. v. Peripatos).
Il forte mutamento, che si è così realizzato negli ultimi quindici anni quanto alla conoscenza del pensiero di A., ha d'altra parte riportato in primo piano il problema dell'edizione dei frammenti delle sue opere perdute. Quando non si aveva idea dell'evoluzione del suo pensiero, e si escludeva perciò la possibilità che in un periodo giovanile egli avesse aderito alle idee del suo maestro Platone, si considerava spurio ogni testo che presentasse tracce di platonismo, e si finiva perciò per togliere ad A. tutta quella sua produzione "essoterica", di cui non restavano, appunto, che frammenti. Era questa, per es., la tesi di V. Rose (Aristoteles Pseudepigraphus, Lipsia 1863), autore, d'altronde, della raccolta dei frammenti aristotelici che, succedendo a quella di E. Heitz (Parigi 1869), resta tuttora la meelio adoperabile (Aristotelis qui ferebantur librorum fragmenta, Lipsia 1886). Caduta oggi questa tesi radicalmente negativa - del resto non accolta, già prima dello Jaeger, da J. Bernays, il cui libro sui dialoghi aristotelici (Die Dialoge des A., Berlino 1863) serba ancora utilità -, e accresciutosi notevolmente il numero dei frammenti rintracciati, si presenta l'esigenza di una nuova edizione, che sostituisca quella del Rose. Per i frammenti dei dialoghi un primo tentativo è stato compiuto ottimamente da R. Walzer (Arist. dialogorum fragmenta - Testi della Scuola Normale Superiore, II, Firenze 1934), il quale ha tenuto conto anche delle scoperte del Bignone, in quanto esse risultavano da comunicazioni e memorie singole del Bignone stesso, antecedenti alla pubblicazione dell'Aristotele perduto. Il Walzer ha infine rintracciato un nuovo frammento, che probabilmente appartiene a un dialogo giovanile, l'Eudemo (per cui v. più sotto), in uno scritto del filosofo arabo al-Kindi (Un frammento nuovo di A., in Studi ital. di filol. classica, n. s., XIV, 1937 pp-125-37).
Punto di partenza per il nuovo intendimento dello sviluppo della personalità e del pensiero di A. è la ricostruzione della fase giovanile, platonizzante, della sua attività speculativa e letteraria. A. fu infatti scolaro di Platone, all'Accademia, per quasi un ventennio, dai diciassette ai trentasei anni (cioè dal 367-66 al 348-47): e se ne allontanò solo alla morte del maestro, per recarsi, insieme con Senocrate, ad Asso nella Troade, città governata da due altri filosofi accademici, Erasto e Corisco, i quali l'avevano avuta in donazione da Ermia signore di Atarneo, anch'egli influenzato, nella sua politica, dalle dottrine e dagl'ideali del platonismo. Il soggiorno di A. in Asia Minore, tra Asso e Mitilene, durò fino al tempo della sua chiamata alla corte macedone per l'educazione di Alessandro (343-42); e solo dopo che questa ebbe termine, per la salita al trono del suo regale alunno (336-35), A. tornò ad Atene e vi fondò, l'anno seguente, nel "Liceo" la sua scuola, detta poi il "Peripato". Tanto la vita quanto l'attività scientifica di A. si scindono quindi in tre distinti periodi: il primo periodo ateniese, del discepolato presso Platone; il periodo dei viaggi e dei varî soggiorni in Asia Minore e in Macedonia; il secondo periodo ateniese, della fondazione e direzione della scuola nel Liceo. Ora, nella forma in cui oggi si presentano, tutti, o quasi, i grandi trattati dottrinali che costituiscono il corpus superstite delle opere di A., appartengono a questo ultimo periodo: si tratta quindi sia di ricostruire, attraverso i frammenti che restano, gli scritti "essoterici" composti da A. nei due periodi precedenti della sua evoluzione mentale, sia d'individuare, negli stessi trattati dottrinali, le parti più antiche, risalenti all'uno o all'altro di tali due periodi.
Delle opere composte da A. nel primo periodo quelle che meglio si possono ricostruire, sulla base dei frammenti superstiti, sono l'Eudemo, o dell'anima (Εὔδημος ἢ περὶ ψυχῆς) e il Protreptico (Προτρεπτικός). L'Eudemo era un dialogo che traeva il titolo e lo spunto dalla narrazione del sogno dell'omonimo scolaro di Platone, compiuta dall'amico e condiscepolo A. nell'introduzione dello scritto. Durante un viaggio in Tessaglia Eudemo, esule, si era ammalato. Quando i medici avevano abbandonato ogni speranza, gli apparve in sogno un giovine di leggiadro aspetto, e gli promise che sarebbe guarito in breve tempo, che pochi giorni dopo Alessandro tiranno di Fere sarebbe morto e che lui stesso sarebbe ritornato dopo cinque anni nella sua patria. Le due prime predizioni si avverarono: quanto alla terza, dopo cinque anni Eudemo trovò la morte combattendo, con Dione, e per gl'ideali politici del platonismo, di fronte a Siracusa. Questo inaspettato compimento del sogno fu interpretato nell'Accademia nel senso che la divinità avesse predetto il ritorno nella patria eterna dell'anima, e non in quella terrena. Da questa narrazione, A. prendeva quindi le mosse per un dialogo metafisico "sull'anima", al centro del quale stava il problema dell'immortalità. Riviveva con ciò, nell'Eudemo, l'atmosfera del Fedone: e del tutto analoghi a quelli contenuti nel dialogo platonico dovevano essere gli argomenti diretti a dimostrare l'autonomia dell'anima rispetto al corpo e la sua separazione da esso alla fine dell'esistenza terrena. Nella prima fase della sua evoluzione spirituale A. (che più tardi doveva invece considerare l'anima come semplice "forma" o "entelechia" del corpo, e di conseguenza come unita indissolubilmente ad esso nell'individualità vivente e destinata a perire insieme con esso) aderiva duuque senza riserve alla tesi platonica dell'immortalità e del destino oltremondano dell'anima. Il giovane A. accentuava, anzi, e coloriva di un forte tono passionale, quel motivo ascetico di fuga dal mondo, di aspirazione all'ultraterreno, che rispondeva in fondo soltanto a un lato del temperamento del suo maestro, vòlto a prospettare e a preferire la soluzione oltremondana del problema morale sopra tutto nei periodi di sfiducia nella possibilità di una sua soluzione mondana, in senso etico-politico. Chi legga p. es. il frammento dell'Eudemo (44 Rose, 6 Walzer) in cui è narrato il mito di Sileno, rivelante al re Mida il triste destino degli uomini e la preferibilità dell'abbandono della vita terrena ("è assolutamente impossibile che agli uomini sia concesso il sommo bene, né che essi abbiano parte di ciò che è ottimo: giacché il sommo bene è, per tutti, non esser nati; ma quando poi si sia nati, la prima cosa che l'uomo possa avere - per quanto inferiore all'altra - è di morire al più presto possibile") può ben vedere con quanta vivacità passionale l'antico punto di vista del pessimismo greco sia ripreso ed interpretato nel senso del dualismo platonico.
Lo stesso spirito pervade il Protreptico, l'altra grande opera giovanile di A., che tanto influsso doveva poi esercitare su tutto il pensiero posteriore: ad esso infatti si ispirò Cicerone per l'Ortensio, la cui lettura provocò a sua volta in Sant'Agostino quella conversione alla filosofia, in quanto cura dell'anima ed esercizio della speculazione, che i libri "protreptici", cioè "esortativi", erano appunto destinati a produrre. Esso ci è noto, attraverso un numero notevole di ampî frammenti, fin da quando il Bywater, nel 1869 (Journal of Philology, II, pp. 55-59), scoperse che il neoplatonico Giamblico aveva utilizzato nel suo Protreptico, accanto a estratti di dialoghi platonici, anche brani di un altro protreptico, che riconobbe per quello aristotelico. La sua collocazione cronologica nella fase giovanile e platonizzante dell'evoluzione di A. e l'approfondita ricostruzione e valutazione del suo contenuto filosofico si deve peraltro allo Jaeger. Nella forma letteraria dello scritto il giovane autore si ricollegava alla tradizione del protreptico isocrateo (così, p. es., l'indirizzava a un principe, Temisone di Cipro), ma nel contenuto l'opera ne era affatto indipendente, costituendo anzi un manifesto di propaganda in favore degl'ideali etici e pedagogici dell'Accademia, implicitamente contrapposti a quelli, più grettamente pratici, della scuola isocratea. Un simile manifesto, scritto con l'appassionato calore polemico dei migliori dialoghi platonici e insieme con una serrata insistenza di argomentazioni che fa presentire il futuro teorico dell'analitica e dell'apodittica, era destinato a suscitare tanto i più appassionati e duraturi consensi quanto le più vivaci repliche. Basti ricordare qui che, da un lato, lo scritto A Demonico conservato tra le opere di Isocrate non è verosimilmente (Jaeger) se non una risposta, che un mediocre isocrateo volle dare al Protreptico aristotelico; mentre, dall'altro, gli argomenti della Lettera a Meneceo di Epicuro s'interpretano nel modo migliore (Bignone) quando si veda in tale scritto il nuovo protreptico che il giovane pensatore di Samo, iniziando il suo insegnamento ateniese sul principio del terzo secolo, intese opporre programmaticamente a quello già famoso da alcuni decennî come manifesto degl'ideali teoretici e religiosi della grande scuola tradizionale, l'Accademia.
Aderendo alla concezione dualistica del platonismo, e anzi accentuandone esclusivamente il motivo ascetico, contemplativo, di ricerca del vero e di avvicinamento alla sua intuizione oltremondana, il giovane A., come accettava (s'è già visto dall'Eudemo) l'idea dell'immortalità dell'anima, così accoglieva la dottrina delle idee e la conseguente svalutazione del mondo sensibile, continuamente mutevole e quindi non suscettibile di scienza verace, rispetto al mondo delle verità ed entità eterne, la cui intuizione intellettuale dava origine a nozioni certe e costanti. È così, tra l'altro, che si spiegano varie antiche testimonianze, le quali, attribuendo ad A. una concezione negativa della conoscenza sensibile, venivano di solito respinte o svalutate quali errori storico-filosofici, di chi avesse scambiato A. per uno scettico (tipico, p. es., il caso dell'epicureo Diogene di Enoanda, ben lumeggiato dal Bignone): mentre, com'è ormai chiaro, esse diventano pienamente plausibili quando siano riferite non all'A. dei trattati dottrinali, sorti dall'insegnamento ateniese del suo ultimo periodo, ma all'A. giovanile ed "essoterico", assai più noto dell'altro, ed anzi per lungo tempo unicamente noto a chi non avesse appartenuto alla cerchia peripatetica. Ciò non deve peraltro far credere che una personalità di simili doti mentali e di tanto acuta attenzione critica abbia potuto rimanere per vent'anni nella scuola di Platone senza muovere obiezioni e sollevare difficoltà di fronte alle dottrine del maestro: anzi è molto probabile che le sue reazioni critiche fossero frequenti e vivaci (Platone gli aveva messo per soprannome Nous, "Intelligenza"), e che gran parte degli argomenti più tardi volti contro la dottrina ontologica delle idee si sia venuta formando nella sua mente già in questo periodo. Ma ciò che sembra si possa affermare con certezza è che in tutta la fase del suo discepolato presso Platone, e in ogni caso nell'età in cui compose l'Eudemo e il Protreptico, i dubbî e le critiche non dovevano esser comunque tali da infirmare la sua sostanziale adesione alla dottrina del mondo ideale ultraterreno e al conseguente ascetismo razionalistico e religioso.
La critica dell'idealismo platonico comincia invece a manifestarsi apertamente nel secondo periodo della vita di A., e cioè in quello che, come si è detto, egli trascorse in Asia Minore, ad Asso e a Mitilene, dopo la morte di Platone e il suo abbandono dell'Accademia. E il periodo del primo insegnamento autonomo di A., e ad esso risalgono, in genere, quelle più antiche redazioni dottrinali, che son poi rimaste concomitanti, o sono state fuse, con le redazioni più mature nel testo dei singoli trattati. Ma a questo periodo appartiene verosimilmente anche l'altro dei grandi dialoghi "essoterici" di A., di cui ci sia rimasto un numero di frammenti tale da permettere fino a un certo grado la ricostruzione del suo contenuto: il De philosophia (Περὶ ϕιλοσοϕίας). È questo, in certo modo, il manifesto didattico della nuova scuola di A., e vi si trovano enunciati per la prima volta, in una sistemazione già caratteristica non solo per il suo contenuto ma anche per la sua forma, i motivi fondamentali che animano la speculazione aristotelica in tutta la prima e grande fase della sua attività indipendente. Il primo libro dell'opera era, nella sostanza, una storia della filosofia, che movendo dalle fasi più remote della civiltà, non soltanto ellenica, mirava a far vedere come tutto il progresso speculativo ed etico del pensiero umano culminasse nel moralismo delfico di Socrate e nell'idealismo ontologico di Platone (motivo critico-storico che ritorna, com'è noto, nel primo libro della Metafisica). Il secondo libro conteneva invece la critica della dottrina delle idee, che doveva presentarsi qui per la prima volta in forma pubblica (stando, almeno, a quanto sembra si possa dedurre dalle antiche testimonianze in proposito). Nel terzo seguiva la costruzione cosmologica propria di A., della quale dà notizia il personaggio epicureo del De natura deorum di Cicerone. Si trattava di una cosmologia e di una teologia che venivano esposte mercé un continuo riferimento critico alla filosofia dell'ultimo Platone, in quanto A. ne riprendeva la teologia astrale, trovando in essa il punto a cui il pensiero metafisico doveva riconnettersi dopo il crollo della dottrina delle idee. A. inaugurava con ciò la religione cosmica della filosofia ellenistica, ricercante nel celeste mondo degli astri gli oggetti della sua venerazione. L'importanza di questa presa di posizione era sottolineata anche formalmente dal fatto che, nel dialogo, uno degl'interlocutori era lo stesso A., il quale, evidentemente, andava sempre più perdendo quella capacità di obbiettivazione estetica ed ironica del dibattito filosofico, da cui erano nati i migliori dialoghi platonici, per sentire la filosofia come personale professione di dottrina, opposta alle altrui obiezioni. In questa nuova professione di fede prendevano infatti forma, per la prima volta, alcune fra le tesi che dovevano serbare maggiore importanza per la costruzione teologica e cosmologica dell'aristotelismo: la concezione dell'eternità del mondo (contrapposta, tra l'altro, al creazionismo dell'ultimo Platone), l'aggiunta dell'etere, quale "quinta essenza", ai quattro elementi tradizionali; la deduzione di ogni divenire cosmico dalla sussistenza della divinità concepita quale "intelletto" e motore immobile, che muove, cioè, non in quanto esercita una sua attività rispetto al mondo, ma in quanto è il termine dell'aspirazione universale dell'imperfetto verso il perfetto. Anche le più caratteristiche argomentazioni aristoteliche in favore dell'esistenza di Dio, poi destinate a fortuna millenaria nella tradizione scolastica (quali p. es. l'argumentum ex gradibus o quello deducente la necessità di un termine ultimo per troncare il regresso all'infinito dal causato alla causa) s'incontravano già, formulate con potente concisione e contenuto splendore letterario, nel terzo libro del De philosophia.
Al periodo della permanenza in Asia Minore risalgono d'altronde, come si è detto, anche quelle parti più antiche, che nei trattati scolastici di A. si trovano o semplicemente giustapposte alle parti recenti, o variamente combinate con esse. Particolarmente istruttivo è, a questo proposito, il caso della Metafisica, cioè di quell'insieme di scritti che assunse tale nome (τὰ μετὰ τὰ ϕυσικά) dal suo materiale susseguire, nelle edizioni aristoteliche, ai libri della Fisica (τὰ ϕυαικά). La Metafisica si presenta oggi divisa in quattordici libri (tradizionalmente designati i primi due con le lettere A e α e gli altri con le successive lettere greche maiuscole fino al N): e la mancanza di omogeneità ed organicità del loro complesso è sempre apparsa evidente. Donde i tentativi, più volte compiuti dai filologi durante il secolo scorso, di restituire all'opera una sua congruenza mercé trasposizioni nell'ordine dei libri, o eliminazioni di parti dichiarate spurie. La vanità di simili tentativi venne peraltro in chiaro quando, dalle ricerche dello Jaeger, risultò che le parti di cui constava la Metafisica non potevano sistemarsi in un insieme organico proprio perché a tale insieme organico non avevano mai appartenuto. La Metafisica non è infatti un libro che A. abbia mai pubblicato in quella forma, e neppure un corso di lezioni, destinato all'uso interno della scuola, che egli abbia così compilato raccogliendo e integrando redazioni precedenti. È solo una silloge, compiuta nell'ambito della scuola dopo la sua morte, dei varî corsi di lezioni preparati da A., a diverse riprese, sul tema della "prima filosofia", e di altro materiale di argomento affine: silloge in cui la cura di raccogliere tutto quanto fosse superstite dové evidentemente soverchiare ogni preoccupazione di omogeneità e di organicità, tanto è il disordine del complesso e le contraddizioni e ripetizioni che vi s'incontrano. Per orientarsi in questo complesso, l'analisi critica ha quindi seguito due vie, l'una più strettamente filologica, l'altra riferentesi piuttosto al contenuto delle trattazioni. Si tratta, in primo luogo, di esaminare i riferimenti reciproci delle varie parti dell'opera (citazioni, presupposizioni di un passo da parte di un altro, ecc.), per giungere da ciò alla determinazione di un nucleo più antico, originario, contenente l'Urmetaphysik, cioè la redazione primitiva della dottrina aristotelica circa la "prima filosofia", differenziandone quindi le varie trattazioni, che vi si vennero aggiungendo in fasi successive. Poi si tratta di utilizzare i risultati così raggiunti, per spingere l'analisi in seno agli stessi singoli libri, o tratti di libri, per vedere se anche in essi non si trovino brani che ampliano o alterano la redazione più antica.
Il risultato più cospicuo, che a questo modo viene raggiunto, può ravvisarsi nella contrapposiziorie del libro Λ (XII) al gruppo costituito dai libri ZHΘ (VII-IX). Il libro Λ (se si prescinde dal cap. 8, che, composto da A. quando, nella sua vecchiaia, riprese in esame il problema del primo motore abbandonando l'idea della sua unicità, fu malamente inserito dopo la sua morte tra i capitoli 7 e 9, di cui interrompe il nesso evidente) è il più importante e suggestivo documento della primitiva metafisica di A. Come risulta anche dallo stile, esso è il canovaccio di una lezione o conferenza, tenuta in una determinata occasione, la quale non offre soltanto la parte della totale scienza metafisica designata come teologia, bensì qualcosa di assai più comprensivo: un completo sistema di metafisica in nuce, che s'inizia con la dottrina della sostanza e conclude con la dottrina di Dio, "pensiero del pensiero" e motore immobile, in quanto termine impassibile dell'aspirazione cosmica. I tre libri ZHΘ offrono invece un'assai più sviluppata teoria della sostanza individuale, culminante nella dottrina del rapporto fra potenza e atto: vi si manifesta quel sempre più vivo interessamento per la realtà e l'individualità terrena a paragone degli universali logici e teologici, in cui si esprime il progressivo allontanamento di A. dal suo primitivo platonismo. Quanto agli altri libri (per non ricordare qui che i risultati principali della ricerca), α (II), che già dagli antichi veniva ascritto a Pasicle di Rodi, sembra realmente essere una sua trascrizione di lezioni aristoteliche, dedicate piuttosto a introdurre alla fisica che non alla metafisica; mentre Δ (V), che è una sorta di dizionario filosofico, in cui vengono elencati i termini di più frequente uso nella speculazione e se ne chiariscono i diversi significati al fine di evitare le difficoltà e i sofismi derivanti dalla presunzione di un loro senso unico, era uno scritto a sé stante, la cui posteriore iscrizione nella metafisica venne a interrompere crassamente il nesso tra Γ (IV) ed Ε (VI). Gli altri libri possono essere considerati, nel loro complesso, come pertinenti alla redazione originaria del corso di metafisica (rispetto a cui Λ sta come formulazione autonoma e primitiva, e il gruppo ZHΘ come trattazione più matura e specifica): ma anche in essi non mancano i "doppioni" e le parti che si distinguono tra loro come documenti di successive fasi di sviluppo, nell'ambito stesso di questo unico periodo evolutivo.
Quanto all'evoluzione interna del pensiero ontologico-metafisico di A., basti qui dire, oltre a quanto s'è già accennato, che esso si svolge nel senso di un progressivo abbandono di quei motivi dualistici che ne rappresentavano l'eredità platonica anche dopo la sopraggiunta critica della dottrina delle idee come enti "separati" dal mondo sensibile. Un particolare cenno merita tuttavia lo sviluppo, ora genialmente ricostruito dal Bignone, della famosa dottrina dell'"entelechia". Com'è noto, da un passo di Cicerone e da altre tracce e controversie più tarde sembrava risultare che A. non avesse parlato di "entelechia" (ἐντελέχεια) ma di "endelechia" (ἐνδελέχεια). Essendo però il primo termine chiaramente attestato nei trattati aristotelici, la menzione dell'altro veniva considerata come derivante o da fraintendimento dell'interprete o da errore della tradizione manoscritta (valendo per ambedue i casi il fatto che un termine altrimenti usato come ἐνδελέχεια poteva facilmente sostituirsi a un termine di originale creazione aristotelica come ἐντελέχεια). Meglio analizzando i testi, il Bignone ha potuto invece mettere in chiaro l'aristotelicità anche della dottrina dell'endelechia, mostrando come essa appartenga a una fase della sua evoluzione speculativa anteriore a quella da cui nacque la dottrina dell'entelechia. Il giovane A. accoglie infatti da Platone la dottrina del Fedro, secondo cui l'anima è immortale in quanto "semovente" (αὐτοκίνητον), cioè in quanto unica realtà che non ha bisogno di ricevere da altro il proprio moto, e che quindi è fonte ultima di ogni movimento cosmico: e così accoglie la teoria delle anime astrali formulata nelle Leggi, deducendo la perennità del moto delle stelle dall'insidenza, in ciascuna di esse, di un'anima concepita appunto come ἐνδελέχεια, cioè, secondo l'interpretazione ciceroniana, come quaedam continuata motio et perennis (quel raro termine greco designa infatti la "continuità", l'"eternità", specialmente in rapporto a un dato movimento: e si può qui aggiungere, a sostegno della tesi del Bignone, l'osservazione che l'unica volta in cui esso, nella forma dell'avverbio ἐνδελεχῶς, ci si presenta nel linguaggio dei presocratici, e cioè nel framm. 19 Diels-Kranz di Crizia, è appunto usato per caratterizzare l'eterno moto ciclico degli astri. E anche il fatto che questa "quinta natura", che si aggiungeva ai quattro elementi tradizionali in quanto sostanza propria delle anime e degli astri, si presentasse in A., come risulta da paralleli riecheggiamenti di Epicuro e di Cicerone, quale sostanza ἀκατονόμαστος, "senza nome" è prova indiretta del contenuto platonico della dottrina: chi infatti ricorda i dialoghi dialettici, quali per es. il Sofista e il Politico, ricorda bene come nelle dicotomie logico-verbali dei concetti vi si presenti spesso il caso di temini "anonimi", che con tanto maggiore interesse venivano segnalati in tale loro natura in quanto la logica platonica sentiva ancora profondamente, pur reagendovi a tratti, il peso della tradizione logica antecedente, in gran parte imperniata sulla spontanea equazione del contenuto mentale alla sua espressione verbale).
Ma quando, nello sviluppo del suo pensiero, A. giunge a concepire la divinità come motore immobile, la cui perfezione non consiste già nell'eternità del suo movimento ma anzi nell'immunità da ogni moto per il già compiuto raggiungimento del suo telos, del termine ultimo della sua perfezione, anche la dottrina delle anime astrali come "endelechie" viene necessariamente a cadere; e la stessa anima umana, non più considerata platonicamente quale ospite immortale del corpo mortale, si unisce con quest'ultimo secondo il nuovo schema della sostanza individua, quale forma e fine pienamente realizzato e attuato della sua materia e potenza. Con audace trovata linguistica, A. trasforma allora il vecchio termine di ἐνδελέχεια, che nonostante la sua preziosità apparteneva comunque di pieno diritto alla tradizione greca, in quello, del tutto nuovo, di ἐντελέχεια, per significare così nel modo più immediato il nuovo concetto dell'ἐνέργεια quale actum piuttosto che actus, realtà che, avendo raggiunto il proprio τέλος, lo possiede in sé (ἔχει: e cfr. l'analogia di forme come συν-εχής e συν-έχεια), ed è quindi affatto compiuta, ἐντελής. Nel suo Giudizio delle vocali Luciano, facendo che la lettera δ accusi la lettera τ di averla defraudata, "contro ogni legge", della parola ἐνδελέχεια, ridotta perciò ad ἐντελέχεια, non fa che riflettere in forma scherzosa il fatto storico di questo cambiamento terminologico, che a lui appariva solo nell'aspetto d'innovazione stravagante.
Si è con ciò veduto, attraverso alcuni tra i principali esempî, di quale importanza siano i risultati raggiunti dall'indagine ricostruttiva dell'evoluzione aristotelica, nel campo della metafisica e della cosmologia e parallelamente anche in quello della psicologia. Quanto alle dottrine morali, si è già accennato, in sede d'informazione bibliografica, come la ricerca della loro genesi abbia condotto a riconoscere nell'Etica Eudemea, già considerata spuria, il documento di una fase evolutiva antecedente a quella della piena maturità, rappresentata dall'Etica Nicomachea; mentre non riuscito può considerarsi il tentativo di ravvisare nella Grande etica (la cui autenticità non sembra sostenibile) una trattazione ancora più primitiva dell'Eudemea. L'etica iniziale di A. è bensì già, come s'è visto, nel Protreptico, dove compare tra l'altro anche quella violenta svalutazione del piacere e della vita dedita alla sua fruizione, che è caratteristica dell'etica platonica, dal Gorgia al Filebo, e contro cui, proprio presupponendo gli scritti giovanili di A., muove in guerra Epicuro, nella sua difesa del "piacere" concepito non più come realtà essenzialmente transitoria e instabile, in quanto condannata a convivere contraddittoriamente col momento del bisogno e dell'insoddisfazione, ma bensì come funzione "stabile", intrinsecamente soddisfatta nella sua calma superiorità al piacere e al dolore "in movimento". Se d'altronde la genesi del pensiero epicureo s'intende solo in funzione del suo contrapporsi all'etica dell'A. giovane ed essoterico, di cui fornisce così ulteriori testimonianze, è da notare (sempre col Bignone) che anche quest'ultima si svolge poi nello stesso senso, giungendo, in pagine famose della Nicomachea, alla rivalutazione del piacere come attività che fruisce di sé stessa, e che è necessaria alla virtù perché questa possa giungere alla sua perfezione. Nel che è addirittura invertita quella tesi dell'indifferenza del piacere rispetto alla virtù, che aveva trovato la sua ipotiposi più energica nella rappresentazione platonica del saggio felice anche fra i tormenti e su cui tanto vivace si accese la polemica. Anche qui, come si vede, solo la considerazione genetica del pensiero aristotelico può evitare che la diversità delle fasi evolutive assuma in esso l'aspetto di una contraddittorietà di tesi opposte, e che, non distinguendosi quale di tali fasi abbia esercitato influsso o sia stata oggetto di opposizione da parte di altri pensatori, non s'intenda neanche il significato concreto di tale opposizione.
Quanto alle opere d'indagine naturalistica, da quelle di carattere più affine alla speculazione metafisica e cosmologica come la Fisica, il De caelo, il De generatione et corruptione a quelle più orientate verso la ricerca e la descrittiva empirica, come p. es. le zoologiche (De animalibus historiae, De partibus animalium, De aninalium generatione), vale in generale anche per esse il principio che, man mano che l'evoluzione della mentalità aristotelica procede dalla fase dell'attività accademica e postaccademica a quella della direzione della nuova scuola del Liceo, l'interesse per le grandi questioni concernenti quanto, nello stesso mondo visibile, ha carattere di eternità e di assolutezza cede sempre più terreno di fronte alla curiosità per gli aspetti particolari della natura, da indagare mercé la paziente organizzazione della ricerca induttiva. Chi vuole avere la netta sensazione di questo contrasto e sviluppo non ha che da leggere, da un lato, i capitoli 9 e 10 del primo libro del De caelo, e, dall'altro, il cap. 5 del primo libro del De partibus animalium. In quei capitoli del De caelo (che anche nel suo complesso è opera la quale, salvo ulteriori rimaneggiamenti parziali, risale a una fase relativamente antica, in quanto ancora dominata dalla problematica dell'Accademia, dell'evoluzione di A.) sono evidentemente conservati brani di uno scritto essoterico, che con ogni probabilità è il De philosophia: vi si vede come le concezioni celesti di quell'opera derivino direttamente dalla forma in cui il giovane A. aveva rielaborato la cosmologia del tardo platonismo. Il capitolo del De partibus animalium insiste invece sul motivo che, se le realtà divine ed eterne attraggono al massimo, per la loro stessa superiorità di valore, la considerazione dello studioso, le piccole cose di questo mondo si avvantaggiano però del fatto che esse si offrono all'indagine in modo diretto e in assai più larga misura, cosicché le scoperte scientifiche che si compiono nei loro riguardi non vengono ad avere, nel complesso, un'importanza minore. E d'altra parte non c'è realtà della natura che, per quanto umile, non implichi qualcosa di meraviglioso e di divino, giacché ha comunque in sé un elemento teleologico, e la finalità è la ragione e la bellezza dell'universo. Si ha qui, come si vede, un manifesto della nuova scuola, indirizzata da A. alla paziente ricerca empirica: e si può facilmente supporre che anche l'indurre i suoi giovani scolari a questo diverso orientamento dell'indagine, questo suscitare il loro interessamento per aspetti già dispregiati della realtà, non dové essere per A. impresa di poco conto. È da questa collaborazione organizzata della scuola ateniese che nascono non solo quegli scritti aristotelici, come per es. la Storia degli animali, che presuppongono un vasto lavoro di ricerca non realizzabile da un individuo isolato, ma anche quelle opere d'insieme a cui A. dovette collaborare personalmente solo in piccola parte, limitandosi per tutto il resto a svolgere solo una funzione direttiva. Ricerche di questo genere furono compiute dalla scuola aristotelica non solo nell'ambito delle scienze naturali, ma anche in quello dell'indagine storica: il più cospicuo esempio a questo proposito è costituito dalla grande silloge delle 158 Costituzioni (Πολιτεῖαι), cioè degli scritti dedicati ciascuno alla descrizione della forma costituzionale di una singola città o stato, il primo dei quali, composto personalmente da A. intorno alla Costituzione d'Atene (Πολιτεία 'Αϑηναίων), è tornato alla luce nel 1891 per una fortunata scoperta papiracea.
L'evoluzione da un'iniziale tendenza prevalentemente speculativa verso un sempre maggiore interessamento per la determinazione empirica e induttiva delle forme e degl'istituti si manifesta invero anche in quell'ambito della dottrina politica, a cui conviene, da ultimo, accennare. Da giovane, A. mira platonicamente alla costruzione teorica dello stato ideale: da vecchio, studia e fa studiare pazientemente (con uno sforzo di organizzazione la cui entità può essere valutata appieno solo quando si pensi che mancava allora quasi ogni possibilità di ricerca non condotta direttamente sui luoghi), la struttura degli stati reali. Ma documento di questa mutazione ed evoluzione di spirito non è soltanto il contrasto tra quanto è superstite di tale gigantesca opera della vecchiaia di A. e quanto è possibile desumere, dai pochi frammenti rimasti, circa il contenuto dei suoi scritti giovanili di argomento politico (tra cui il Politico e i quattro libri Sulla giustizia), in cui l'influsso platonico si manifestava fin dai titoli. Ne è documento, anzi documento principale, la stessa maggiore trattazione di tali problemi che ci sia pervenuta tra gli scritti aristotelici, e cioè gli otto libri della Politica.
Lo Jaeger ha infatti brillantemente messo in luce come anche quest'opera non sia stata redatta d'un getto, e come non testimonii quindi di una sola fase del pensiero politico di A. Se non è, come la Metafisica, un mero conglomerato di scritti messo insieme dalla scuola solo dopo la morte del maestro, essa costituisce tuttavia il risultato di una lunga elaborazione, compiuta dallo stesso A., di cui sono chiaramente individuabili almeno due stadî. Il primo è rappresentato anzitutto dagli ultimi due libri (VII e VIII) che mirano a determinare i caratteri dell'ἀρίστη πολιτεία, dello "stato ottimo" nel senso platonico; il secondo dai libri IV, V e VI, che offrono una minuta analisi delle varie possibili forme di stato nei loro presupposti costituzionali e storici e una teoria dei motivi della loro decadenza e dei rimedî che possono essere adottati per conservarle in vigore, la quale tende a porsi da un punto di vista strettamente tecnico e quindi ad attenuare ogni motivo di valutazione etico-politica. A quella prima redazione debbono d'altronde appartenere anche i libri II e III, il primo dei quali offre un'ampia rassegna delle concezioni politiche enunciate in precedenza da pensatori (è qui che si presenta, tra l'altro, la nota critica delle dottrine platoniche della Repubblica e delle Leggi) o implicite in grandi esempî storici (come nelle costituzioni spartana, cartaginese, ecc.), mentre l'altro analizza i concetti fondamentali della scienza politica, definendo la natura dello stato e del cittadino e determinando i principî che distinguono essenzialmente le diverse forme di costituzioni in rapporto ai fini etico-politici da esse perseguiti. Secondo lo Jaeger, i libri II e III dovevano anzi essere immediatamente seguiti dai libri VII e VIII, costituendo così insieme con essi la più antica redazione della Politica: e solo quando, in una fase ulteriore della sua evoluzione, A. compose i libri IV, V e VI e decise d'inserirli al posto che ora occupano, aggiunse il libro I come nuovo proemio della redazione definitiva. A tale ricostruzione jaegeriana del progressivo ampliamento della Politica si è bensì opposto (come si è accennato nelle indicazioni bibliografiche) il von Arnim, il quale ravvisa nei libri VII e VIII addirittura le parti più recenti dell'opera; mentre il Praechter, aderendo nelle linee generali alla tesi dello Jaeger, ritiene il libro III antico come i due ultimi e pertinente al pari di essi al periodo del soggiorno in Asia Minore immediatamente successivo alla morte di Platone, ma distinto da essi come trattazione a sé, la quale più tardi ebbe per seguito i tre libri centrali, pur venendo anche altrimenti adattata per servire da proemio ai due libri finali.
In ogni modo, comunque sia da ricostruire nei suoi aspetti più particolari il processo di redazione dell'opera (e la questione dovrà essere anch'essa ripresa in un riesame complessivo del problema del pensiero politico di A. e della sua formazione), fermo può considerarsi il punto che tale pensiero ha proceduto da una considerazione platonizzante della migliore costituzione possibile, quale si manifesta per es. in molti tratti degli ultimi due libri della Politica, a uno studio sempre più realistico delle forme dell'effettiva vita degli stati e delle norme empiriche che ne regolano lo svolgimento e che debbono quindi esser tenute presenti da chi voglia comunque agire su di essa, quale si presenta nelle analisi dei libri centrali, rimasti perciò giustamente famosi in tutta la storia del pensiero politico. Questa evoluzione è stata, come s'è detto, ricondotta dallo Jaeger al generale motivo informatore dello sviluppo dello spirito aristotelico, e cioè alla progressiva preferenza per il reale rispetto all'ideale, per la ricerca induttiva, condotta con interesse tecnico e con largo sforzo d'organizzazione, rispetto alla speculazione strettamente teoretica e filosofica, paga dell'assoluto e disdegnosa dell'empirico. E certo questo aspetto generale dell'evoluzione dello spirito aristotelico si manifesta anche qui, nel passaggio dalla teorizzazione dell'unico stato perfetto allo studio dei moltissimi stati reali. Ma non c'è soltanto questo: c'è anche il progressivo abbandono della grande speranza platonica, di poter prospettare all'intelligente aspirazione degli uomini un così perfetto ideale di convivenza civile, da convincerla all'effettiva realizzazione politica di tale "bene". In Platone, e in larga misura ancora nel giovane A., studio della politica è soprattutto questa determinazione del miglior programma di vita e d'azione, che si tratta di far sentire nella sua superiorità ai programmi opposti: quel che interessa non è tanto capire quel che è quanto propugnare quel che dev'essere, e difenderlo contro la proposizione di divergenti ideali. Ma Platone non riesce a realizzare il suo ideale politico, e nell'animo dello scolaro gli entusiasmi a poco a poco si spengono. Sopravviene in lui un'attitudine più rassegnata e contemplativa, che si contenta di osservare là dove non ha più l'impeto per operare. Al propugnatore di nuovi ideali di giustizia e di nuovi ordini giuridici succede lo storico e il sociologo, che indaga gli ordinamenti reali e le più consuete loro forme di manifestazione: il fiero nemico di ogni modo di dominare e di convivere che contraddica alla norma morale, cede il passo a un tecnico dell'organizzazione politica, che con la stessa freddezza distante descrive i metodi per "conservare" la democrazia e quelli per "conservare" la tirannide, e, tra questi ultimi, tanto quello fondato sull'elevazione della tirannide a monarchia quanto quello basato sul suo abbassamento al più deciso e crudele dispotismo. Naturalmente, questa evoluzione di spirito non si realizza in A. tutta in una volta, e non è neppure da credere che le parti della Politica risalenti alle diverse fasi evolutive manifestino tali caratteristiche in modo esclusivo, e quindi con netto contrasto reciproco. In ciascuna di esse c'è l'una cosa e c'è l'altra e c'è il conflitto di entrambe, insieme col progressivo prevalere della seconda sulla prima: come vede anche chi consideri come man mano si modifichi l'impostazione e la soluzione di problemi singoli, quale per es. quello dell'applicabilità del principio della giustizia ai rapporti di politica estera, e quindi alla guerra e alla conquista, o quello, per molti lati analogo, della giustificazione della schiavitù. Chi, attraverso le pagine di quest'opera di A., segua e ricostruisca in tal modo il travaglio genetico della sua dottrina etico-politica, può quindi scorgere come la fisionomia della sua evoluzione spirituale abbia in quel processo di sviluppo uno dei suoi tratti più caratteristici, in cui l'urto dell'antico e del nuovo non è solo contrasto di dottrine, ma anche dramma morale.