ARIULFO
Secondo duca longobardo di Spoleto, era già succeduto a Faroaldo I nel settembre del 591.
Un A., capo di un contingente imperiale agli ordini dell'ipostratego Giovanni Mistacon nella guerra contro i Persiani, appare citato in un passo di Teofilatto Simocatta (Theophilacti Simocattae Historiae, a cura di K. De Boor, Lipsiae 1887, p. 56) come comandante dell'ala destra dello schieramento imperiale nella battaglia alla confluenza del Tigri col Nymphios (anno 582); e proprio a questo A. venne affidata la prima fase, vittoriosa, dello scontro. In un suo recente studio, Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, il Bognetti, riprendendo e completando alcune osservazioni da lui fatte nel suo fondamentale lavoro Santa Maria "foris portas", crede di poter ravvisare nell'A. succeduto prima del settembre 591 a Faroaldo I di Spoleto l'A. citato da Teofilatto, Simocatta. Secondo il Bognetti, questo A. sarebbe rientrato in Italia nell'invemo del 590, insieme al nuovo esarco, Romano, con i rinforzi di truppa imperiale fra cui si trovavano i contingenti longobardi comandati da Ossone e dal vir gloriosus e patricius Nordulfo, un principe longobardo che forse, secondo una ipotesi del Bognetti, poteva accampare diritti al trono di Pavia e a cui sarebbe stato affidato il compito di trarre dalla parte imperiale gli arimanni dell'Italia centro-meridionale. Il Bognetti, constatato il fatto che in un altro passo di Teofilatto Simocatta viene ricordato Droctulfo, principe svevo, il quale aveva combattuto con Giovanni Mistacon contro gli Avari rientrando poi in Italia con Badoario nel 575, opina che nello stesso modo avrebbe potuto arrivare in Italia quell'A. che aveva combattuto sotto lo stesso Giovanni Mistacon contro i Persiani. Secondo la tesi del Bognetti, dunque, A. avrebbe sostituito a Spoleto per conto dei Bizantini Faroaldo I, a loro sicuramente ostile, eliminandolo; ma quando Romano, dopo l'armistizio dei Franchi d'Austrasia coi Longobardi, rimase solo a fronteggiare l'offensiva scatenata dal nuovo re, Agilulfo, A. - che aveva con sé tutti i transfughi longobardi, ex soldati di Nordulfo rimasti, opina il Bognetti, senza paga per le vicende della guerra - si sarebbe trovato in una posizione di completa indipendenza rispetto all'Impero, posizione che sarebbe stato costretto, quasi per la forza degli avvenimenti, a trasformare in senso di piena ostilità nei confronti dei Bizantini per evitare la punizione che gli poteva venire dal re o dai duchi longobardi della valle padana e della Tuscia.
Non appena divenuto duca, A. riprese immediatamente la politica offensiva che era stata del suo predecessore. Profittando della posizione centrale di Spoleto, che gli permetteva di vibrare i suoi colpi sia contro l'Esarcato sia contro il Ducato di Roma, attaccò con la massima violenza e decisione la linea difensiva - mai superata, ad onta dei suoi sforzi, da Faroaldo I - che i Bizantini avevano apprestato a sbarramento della valle del Tevere e delle zone montane di saldatura fra questa valle e quella del Metauro, strategicamente importante perché lungo essa, sino a Fano e alla costa dell'Adriatico, correva la via Flaminia. E i risultati non si fecero attendere. Occupata Narni sul finire del 591, A. interrompe le comunicazioni fra Roma e Ravenna; nel gennaio dell'anno successivo minaccia Nepi, nel giugno Soana, nel luglio, dopo aver devastato i centri abitati della Sabina e aver eseguito puntate nella valle dell'Aniene in territorio di Subiaco, occupa Orte, Sutri, Bomarzo e si presenta con il suo esercito sotto le mura di Roma. Qui, sin dal momento della caduta di Narni, la situazione era apparsa in tutta la sua gravità; ma non fu il magister militum Casto, che ne comandava il presidio, come non furono gli altri generali bizantini che guidavano i corpi imperiali dislocati più a nord, verso Perugia, a preservare Roma dagli orrori del saccheggio, bensì il papa, Gregorio I. Questi non fu soltanto l'anima della difesa, ma diresse di fatto anche le operazioni militari, impartendo ai comandanti imperiali suggerimenti che erano veri e propri ordini, in tre lettere inviate ai magistri militum Veloce, Maurizio e Vitaliano, una nel settembre 591 e due nel giugno dell'anno seguente, nelle quali li invitava ad attaccare alle spalle l'esercito di A. e ad assicurarsi della fedeltà di Soana (A. aveva scritto al papa che gli abitanti di quella città stavano trattando con lui per arrenderglisi).
A. aveva sferrato la sua offensiva, se non proprio nel giorno di s. Pietro come pure a Roma s'era temuto, certo subito dopo la seconda lettera del giugno 592 di Gregorio I a Maurizio e a Vitaliano. Roma resistette soprattutto per il baluardo delle sue mura, ma gli Spoletini la oltrepassarono dilagando nei territori circostanti e abbandonandosi ad ogni sorta di distruzioni, massacrando o mutilando quanti opponessero resistenza. Tra le altre, la sede episcopale di Cures Sabinorum, nella Sabina, e di Tres Tabernae, nella Campania romana, subirono tale strage di clero e di popolo che il papa si vide costretto a riunirne le diocesi, rispettivamente, a quella di Mentana (gennaio 593) e di Velletri (agosto 592). E quando la situazione di Roma si fece disperata, il papa si addossò la grave responsabilità di trattare una tregua col duca di Spoleto contro il parere dell'esarco Romano, il quale, pur mostrando di non poter seriamente contrastare il passo ad A., non voleva assolutamente sentir parlare di trattative coi Longobardi. Nonostante ciò, Gregorio I stipulò l'accordo. Ne ignoriamo le clausole: molto probabilmente il papa addossò all'erario della Chiesa di Roma l'onere finanziario derivante dalle condizioni imposte dal duca per sospendere le ostilità; a ciò allude, infatti, il papa quando scrive all'imper. Maurizio due anni dopo di aver fatto la pace "cum Langobardis in Tuscia positis sine ullo dispendio rei publicae".
A. - il quale aveva con sé i contingenti longobardi di Autari e di quel Nordulfo che, dopo aver militato in Oriente con le truppe bizantine, era rientrato in Italia col consenso dell'imperatore due anni prima ed aveva cooperato validamente, col titolo di vir gloriosus che si attribuiva ai magistri militum, alle vittoriose operazioni di Romano contro re Autari in Italia settentrionale - poneva come pregiudiziale all'apertura delle trattative che gli fosse corrisposta la paga pattuita ad Autari e a Nordulfo per il servizio prestato all'Impero, dichiarandosi per di più dispostissimo a mettersi anche lui al servizio di Bisanzio, "toto corde venire ad rem publicam paratus". Ma solo l'esarco - e anche egli dietro autorizzazione dell'imperatore - poteva stipulare un simile accordo e trasformare A. da nemico in amico dell'Impero; e l'esarco non ne voleva sapere. Importa rilevare, però, che Gregorio I mise Romano di fronte al fatto compiuto: quando scrisse a Giovanni, arcivescovo di Ravenna (dopo il luglio 592), scongiurandolo di convincere l'esarco a concedergli l'autorizzazione a trattare con A., dato che questi si rifiutava di parlare con lui se prima non gli avessero corrisposto la paga che i Bizantini avevano dato ad Autari e a Nordulfo, l'armistizio era già stato concluso. Tant'è vero che l'esarco, in risposta alle iniziative del papa - che gli dovevano apparire, se non come alto tradimento, certo come usurpazione di competenze -, aveva dato all'intero presidio di Roma, il solo corpo dei Theodosiaci escluso, l'ordine di evacuare la città e di prendere posizione più a nord, a copertura delle linee di comunicazione con Ravenna. E l'ordine era stato eseguito immediatamente; nella marcia di trasferimento, tuttavia, i contingenti imperiali, anche se riuscirono a raggiungere i loro obbiettivi rioccupando Narni e Perugia e attestandovisi, urtarono contro le difese longobarde, provocandone la pronta reazione e la ripresa delle ostilità.
È certo che l'esarco non aveva l'intenzione né di lasciare Roma preda ai Longobardi né di trascurare le esigenze impostegli dalla dura lotta che andava combattendo in Italia settentrionale, contro Agilulfo, ed in quella centrale, contro A.; per Romano la guerra continuava, ed era sua precisa volontà concluderla senza venire a compromessi coi barbari. I piani dell'esarco contemplavano probabilmente un organico piano d'azione, inattuabile se gli imperiali non tenevano saldamente la linea di comunicazione tra Roma e Ravenna; ed è logico che Romano facesse affluire da Roma i rinforzi per i territori più vicini alla città: il solo corpo dei Theodosiaci, appoggiato a mura di provata efficienza difensiva, doveva essergli sembrato più che sufficiente a presidiare l'Urbe. Ma aveva sottovalutato due elementi, nel suo calcolo: il disordine amministrativo conseguente allo spostamento delle truppe e la prontezza della reazione di Ariulfo.
I Theodosiaci, rimasti senza paga, si acconciarono con una certa riluttanza a compiere anche il normale servizio di guardia sulle mura; A., dal canto suo, riaperse immediatamente le ostilità, risparmiando Roma, ma scatenando la sua offensiva nel settore umbro-marchigiano: Amelia e Todi, nella valle del Tevere, il caposaldo di Luceoli, presso l'odierna Cantiano, che dominava l'alta valle del Metauro, caddero in sua mano mentre, nel tratto centrale della valle del Tevere, un altro duca longobardo, Maurizione, s'insediava a Perugia. Probabilmente in questo periodo delle ostilità è da porsi l'occupazione di Camerino da parte del duca di Spoleto. Anche il duca di Benevento, Arechi I, si decise a rompere con l'Impero - cui era legato da un patto di alleanza - e a far lega con Ariulfo. Arechi investì così violentemente Napoli da farla dare per persa e, contemporaneamente, lanciò le sue truppe in incursioni nell'interno, sino alle immediate vicinanze della pianura pontina, tanto che da Fondi clero e popolazione si erano trasferiti a Terracina. Non appena ebbe notizia di questa lega fra A. e Arechi I ed ebbe valutato i pericoli che potevano derivarne, Gregorio I ne avvisò, con la ricordata lettera, l'arcivescovo Giovanni di Ravenna, scongiurandolo di farne argomento di pressanti premure all'esarco e prospettandogli l'urgente necessità d'inviare a Napoli almeno un duca, senza il quale la città sarebbe certo caduta. Ma, come per la tregua stretta con A. qualche tempo prima, così il papa aveva già preso provvedimenti di sua iniziativa, senza attendere gli ordini di Romano: aveva infatti già incaricato della difesa di Napoli il vir magnificus Costanzo, un tribuno militare, alle cui misure il presidio della città partenopea doveva aver risposto con grande disciplina e senso della responsabilità se, con una lettera inviata poco dopo "universis militibus in Neapoli", il papa sentiva il bisogno di fare le sue congratulazioni.
Sul finire del 592 l'esarco Romano passava all'azione: scese con le sue truppe fino a Roma e di qui puntò nuovamente verso nord. Vennero così riconquistate Sutri, Bomarzo, Orte, Amelia, Todi e Luceoli, e fu ristabilita l'intera linea di comunicazione fra Roma e Ravenna; il duca longobardo di Perugia, Maurizione, passò ai Bizantini e venne lasciato nella città come comandante del presidio imperiale. Ributtati indietro gli Spoletini (nulla fu fatto contro Arechi di Benevento, che ancora nell'inverno doveva trovarsi con i suoi uomini sotto Napoli), Romano rientrò a Ravenna. In questo momento il re Agilulfo, che si era rafforzato sul trono con la punizione dei duchi ribelli in alta Italia, s'inserì d'autorità nel gioco politico che, fra Roma e Ravenna, aveva avuto sin'allora come protagonisti il duca di Spoleto e Arechi I di Benevento. La presenza di Autari e di Nordulfo, coi loro uomini, fra le truppe di A., le sue trattative con Gregorio I, la somma da lui ricevuta per togliere l'assedio a Roma, la sua mancata resistenza alla controffensiva dell'esarco, la defezione infine del duca di Perugia, avevano insinuato nel re il sospetto che A. fosse effettivamente sul punto di schierarsi al fianco dei Bizantini, e che, dopo, il suo esempio inducesse anche Arechi I a tornare al servizio dell'Impero. Agilulfo volle pertanto troncare sul nascere gli sviluppi di una situazione che poteva diventare pericolosa per lui. Nella primavera del 593 mosse da Pavia alla testa di tutto il suo esercito, discese nella valle del Tevere, espugnò Perugia e mise a morte il transfuga Maurizione. Nel tardo autunno poneva l'assedio a Roma. L'esarco restò inerte: in netto disaccordo col papa per la politica da lui perseguita nei riguardi del duca di Spoleto, non vedeva di malo occhio che Gregorio I ne scontasse le conseguenze con Agilulfo. Arechi ed A., dal canto loro, non avendo interesse alcuno a ribadire la catena che li avrebbe vincolati al potere regio, si astennero dal collaborare con Agilulfo e rimasero in una posizione di benevola neutralità nei confronti del papa, volendo conservarsi la via per un accordo con l'Impero, capace di garantire la loro autonomia nei confronti della corona longobarda. L'assedio, posto a Roma da Agilulfo sul finire dell'anno, si protrasse anche nei primi mesi del successivo 594; e quando, esaurite le scorte alimentari, sembrò che la città fosse costretta dalla fame alla resa, Gregorio I, il quale era stato l'anima della difesa, si assunse, come già nell'estate del 592, il compito di trattare. Nel corso dei negoziati il papa ebbe l'appoggio e la collaborazione dei rappresentanti del governo imperiale in Roma, il praefectus praetorio Gregorio e il magister militum Casto sui quali, a cose fatte, si doveva riversare lo sdegno dell'imperatore. Agilulfo acconsentì a desistere dalla sua azione e a riportare il suo esercito al nord. A quali patti, non sappiamo.
Suo obbiettivo non era la conquista, altrimenti l'intera linea di comunicazioni fra Roma e Ravenna non sarebbe tornata, Perugia compresa, in saldo possesso dei Bizantini già prima del novembre 594 senza che gli Imperiali avessero incontrate serie resistenze; fu invece la volontà d'imporsi come fattore decisivo nei rapporti fra Longobardi, il papa e i Bizantini a spingere il potere regio in Italia centrale. E Agilulfo aveva raggiunto il suo scopo. Infatti, se l'esarco aveva disapprovato anche questa volta l'azione del pontefice e aveva convinto l'imperatore Maurizio a rimproverarlo aspramente insieme con i due alti funzionari bizantini, Gregorio e Casto, che si erano trovati durante l'assedio con lui a Roma e avevano approvato le sup iniziative, Gregorio I, per parte sua, aveva reagito sia sul terreno polemico, indirizzando a Maurizio una lettera in cui, con dignitosa fermezza, rivendicava la liceità del suo operato, sia sul terreno dei fatti, spostando la sua attività diplomatica a Pavia e a Ravenna, nel tentativo di giungere ad una pax generalis vincolante anche i duchi di Spoleto e di Benevento, stipulata fra Agilulfo e l'esarco, che assicurasse finalmente all'Italia, dopo tanti anni di stragi e di rovine, un lungo periodo di pace operosa e fosse preludio a un formale trattato di alleanza fra il Regno dei longobardi e l'Impero. Così anche quando, con la morte di Romano (anno 597), sgomparve l'avversario primo della conclusione d'un accordo e questo fu raggiunto, dopo un lungo travaglio e fra reciproci sospetti, intorno all'ottobre del 598, non si ebbe che un modesto armistizio annuale per cui i Bizantini, in cambio della tregua, accettavano l'impegno assunto dal papa nel 594 di versare al re dei Longobardi un tributo di 500 libbre d'oro.
A. aveva ben compreso, dunque, che lo scopo della spedizione di Agilulfo era, in ultima analisi, per lui dannoso; è questa la ragione per cui non aveva secondato la manovra del re, astenendosi di proposito dal creare difficoltà al papa nel momento critico dell'assedio, e poi nel periodo, forse ancora più critico, delle trattative per lo sblocco di Roma. Allo stesso modo non fece nulla per opporsi quando i Bizantini rioccuparono il corridoio Roma-Ravenna, recente conquista di Agilulfo. Con A. era stato solidale il duca di Benevento, il cui atteggiamento ormai non era più fonte di preoccupazioni per il papa in quel periodo, se poteva prendere, in due diocesi dell'Italia meridionale, provvedimenti che mal si concilierebbero con un persistere di propositi ostili in Arechi I.
Ma quando, dopo l'intesa del 594 fra Gregorio I e Agilulfo, divenuto questo ultimo uno dei fattori principali della politica italiana, s'iniziarono gli sforzi per stabilire contatti diretti con Romano e addivenire a quella pax generalis che avrebbe dovuto essere, secondo i desideri del papa, preludio a un formale trattato d'alleanza fra i Longobardi ed i Bizantini, l'atteggiamento del duca di Spoleto (che pure, nel 592, si era mostrato assai favorevole a una tregua e perfino a un'alleanza coi Bizantini) mutò radicalmente e in senso nettamente ostile a un armistizio negoziato fra Agilulfo e l'esarco. A. riprese infatti poco dopo le armi, attaccando i Bizantini con la massima decisione, e dilagò con i suoi verso il litorale adriatico minacciando Fermo, Osimo e Fano. Le devastazioni e le stragi ricominciarono, e di pari passo aumentarono le necessità che la Chiesa di Roma cercò di fronteggiare, ricorrendo anche a mezzi estremi, come a Fano, il cui vescovo, Fortunato, ricevette dal papa l'ordine di vendere gli arredi sacri della sua Chiesa per riscattare, col denaro ricavato, i prigionieri fatti dai longobardi. Anche questa volta A. ebbe al suo fianco Arechi di Benevento, il quale, sul finire del 595, era passato all'offensiva riprendendo la guerra contro i territori bizantini confinanti col suo ducato; tanto che, dopo aver allargato le sue conquiste nella Lucania, nei Bruttii nella zona della Sila e lungo la costa ionica, e dopo aver devastato selvaggiamente la Campania, era arrivato a presentarsi con i suoi guerrieri, fra le apprensioni del papa, nel territorio di Terracina (aprile 598). Fu proprio nel 598 anzi, quando le trattative per la tregua sembravano entrate nella fase conclusiva, grazie alla buona volontà dimostrata dal re e da Callinico (il nuovo esarco, succeduto nel 597 al morto Romano), che si vide quanto A. e il suo alleato beneventano fossero ostili ad accettare la nuova situazione politica. Lo sviluppo delle trattative in corso, infatti, significava per A. l'avvicinarsi del momento in cui non avrebbe più potuto valersi di un accordo col papa per salvaguardare l'autonomia del suo ducato, mentre la loro conclusione avrebbe implicato quella sua piena subordinazione alla corona, che aveva cercato col suo neutralismo di scongiurare nel 593 e nel 594. Tali considerazioni, perfettamente giustificate dalla situazione politica creatasi dopo la calata di Agilulfo su Roma, avevano spinto A. - e con lui il duca di Benevento - ad ostacolare in tutti i modi la buona riuscita dei negoziati fra il re, il papa e l'esarco, modificando la politica che aveva sin'allora perseguita. Adesso però che la tregua era un dato di fatto - nell'ottobre del 598 il papa scriveva all'arcivescovo di Cagliari, Gennaro, di aver ricevuto notizia dall'esarco che l'armistizio poteva considerarsi concluso, anche se bisognava ancora attendere "quousque pacta de confirmatione pacis ipsius conscribantur"; e in questo stesso mese Agilulfo aveva già giurato "de servanda pace" -, A., nel timore che il re e l'esarco si fossero lasciati mano libera, con clausole segrete, per procedere contro di lui e contro Arechi I, o addirittura si fossero accordati per una azione comune ai loro danni, esigette per sé e per il suo alleato beneventano assicurazioni formali che dissipassero i suoi timori. Mentre Arechi di Benevento si era rifiutato di sottoscrivere alla tregua, A. lo aveva fatto, ma sotto condizione: non garantiva infatti d'osservare l'armistizio se fosse stato tentato alcunché contro di lui o contro il duca di Benevento. Questa pregiudiziale apparve al papa come un rifiuto di firmare e una riprova che tutto l'atteggiamento precedente di A. nei suoi confronti, quel suo essersi dichiarato pronto "toto corde venire ad rem publicam", altro non era stato se non un inganno alla sua buona fede. Che A. nell'estate del 592 avesse avuto realmente l'intenzione di stringere alleanza, tramite Gregorio I, con l'Impero, è provato dal fatto che già nel 595 uno almeno dei capi transfughi che si trovavano fra le sue file nel 592, Nordulfo, era tornato al servizio di Bisanzio, forse con i suoi contingenti. Abbiamo già sottolineato quali motivi avessero spinto il duca a mutare politica; ma, naturalmente, tutta l'atmosfera di reciproci sospetti, rivelata dal rifiuto di Arechi e dalle riserve di A., non fece che aumentare la diffidenza del papa nei confronti dello spoletino, la sua sfiducia nell'effettiva efficacia della tregua nel territorio romano, i suoi dubbi circa la sincerità dei propositi del re e dell'esarco.
Come si siano risolte le cose, non sappiamo; certo in modo tale da soddisfare pienamente Gregorio I se, alla fine del 598, consegnava ai messi del re, giunti nel frattempo da Benevento a Roma, due lettere, una per Agilulfo e l'altra per Teodelinda, in cui ringraziava i sovrani per quanto essi avevano fatto in pro della tregua. Ma soprattutto scongiurava in esse il re di profittare di ogni occasione per ricordare ai suoi duchi, e in modo speciale a quelli di Spoleto e di Benevento, di osservare i patti che avevano giurato, senza creare situazioni tali da cui potessero sfociare disordini armati. Dalle lettere traspare dunque che Arechi aveva finito con l'accettare anch'egli l'armistizio, e che A. non doveva aver insistito oltre nelle riserve da lui fatte all'atto del giuramento; ma traspare anche molto chiaramente la diffidenza che animava tuttora il papa nei confronti dei due duchi. Ci volle un po' di tempo, tuttavia, perché si tornasse a uno stato di almeno relativa tranquillità; ancora agli inizi del 599 la situazione intorno a Roma non si era normalizzata, se il papa si faceva premura di scrivere a Teodoro, curator Ravennae, per pregarlo di far scortare "iure militari" almeno sino a Perugia una nobildonna, la consorte del praefectus urbi Giovanni, che doveva raggiungere a Roma il marito. E quando, intorno al 600, l'esarco aveva rotto improvvisamente la tregua col suo colpo di mano su Parma provocando l'immediata reazione di Agilulfo, la guerra s'era fulmineamente riaccesa in tutta l'Italia. Anche A. aveva ripreso le armi contro i Bizantini, devastando i territori di Roma e di Ravenna: fu questo l'ultimo atto della sua vita; moriva, infatti, nel 601, e il potere tornava nelle mani dei due figli del primo duca di Spoleto, Faroaldo, che se lo disputarono con le armi.
Per comprendere tutta l'importanza che l'attività di A. ebbe per i rapporti fra il papa e il ducato di Spoleto, converrà fare alcune considerazioni sulle nuove possibilità che all'azione di Gregorio I vennero offerte proprio dopo la conclusione dell'armistizio del 598; anche se continuarono e si intensificarono, specie dopo il 600, le incursioni dei Longobardi contro i possedimenti e le città. bizantine, i legami fra la Chiesa di Roma e quella dell'Italia centrale e meridionale sembrano essersi fatti più stretti.
Già nel novembre del 598 Gregorio I incaricava il vescovo Crisanto di Spoleto di consacrare a Rieti, nella basilica della beata Vergine Maria, una cappella ai santi Erma e Damiano, dove avrebbe dovuto collocare, secondo la preghiera di un diacono di quella città, loro reliquie. Ancora nel novembre dello stesso anno il papa vietava che si esigesse da due chierici di Fermo il prezzo pagato vent'anni prima per il loro riscatto, quando erano stati fatti prigionieri dai Longobardi; e, con una lettera indirizzata al vescovo di Narni, Costanzo (già da due anni visitatore "ecclesiae Teramnensis"), gli affidava l'amministrazione della Chiesa di Terni dato che "nec clericus illic nec plebs tanta remanserit" da giustificare l'elezione di un vescovo. Sul finire dell'anno, poi, ordinava al vescovo di Fermo, Passivo, visitatore "in castro Aprutiensi", di consacrare - dopo essersi accertato che non vi fossero impedimenti canonici - un oratorio a s. Pietro, che era stato edificato da un certo Anione "comes". Nel febbraio dell'anno successivo scriveva ancora a Crisanto di Spoleto, diffidandolo dall'accogliere nella sua comunione alcuni monaci scomunicati che, fuggiti, dovevano aver riparato nella sua diocesi; gli ingiungeva inoltre di riconsegnare al suo monastero di origine un servo che, fattosi monaco per essere manomesso, era fuggito subito dopo la vestizione. Nel giugno di quello stesso anno 599 Gregorio I incaricava Crisanto d'un altro compito di fiducia: la restaurazione ab integro della Chiesa di Bevagna, la quale, negli anni duri della conquista, si era ridotta a non aver più né vescovo né sacerdoti, ma soltanto semplici "clerici". Già sede vacante nel 591, il papa ne aveva affidato "curam utilitatesque" ad un certo presbitero Onorato e aveva esortato "clero, ordini et plebi" ad eleggersi un vescovo, mentre, per dissensi interni, ne rimandava la nomina. Non sembra, tuttavia, che si fosse proceduto a questa nomina; nel 597, infatti, il vescovo Crisanto di Spoleto veniva nominato visitatore di quella diocesi. Ora il papa gli affidava l'incarico di trovare una persona "qui dignus ad episcopalis officii apicem valeat promoveri", ovvero, qualora non la trovasse, di scegliere qualcuno "qui illic in presbyterii ordine valeant consecrari". È da notare che in questa lettera (Bevagna era caduta in potere di A. probabilmente nell'estate del 592) mancano del tutto le allusioni alla "hostilis impietas" o all'"insidia fidei hostis", che sono regolarmente riferite ai Longobardi in lettere precedenti al 598 per analoghi casi di rovine arrecate alle chiese dai barbari, ariani o ancora pagani. Infine, nel luglio Gregorio I incaricava il vescovo di Gubbio, Gaudioso, visitatore della diocesi di Tadinum (Gualdo Tadino), di far eleggere dalla popolazione di quella Chiesa il suo presule.
Tali provvedimenti dimostrano che il papa aveva la possibilità di esercitare nelle varie parti del ducato di Spoleto il suo apostolico ministero, senza incontrare ostacolo alcuno né in A. né nei suoi funzionari; quanto ai vescovi delle diocesi comprese entro l'ambito del ducato, essi ebbero la più ampia libertà di esercitare il loro ufficio pastorale. Fra di loro, anzi, il vescovo di Spoleto sembra aver goduto di una posizione tale nella sua città non solo, ma anche al di fuori dei suoi confini giurisdizionali - forse proprio in grazia a quel suo essere vescovo della capitale del ducato -, che il pontefice se ne servì efficacemente per la sua opera di riordinamento delle chiese dell'Umbria e della Sabina, e di repressione dei disordini del clero nelle diocesi rimaste prive di vescovo. Va sottolineato il fatto che Crisanto, vescovo di Spoleto sotto Faroaldo I e A., fu visitatore della Chiesa di Bevagna; che a lui furono affidate le diocesi di Norcia e di Rieti, e missioni connesse con l'opera di ricostruzione iniziata da Gregorio I.
Con l'invasione longobarda, infatti, anche se in un primo tempo l'organizzazione ecclesiastica subì una comprensibile caduta, parziale tuttavia e provvisoria, sembra ormai da escludere che si instaurasse nell'Umbria e nella Sabina un violento dualismo religioso fra Longobardi - ariani di nome, ma di fatto in gran parte pagani ancora, come il loro duca - e Romani cattolici. Come fa notare il Mochi Onory, non c'è rimasta alcuna notizia d'una sistematica oppressione religiosa da parte dei conquistatori, i quali si mostrarono al contrario singolarmente tolleranti nei confronti della popolazione da loro sottomessa. È spiegabile come, nel primo impeto della conquista, i Longobardi si gettassero per brama di bottino sulle chiese e sui beni ecclesiastici, e trattassero da nemici il clero e i cattolici i quali, come "Romani", potevano essere considerati bizantini. Gli episodi di arbitrio e di violenza a noi noti si riferiscono tutti al primo tempo della conquista o ad azioni di guerra, e rientravano, comunque, nei loro sistemi di lotta. Lo stesso Gregorio I, d'altronde, ammette che non vi furono persecuzioni religiose da parte dei Longobardi, e attribuisce il fatto ad uno speciale intervento della Provvidenza divina; lo stesso papa ci dà anche la significativa notizia di frequenti fughe di Italici (non solo schiavi e coloni, ma possessores, milites e perfino ecclesiastici), vessati dai funzionari bizantini, presso i Longobardi. Nelle città dove, come a Spoleto, non si era interrotto l'organamento ecclesiastico vescovile durante il primo periodo della conquista, il vescovo conservava, inoltre, una posizione tale da potersi permettere di resistere efficacemente - se ne era il caso - anche alla suprema autorità religiosa dei vincitori, e di averne addirittura ragione (Gregori Magni Dialog. III, 29). Né vada dimenticato che per la popolazione romana - la quale non poteva non costituire la maggioranza degli abitanti delle città - il vescovo era l'unica autorità, per molte ragioni anche civile, sopravvissuta e conservatasi al cambiamento di regime. Sembra lecito ritenere, insieme al Mochi Onory, che il vescovo, come era stato in pratica durante la guerra gotica l'unica persona assommante in sé, insieme all'autorità religiosa sua propria, anche un'autorità civile, così ora, ripetendosi una situazione analoga, fosse per i suoi "Romani" qualcosa di più che un pastore di anime.
Poco o nulla sappiamo della vita economica e culturale del ducato sotto A.; quanto al trattamento riserbato agli Italici, conservarono lo stato libero e il godimento dei diritti politici quanti di essi avevano potuto evitare di scadere, per circostanze contingenti e non per effetto d'una procedura sistematicamente applicata dai conquistatori, allo stato di semiliberi o di servi. Fra essi non mancava certamente chi rappresentava la continuità dagli antichi ceti dei proprietari e chi, dal lavoro di fittavolo o dall'esercizio di una professione, d'un mestiere o d'un commercio, aveva raccolto i mezzi sufficienti per comprar terre o concorrere a formare un nuovo ceto di proprietari "romani"; anche se è difficile ammettere che fra questi ultimi vi fosse chi avesse potuto rimanere od entrare nella categoria dei grandi proprietari formatasi fra i potenti di sangue longobardo.
Fonti e Bibl.: Pauli Diaconi, Historia Langobardorum, a cura di L. Bethmann e G. Waitz, in Monumenta Germ. Hist., Script. rerum Langobardicarum et Italicarum, IV, 8, Hannoverae 1878, p.118; 12, p. 121; 16, pp. 121 s.; Gregorii papae I Registrum epistolarum, I, a cura di P. Ewald, in Monumenta Germ. Hist, Epistolae I, Berolini 1877-1891, I 58, p. 81; II 3, pp. 102 s., 4, p. 103, 7, p. 106, 28 pp. 124 s., 32, pp. 128 s., 33, pp. 129 s., 45, pp. 144 ss., 111 21, p. 178, 51, p. 208, 54, pp. 210 ss.; IV 2, pp. 233 ss.; V 6, pp. 286 ss., 15, p. 296, 30, pp. 310 ss., 34 pp. 314 ss., 36, pp. 317 s., 38, pp. 324 ss., 39, p. 328, 40, pp. 330 s.,42, pp. 335 ss.; VI 58. pp. 342 s., 63, pp. 439 s.; VII 13, p. 456 , 19, pp. 462 s., 26, p. 472; II, Berolini 1899 a cura di L. M. Hartmann, VIII 2, pp. 2 ss.; IX 9, p.47, 11,pp.48 s., 44, pp. 75 ss., 52, p.77, 59, p. 82, 60, p. 82, 66, p. 86, 66, pp. 87 ss., 71, p. 90, 102, p. 110,107, pp. 113 s.,116, p. 121, 166, p. 165, 184, p. 176, 185, p. 177; X 16, p. 251, 13, p. 247; XI 3, p. 262, 21, pp. 282 s.; XII 4, p. 350; Epistolae Austrasicae, a cura di W. Gundlach, ibid., Epistolae Merovingici et Karolini aevi, I, Berolini 1892, n. 41, pp. 147 s.; Additamenta ad Prosperum sec. Auct. ad a. 641, a cura di R. Cessi, in Arch. Muratoriano, II(1922), pp. 640 s.; L. Duchesne, Le Liber pontificalis, I, Paris 1955, pp. 312 ss.; A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella mezzana età, I, Napoli 1795, passim; A.Jenny, Geschichte des langobardischen Herzogthums Spoleto, Basel 1890, pp. 18 ss.; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 1, Gotha 1900, pp. 81 n. 7, 83 n. 13, 103 ss.,106 ss., 112 ss.,121 n. 7, 122 n. 2; B. Feliciangeli, Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia, Camerino 1908, pp. 34, 48 ss.,56-71, 77 ss.31-34 (in cui l'autore mostra di ritenere Camerino già occupata da Faroaldo I nel 580, quando dovette passarvi per conquistare Fermo); S. Mochi Onory, Ricerche sui poteri civili dei Vescovi nelle città umbre durante l'alto Medio Evo, Roma 1930, pp. 11-82; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, pp. 300 ss.; G. P. Bognetti, Santa Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in G. P. Bognetti-G. Chierici-A. De Capitani D'Arzago, S. Maria di Castelseprio, Milano 1948, p. 48 (in cui l'autore mostra di ritenere Camerino occupata dai Longobardi fin dai tempi di Alboino), pp. 132 ss.,421 n. 437; O. Bertolini, I papi e le relazioni politiche di Roma con i Ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, in Riv. di Storia d. Chiesa in Italia, VI, 1 (gennaio-aprile1952), pp.1-46; G. P. Bognetti, Tradiz. longobarda e polit. bizantina nelle origini del Ducato di Spoleto, in Scritti in memoria di S. Mochi Onory, Milano 1958, pp. 263-299.