ARLECCHINO
. I. Genealogia. - 1. Origine del tipo. - "Arlecchino" non è già, come si crede comunemente, un nome generico e originario d'un tipo comico fondamentale, bensì uno dei tanti non originarî nomi specifici indicante una delle tante varietà del quarto fra i quattro tipi comici fondamentali o maschere della Commedia dell'arte: il Magnifico (Pantalone), il Dottore, il primo zani, il secondo zani (scriviamo zani, secondo una delle forme dialettali originarie zan, zane, zani, italianizzate poi in zanni, che fin dal Cinquecento significò anche, nel linguaggio comune, "buffone". (V. zani).
Nella primi e nella seconda metà del Cinquecento, e anche nel Seicento avanzato, gran parte degli attori a cui erano affidate le parti degli zani continuarono ad assumere, nelle singole commedie, il nome generico Zani (con la maiuscola, ossia "Giovanni"), senza distinguersi con nomi specifici. "Nous allons voir Marc Antoine ou Zani", cantava nel 1566 Joachim du Bellay a proposito del carnevale di Roma. Con zani o secondo zani viene indicato in documenti italiani secenteschi l'arlecchino Simone da Bologna. Zani e non Traccagnino, Truffaldino o altro nome specifico, è scritto nelle dramatis personae di circa duecento scenarî italiani del Seicento. Quando poi le compagnie dei comici dell'arte si moltiplicarono, gli zani appartenenti a ciascuna non si distinsero primamente, come appare da Bartolomeo Rossi (1584), se non aggiungendo al loro nome generico quello della compagnia a cui ciascuno apparteneva ("Zani de' signori Gelosi", "Zani de' signori Confidenti", ecc.). Ma, poiché, d'altra parte, ciò non eliminava del tutto gli equivoci, specie quando due compagnie rivali operassero nella stessa "piazza", taluni attori cominciarono ad aggiungere (p. e. Zani Farina, ossia il Gian Farina del Callot; Zani Gurgola o, unito, Zangurgola, ossia Giangurgolo, ecc.) e, più spesso, a sostituire al nome generico Zani uno specifico nome d'arte, allusivo per lo più a qualche variante introdotta nel vestito, nella maschera o in altro: nome, che, se talora restava peculiare all'attore che lo aveva assunto, talaltra, specie se avesse avuto fortuna, veniva perpetuato da una turba di continuatori e imitatori, finendo col divenire, da specifico e personale, anch'esso generico e designante quasi un nuovo tipo. Così nella Italia settentrionale, o, come si diceva, in Lombardia, il secondo zani si chiamò variamente coi diminutivi di Trivellino, Truffaldino, Traccagnino, Guazzetto, Bagattino, Frittellino, Burattino, e via continuando nei sinonimi, un lungo elenco dei quali, e nemmeno compiuto, fu raccolto in versi dal Rapparini. Così nell'Italia meridionale, ove il secondo zani, pur serbando immutati il vestito, la maschera e, in origine, anche il cappello biforcuto (trasformatosi poi nell'altro a pan di zucchero), non aveva potuto non napoletanizzarsi nel parlare e non trasformarsi, conseguentemente, da valligiano bergamasco in contadino dell'alma Acerra, l'attore Silvio Fiorillo prese il nome specifico (tanto fortunato da diventare subito generico) di Pulliciniello ("piccolo pulcino") o Pullicinella, italianizzato poi in Pulcinella. Così, finalmente, quando i comici italiani cominciarono ad avere molta fortuna a Parigi, l'attore impersonante il secondo Zani, volendo distinguersi con uno specifico nome d'arte francese, scelse quello di Harlequin o Arlequin.
2. Origine del nome. - Per spiegare la storia tanto lunga quanto interessante, del nome Arlequin bisogna risalire all'antichissima saga germanica detta "caccia selvaggia" o "caccia di Wotan": una saga che il cristianesimo fece ben presto propria, trasformandola nella credenza popolare, secondo cui causa del fracasso infernale delle notti tempestose sarebbe una maisnie o "masnada" ("comitiva") di anime dannate, le quali - montate su cavalli furiosamente nitrenti, inseguite da cani non meno furiosamente latranti, circonfuse di fiamme livide dagli sprazzi multicolori, e guidate da un loro "re" - sono costrette a galoppare fino alla fine del mondo. In Italia, a quanto si sa, quella leggenda penetrò appena in qualche valico alpino. Ma in Francia, ov'ebbe diffusione grandissima, la "masnada furiosa", tra altri più tardi nomi, assunse primamente, per l'interferenza di un'altra leggenda creatasi intorno alla morte d'uno storico Hoillequin o Hellequin o Hernequin (Giovannino) conte di Boulogne, ucciso con alcuni dei suoi in uno scontro coi Normanni (882), la denominazione di "maisnie Hellequin" o "Herlequin" o "Herlewin" o "Hennequin" o "Hernequin" o anche, conforme la pronunzia (nel vecchio francese e seguita da r si pronunziava a), "Harlequin" e perfino (l'h, poi caduta, era aspirata), "Karlequin" e, per corruzione, "Karlequint" (donde il più tardo motto scherzoso che Arlecchino discenda da Carlo V).
Non è il caso di riferire le numerose testimonianze della "familia Herlequini" o "maisnie Herlequin" che da Orderico Vitale in poi (sec. XI) s'incontrano nelle fonti francesi. Piuttosto giova soggiungere che nel sec. XIII l'antica leggenda era divenuta già così poco terrificante che gli herlequins, invece che dal fracasso infernale che s'è visto, s'immaginavano accompagnati da un gaio "tintin" di campanelli. Anzi, presso taluni scrittori, la cavalcata s'affermava composta, non più da anime dannate espianti una tragica pena, bensì da diavoli sghignazzanti e tanto più comici in quanto, nell'esibire, insieme con il loro ghigno, i più impensati esercizî acrobatici, non avevano altro scopo che di spassarsi alle spalle dei sots. Lo dice nel modo più esplicito lo herlequin Croquesots (il nome è sintomatico): primo fra codesti herlequins, che, latore d'un messaggio d'amore del roy des herlequins per la fata Morgana, venisse a conversare con gli spauriti mortali dalle tavole d'un palcoscenico, allorché Le Jeu de la Feuillee di Adam de la Halle, intorno al 1262, fu recitato ad Arras. Che l'attore impersonante Croquesots avesse una maschera rappresentante una hure o ghigna diabolica e accompagnata da un mantello a cappuccio (forse aderente, a guisa di calotta, alla parte superiore del capo), è cosa sicura, perché Croquesots medesimo, buffoneggiando col pubblico oltre che con gli attori, domanda due volte (nell'entrare e nell'uscire dalla scena): - Me sied-il bien li hurepiaus? - vale a dire, secondo la traduzione di testi latini poco anteriori che riferiscono la frase come un intercalare abituale degli herlequins: Sedet mihi bene capucium? Cioè precisamente quella hure e quel capucium o chape, che ricorrono nelle espressioni hure de Herlequin e chape de Herlequin designanti tutt'e due la testa del diavolo dipinta sulla tela che nei "misteri" francesi (nei quali avevano gran parte gli herlequins) fungeva da porta dell'inferno, e perpetuate fin oggi nel gergo teatrale francese, che, come chiama enfer il vuoto ch'è sotto il palcoscenico (e paradis la parte più alta di questo), così dà al coltrinaggio che nasconde quel vuoto il nome di manteau d'Arlequin.
Per tal modo, già nella seconda metà del Duecento, Herlequin era divenuto in Francia il tipo comico del diavolo. Occorreva un passo solo perché, umanizzandosi compiutamente, si trasformasse addirittura nel tipo comico d'un uomo arieggiante, negl'istinti, nei costumi e nelle abitudini, l'ancora demonio Croquesots, e quindi burlone, beffardo, cinico, chiassone, scurrile, turpiloquente, bordelliere, ruffiano, familiare coi diavoli dell'inferno e con le male femmine della terra, spauracchio di sots e di pacifici borghesi, e così via. Codesto passo fu compiuto lungo il Tre e Quattrocento nella strada e sul palcoscenico: nella strada mercé gli charivaris (in grande ciò che in piccolo le italiane "scampanate", usate tra noi soltanto per disturbare le nozze dei vedovi), ai quali partecipavano rumorosissimi burloni mascherati da herlequins, anzi harlequins (come ormai si cominciò a scrivere); sul palcoscenico, mediante le diableries, a cui gli harlequins partecipavano talora con spoglie e atteggiamenti leonini.
Se non che i documenti, così abbondanti fino a questo punto, mancano proprio per l'ultimo anello della gran catena che congiunge il tragico Hernequin conte di Boulogne con l'Arlequin della commedia italiana in Francia. Da che un dilagare di congetture, tra cui questa assai fantasiosa: che lo herlequin Croquesots e sozî, valicate ben presto le Alpi, si presentassero alla fantasia del gran padre Alighieri, che li avrebbe dipinti nei picareschi demonî tormentanti i barattieri, e specialmente nel turbolentissimo Alichino; il quale Alichino, trasportato di peso, come tipo comico demoniaco, nelle sacre rappresentazioni italiane del Trecento e, da queste, come tipo comico umano, nelle farse parimente italiane del Quattrocento, si sarebbe trasformato, in Italia prima che in Francia, nell'Arlecchino della Commedia dell'arte. L'ipotesi più plausibile è ancor sempre quella più semplice: cioè che un secondo zani italiano, volendo o dovendo assumere in Francia un nome d'arte francese, scegliesse, per le ragioni che si vedranno meglio poi, quello, vecchissimo, di Harlequin, ancora alla fine del Cinquecento ricordato nel teatro e nelle stesse strade di Parigi.
II. Periodo alreo (Arlecchino nella Commedia dell'arte e nel teatro goldoniano). - 1. Fonti. - Principalissima sono i più che ottocento scenarî, quasi tutti venuti fuori nell'ultimo quarantennio e dei quali non è messa a stampa se non una parte minima (v. scenarî). Non che Arlecchino, almeno sotto il nome specifico, ricorra in tutti. Anzi, per quanto concerne gli scenarî appartenenti a fondi italiani, tutti del Seicento, nessuna volta egli appare nei 22 pubblicati da Adolfo Bartoli, nessuna nei 113 di Basilio Locatelli serbati nella Casanatense di Roma, nessuna nei 183 della Nazionale di Napoli, e una sola nei cento, illustrati, della Corsiniana di Roma: evidente segno che la sua popolarità italiana cominciò soltanto nel Settecento. Che se poi nei cinquanta pubblicati fin dal 1611 dall'autore-attore Flaminio Scala egli compare ben 42 volte, la cosa si spiega col fatto che quegli scenarî, quantunque editi a Venezia, furono scritti o rielaborati in Francia o per la Francia, ove l'autore e la sua compagnia si recarono più volte negli ultimi anni del Cinquecento e nei primi del Seicento.
Diverso è il caso per gli scenarî serbati o pubblicati fuori d'Italia e particolarmente in Francia. Per la prima metà del Seicento (pel qual tempo suppliscono quelli citati dello Scala) essi fanno assolutamente difetto. Ma l'Arlecchino dei primi anni del regno di Luigi XIV, quale dal 1661 al 1668 fu impersonato alla Comédie italienne dal Biancolelli, si ritrova tutt'intero nella traduzione francese del La Gueulette (il testo originale italiano è andato disperso) dei ben 173 scenarî inediti del medesimo Biancolelli, serbata nell'Archivio del Grand Opéra di Parigi: scenarî tanto più importanti pel nostro argomento, in quanto l'autore, che li scrisse per sé medesimo, adoprando, allorché discorre di Arlecchino, non la terza ma la prima persona, diede alla propria parte sviluppo molto più largo che non alle altre, non senza, in talune note illustrative, fornire la spiegazione di parecchi lazzi. Analogamente, per l'Arlecchino degli ultimi anni del Seicento, giovano le circa quaranta commedie pubblicate in francese dall'altro Arlecchino italiano Evaristo Gherardi, il quale, pur dando per semplice canovaccio le "scene italiane" improvvisate o semi-improvvisate, aggiunse per esteso le "scene francesi", ch'egli e i suoi colleghi imparavano a memoria, non senza offrire anch'egli la spiegazione di qualche lazzo e, ch'è più, adornare ciascuna commedia d'uno o più rami, preziosi per l'iconografia arlecchinesca.
Si può sorvolare qui (v. commedia dell'arte e scenarî) sulle minori raccolte di scenarî francesi del Settecento, nei quali tutti Arlecchino ha parte preponderante. Ma un accenno è pur dovuto ai "pezzi francesi" che, a imitazione del Gherardi, molti commediografi, anche di grido (p. e. il Marivaux, il Saint-Foix, il Boissy e sopra tutti il Florian, divenuto un vero specialista del genere), scrissero, durante il sec. XVIII, per gli Arlecchini della Comedie italienne, dell'Opéra-comique e dei piccoli teatri della Foire. Tanto più che da quell'uso appunto derivò la parola arlequinades, designante originariamente le commedie di cui Arlecchino fosse protagonista (Arlequin marchand de proverbes, Arlequin en deuil de soi-même, Arlequin sultane favorite, Arlequin mari de la femme de son maître, ecc.), e particolarmente le parodie che Arlecchino dava delle tragedie della Comédie française (p. e. Arlequin-Tancrède, parodia di Tancrède del Voltaire), e, nel sec. XIX - quando l'Arlecchino parigino, cacciato dai teatri, si rifugiò ai Funamboli - quei libercoli, oggi quasi introvabili, nei quali lo si esibiva coi suoi colleghi, e talora rivali, Pierrot, Cassandra, Leandro e Colombina. Né poi - quasi sottospecie delle arlequinades - sono da passare sotto silenzio quei vaudevilles, talora musicati da maestri in voga (Grétry, Piccinni, ecc.), in cui taluni commediografi-librettisti (Lesage, Autreau, Fuzelier, d'Orneval, ecc.) introducevano il nostro personaggio.
Per quanto finalmente concerne l'Arlecchino italiano del secolo XVIII, impersonato con grande vigoria dall'attore Antonio Sacco, mancano, a dir vero raccolte di scenarî cospicue come quelle elencate fin qui. Ma - anche a prescindere dalle notizie d'indole tecnica, fornite, a proposito del Sacco, nella Confutazione della "Storia di Venezia"di Amelot de la Houssaye e nei Mémoires di Giacomo Casanova - un magnifico equipollente si trova così nelle Fiabe di Carlo Gozzi e nelle Memorie inutili, come, particolarmente, nel Teatro del Goldoni (con annessi Mémoires), e non tanto nei "concetti comici", negli scenarî e semiscenarî, che anch'egli compose, quanto precisamente in quelle, tra le sue commedie scritte, nelle quali non poté, non seppe e non volle rinunziare alle maschere. Giacché non è un mistero per nessuno che in quelle commedie (e non in quelle sole) egli attingesse a piene mani al repertorio dei comici dell'arte.
2. Nascita e primi anni. - La tradizione afferma "inventore" del tipo, ossia primo tra gli zani ad assumere quel nome, Alberto Ganassa o, meglio, Gavazzi da Bergamo. Effettivamente risulta da documenti francesi che Alberto fu una prima volta in Francia nel 1570 e una seconda nel 1572, recitando nelle feste per le nozze del futuro Enrico IV con la gaia Margot; e, coincidenza importante, mentre nel 1634 Nicola Barbieri detto Beltrame (ripetuto poi e frainteso dal Quadrio) ricordava con rimpianto i tempi in cui l'Arlichino Ganassa" aveva guadagnato alla corte di Filippo II tanti bei dobloni, documenti spagnuoli, oggi dispersi, ma ancora esistenti nel 1804, indussero uno storico della commedia spagnuola - il Pellicier - ad affermare che il Gavazzi fu "cabeza y autor" d'una "compañia de comediantes italianos", i quali, recatisi in Ispagna nel 1574, vi recitarono "comedias italianas mímicas por la mayor parte y bufonescas", nelle quali "introducian las personas del Arliquin, del Pantalon, del Dotor". Parrebbe, dunque, che proprio lo zani Gavazzi venisse primamente ribattezzato in Francia Harlequin, e che codesto ribattezzamento avesse già avuto luogo prima della tournée spagnuola ora mentovata, ossia intorno al 1572. E, se le cose stanno così, Arlecchino già in quanto tale, quantunque non abbia ancora la maschera a lui peculiare, potrebbe anche far parte d'un gruppo dipinto, precisamente intorno al 1572, da Jacques Porbus, e nel quale una compagnia di comici dell'arte, che tutto fa credere quella del Gavazzi, ha per cooperatori, nella scena rappresentata, Carlo IX, Caterina de' Medici, il futuro Enrico III e altri personaggi della famiglia reale di Francia. Tuttavia non è da passare sotto silenzio che altri dati di fatto, troppo lunghi a esporre, ma che hanno anch'essi il loro peso, farebbero supporre che il ribattezzamento del secondo zani in Harlequin avesse luogo non prima ma dopo la gita spagnuola del Gavazzi, ossia press'a poco nel 1577.
Comunque, già nel 1584 "Arlecchino", insieme con "Pedrolino et altri che imitano simili personaggi ridiculosi" è ricordato nel prologo alla Fiammella di Bartolomeo Rossi. Dello stesso tempo, se non anche anteriori di qualche anno, sono, da un lato una raccolta d'incisioni in legno rappresentanti personaggi della Commedia dell'arte, fra le quali, nell'unico e mutilo esemplare della Biblioteca nazionale di Parigi, manca, sì, quella relativa ad Arlecchino, ma c'è sotto quella riproducente Francatrippa: "Ça! ça! je veux gagner ta Francisquine aux armes, faux ruffien Arlequin"; e, dall'altro, una stampa, parimente francese, d'una scena pastorale, nella quale è ritratto un Harlequin verrier. E finalmente già nel 1585 Arlecchino era divenuto così popolare a Parigi da doversi battere, fuori scena, in una veemente polemica.
Era morta nel 1583 a Parigi una madame Cardine, sacerdotessa in capo d'un tempio a Venere e che, come già una volta in vita, così anche in morte era stata oggetto d'una satira sanguinosa (L'Enfer de la mère Cardine, traictant de la cruelle btttaille qui fut aux enfers entre les diables et les maquerelles de Paris aux nopces du portier Cerberus et de Cardine, ecc.). Da quella satira un ignoto poeta parigino prese il motivo per pubblicare nel 1585 una Histoire plaisante des faicts et gestes de Harlequin, commedien italien, contenant sa descente aux enfers pour en tirer la mère Cardine, ecc., nella quale si suole vedere una semplice parodia della discesa d'Orfeo all'inferno; ma ch'è tanto più sicuramente una satira di qualche Discesa d'Arlecchino all'inferno, recitata in quell'anno a Parigi dalla compagnia dei Confidenti, in quanto un passo del Sanuto e un curioso opuscolo italiano cinquecentesco allusivi a una "discesa di Zani all'inferno", combinati con la Descente d'Arlequin aux Enfers del Regnart (1689), mostrano come una passeggiata del secondo zani pei regni bui fosse un motivo favorito, prima, dei ludi zanneschi, poi della Commedia dell'arte. A ogni modo sembra che codesta satira, malgrado i grandi omaggi resi alle sue qualità acrobatiche e buffonesche, non garbasse molto ad Arlecchino. Non che - come disse ai suoi spettatori in un prologo (Réponse de gestes de Arlequin au poète fils de madame Cardine, en langue arlequine, en façon de prologue, ecc.) - egli non avesse effettivamente sognato di esser disceso nell'inferno. Ma scopo vero di quella gesta era stata la ricerca laggiù del "sot poète" che lo aveva infamato e ch'egli aveva trovato nel fuoco "avec une troupe de coquins et gueux" (certamente gli attori di qualche compagnia rivale). E quel ladro, quel ruffiano, quell'uomo che aveva ingannato "les comedians de l'Hostel de Bourgogne" (che pel passato, forse, lo avevano avuto ai loro servigi) aveva anche osato pregare lui, Arlecchino, di liberarlo dalle fiamme, scusandosi dei suoi versi diffamatorî col dire di averli scritti per fame (cioè, evidentemente, perché pagato dalla compagnia rivale). E Arlecchino, generoso, lo aveva accontentato.
3. Principale campo d'azione. - Fu precisamente la Francia il paese in cui Arlecchino assunse il suo nome specifico, e più particolarmente Parigi, e più particolarmente ancora (insieme coi teatrini della Foire, ove compariva in forma più dimessa) quell'Hôtel de Bourgogne, che da lui e dai suoi colleghi in arte prese il nome di Comédie italienne. Non che, anche fuori scena, non gli piacesse il viaggiare. Nei primi tempi, anzi, non era raro il caso che la mancanza di guadagni parigini lo costringesse, come scriveva egli medesimo a Maria de' Medici (1615), a "montare per la posta a piedi sopra una tartaruga" E quando, fatto adulto, conquistò rapidamente fama europea, le sue scorribande non si contarono più. Ora era in Spagna, ora in Inghilterra, ora in Olanda, ora in Austria; nel sec. XVIII tornò col suo nome francese in Italia; e fu anche in Germania, dove, quando lo vollero mettere al bando, povera vittima della poetica di Gottsched, trovò un difensore in Lessing e un interessato spettatore nel giovane Goethe; una traduzione russa di alcuni scenarî, pubblicata nel 1735-38, mostra che si spinse (in carne o in spirito) perfino a Pietroburgo. E, dovunque andasse, gli si voleva bene e lo si applaudiva, giacché, da un lato, adattandosi agli usi, costumi e tradizioni teatrali dei singoli paesi, sapeva assorbire e portare poi in giro per la restante Europa qualche nuovo motivo comico preso da questo o quel personaggio teatrale e non teatrale di questa o quella nazione (molto, p. es., egli prese dall'immortale Sancio Panza); e, d'altro lato, compensava a usura questi piccoli prestiti, in quanto non ci fu allora teatro in Europa, a cominciare dallo shakespeariano e dal molieriano, in cui non operasse l'influsso di monsieur Arlequin (p. e., tra i suoi argomenti favoriti fu, fin dalle origini, quello del Dormente risvegliato delle Mille e una notte, ripresentato tante volte sul teatro e, fra gli altri, dallo Shakespeare nel calderaio Cristofaro Sly, del prologo della Bisbetica domata). Particolarmente cara sembra gli riuscisse l'Olanda: il paese, che, dopo la Francia, ci ha serbato il più abbondante e scelto materiale figurativo intorno a lui, e, tra l'altro, dodici rami deliziosi, illustranti una sua strana malattia, la quale, dopo nausee, vomiti e qualcos'altro, gli fece mettere al mondo un figliuolo, ch'egli allattò e poi educò con cura, pulizia e meticolosità da vera mamma fiamminga.
Ma, non ostante tutto ciò, la roccaforte di Arlecchino restò per due secoli Parigi. Mutavano uomini e cose; ma egli - carezzato da re e regine, che gli tenevano a battesimo qualche non iscenico figliuolo, e gli scrivevano di proprio pugno, e gli consentivano d'intestare le sue lettere "Sacra Maestà e comadre carissima salut!" e di firmarle "di V. M. C. aff.mo servo e compadre Arlequin", e lo volevano presente ai loro pasti, e gli offrivano non solo pernici prelibatissime ma anche il piatto d'oro che le conteneva - egli, divenuto per consuetudine primo attore della Comédie italienne, ne era sempre il re. A strapparlo definitivamente da quel trono non valsero né, nei primi tempi, gli editti del Parlamento di Parigi; né, poi, le proteste del clero, scandalizzato dai suoi lazzi; né la ventenne espulsione (1697-1715) dall'Hôtel de Bourgogne (con relativo ritorno trionfale dopo la morte di Luigi XIV), a cui la signora di Maintenon fece condannar lui e i suoi colleghi e che il Watteau rappresentò in un quadro. Bisognò che la Rivoluzione distruggesse l'hôtel de Bourgogne perché, anche il regno parigino di Arlecchino passasse tra i meri ricordi dell'ancien régime.
Questo, quanto all'Arlecchino maggiore e, per dir così, ufficiale. Ma, anche a prescindere dai pseudo-Arlecchini, ossia dai tanti (e talora re di corona) che, mascherandosi, indossavano l'abito arlecchinesco, accanto a quest'Arlecchino maggiore, c'era tutta una pleiade di Arlecchini minori e minimi. C'era l'Arlecchino nomade, zingaresco e sempre squattrinato, che, tutt'a un tratto, si vedeva comparire su una piazza, coi suoi compagni improvvisare un palcoscenico, recitare e poi andare in giro col piattello. C'era, caduto ancora più in basso, l'Arlecchino collaboratore o addirittura giornaliero d'un ciarlatano o cavadenti. E c'era finalmente (delizia della nostra infanzia) un Arlecchino che poteva essere a piacere maggiore, minore e minimo; un Arlecchino che può vantare fra i suoi tanti autori un Wolfango Goethe (prime pagine dei Lehrjahre): l'Arlecchino delle marionette e delle bagattelle. Di Arlecchini siffatti, fossero di carne e ossa, fossero di legno, già nel Sei e Settecento se ne incontrava dappertutto. Pure, due erano le loro città favorite: Parigi (Pont-Neuf, le varie Foires e poi anche il Palais-Royal) e, dal sec. XVIII, Venezia (Piazza San Marco).
4. Vestito. - Dopo che si accentuò la differenza fra i due zani, anche il loro comune semplicissimo vestito originario - camicia e calzoni bianchi - subì una differenziazione, in quanto il secondo zani, oltre che ridurre la camicia a una più corta e aderente tunica, prese a ricucire su questa e sui calzoni, qua e là, cenci d'ogni forma e colore. È certo tuttavia che tale variante indumentale fu relativamente tarda, sebbene la scarsezza del materiale iconografico cinquecentesco non consenta di precisare quando, dove e per opera di chi venisse primamente attuata e, più precisamente, se l'innovazione fosse compiuta in Francia da Arlecchino e poi resa comune in Italia ad altre varietà di secondi zani, ovvero, per contrario, preesistesse già in Italia presso alcuni secondi zani, tra i quali colui che in Francia fu ribattezzato Harlequin. A ogni modo, i dati di fatto sono questi: a) fornito del mantello (di cui originariamente anche il secondo zani era provvisto) e biancovestito è Zani nel ciclo di stampe cinquecentesche (1575 circa) dell'archivio del Grand Opéra di Parigi; b) privo, sì, del mantello, ma senza toppe sul bianchissimo vestito è Harlequin in un'altra stampa francese di data imprecisabile (fine del Cinquecento?); c) senza mantello e con qualche macchia non ben chiara nel vestito (almeno nella fotografia) è il secondo zani (o presunto Arlecchino) nel gruppo del Porbus del 1572 circa; d) nessun accenno a toppe multicolori si fa nella Histoire del 1585; e) senza mantello e con l'abito rattoppato è così lo Harlequin verrier già ricordato; come l'Arlecchino Tristano Martinelli nel ritratto che esibì di sé in un suo libercolo pubblicato nel 1601; f) nei Balli di Sfessania del Callot (1622) l'abito rattoppato, pur non ricorrendo mai nelle figure di primo piano (salvo in Gian Fritello, che per altro ha due sole toppe sulla manica destra) compare due o tre volte nelle figurine di sfondo; g) anche Trivellino, Traccagnino e Truffaldino indossano fin dal Seicento l'abito arlecchinesco; h) già nel 1628 Pier Maria Cecchini, parlando, non già specificamente di Arlecchino, che mostra di non conoscere, ma genericamente del "servo goffo e ignorante", ossia del secondo zani, si doleva che gli attori impersonanti in Italia quel tipo si fossero "molto allontanati", nel vestito, "dal convenevole, posciaché in vece de' tacconi o ratopamenti (cose proprio del poveruomo), portano quasi un recamo di concertate pezzete". Dal qual passo, poi, combinato con quei versi della Fiera di Michelangelo il giovane, ove, a proposito d'Arlecchino, s'accenna a "quel suo vestire a scacchi, a lune, a grilli, a zannetti, a bertucce", appare delineata, fin dai primi del Seicento, la tendenza, poi sempre più accentuata, a trasformare le rade e informi toppe originarie in una rete più o meno fitta di regolari figure geometriche (quadrati, rombi, losanghe, ecc.), le quali, non più sovrapposte con una cucitura, ma ricamate o tessute, e sovente su fondo colorato invece che bianco, finirono, circa la metà del Seicento, col far riconoscere tra mille il non più povero ma lussuoso vestito d'Arlecchino. Il quale, si badi, non lo deponeva mai, nemmeno nei suoi numerosi travestimenti, e non solo in quelli momentanei, nei quali pel pubblico restava sempre Arlecchino, ma neppure quando dovesse incarnare, p. es., un personaggio mitologico (Proteo, Bellerofonte, Mercurio, ecc.). In tali casi, bensì, sul vestito arlecchinesco, di cui il pubblico doveva scorgere qualche parte, era sovrapposto quello inerente al personaggio parodiato (lo stesso, del resto, faceva a Napoli Pulcinella).
5. Maschera. - La mezza maschera di seta nera, di cui nei balli mascherati vediamo nascosto il volto accuratamente raso di Arlecchino, è un tardo ingentilimento, dovuto soprattutto all'Italia (sec. XVIII) e adottato in Francia soltanto nel sec. XIX attraverso il teatro delle marionette. Ma la maschera originaria e ufficiale (prima di cuoio, poi di cartone cerato), quella cioè adoperata per due secoli dagli arlecchini dell'Hôtel de Bourgogne, era tutt'altra cosa. "A Cerberus fort tu ressembles quando tu ioues masqué", diceva fin dal 1585 madame Cardine a Harlequin. Un secolo appresso il Gherardi, discorrendo del volto posticcio d'Arlecchino, lo afferma due volte simile a quello d'un "magot" (scimmione). Nel 1723 il Riccoboni (e, poco dipoi, quasi con le stesse parole, il Quadrio) parla d' "un masque noir écrasé, qui n'a point d'yeux, mais seulement deux trous fort petits pour voir". Ma, senza accumulare altre descrizioni scritte, si osservi, nella fotografia (1899) di Giuseppe Tironi (restauratore in Italia della maschera arcaica), l'aspetto spaventoso di quel ceffo visto di prospetto; si osservi come quella maschera sia resa ancora più orrenda dalla congiunzione con la calotta nera, sotto cui Arlecchino, imitato da Mefistofele nell'odierno teatro lirico, nascondeva totalmente i capelli; si osservino l'ispida barba di setole, il naso schiacciato, i forti incavi al disotto dei microscopici buchi degli occhi; si osservi finalmente la protuberanza frontale, residuo fin troppo evidente d'un originario paio di corna; e si dovrà conchiudere che quella, è una maschera di demonio. E sul fatto che Arlecchino l'abbia assunta in Francia non può cader dubbio.
Anche nelle maschere degli zani, prima e dopo la nascita di Arlecchino, c'è qualcosa d'animalesco-demoniaco; ma nessuna ha i tratti così spiccatamente diabolici: anzi, nelle più volte ricordate stampe dell'archivio del Grand Opéra, Zani, quando prega Pantalone in ginocchio, ha un'espressione dolorantemente umana. Il nome di Arlecchino e la sua maschera sono strettamente congiunti: non è anzi improbabile che il secondo zani si sia chiamato Arlecchino proprio perché, dovendo assumere in Francia un nome specifico francese, scelse quello suggerito dalla principale variante (la maschera diabolica dello herlequin Croquesots) introdotta nel tipo fisso.
A quella maschera il pubblico della Comédie italienne teneva tanto che, se in Italia si vedevano frequentemente secondi zani e, nel sec. XVIII, anche arlecchini recitare a viso scoperto (p. es. Antonio Sacco), in Francia casi di codesto genere si contavano sulle dita. Certo, i Parigini restarono dolenti quando, la sera del 1° settembre 1688, Angelo Costantini, promosso per la morte di Domenico Biancolelli ad Arlecchino, dové nascondere anch'egli sotto quel brutto ceffo il bellissimo viso; ma sola causa del dispiacere fu l'abitudine ad ammirare fin allora quell'attore favorito à visage decouvert nella parte di Mezzettino. Evaristo Gherardi poté deporre la maschera due volte sole, quando vi fu costretto da necessità teatrali, come, p. es., quando dové parodiare, anche e soprattutto negli atteggiamenti del viso, l'attore Baron della Comédie française. Tommaso Visentini, malgrado i lineamenti espressivi e i bellissimi occhi neri, dové dal 1716 alla sua morte (1739) celare sempre gli uni e gli altri sotto la vecchia hure; e al suo successore Carlino Bertinazzi fu concesso, sì, di recitare a viso scoperto, ma soltanto in parti diverse dall'Arlecchino. Quando l'arlecchino Bigottini, attore mediocre ma "trasformista" di prim'ordine, volle, in omaggio alla verisimiglianza, deporre la maschera in talune trasformazioni (1777), il pubblico gli si mostrò così ostile che bisognò togliergli la parte di Arlecchino e affidargli l'altra del Dottore. Arlecchino doveva comparire con quel ceffo perfino quando impersonasse la bianchissima Diana.
6. Linguaggio. - a) Lessico. - Già alla fine del Cinquecento, e nella stessa Italia, taluni zani, per farsi intender meglio, parlavano, al dire di Bartolomeo Rossi (1584), "ognuno a suo modo, senza osservanza di lingua", cioè un dialetto non più strettamente bergamasco, ma che, secondo le esigenze dei varî pubblici e le conoscenze linguistiche dei singoli attori, veniva più o meno ingentilito. Figurarsi in Francia! Senza dubbio, la Francia degli ultimi due Valois e dei primi due Borboni, con le sue regine italiane (Caterina e Maria de' Medici), coi suoi tanti italiani o italianizzanti di corte, e non ancora liberatasi dal predominio letterario dell'ltalia della Rinascenza, era ben diversa, in fatto di comprensione della lingua italiana, dalla Francia di Luigi XIV e, peggio, dei due Luigi successivi. Prova ne sia la rapidissima fortuna iniziale di Arlecchino. Ma, per conservarla (e la conservò), era indispensabile, di mano in mano che si modificavano le condizioni che l'avevano determinata, che egli, oltre che allontanarsi sempre più dal puro dialetto bergamasco, introducesse con frequenza sempre maggiore nel suo discorso parole e frasi francesi o, quanto meno, pseudo-francesi, tanto più che queste conferivano alle sue tirate un sapore ancora più comico. Un'idea di codesta speciale "langue arlequine" ricordata da lui stesso nel titolo della sua Réponse del 1585 può esser data da certe Compositions de rhétorique de Mr. don Arlequin: un libercolo dedicato dall'arlecchino Tristano Martinelli a Enrico IV in occasione della prima gravidanza di Maria de' Medici (principî del 1601) e nel quale, tra altri componimenti del genere, s'incontrano i versi che seguono:
Ie me suis insomniato ce matin
Qu'un fachin d'importanza
Me tiroit par la panza...
Naturalmente, la cosa poteva tanto meno fermarsi qui in quanto, mentre i Parigini in grado d'intendere l'italiano s'assottigliavano di giorno in giorno, l'Arlecchino della Comédie italienne, divenuto quasi uno stipendiato regio, finiva molto spesso col fissarsi a Parigi e assumere la cittadinanza francese. Da che la concessione di Luigi XIV (chiesta e ottenuta dall'arlecchino Biancolelli, malgrado l'opposizione degli attori della Comédie française) di dare commedie bilingui, in cui a quelle italiane si alternassero intere scene francesi: concessione seguita a circa un secolo di distanza dalla riforma che dalla Comédie italienne bandì del tutto l'italiano.
In Italia, invece, Truffaldino, Traccagnino e gli altri gemelli italiani di Arlecchino parlarono sempre più veneziano e meno bergamasco; il dialetto veneziano con qualche idiotismo bergamasco è il linguaggio arlecchinesco nel Teatro del Goldoni
b) Stile - Duttile com'era, l'Arlecchino della Comédie italienne baroccheggiò quando si baroccheggiava, prezioseggiò quando si prezioseggiava, sensibileggiò quando si sensibileggiava; con l'avvertenza, per altro, che sovente il suo stile era a doppia faccia: onde, p. es., mentre sensibileggiava tanto sul serio da strappare (col Visentini e col Bertinazzi) le lagrime, faceva al tempo stesso la parodia della sensiblerie. Ma di ciò si può dir poco, perché i documenti dello stile arlecchinesco, che si rivelava soprattutto nelle scene italiane, improvvisate o semi-improvvisate, sono tutt'altro che abbondanti. Per l'Arlecchino biancolelliano soccorrono in qualche modo gli scenarî dello stesso Biancolelli, nei quali taluni pezzi sono distesi per intero o quasi per intero. Per l'Arlecchino più antico, invece i "concetti", le "tirate" le "prime uscite" i "soliloquî", le "chiusette" e via, forniti dalle opere di tecnica teatrale compilate e talora pubblicate in Italia nel corso del Seicento, hanno valore solamente analogico, poiché quei "pezzi scritti", tutti a forti tinte barocche, non concernono mai Arlecchino, bensì o altre maschere o il secondo zani in genere o, specificatamente, Pulcinella. Più direttamente utile è qualche raro avanzo di epistolarî arlecchineschi della prima metà del Seicento (per lo più semplici suppliche a sovrani), specie allorché, quasi saggio d'istrionica abilità, vi si trovi incastonata qualcuna di quelle infilzate di paragoni così care nell'età barocca e che, esibite dal palcoscenico, facevano andare in visibilio la platea: ad esempio, la lettera di Tristano Martinelli (Mantova, 30 giugno 1615) alla sua buona amica e commadre Maria de' Medici, nella quale sono colori qualche volta non indegni della tavolozza d'un Giambattista Basile.
c) Turpiloquio. - In siffatto campo la reputazione dell'Arlecchino delle origini è detestabile. "Un tissu... de polissonneries outrées....: tout à la fois insolent, railleur, plat, bouffon et surtout infiniment ordurier", lo definiva il Riccoboni, e con ragione. Tra le sboccatissime maschere della Commedia dell'arte, Arlecchino raggiungeva l'apice della sboccatezza, tanto nel campo pornografico, quanto in quello scatologico. Si pensi ch'era appena nato, e già lo Cholières, nel censurare, negli Après-dîners (1586), la massima cinica Verba non foetent, citava scherzosamente in nota un immaginario Battifolus, autore d'un immaginario trattato De melogranato vitiorum, in cui sarebbe stato da vedere particolarmente il capitolo Harlequinus. D'altronde, "tale pubblico, tale Arlecchino". A quella grassa e boccaccesca, ma, appunto perciò, sana pornografia, a quelle immagini di sterquilinio (rese tuttavia con grande potenza artistica da un Teofilo Folengo, da un Francesco Rabelais, da un Ciordano Bruno, da un Giambattista Basile e qualche rara volta perfino da un Guglielmo Shakespeare) il pubblico cinque-secentesco gavazzava.
Naturalmente, allargatosi in Francia il concetto d'"indecenza", divenuti, anzi, i Francesi così schifiltosi in codesta materia da farsi canzonare dallo sboccato abate Galiani col nomignolo di "ermellini" (malo mori quam foedari), l'Arlecchino della Comédie italienne dové cancellare dal suo vocabolario le parole sudicie o troppo espressive. Non sembra invece che si ponessero per la stessa via gli Arlecchini di fiera, e particolarmente quelli che nel sec. XVIII popolavano piazza San Marco. Pure, relativamente castigato nel linguaggio seppe restare, malgrado la maggiore spregiudicatezza del pubblico italiano, Antonio Sacco, anche quando improvvisava: al che forse contribuì l'aver egli impersonato più volte l'Arlecchino goldoniano.
7. Tecnica scenica. - a) Recitazione. - Non è il caso di fermarsi, a proposito del solo Arlecchino, sulla naturalezza, vivacità, semplicità, insomma su tutti quelli che erano pregi comuni alla recitazione dei buoni comici dell'arte. Piuttosto vanno messe in rilievo due altre cose. L'una, che, fra i cosiddetti "luoghi comuni" della sua parte, quello in cui Arlecchino aveva maggior agio di mostrare le sue qualità di attore erano i soliloquî chiamati "spropositi": dissertazioni senza né capo né coda, che, a quanto testimonia il Casanova, erano il cavallo di battaglia di Antonio Sacco, abilissimo nel rendere l'uomo che, imbrogliato in un discorso troppo difficile, non sa come uscire dal laberinto, salvo, dopo sforzi disperati per ritrovare la parola o frase conclusiva, o a pronunziarla con espressione di così ineffabile giubilo, o a tacere d'un tratto con espressione di così ineffabile dolore, da strappare, nell'un caso e nell'altro, l'applauso. L'altra cosa è che, per circa un quarantennio (1661-97) l'Arlecchino della Comédie italienne emise una voce stridula e fessa, più pappagallesca che non umana, ossia precisamente quella con cui, oggi ancora, parla Pulcinella nelle così dette guarattelle dell'Italia meridionale (le "bagattelle" o "fantoccini" dell'Italia settentrionale e centrale). La ragione di ciò fu questa che Domenico Biancolelli, a cui madre natura aveva dato voce così infelice, esagerò quel difetto a scopo comico, e i suoi successori, per restar fedeli alla tradizione, l'imitarono artificialmente. Non si conosce se, analogamente al guarattellaro napoletano, ponessero in bocca una cannuccia ad hoc. A ogni modo, quando i comici italiani tornarono dal loro ventenne esilio (1716), Tommaso Visentini, malgrado la preannunziata opposizione del pubblico, riprese a recitare con la voce naturale.
b) Mimica. - Come in tutta la commedia dell'arte, la mimica preponderava nella parte d'Arlecchino: mimica tanto più difficile, in quanto, avendo egli il volto totalmente coperto dalla maschera, non poteva aiutarsi né coi movimenti del viso né con l'espressione degli occhi. Inoltre, per una tradizione stabilitasi via via alla Comédie italienne e consolidata, per dir così, da Domenico Biancolelli, Arlecchino, nel muoversi, doveva sottostare a certe norme tecniche, non consacrate, a dir vero, in nessun codice teatrale, ma divenute, per consuetudine, così inerenti al suo tipo fisso che violarle avrebbe ferito quel pubblico ultratradizionalista. C'era, per esempio, la tecnica che si potrebbe chiamare "del dorso", per la quale, Arlecchino, quasi gatto che a suo talento si estende in larghezza e lunghezza, doveva, come testimonia Pier Iacopo Martelli, ora apparire basso, repleto e, pur senza imbottitura sotto, più gobbo di Rigoletto, ora invece, tutt'a un tratto, alto, flessibile e snello, da passare, come il Falstaff dei begli anni giovanili, attraverso un anello. C'era, correlativamente, la tecnica "del camminare", in omaggio alla quale, già da tempi antichi, come testimonia a sua volta Michelangelo il giovane, Arlecchino ora doveva incedere "intirizzato, .... in punta di piè, tutto d'un pezzo, aguzzando le spalle, e 'l collo in seno, colle mani alla cintola, le gomita a manichi di vaso"; ora, per contrario, tal quale come il gatto che spicca un salto inaspettato, imbrandire il batocio, levar le mani in alto e lanciarsi in una volata acrobatica. C'era, naturalmente, la tecnica dello stesso batocio: quel batocio che aveva tanta parte nei movimentatissimi finali o, come le chiamavano i francesi, scènes des coups de bâton, nelle quali, datore e prenditore di busse, Arlecchino, di regola, aveva parte preponderante. C'era la tecnica "del mangiare", resa perfettissima dal Biancolelli, che non sì capisce come facesse, con la maschera, a respirare ghiottoneria da lutti i pori quando aveva davanti un piatto di maccheroni. E, fra altre tecniche che si omettono per brevità, c'era quella, divenuta famosa, "della riverenza": una tecnica ignota ai vecchi arlecchini come Tristano Martinelli, che non solo a teatro ma anche al Louvre trattava Fnrico IV con la stessa libertà usata allora dai bufloni di corte; ma curata quant'altra mai dal Biancolelli e dagli altri arlecchini cortigiani del tempo di Luigi XIV.
Con tante tecniche, che erano altrettanti vincoli, Arlecchino non solo, più di tutte le altre maschere, doveva possedere le physique du rôle, ma, più di tutte, correva il rischio di meccanizzarsi e stilizzarsi. E meccanizzati e stilizzati erano gli attori mediocri, ai quali il colmo della bravura poteva sembrare presentarsi al pubblico coi piedi in terza posizione e la mano destra graziosamente appoggiata sul batocio. Ma, per i pochi forniti di facoltà creative, quei vincoli avevano la stessa funzione che in poesia il fren dell'arte, in quanto, impedendo loro di strafare, agivano, al tempo stesso da costrizione per nuove e originali creazioni. Per citare un esempio solo, il Garrick, che se ne intendeva, diceva di non aver mai, nell'arte sua, trovato a studiare con tanto profitto quanto "sul carattere e l'espressione del dorso" di Carlino.
c) Musica, canto, danza. - Chi percorra i Balli di Sfessania e le altre raccolte affini del Callot incontra spesso figure di zani che suonano, cantano, danzano.
Lo zani musicista, più che il secondo, cioè Arlecchino, era abitualmente il primo (v. brighella). Ma Arlecchino cantava: non, a dir vero, le modernissime sospirose serenate intitolate col suo nome; bensì, nei primi tempi, canzonette o canzonacce popolari, materiate per lo più di doppî sensi e bisticci osceni (v. villanelle), e, quando poi fu adibito anche nei vaudevilles, quella parte di basso-buffo affidata, p. es., in Don Giovanni, a Leporello (che, nello scenario relativo, era appunto Arlecchino o Pulcinella o altro secondo zani). Inoltre, e molto più spesso, danzava: tanto che fra le condizioni sine qua non poste dal Calendrier historique des théâtres del 1751 perché un arlecchino riuscisse accetto al "peuple" c'era che fosse un eccellente ballerino. Non si sa in che precisamente consistesse quella sua danza "bergamasca" ricordata nella citata Histoire del 1585. Si conosce, invece, perché lo dice il Lambranzi, che nel Settecento erano interdetti ad Arlecchino il minuetto, la sarabanda e altri balli serî e che, anche danzando, doveva esibirsi in pose comiche e ridicole. Nel che è quasi implicito che anche nelle sue danze egli introducesse un elemento parodistico: come infatti usava il Biancolelli, ballerino di prim'ordine, il quale, proprio per la grande scalmanata presa nel parodiare troppo a lungo un nuovo "passo" del Beauchamps (maestro di ballo di Luigi XIV), fu colto dalla polmonite che lo uccise ancora giovane nel 1688.
d) Acrobatismo. - È così poco vero, secondo asserisce qualcuno, che l'Arlecchino della commedia dell'arte togliesse dai vecchi herlequins francesi non solo il nome e la maschera ma anche l'acrobatismo, che già prima della sua nascita tutti gli zani in italia erano eccellenti acrobati, anzi, nel Quattro, per buona parte del Cinque e, perfino, qua e là, nei primi decennî del Seicento l'attore di professione o, ch'è lo stesso, il comico dell'arte non si distingueva ancora dal saltatore di corda. Piuttosto è da supporre che i modelli francesi inducessero Arlecchino, molto più di altri secondi zani (p. es. di Pulcinella, che, poltrone anche in ciò, ridusse presto a minimi termini la sua attività acrobatica) a specializzarsi nella materia: al che, a ogni modo, lo costringevano le esigenze del pubblico francese, così attaccato a siffatta tradizione acrobatica, da non consentire nemmeno in tempi tardi che venisse infranta. Capace di qualsiasi culbute era stato Domenico Biancolelli: dunque, come dice esplicitamente il citato Calendrier historique, la stessa virtù dovevano avere i suoi successori. E taluni, come il Visentini, la possedevano in grado così eroico da far dell'acrobatismo non solo sul palcoscenico, ma altresì, con grande spavento delle dame e conseguente proibizione della polizia, in giro in giro per tutta la sala della Comédie italienne. Bisogna giungere ai tempi della maturità e della fama europea di Carlino, che, malgrado tanta ginnastica, aveva messo pancia, perché lo si dispensasse dalle capriole, che, lui scomparso, cominciarono come prima e più audaci di prima.
Due cose particolarmente nell'acrobatismo d'Arlecchino mandavano in visibilio gli spettatori del lubbione, delusi poi e talvolta furibondi di non trovarle nel non acrobatico Arlecchino goldoniano: le scalate, abituali nelle cosiddette "scene notturne", e le conseguenti cascate, ricordate già nel Seicento dal Lippi e nel secolo seguente dal Martelli. Ma, a dir vero, quanto le fonti scritte narrano del successo immediato, sicuro, fragoroso d'una bella cascata è inferiore alla realtà. E la gioia fanciullesca dei "piccioni" nel vedere Arlecchino cadere dall'alto, sentirne crocchiare le ossa sul tavolato del palcoscenico, e scorgerlo scattare immediatamente in piedi con un rimbalzello e irrigidirsi nella riverenza di prammatica, può essere commisurata soltanto da chi, fino a qualche anno fa, ha ascoltato a Napoli, nella settimana di Natale, l'urlo delirante con cui, tutte le sere, un teatro intero salutava, dopo averla attesa con ansia, quella scena della più di dur volte secolare Nascita del Verbo Umano del Perrucci, in cui il diavolo-taverniere Belfegor, terrificato dall'apparire d'un angelo, ripeteva punto per punto la classica cascata d'Arlecchino.
e) Lazzi: v. lazzi.
III. Decadenza e morte. - Arlecchino contava appena una ventina d'anni, e già nasceva a La Haye de Touraine (1596) quel terribile filosofo, nelle cui opere si suole additare la causa prima di tutti i suoi guai. Cartesio era infatti appena morto, e già una turba di discepoli diretti e indiretti, fattisi autori di libri o di articoli di tecnica o critica teatrale, scriveva sulla propria bandiera le parole sacramentali di Raison e Vraisemblance: parole che, se Arlecchino fosse stato meno spensierato, sarebbero risonate al suo orecchio come i rintocchi d'una campana funebre. Per contrario, egli ne rise e - quantunque, senz'avvedersene, assorbisse parecchio di quel razionalismo che allora si respirava nell'aria ebbe ragione. Filosofi e critici non hanno potuto mai accelerare quel processo storico, per cui anche un tipo comico, come tutte le cose umane, invecchia e muore.
E nella seconda metà del Seicento, Arlecchino, sebbene non più giovanissimo, era ancora così pieno di vita da uscire non troppo malconcio dalla concorrenza pericolosa che alla Comédie française gli faceva, tra altri, Sganarelle, il quale, invece di fidare sulle sue sole forze, imparava a mente versi e prose che gli scriveva un poeta della forza di Molière.
I guai grossi cominciarono circa la metà del secolo successivo, quando quei discepoli dei discepoli di Cartesio che si chiamarono illuministi ed enciclopedisti, e particolarmente il Diderot e Melchiorre Grimm, non contenti di parlare genericamente di vraisemblance e di raison, avanzarono contro Arlecchino in colonna serrata; quasi al tempo stesso che una guerra meno intransigente ma più efficace, e non nel campo della teoria e della critica ma in quello stesso del teatro, gli moveva a Venezia Carlo Goldoni. E questa volta la partita era tanto più impari in quanto Arlecchino s'era fatto vecchio, molto vecchio, e ormai ripeteva così stucchevolmente sé stesso, che bastava comparisse in iscena perché il pubblico ammaliziato prevedesse ciò che avrebbe detto e fatto con la parola, col gesto, con le capriole e coi lazzi (la scena XI dell'atto I del Teatro comico del Goldoni non fa, a codesto proposito, se non ripetere ciò che accadeva infinite volte nei teatri di Venezia e di Parigi). Per un certo tempo, l'aureola di cui, soprattutto da lontano, era circonfuso l'Arlecchino della Comédie italienne, e l'ambizione d'essere dichiarati degni successori e magari superatori di Domenico Biancolelli, invogliarono attori italiani di prima forza a ridar vita al vecchio morente personaggio; e non mai, a dir vero, Arlecchino recitò tanto bene quanto dal 1716 (inizio del Visentini) al 1783 (morte di Carlino). L'emulazione con quelli della Comédie italienne invogliò, anzi, qualche attore a presentare il tipo col suo nome francese anche sulle scene italiane, sulle quali Arlecchino raccolse ampia messe di allori allorché fu impersonato da Antonio Sacco. Ma chi divertiva, chi strappava il riso non era più Arlecchino in quanto tale, buono tutt'al più pei ragazzi o i frequentatori della fiere, ma Arlecchino in quanto Visentini, in quanto Carlino, in quanto Sacco. L'affermazione del Goldoni che avrebbe lasciato in pace il nostro personaggio, se incarnato sempre da attori come il Sacco, è, a codesto proposito quanto mai eloquente; senza dire che a Parigi, dopo il 1750, Carlin diventa sinonimo, e sinonimo molto più usuale, di Arlequin. E infatti - scomparsi quegli attori eccezionali (ultimo a morire, nel 1788, fu il Sacco); rotta a Parigi la tradizione coi varî traslochi della Comédie italienne, col totale bando alla lingua italiana e con la soppressione della pensione ai comediens du roi (1792); disinvogliati conseguentemente i buoni attori italiani a perpetuare il tipo, impersonato ormai da mediocri attori francesi - Arlecchino, dopo aver vivacchiato qualche altro anno alla Salle Favart (ribattezzata via via Théâtre italien e Théâtre de l'Opéra comique italien), dové, per la crescente diserzione del pubblico, dare un eterno addio ai maggiori teatri parigini (1801).
La sua storia posteriore è la storia d'una lenta agonia. Come, in Italia, trovò rifugio in qualche compagnia dialettale veneziana, ove, pur essendo incarnato talvolta da buoni attori (p. es. da Antonio Papadopoli), fu via via soppiantato da nuovi tipi più adatti ai tempi; così a Parigi gli restarono dapprima i teatrini della Foire, ove già era adibito ai vaudevilles; di là passò alle Variétés amusantes, ove trovò un eccellente interprete nell'italiano Lazzari; di là ancora, al Vaudeville con l'attore Laporte: fintanto che, esaurito del tutto, non gli restò se non recitare la pantomima ai Funamboli o a far l'acrobata nei circhi equestri e nei serragli di belve, dove tentò invano di lottare col suo antico collega Pierrot (il modemizzato Pedrolino o Brighella della Commedia dell'arte). Come data ufficiale della sua scomparsa da parigi si suole indicare il 1862 quando fu abbattuto il Boulevard du Temple, ove sorgevano i Funamboli; ed effettivamente qualche sua tarda comparsa sulla scena parigina (per esempio nel 1877 nell'Avocat pour et contre del Gherardi) non ha valore se non di riesumazione storica. Circa l'Italia, a prescindere da consimili riesumazioni, di cui taluna d'indole musicale (Pagliacci del Leoncavallo, Maschere del Mascagni), il suo campo d'azione restò circoscritto a qualche città di provincia della valle padana e particolarmente alla sua città d'origine, Bergamo, ove s'aveva per lui un culto così tenace da indurre l'ultimo suo interprete conosciuto, Giuseppe Tironi, alle fatiche più estenuanti, allorché, ancora al principio del presente secolo, per restare fedele alla tradizione, nel carnevale di Bergamo e di Lecco, e qualche volta nel carnevalone di Milano, esibiva, fra lazzi e "spropositi", i più complicati esercizî acrobatici, suscitando le grasse risate del popolo.
Bibl.: Sul vecchio Herlequin francese c'è tutta una fioritura di studî, tra cui vanno ricordati G. Raynaud, La Maisnie Hellequin, in Études romanes dédiées à Gaston Paris, Parigi 1890, e, particolarmente, O. Driesen, Der Ursprung des Harlekin, Berlino 1904, nel qual volume si trovano altresì tutti i documenti e le notizie superstiti sull'Arlecchino degli ultimi anni del Cinquecento. V. anche R. Renier, Svaghi critici, Bari 1914; B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 2ª ed., Bari 1922; G. Jaffei, Note critiche su le maschere in genere e su Arlecchino in ispecie, in Rivista d'Italia, XIII (1910), con un'analisi dell'Arlecchino di Flaminio Scala; M. Rühlemann, Etymologie des Wortes Harlequin, Halle 1912. Per contrario, sull'Arlecchino del periodo aureo, e ancora più su quello del sec. XIX, manca ancora uno studio particolare (l'Epistolario d'Arlecchino del Piccini [Jarro], Roma 1895, è una raccolta di documenti epistolari); vale per questo l'ampia bibliografia sulla commedia dell'arte, che, compilata dal Mic nella prima edizione russa (1914), della sua opera e ridata con aggiunte dal Duchartre, La comédie italienne, Parigi 1925, è stata messa al corrente dal Mic stesso nella riedizione francese del suo libro (La "Commedia dell'arte" ou le théâtre des comédiens italiens des XVI, XVII et XVIII siècles, Parigi 1927). È da aggiungersi B. Croce, Sul significato e il valore artistico della Commedia dell'arte, Napoli 1929. E cfr. inoltre il Ruzzante del Mortier (Parigi 1925-26); la ricca antologia documentaria raccolta da E. Petraccone e pubblicata postuma a cura di N. Nicolini (La Commedia dell'arte: Storia, tecnica, scenari, Napoli 1927); e, per taluni aspetti tecnici del problema, i volumi del Niceforo, Nel regno delle maschere, Napoli 1914, e del Bragaglia, La maschera, mobile, Foligno 1926.
Per il materiale iconografico, v. i Balli di Sfessania, del Callot (1622: e riproduzione recente, Potsdam 1922); le opere citate del Driesen, del Duchartre e del Mic; i Comici italiani del Rasi, Firenze 1897 e segg.